Vol. 19, n. 4, novembre 2020

FORUM

Il paradigma inclusivo

Andrea Canevaro1

Sommario

Un essere umano ha bisogno di includere, e di escludere. Ha bisogno degli altri. L’accompagnamento inclusivo. L’esclusione dell’illegalità. L’accompagnamento incontrerà le crisi e i cambiamenti che fanno crescere. L’Educatore e l’inclusione condivisa, che ha bisogno dell’accompagnamento istituzionale.

Parole chiave

Inclusione, esclusione, accompagnamento, legalità, condivisione, Educatore Socio Pedagogico, prospettiva sociocognitiva, fenomenologia dell’intenzionalità, Pedagogia Istituzionale, accreditamento, budget di salute.

FORUM

The inclusive paradigm

Andrea Canevaro2

Abstract

A human being needs to include and exclude. He needs the others. Inclusive accompaniment. The exclusion of illegality. The accompaniment will meet the crises and changes that make them grow. The Educator and the shared inclusion, which needs institutional accompaniment.

Parole chiave

Inclusion, exclusion, legality, sharing, social pedagogy, social cognition, phenomenology of intention.

La logica inclusiva

L’enfasi illusoria dell’autonomia autarchica

(…) Noi impariamo dal Poverello di Assisi,

da S. Benedetto, da Gandhi, da Budda…

l’importante è essere discepoli,

imparare da tutti

e venerare il patire di tutti.

la Minore (sorella Maria di Campello), 1932

Un essere umano, nel corso della sua vita, esclude e include. Appena nato, sembra includere unicamente il corpo materno, ed escludere gli altri corpi. Crescendo, include progressivamente altri esseri umani, i loro sguardi, i loro odori, i loro suoni. Include oggetti, luoghi, luci e ombre. Include simboli, segnali, indicazioni. Sembra che diventi autonomo.

La verità è che non possiamo funzionare se non ammettiamo i limiti del nostro sapere e non ci fidiamo delle competenze altrui. A volte ci opponiamo a questa conclusione perché sconvolge il nostro senso dell’indipendenza e autonomia. Vogliamo credere di essere in grado di prendere tutte le decisioni e ci irritiamo se qualcuno ci corregge, ci dice che stiamo sbagliando o ci dà spiegazioni su argomenti che non capiamo. Questa naturale reazione umana individuale è pericolosa quando diventa una caratteristica condivisa da intere società (Nichols, 2017).

Questa verità è ignorata, forse volutamente. Puntando sulle conoscenze individuali, autarchiche, riteniamo di poterci realizzare pienamente. Anche se meno utilizzata rispetto ad anni fa, la parola «recupero» è nelle pieghe dell’educazione formale scolastica. Passata la stagione dell’enfatizzazione, per certi versi autolesionista, della socializzazione, cosa si chiede a un insegnante di sostegno? Il più possibile di riallineamento — recupero — di chi ha una condizione speciale a quello che viene ritenuto uno sviluppo normale dell’apprendimento. Implicitamente, riteniamo che così facendo aumenti il livello di autonomia di quel soggetto: se è autonomo può ignorare gli altri, farne a meno.

Non è così. Abitiamo un mondo affollato e sempre più urbanizzato. Ci capita sempre più spesso di essere disorientati, di non sapere a chi chiedere, temendo che gli altri siano millantatori, abbiano competenze fasulle, o che vogliano guadagnarci a nostre spese. Eppure, riteniamo di essere autonomi autarchicamente nonostante le nostre incertezze. «Fino a un certo punto, l’incertezza riguardo a qualcosa stimola la curiosità; oltre quel punto, però, l’incertezza diventa così opprimente da poter generare disagio, e persino paura» (Livio, 2017). Disagio e paura possono indurci a volere esorcizzare le diversità. O esaltando il fatto che, nonostante una diagnosi, ci troviamo davanti a un fenomeno, e lo stesso soggetto si sente tale. Oppure imprigionando ogni gesto, ogni parola, in un programma tecnico da eseguire, diventando così esecutori passivi in un progetto di conquista di conoscenze. Ma non funziona: non possiamo funzionare se non ammettiamo i limiti del nostro sapere e non ci fidiamo delle competenze altrui. Non dovremmo includere solo conoscenze. Dovremmo includere luoghi, individui, oggetti. Questi non sono disposti in un ordine lineare. Sono globale + locale = glocal. Locale, nel globale, ha senso e non diventa localismo. Globale senza locale è tirannia: diventa globalismo. Insieme non permettono una valutazione basata sulla logica del «più avanti» o «più indietro». Dovremmo includere nel glocal il paesaggio che ci circonda, i luoghi, gli individui, gli oggetti di cui possiamo avere bisogno. Come orientarci? A chi domandare?

