Vol. 19, n. 4, novembre 2020
MONOGRAFIA
Incertezze, paure e occasioni di dialogo tra Medicina e Pedagogia Speciale
Antioco Luigi Zurru1
Sommario
Nel vortice pandemico dei primi mesi i processi di cura medica hanno subito l’influenza di più problemi su un duplice fronte: da una parte la spaventosa aggressività del virus, dall’altra i limitanti protocolli imposti per il contenimento del contagio. Il clima generatosi ha posto gli operatori sanitari di fronte a un’inusuale esperienza alla quale non è stato sempre facile dare un senso.
L’analisi qualitativa di alcune testimonianze raccolte dalla pubblicistica di settore fa emergere alcune pressanti domande sugli elementi fondamentali nel processo di cura e permette di intessere una discussione critica, dove gli strumenti della riflessione pedagogico-speciale si configurano come supporto per lo sviluppo di una consapevole attenzione alla dimensione intersoggettiva.
Parole chiave
Cura, medicina, Pedagogia speciale, intersoggettività.
MONOGRAPHY
Uncertainties, fears and opportunities for dialogue between medicine and Special Pedagogy
Antioco Luigi Zurru2
Abstract
During the initial months of the pandemic, medical care processes were affected by multiple adversities: on the one hand the severity of the virus, on the other hand the restrictive protocols imposed to prevent the spreading of infection. In such a new context, healthcare workers have had to deal with an exceptional experience which is often demanding to understand.
Qualitative analysis of selected evidence provided by physicians in medical literature has given rise to many urgent questions about the fundamental elements of care processes. In a critical discussion, the conceptual means of special pedagogy support the development of a clear awareness of the intersubjective dimension.
Keywords
Care, medicine, special pedagogy, intersubjectivity.
Introduzione
La pandemia da Coronavirus si è largamente caratterizzata per la pregnante condizione di incertezza che ha avviluppato le differenti sfere della società. Nel momento storico in cui l’umanità sembra poter esercitare il più ampio governo scientifico e tecnologico su molteplici processi e in diversi ambiti della vita, la crisi provocata dalla rapida diffusione del virus SARS-CoV-2 ha incrinato e rimesso in discussione numerosi convincimenti. Ciononostante, il disordine che ne è emerso può essere considerato come un tragico sconvolgimento che promette di stimolare importanti cambiamenti, oppure, in senso opposto, come un evento che si limita a confermare, se non esasperare, l’esito di alcuni aspetti contradditori nell’agire umano. Pur tenendo in considerazione le difficoltà e le disgrazie che il fenomeno del Covid ha tristemente portato con sé, la possibilità di trasformare le incertezze e le paure in condizioni per lo sviluppo dei processi di cura dipende dalla capacità di interpretare e agire il cambiamento anche al di là di schemi ormai consolidati.
Il virus dell’incertezza
Gli eventi ai quali si è assistito nell’arco di un ridotto lasso di tempo raccontano di una temperie culturale e sociale nella quale l’uomo, pur avendo sviluppato le più complesse metodologie e sofisticate strumentazioni per l’indagine empirica su di sé e sull’ambiente fisico e biologico che lo circonda, esprime ancora la forte necessità di un discorso pedagogico-antropologico atto a orientare la comprensione della complessità che caratterizza la sua esperienza esistenziale. Come già sottolineato dal discorso dell’antropologia filosofica del secolo scorso, «[…] il numero crescente delle scienze specialistiche che si occupano dell’uomo, per quanto possano essere utili, più che chiarirci l’essenza dell’uomo ha finito con il nascondercela sempre di più» (Scheler, 1928, p. 90).
Anche per quanto riguarda i processi di cura, si è trattato di un frangente in cui il virus ha messo a nudo incertezze e criticità già note, amplificando le contraddizioni legate a molteplici bisogni non pienamente corrisposti, specialmente nella relazione intersoggettiva tra il medico e il paziente (Zurru, 2015). In tal senso, nel campo della medicina, sempre più focalizzato su protocolli di precisione ed efficienza (Sackett, 1997; Sackett, Rosenberg, Gray, Haynes e Richardson, 1996), pensare l’innovazione rimanda all’esigenza di risignificare e accogliere l’incertezza derivata dal fatto «che non esiste una scelta giusta per tutti, ma anche che, al tempo stesso, esiste una scelta giusta per ciascuno» e che può maturare solo con il tempo utile «per conoscere chi si ha di fronte, per capire e pesare vantaggi e svantaggi individuali di un trattamento o di nessun trattamento, e per definire cosa è realmente importante per quella persona» (Alderighi e Rasoini, 2019, p. 13). Nel periodo caratterizzato dalla crisi pandemica, accanto a temi critici come l’etica del fine vita, la penuria di risorse materiali e i traumi psicologici fra i professionisti (Cara, Toccafondi, Russo e Lombardi, 2020; Mandrola, 2020; Romanò, 2020; Rosenbaum, 2020), il discorso sullo sviluppo e sul possibile progresso per la medicina si concentra su un nodo sostanzialmente immutato da tempo. Si tratta di affrontare ancora una volta la necessità di coltivare la quantità e la qualità del tempo dedicato all’ascolto, al riconoscimento e alla relazione con l’altro nel rapporto intersoggettivo tra medico e paziente e tra medico e parente (Chiarlo, 2020; Trenta, 2020; Vallelonga e Elia, 2020).
Tali considerazioni si aggiungono a un quadro affollato da annose difficoltà connesse ai meccanismi di mercificazione della malattia e alle dinamiche difensive che tendono a svilire il processo di cura con la moltiplicazione di diagnosi e trattamenti non strettamente necessari (Frances, 2013; Glasziou, Moynihan, Richards e Godlee, 2013). Anche il paradigma dell’evidence based medicine, centrato sulla produzione di evidenze scientifiche che spesso limitano l’agire del clinico, lascia emergere pressanti critiche sulla non sempre lecita manipolazione e contaminazione dei dati di ricerca (Every-Palmer e Howick, 2014). Un paradigma della cura che si concentra sulla sola categoria nosologica, piuttosto che sull’interpretazione del soggetto e della condizione che esperisce, conduce il medico ad attivare in maniera meccanico-difensiva le proprie decisioni, riducendo l’autenticità della pratica clinica (Greenhalgh, Howick e Maskrey, 2014; Panti, 2020). La tendenza ad espellere dall’agire medico tutto ciò che non è oggettivabile e misurabile secondo schemi ripetibili, mettendo in mora l’esperienza e l’espressione soggettiva del bisogno, rischia di strutturare un approccio alla cura incapace di riconoscere l’unicità di ogni soggetto.
A fronte di tali insidie, ancorate ai differenti modi di concepire la cura in medicina, alcune significative testimonianze di medici che la ricerca di settore ha recentemente documentato e raccolto restituiscono interessanti proposizioni (Cara et al., 2020; Chiarlo, 2020; Trenta, 2020; Vallelonga e Elia, 2020). Una lettura approfondita dei resoconti e dei rapporti che i medici hanno pubblicato fa emergere una sensibile, quanto ineludibile, domanda su alcuni elementi fondamentali nel processo di cura. Ciò che nell’ultimo periodo è divenuto un catalizzatore della corale attenzione nei confronti del processo di cura e ha contribuito a costruire un’immagine eroica degli operatori sanitari, diviene un vero e proprio testo nel quale, attraverso un’analisi qualitativa, la riflessione pedagogico-speciale è in grado di individuare alcune dimensioni a supporto di una consapevole attenzione nei confronti della dimensione intersoggettiva.