L’accompagnamento inclusivo

«I cooperatori fanno meglio quando sono circondati da altri cooperatori. Così, una volta che gli individui di una specie hanno intrapreso il cammino della cooperazione, possono cercare attivamente di influenzare gli altri intorno a loro verso una direzione cooperativa» (Tomasello, 2016). Un buon accompagnatore non è solo. Quello che non sa, cerca di sapere a chi chiederlo. Sa esplorare il paesaggio avendo dei punti di riferimento. Sa a chi, quando e come chiedere. Affiancando chi viene accompagnato, può anche trasmettergli queste capacità. Oltre a trasmettere fiducia. Per uno sviluppo inclusivo ci vuole fiducia.

Abbiamo usato parole, «sviluppo» e «fiducia», molto compromesse, e forse un po’ logore. L’accompagnamento inclusivo può ridar loro vigore e autenticità. Yunus, Sen, Nussbaum sono alcune delle tante persone che, con i loro studi e le loro iniziative, hanno curato le ferite di quelle due parole. «Sviluppo» va sottratta al consumismo che trasforma ogni errore in scarto — nella logica frettolosa dell’usa e getta (Giorello e Donghi, 2019). Un’economia circolare: è un modo di leggere l’intreccio fra scarti e processi produttivi che permettono di valorizzare gli scarti. Partiamo dalla realtà dell’«iperconnessione continua, che in ogni attimo lega le nostre vite, unisce fasi produttive, macchine, robot che se pure dislocati nei quattro angoli del pianeta diventano segmenti di una stessa fabbrica virtuale definita sempre più non tanto dai flussi di produzione fatta, cioè il tangibile trasformarsi del bene fisico, ma dal flusso intangibile di quella produzione da farsi, composta da algoritmi, applicazioni e soprattutto dati, dati, dati che costituiscono il vero propellente di questa nuova rivoluzione industriale» (Bianchi, 2018).

Sviluppo e fiducia possono andare d’accordo e farsi coraggio a vicenda.

La macchina degli aiuti internazionali è stata concepita anni fa, quando si pensava che una data quantità di investimenti avrebbe magicamente prodotto un’attività economica sufficiente a sgominare la miseria e la fame. In realtà, si tratta di un sistema in cui entrambe le parti — donatori e beneficiari — non si preoccupano di sapere quali siano le vere esigenze dei poveri. I contributi allo sviluppo sono serviti soltanto a finanziare opere imponenti — ponti, dighe, grandi fabbriche di articoli costosi — e non a creare istituzioni, a rinnovare quelle obsolete, a organizzare la gente per risolvere i propri problemi. I progetti mirati a creare strumenti di autogestione erano spesso tacciati di ingenuità. Alle soglie del terzo millennio, le cose cominciano lentamente a cambiare; ma ancora, nella mentalità della gente e nei titoli dei giornali, quello che conta è la cifra. Nessuno si cura della qualità [n.d.A., che dovrebbe essere glocal…] (Yunus, 1998).

Questa lunga citazione ci introduce a un rapporto, quello fra chi crede di sapere cosa sia il progresso, il benessere, la realizzazione di sé, ma è lontano; e chi è invece povero e quindi non sa, è ritenuto non sapere, e ha bisogno di chi è vicino. Il problema è che hanno bisogno di tempo. Il tempo evolutivo, quello che Gianfranco Zavalloni ha chiamato tempo della lumaca. Sul tempo giocano le loro carte corruzione e illegalità, capaci di agire e fare agire con la massima rapidità e vicinanza. La corruzione permette di bypassare le vie burocratiche e di raggiungere o avvicinare, con offerte convincenti, chi decide. L’illegalità fornisce soldi freschi subito; a suo modo, offre un welfare capace di intercettare gli esclusi.

L’accompagnamento inclusivo implica l’esplorazione di percorsi che escludano corruzione e illegalità. Può essere un’azione che affianca altre azioni nell’impegno di liberazione da mafie e corruzioni. Coinvolgendo chi ha Bisogni Speciali, può proporsi con credibilità come vettore di cittadinanza attiva e di partecipazione.3

Serve tempo. Occorre scandirlo con soste che permettano di riposare, assimilare, e apprezzare i risultati in corso d’opera, per evitare che l’attesa prolungata del risultato complessivo si prolunghi al punto da diventare esasperante. I risultati in corso d’opera devono essere significativi non esclusivamente per gli addetti ai lavori, gli specialisti o le associazioni di familiari. Devono avere significati inclusivi: capaci di includere persone di ogni tipo e genere. In questo, il rischio è l’esibizione del fenomeno. Lo si evita vivendo i risultati nella normalità. Rinnovata, ma sempre tale. Rinnovata perché è possibile che vi sia una presenza insolita. In una normalità che include quella presenza. Documentando la normalità inclusiva, l’accompagnamento diventerà sempre più inclusivo.

L’accompagnamento incontrerà le crisi.

Che cos’è una crisi? Per rispondere a questa domanda, un buon punto di partenza potrebbe essere l’origine etimologica della parola. <Crisi> deriva dal sostantivo greco krisis, (κρίσις), e dal verbo krino (κρίνω), due termini che afferiscono all’area semantica di <separare>, <decidere>, <distinguere>. Quindi potremmo pensare alla crisi come a un momento di verità, un punto di svolta in cui la differenza tra la realtà che precede quel momento e la realtà che lo segue è molto più marcata che nella maggior parte degli altri momenti (Diamond, 2019).

L’Educatore Socio Pedagogico come accompagnatore inclusivo

Jared Diamond, che abbiamo appena citato, distingue nettamente le crisi delle nazioni e quelle degli esseri umani. Queste scandiscono l’evoluzione dell’esistenza. Parliamo, ad esempio, di crisi adolescenziale, come passaggio verso l’età adulta. Strano ma vero: le crisi sono utili, accompagnando cambiamenti evolutivi. È ben comprensibile l’atteggiamento protettivo con cui vengono tenute lontane da ogni crisi le persone con disabilità. Dobbiamo però segnalare che, con le migliori intenzioni, questo atteggiamento non aiuta. Un buon accompagnamento attraversa le crisi. Collegandoci a questo, ricordiamo e sottolineiamo che l’indennità di accompagnamento non è incompatibile con lo svolgimento di attività lavorativa dipendente o autonoma. È bene chiarirlo per evitare una falsa contrapposizione fra tale indennità e l’accompagnamento inclusivo. Questo chiarimento può aiutare a superare uno degli ostacoli che a volte vengono posti all’impegno come accompagnatori degli Educatori Socio Pedagogici. Il loro compito è o dovrebbe essere proprio l’accompagnamento nel progetto di vita. Un accompagnamento inclusivo, come non ci stanchiamo di ripetere. Ancora Jared Diamond parla di una strategia del mosaico, intendendo la possibilità di utilizzare tessere note insieme a tessere nuove. Potremmo anche usare la metafora dei nostri due piedi, uno saldo in un punto sicuro, e l’altro che esplora il terreno sconosciuto. È l’accompagnamento.