La cura costretta e nuove aperture
Cogliere gli antecedenti, comprendere lo stato attuale e prevedere il decorso di una situazione clinica sono i tre momenti analitici che strutturano il complesso agire del medico. Anamnesi, diagnosi e prognosi sono gli elementi sostanziali della dinamica di cura che il professionista attua nella relazione con il paziente. Quest’ultimo, però, non può essere ridotto a una «mera collezione di sintomi, segni, disfunzioni, organi malati e turbamenti», ma è un individuo «umano, timoroso e speranzoso» (Fauci et al., 2008, p. 1). Accade spesso di scorgere, invece, una riduzione del processo diagnostico e terapeutico alla sola labellizzazione di una patologia. Tale criticità è emersa chiaramente anche nel contesto caratterizzato dalla pandemia da Covid-19, dove l’abitudine a considerare l’individuo come semplice istanza di una categoria nosografica svilisce il lavoro del medico: «Avere a che fare con una sola malattia, come durante un’epidemia, è un’esperienza unica e a tratti frustrante […]: ci troviamo di fronte a mille copie della stessa malattia […]. Sembra banale, e in effetti siamo abituati a ricordarci dettagli dei pazienti anche dopo molto tempo, ma quando hai una sola malattia da curare, tutte le storie si assomigliano» (Chiarlo, 2020, p. 264). Quando manca una qualsiasi attenzione interpretativa verso il complesso fenomenico esistenziale dell’essere malato e dell’affidare all’altro un elemento intimo di sé, l’azione di cura declina verso la sola indagine oggettiva che diventa limitante anche nei confronti della professionalità e dell’esperienza umana del medico. Così come demoralizzante, in tale frangente di criticità, è la dimensione di anonimato e di spersonalizzazione che il medico è costretto a subire avvolto in insoliti panni: «Behind a mask, a gown and a face shield, we are all the same in the eyes of a fearful patient. Make your connection personal!» (Vallelonga e Elia, 2020, p. 10154).
Introdurre e riconoscere la soggettività nel rapporto tra medico e paziente (von Weizsäcker, 1948) implica lasciare spazio ad un’azione interpretativa che permette al processo di cura di riacquistare il proprio ruolo di scienza dell’uomo e per l’uomo (Have, 2002). In questo periodo di crisi non è mancato, infatti, chi ha sentito necessario ricordare a se stesso ed ai propri colleghi medici l’importanza di riconoscere «[…] the identity of your patients. See beyond the clinical and laboratory parameters. Learn their life story, their relationships and how they deal with disease. The disease may be similar, but each patient is unique. Cure the disease, but take care of the person» (Vallelonga e Elia, 2020, p. 10154).
L’attuale condizione di incertezza ha permesso anche di riscoprire il senso fondamentale della cura insito nella relazione tra medico e paziente che pone i soggetti dell’interazione l’uno di fronte all’altro nella loro condizione originaria, patica e universale: «In disease and death fear makes us all equal. We are all human and that is the only thing that matters» (Vallelonga e Elia, 2020, p. 10154). In tale frangente, si è dischiuso al medico un ulteriore e più intimo senso del curare: «Mi colpisce quanto ci sia da fare e a quante cose noi medici non diamo peso, semplicemente perché ci pensa qualcun altro […]. Mille piccole premure che gli infermieri dispensano quotidianamente, mentre noi [medici] ci preoccupiamo di chiedere esami, cambiare terapie e visitare i pazienti» (Chiarlo, 2020, p. 264).
La medicina ha sempre tentato di espellere la dimensione affettiva dal proprio fare, ma di fronte alle criticità portate dal fenomeno pandemico, l’emotività e la riflessione travalicano la tipica schermatura che il medico attua, talvolta in maniera automatica ed anche inconsapevole, per proseguire nel proprio lavoro: «Rimani accanto all’ultima espressione del suo volto, la sua vita e la sua Anima ti scorrono nella mente come un film. Fare il medico, ancor più essere medico, è un lavoro emotivamente faticoso e profondo, di cui non ci se rende neppure conto, perché non si ha o non si vuole avere il tempo per pensare questa cosa» (Cara et al., 2020, p. 64).
L’urgenza con cui il Covid ha pressato il processo di cura ha riproposto il tema del tempo, spesso elemento critico dell’agire clinico, che svuota molti dei frangenti relazionali tra medico e paziente: «La comunicazione ordinaria, faccia a faccia, funziona. Potrebbe andare meglio, molti di noi non sono bravi, ci sono problemi di tempo e di luogo, ma grossolanamente funziona» (Chiarlo, 2020, p. 267). È per questo che risulta necessario dedicare «some time listening to the patients. The time constraints of a disaster should not be an excuse for not hearing their needs. Listening time is care time» (Vallelonga e Elia, 2020, p. 10154).
La dinamica relazionale tra medico e paziente diventa terapeutica attraverso un rapporto di accoglienza, di ascolto e di cura che non si esaurisce nella sola determinazione unidirezionale del dato fisiologico e organico, ma volge verso la costruzione di una esperienza comune di divenire, anche se non sempre consapevole: «Per quanto l’empatia possa venire in aiuto alla comprensione emotiva dell’altro, sappiamo bene, noi analisti, che la vita clinica del terapeuta è altrettanto fondamentale. Dissociare un’emozione senza rendersene conto perché nessuno ti ha mai illustrato cosa sia è un processo praticamente automatico» (Cara et al., 2020, p. 65). I soggetti nel processo di cura sono due e si trovano in una condizione di incontro e di reciprocità che espone il medico ad una vulnerabilità spesso non curata: «Purtroppo, la mentalità medica italiana è ancora troppo poco abituata a considerare l’importanza degli aspetti emotivi nella formazione delle persone che vivono sotto i camici bianchi» (Cara et al., 2020, p. 65).
La crisi ha aperto una breccia anche nella narrazione del medico, disvelando un imponente bisogno di ascolto, di rassicurazione, di accompagnamento, di contatto, di umanità sentito da ambo le parti: «C’è stato poi un vero e proprio salto di registro comunicativo sia verbale che paraverbale e non verbale quando ha iniziato a parlare, con voce quasi rotta, delle richieste che provengono dai malati «non consone» (sue parole) alla sua preparazione, alle sue specifiche competenze e al suo «ruolo medico» (sempre parole sue)» (Trenta, 2020, p. 10). Lo sconvolgimento del processo di cura con le distanze imposte dal virus e dai protocolli di sicurezza ha portato il medico ad assumere una certa consapevolezza rispetto allo statuto dell’incertezza entro cui svolge il proprio ruolo: «Non siamo in grado di dire ciò che accadrà nel nostro prossimo futuro. Quello che sappiamo è che l’incertezza e la paura occupano prepotentemente il nostro presente» (Cara et al., 2020, p. 64). Si tratta, però, di un’incertezza che «is inherent to our profession. Explain this to your patients and their families. Uncertainty is also a fundamental part of life and of disease. About Covid-19 we may know less, but we do not care less. With uncertainty comes hope» (Vallelonga e Elia, 2020, p. 10154).
Negli stralci presi in considerazione, insieme all’individuo malato costretto da un’impropria personificazione del tratto diagnostico, anche l’esperienza del medico subisce gli effetti di un’istituzione oggettivante e impersonale. Nel farsi di una simile alienazione non è solamente la soggettività del malato ad essere emarginata. Nel misconoscimento dell’altro (Honneth, 2005) si attiva, infatti, una duplice reificazione in cui anche il medico viene privato della sua soggettività e integrato in un apparato sanitario impersonale (Masullo, 1987).
«Il Covid ha messo con le spalle al muro sanitari e custodi della Sanità, obbligandoli a una scelta, “La Scelta”: ripristinare la vecchia Sanità o farla evolvere, facendo crescere un nuovo modo per prendersi cura di chi cura e, quindi, della salute collettiva» (Cara et al., 2020, p. 64). È sulla base di simili perplessità e preoccupazioni che risulta urgente promuovere un dialogo interdisciplinare capace di orientare le pratiche di cura verso una coerente ed autentica comprensione della realtà soggettiva della persona, tenendo in considerazione gli aspetti inerenti al benessere soggettivo, sia quello del paziente sia quello del medico.
Reintegrare il soggetto
Facendo riferimento a elementi formulati anche in altre occasioni attraverso l’analisi di dati emersi da un indagine empirica (Mura, Rodrigues de Freitas, Zurru e Tatulli, 2019; Mura e Zurru, 2017; 2018; Zurru, 2015; 2017), alcuni macro-indicatori concettuali possono fornire utili strumenti per inquadrare le dinamiche di cura entro un percorso di interazione e riconoscimento capace di fornire al soggetto, medico e paziente, uno spazio di piena espressione relazionale ed esistenziale. In particolare, le dimensioni che concorrono allo sviluppo delle condizioni di benessere soggettivo e gli aspetti che connotano la realtà esperienziale del singolo diventano costrutti significativi per la costruzione di contesti di cura autentica.