L’Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale, o ANFFAS, nella Bologna degli anni Settanta e probabilmente in altre città italiane, organizzò gli accompagnamenti di ragazze e ragazzi con disabilità. Dove venivano accompagnati e da chi? Era un accompagnamento inclusivo ante litteram: venivano accompagnate e accompagnate un po’ ovunque, dalle abitazioni alle strutture che accoglievano per la giornata, scuole, laboratori, centri diurni. Erano accompagnate e accompagnate da volontari, che avevano una paghetta. Essendo volontari, non si limitavano agli accompagnamenti dei giorni feriali. Nei giorni festivi, accompagnavano o meglio si facevano accompagnare chi in campagna, chi alla bocciofila, e qualcuno anche al mare. Ciascuno secondo interessi e passioni, comprese le passioni del tifoso di calcio o di pallacanestro. Anna Chiodini, l’infaticabile coordinatrice ANFFAS bolognese, fece in modo che gli accompagnatori e le accompagnatrici avessero una copertura assicurativa. Ecco i progenitori delle e degli Educatori Socio Pedagogici.

Attenzione al rischio dell’ipertrofia identitaria, molte volte basata su quello che Tagore chiamò il principio di imitazione. Il poeta e insegnante Tagore parla di un pappagallo che venne «istruito» imbottendolo di libri — di Fascia A? — che gli impedirono di parlare. Da lui emergevano solo patetici fruscii di carta. Tagore4 voleva indicare uno dei difetti principali del sistema educativo allora come oggi ritenuto «naturale»: il principio di imitazione. L’eterogeneità esige innovazione.

Un certo modo di utilizzare l’insegnante di sostegno favorisce il principio di imitazione. A volte anche con la sua — dell’insegnante di sostegno — complicità, pensando in questo modo di difendere la propria identità specializzata.

Il paradigma inclusivo risolve un falso problema: «O il dato oggettivo o l’ascolto dell’altro. Una falsa alternativa» (Cyrulnik, 1995). L’ascolto dell’altro è indispensabile per includere la realtà. Se l’altro includesse la realtà in modo da renderla esclusiva — solo per sé — ed escludente, sarebbe a sua volta escluso. Ascoltare gli altri porta se non all’oggettività, a una condivisione della realtà. Fabio Comunello ed Eraldo Berti dicono che si compie un processo di semantizzazione; attribuendo significato a spazi in questo modo conosciuti, li si sottrae all’indifferenziazione. Includere vuol dire far proprio condividendo.

Un Educatore Socio Pedagogico o una Educatrice Socio Pedagogica deve conoscere il territorio in cui si muove nell’accompagnamento. Dovrebbe far parte di una cooperativa sociale accreditata dall’ente locale per le qualità e per la capacità di connessioni con le occasioni che sono specifiche di un certo territorio.

Inclusione condivisa

Il percorso del nostro scritto attraversa qui un terreno incerto. Dobbiamo mettere un piede su parole sicure. Dobbiamo rendere tale queste due parole — inclusione condivisa — per potere appoggiare il nostro passo con altrettanta sicurezza. Per farlo, indichiamo brevemente tre basi che le sostengono:

a. La prospettiva socio cognitiva

Bandura identifica tre classi di cause che influenzano la condotta:

  • i fattori personali interni, costituiti da elementi cognitivi, affettivi e biologici;
  • il comportamento messo in atto in un dato contesto;
  • gli eventi ambientali che circoscrivono l’individuo e la condotta.

L’agentività umana opera all’interno di una struttura causale interdipendente che coinvolge questi tre nuclei d’influenza in una relazione reciproca e triadica. Il peso dell’influenza dei fattori presi in considerazione varia a seconda delle attività, delle circostanze, e del tempo necessario a un elemento per sviluppare i suoi effetti.

Un valore centrale nel determinare i cambiamenti e gli sviluppi delle condotte delle persone è attribuito da Bandura ai sistemi sociali, anche nelle loro espressioni locali. L’agentività opera in una rete di influenze sociali e strutturali. Nelle transazioni tra questi domini le persone risultano sia produttori (nella Pedagogia Istituzionale diremo «istituenti») che prodotti («istituiti») dei sistemi sociali che regolano la loro condotta. Bandura evidenzia come le persone con un elevato grado di agentività sappiano organizzarsi e trarre vantaggio dalle opportunità offerte dalle strutture sociali. Le persone inefficaci sono meno capaci di sfruttare le risorse offerte dal sistema, e più soggette a scoraggiamenti in caso di problemi imposti da esso. Nello sviluppo di tale ottica multi-dominio, gli effetti che la condotta produce sia sull’individuo che sull’ambiente, sono analizzati in termini probabilistici, piuttosto che deterministici. Il probabilismo viene sottolineato da Bandura a proposito del ruolo che gli accadimenti causali hanno nel corso dello sviluppo individuale. Si può collegare all’intenzionalità cara a Piero Bertolini. L’azione può essere sia stimolo che risposta rispetto alla personalità e al contesto.