L’approccio positivistico di molta parte della prospettiva epistemica con cui si guarda all’agire medico determina spesso un ostacolo allo sviluppo di un dialogo interdisciplinare sui temi della soggettività nell’esperienza dell’individuo e nel processo di cura. Risultano, infatti, ancora molto pregnanti le incertezze sul ruolo che la soggettività acquisisce nella definizione e comprensione scientifica del funzionamento e della salute umana (Mura et al., 2019; Mura e Zurru, 2018). La riflessione epistemologica in ambito medico ha realizzato in tal senso importanti aperture (Bensing, 2000; Morgan e Yoder, 2012; Yakeley, Hale, Johnston, Kirtchuk, e Shoenberg, 2014). Le narrazioni prese in considerazione documentano una tangibile testimonianza delle esigenze e delle sensibilità che i medici hanno cominciato ad esprimere.
Pur considerando la variabilità che alcune dimensioni della soggettività assumono nell’espressione individuale, la riflessione pedagogico-speciale può contribuire a definirne i contorni concettuali e comporre un quadro attraverso il quale risignificare le dinamiche di cure e di care, verificando in che termini sia possibile assumere le incertezze e le paure veicolate dalla crisi nel quadro di una sfida per il rinnovamento della medicina e del processo di cura.
Il famigerato distanziamento sociale che si è imposto anche alle pratiche mediche ha permesso agli operatori di ripercorrere criticamente il senso e il significato del distacco dal soggetto tipico di un approccio esclusivamente tecnico-strumentale nell’ambito di alcuni paradigmi. Gli individui all’interno della relazione di cura non sono semplicemente degli oggetti scomponibili e deterministicamente confinabili in seno alle pratiche. Nel medico e nel paziente si incarna un soggetto portatore di un background individuale di vita ed esperienziale che non può essere taciuto e dismesso, nemmeno sotto ad un camice o ad un casco per la ventilazione. Il rimando all’idea di uomo sottesa all’azione di cura supporta la lecita domanda intorno al senso del curare, del prendersi cura, nei confronti di ciascun individuo; anche di fronte alla crudele spersonalizzazione imposta da una malattia che fa sì che «tutte le storie si assomiglino».
I molteplici aspetti di cui la soggettività è costituita sono talvolta concepiti come elementi estranei rispetto al costrutto con il quale si definisce e si determina il campo della salute. Le pratiche diagnostiche e terapeutiche, spesso oggettivanti, rischiano di mortificare l’espressione del soggetto, il quale è di volta in volta e nei differenti ruoli considerato come utente, semplice istanza nosografica e occorrenza di una casistica, oppure operatore, quasi fosse un automa dispensatore di servizi e pratiche. Ogni paziente, così come ogni medico, è unico. Riconoscere la soggettività significa, allora, spendere il giusto tempo per comprendere gli aspetti che caratterizzano l’esistenza del paziente e che supportano la resistenza nei confronti della malattia, da una parte, e valorizzare l’esperienza individuale del medico e le modalità con cui si prende cura dell’individuo, dall’altra.
Dalle testimonianze prese in considerazione risulta evidente che la cura non può realizzarsi esclusivamente sulla base di una sistematica definizione di elementi immediatamente quantificabili, operazionalizzabili e replicabili. L’esperienza della cura in ambito pedagogico-speciale, ancorata a condizioni di salute che spesso non sono caratterizzate da prospettive di decorso evolutivo, insegna a focalizzare l’azione su tutti quegli aspetti che permettono di cogliere, conoscere e valorizzare il bagaglio biografico della persona. Al di là della parzialità di alcune prospettive con le quali si guarda alla condizione di benessere del singolo e che costringono il soggetto ad un’indebita riduzione della propria espressione, sia esso paziente o medico, la sollecitudine e la cura nei confronti della realtà biografica restituiscono a ciascuno il proprio essere persona, anche nell’ambito delle dinamiche di intervento e di sperimentazione.
Tutti gli elementi che inevitabilmente raccontano la storia dell’individuo in termini di background sociale, esperienza educativa e approccio alla professione esulano dal novero delle evidenze alle quali si è soliti dar peso nell’ambito della pratica medica, ma nell’atto della relazione intersoggettiva e della comunicazione, dove i soggetti si scoprono intimamente legati da un’originaria condizione comune, il bagaglio esperienziale del singolo permette al caregiver di avvicinarsi al soggetto e rispondere al reciproco bisogno di riconoscimento.
Nell’atto comunicativo, a tal riguardo, si realizza un momento di particolare intimità tra medico e paziente e tra medico e familiare, specialmente in un frangente in cui l’unico elemento di connessione tra il soggetto ricoverato e la propria famiglia è stato il medico. Le narrazioni raccolte in questo periodo di crisi raccontano di una rinnovata sensibilità per un processo che «funziona», ma che potrebbe «andare meglio», considerato il bisogno di maggior cura dei tempi e degli spazi. Ulteriore attenzione dovrebbe essere dedicata ad epurare il linguaggio da tutti gli elementi inutili e dannosi che si oppongono alla vicinanza e al contatto comunicativo. È evidente che alla radice di alcune insidiose resistenze, le rappresentazioni e le scorciatoie cognitive tipiche del ragionamento tecnico-biologico giocano un ruolo pregiudiziale nella costruzione di narrative del tragico che tendono a comprimere la realtà del soggetto nella sola condizione di malattia e di bisogno. Sotto la schiacciante e dicotomica distinzione tra normale e patologico che affolla spesso i processi di cura, la dimensione esperienziale del soggetto rischia di rendersi sempre più insignificante, in un contesto in cui — come si è visto — un po’ tutte le storie rischiano di essere uguali.
Riconoscere nell’altro il bisogno, non solo inquadrarlo nell’ambito di una precisa casistica, ma comprenderlo nella sua prospettiva è certamente una dinamica faticosa ed emotivamente dispendiosa, specialmente nel fare della medicina. È però anche l’unico modo di restituire anche agli operatori quello spazio espressivo, di sofferenza e di bisogno fino ad ora occultato — omesso a beneficio di una non meglio identificata obiettività ed efficienza dell’operare — e che ora è emerso in tutta la sua pregnanza professionale. La dimensione empatica, cifra della reciprocità, può non bastare per sostenere il peso della relazione con l’altro se diviene un aspetto demandato alla sola sensibilità dei singoli. Si tratta, invece, di istituzionalizzarla e coltivarla nell’ambito della cura medica, specialmente in relazione all’iter formativo del professionista, perché ogni singolo possa avere contezza del senso e del significato che anche le più immediate azioni di sollievo e vicinanza assumono nell’esperienza dell’altro.
Conclusione
Guardando in senso prospettico a ciò che l’agire medico ha esperito nel quadro di tali criticità — certamente affollato da contraddizioni, ma anche sostenuto da emergenti sensibilità — la riflessione pedagogico-speciale orienta al dialogo interdisciplinare. Si tratta di costruire i luoghi e le occasioni per superare sterili contrapposizioni. Da una parte l’attenzione a ciò che è tecnicamente quantificabile e promette di funzionare nei processi di cure, dall’altra l’inclinazione verso ciò che è esistenzialmente avvertito come irrinunciabile sostegno nei processi di care, nonostante da alcuni sia ancora concepito come aspetto fumoso. La crisi pandemica ha dunque messo a nudo molteplici esigenze in seno al fare della cura. Gli uomini hanno l’occasione di accogliere la sfida per un rinnovamento della medicina. Per farlo è necessario restituire senso alle aperture ed alle esigenze emerse dalle testimonianze dei medici, superando le insidie di un’esasperata medicalizzazione delle condizioni di bisogno e cogliendo gli elementi fondamentali per la cura della persona. Si tratta di lavorare ad un orizzonte di riferimento condiviso attraverso un dialogo tra le differenti istanze della cura, quella medica, da una parte, e quella pedagogica, dall’altra. Lo sforzo è quello di accogliere e accompagnare le riflessioni che anche i medici hanno sviluppato in tal senso per costruire uno spazio entro il quale la specificità di ogni disciplina diviene contributo all’emancipazione della persona.
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Vol. 19, Issue 4, November 2020