b. La fenomenologia dell’intenzionalità

Ci riferiamo a Piero Bertolini. Per Piero Bertolini, il linguaggio è una realtà che prende senso dalla sua riorganizzazione — la lettura fenomenica — in relazione con l’altro e la sua intenzionalità. Il linguaggio comprende il calcolo, la calcolabilità, l’algoritmo. Niente sta fuori dal linguaggio, che però a sua volta non sta fuori, in una presunta oggettività a prescindere, dalla responsabilità di educare/educarsi. È l’importanza dell’apertura al nuovo e della comprensione, che inizia dalla non esclusione, di ogni strumento. La negazione di ogni sequestro o confisca da parte di una corporazione disciplinare esclusiva ed escludente. Certi strumenti del conoscere possono essere più consueti, ad esempio, nella Medicina. Ma non sono sequestrati, confiscati. Né dalla Medicina, né da altre scienze. La lettura fenomenica richiede l’assunzione di responsabilità dell’intenzionalità.

Anche, volendo, servendosi di un algoritmo, un procedimento che risolve un problema attraverso passi elementari, in un numero definibile e definito. E quindi calcolabile. Programmabile. Ma, ripetiamolo, non a partire da un a priori, costituito magari da una presunta oggettività: dobbiamo avvicinare l’altro nella sua realtà.

L’istituzione non è percepita o pensata come un concetto a prescindere; è ciò con cui faccio i conti in ogni istante, che non si vede da nessuna parte ed è implicita in tutto il visibile di un individuo, che è in ogni istante e non ha nome né identità nelle nostre teorie della coscienza.

In questo senso, l’educarsi comporta un esercizio di lettura della realtà fenomenica in cui io, come soggetto, mi trovo. E mi devo assumere il compito e la responsabilità di collegare questa lettura-interpretazione alla mia intenzionalità. Devo fare i conti senza scuse con i limiti della realtà in cui mi trovo. Non posso adottare una rassegnazione inerte alla situazione, forse fatta di precarietà, di procedure insensate, di controlli formali svuotati di senso. L’ossessione procedurale, a volte seguita dall’accompagnamento di lamentele e ribellioni varie, sembra inibire la volontà e la capacità di comprensione, sia della realtà fenomenica che di quella intenzionale. Questo non giustifica la rinuncia a sviluppare la mia intenzionalità proprio a partire dalla lettura e interpretazione della realtà, anche istituzionale. Devo raggiungere l’altro dove si trova, e, insieme, evolvere nella realtà anche istituzionale in cui siamo immersi.

c. La Pedagogia Istituzionale

È possibile che un riferimento alle istituzioni crei qualche malinteso. Le riserve indiane dei nativi americani sono un drammatico esempio di protezione istituita che, senza operosità istituente, produce danni. Le storie riguardo l’abuso di alcol e droghe, la povertà e la depressione. Il tasso di suicidi tra i giovani nativi degli Stati Uniti è tre volte superiore alla media nazionale. Dovrebbero cercare di educarsi a risollevarsi, a rimbalzare come una palla che incontra una superficie dura. È la resilienza, fondata sul triangolo fondatore della resilienza; i vertici sono il legame, la legge e il senso. E l’accompagnamento di un individuo esprime un legame e una legge perché deve incontrare regole, riferimenti di realtà e questo permette di creare un senso per la sua esistenza, in una coppia fondamentale: l’istituito e l’istituente.

Nel termine istituzionale ci sono questi due elementi: l’istituito e l’istituente. L’istituito è ciò che, come dice il termine, ha già una sua costruzione, quindi, è fatto di una realtà preesistente al nostro incontro con la stessa realtà: ha abitudini, regole, una sua grammatica e una sua sintassi. Utilizziamo questi termini perché in qualche modo si può capire bene questo istituito pensando al nostro ingresso nel linguaggio: ciascuno di noi nascendo è entrato in un mondo che aveva già un suo linguaggio ed è cresciuto entrando nel linguaggio già istituito.

Ma proprio perché assumeva e ha assunto il linguaggio già istituito ha potuto creare un senso al proprio linguaggio. Questa è la parte istituente. Ci sono persone che utilizzano le parole per la poesia, in cui è più evidente l’elemento istituente del linguaggio, e persone che hanno più normalmente utilizzato il linguaggio per costruirsi delle relazioni sociali, per apprendere e memorizzare, e riutilizzare quindi riformulare le cose apprese. Ci sono persone che si arrendono all’istituito accusandolo per quello che è e rinunciando ad appoggiarsi a quello che è per farlo diventare quello che potrebbe essere. Rinunciano all’impegno in una Pedagogia Istituzionale.

Istituito/istituente. Potremmo moltiplicare gli esempi: imparare a guidare un’automobile significa entrare in una realtà che è già istituita; e il percorso che guidando un’automobile un soggetto fa è la parte istituente. Con il linguaggio abbiamo compiuto, senza rendercene conto, la stessa procedura: abbiamo aderito a una realtà già istituita e vi abbiamo immesso la nostra intenzionalità.

Istituzionale comprende questi due aspetti: istituito/istituente. E la lettura del triangolo della resilienza a livello istituzionale significa rendersi conto che c’è un senso che viene costruito dal fatto che un soggetto stringe un legame di fiducia, un rapporto che ha una base anche affettiva e che non coincide con le regole ma diventa la possibilità di incontrare le regole scoprendone il senso.

François Tosquelles invitava a non confondere il lavoro di educatori, medici, insegnanti… con il voler cambiare le persone: la storia di una persona — diceva —, per quanto carica di dolore e sofferenza, è sempre anche la linfa vitale da cui attingere per continuare a vivere: non si può (non si deve) cambiare la storia, quello che si può cambiare sono i legami che una persona, con la sua storia, intrattiene col mondo delle cose e delle persone. Cambiando i legami di oggi si cambia anche il senso della storia passata.

Sono tre basi sicure, collaudate e invecchiate bene, come un buon vino.

Conseguenze operative

L’accompagnamento per un progetto di vita personalizzato e inclusivo esige alcune azioni istituzionali. La prima è l’accreditamento di quelle cooperative sociali, radicate nel territorio e di conseguenza in grado di servirsi delle sue risorse, sociali, culturali, economiche. E così anche le Educatrici e gli Educatori Socio Pedagogici che ne fanno parte.

Questo permette un accompagnamento dall’infanzia all’età adulta, evolutivo e inclusivo, che può utilizzare il budget di salute, evitando così il rischio di ridurre un progetto di vita in una collocazione in una sola struttura, costretta, quale che sia la sua dimensione, ad assumere la fisionomia dell’istituzione totale. L’istituzione totale riduce a zero il rapporto istituito/istituente, facendo dominare l’istituito. Fine corsa. In castigliano destino final. In italiano ha un suono triste.

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1 Professore emerito dell’Università degli Studi di Bologna.

2 Professor Emeritus, Università degli Studi di Bologna.

3 Un esempio: La Comunità Progetto Sud è nata all’interno del movimento di Capodarco nel 1976. Il gruppo iniziale era composto da 20 persone tra disabili fisici e volontari. L’obiettivo: dare risposte alternative alla istituzionalizzazione e deportazione dei disabili calabresi negli istituti del nord. Col tempo la Comunità ha affrontato altre problematiche sociali (minori, tossicodipendenza, disagio giovanile) dando vita a un insieme di gruppi diversificati. Per rispondere ai nuovi settori d’intervento la struttura si è ampliata e articolata con una nuova offerta di realtà riabilitative e lavorative, centri di documentazione e servizi di formazione, informazione e orientamento.

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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