Vol. 19, n. 4, novembre 2020

MONOGRAFIA

Emergenza bio-sociale e medicalizzazione a scuola: quali rischi?

Mirca Montanari1

Sommario

L’emergenza delle nuove problematiche educative, provocate dall’imprevista e inedita emergenza sanitaria mondiale, ha prodotto un drammatico e disorientante impatto sui bambini e gli adolescenti, soprattutto su quelli con bisogni educativi speciali. La riflessione teorica proposta è orientata a sondare la vasta ed eterogenea gamma di disagi dovuti all’inevitabile e radicale cambiamento degli stili di vita, in particolare di quelli scolastici. Inoltre, l’attenzione è posta sui possibili rischi di una medicalizzazione e psicologizzazione delle manifestazioni comportamentali degli alunni che risentono dell’imposizione dell’isolamento fisico nei contesti educativi, un tempo dedicati alla costruzione e al consolidamento di legami e di relazioni. Tale complessità reclama uno sguardo e una cura educativa autentici affinché le differenze e le diversità vengano valorizzate nel reciproco dialogo tra Medicina e Pedagogia speciale.

Parole chiave

Coronavirus, emergenze educative, bisogni educativi speciali, medicalizzazione, Didattica speciale.

MONOGRAPHY

Biosocial emergencies and medicalisation at school: what are the risks?

Mirca Montanari2

Abstract

The emergence of new educational problems, provoked by the unexpected and unprecedented global health emergency, has produced a dramatic and disorienting impact on children and adolescents, especially those with special educational needs. The theoretical study proposed is directed at probing the wide and heterogeneous range of discomforts caused by the inevitable and radical change in lifestyles, in particular school lifestyles. In addition, attention is focused on the possible risks of the medicalisation and psychologisation of the behavioural displays of pupils who suffer from the imposition of physical isolation in educational contexts, which were once dedicated to building and consolidating bonds and relationships. The complexity demands an authentic educational care so that differences and diversities are valued in the mutual dialogue between Medicine and Special Pedagogy.

Keywords

Coronavirus, educational emergencies, special educational needs, medicalisation, special didactics.

Introduzione

L’epidemia da virus Sars-cov2 che genera la patologia Covid-19, configuratasi ben presto come pandemia, ha assunto una tale amplificazione planetaria tale da connotare, in ogni angolo del pianeta, una quotidiana evoluzione della complessa e sfuggente situazione, non solo a livello socio-sanitario ma anche politico e istituzionale (Borgognone, 2020). Pur con una diversificata percezione e metabolizzazione del fenomeno, in relazione alla diffusione del virus nelle diverse aree del mondo e nel nostro Paese in particolare, l’esperienza unica che abbiamo vissuto e stiamo vivendo ci ha costretto ad assumere, volenti o nolenti, un atteggiamento critico-riflessivo per trovare la modalità di «ricollocarci» nel mutato panorama sociale, culturale, politico, economico, educativo, digitale, medico, antropologico, ecc. Il drammatico dilagare del Covid-19 nelle nostre esistenze umane ha messo fortemente sotto stress il sistema dell’emergenza-urgenza, diventato ormai ordinario secondo la prospettiva della «monocrazia» sanitaria, imponendo la strutturazione di rapide risposte alle inedite, contingenti e cogenti domande, anche da parte dei contesti educativi, nel ripensare nuovi modi di concepire la didattica e lo stare a scuola, nel suo complesso. Le molteplici forme di disagio che stiamo vivendo e alle quali stiamo andando incontro, di ordine educativo, psicologico, relazionale, sanitario, economico, ecc., inducono la ricerca di funzionali forme di risposte di carattere, non solo preventivo, ma di promozione della resilienza delle singole persone e dei gruppi sociali, di adozione di interventi educativi orientati alla costruzione di innovativi percorsi didattici centrati sui bisogni educativi dei soggetti, piuttosto che prevalentemente sui sintomi (Gaspari, 2017) veicolati dalla presenza egemonica del logos medico.

La multidimensionalità delle problematiche socio-educative nell’era del Coronavirus

Dal trauma collettivo dello tsunami pandemico, entrato in modo scioccante nella comunità umana e diventato una catastrofe storica e politica, una vera guerra (il 12 marzo 2020 il Presidente francese Macron, nel suo discorso alla nazione ha affermato: «Nous sommes en guerre!»), è scaturita la dura prova dell’isolamento dai contesti di vita sociale portando una sofferta e travagliata privazione delle libertà, sia individuali che collettive, in tutti i contesti di vita. G. Agamben invita a riflettere sull’impossibilità di accedere fisicamente agli spazi del nostro vivere quotidiano e sul concreto rischio relativo alla limitazione della nostra libertà di movimento, in nome del distanziamento fisico come una condizione limitata del tempo che potrà spontaneamente recedere, quando tutto ritornerà alla «normalità».

È davvero singolare che lo si possa ripetere se non in mala fede, dal momento che le stesse autorità che hanno proclamato l’emergenza non cessano di ricordarci che, quando l’emergenza sarà superata, si dovrà continuare a osservare le stesse direttive e che il «distanziamento sociale», come lo si è chiamato con un significativo eufemismo, sarà il nuovo principio di organizzazione della società. E, in ogni caso, ciò che, in buona o mala fede, si è accettato di subire non potrà essere cancellato (Agamben, 2020, p. 49).

A causa dell’emergenza sanitaria e del rallentamento della diffusione dell’infezione, nel periodo da fine febbraio 2020 ai mesi successivi, sono state adottate severe misure cautelative su tutto il territorio nazionale (decreto legge n. 18 del 17 gennaio 2020) ovvero l’isolamento domiciliare, la quarantena dei soggetti esposti, la limitazione degli assembramenti, le restrizioni sugli spostamenti, la chiusura di servizi e di attività produttivo-commerciali non indispensabili e la sospensione delle attività scolastiche e universitarie con il conseguente, imprevisto e disorientante impatto del distanziamento sociale (Canevaro e Montanari, 2020) su tutti i contesti di vita e di relazione. La costrizione ad osservare le nuove regole monastiche subordinate allo slogan «Restiamo a casa!» ha contributo a far maggiormente emergere la preoccupazione per il futuro, in aggiunta alla triste riduzione e alla mancanza di contatto sociale e fisico con l’alterità. Di conseguenza si è assistito alla progressiva perdita di spontaneità di gesti e rituali affettivi: abbracci e vicinanza prossemica, previsti dalla nostra cultura, sono stati subordinati all’emergenza pandemica. Adulti e bambini hanno vissuto la dura frustrazione legata al mancato soddisfacimento dei bisogni di relazione, quegli stessi bisogni che, solo fino a qualche mese, fa venivano soddisfatti liberamente in coppie, in gruppi e in assembramenti pubblici e privati. Di fronte a tale inedito e traumatico fenomeno, i contesti educativi, in primis la scuola, hanno adottato soluzioni digitali, forse discutibili, che hanno cercato di mantenere la significatività della relazione, pur nella dimensione dell’apprendimento da remoto. La didattica a distanza (DAD), generalizzata ed esclusiva, ha rappresentato la risposta obbligata, in taluni casi virtuosa, delle scuole allo stato di necessità, alla rappresentazione della vita scolastica quotidiana «oltre il senso del luogo» (Meyrowitz, 1995). Per l’intero ciclo della formazione si è trattato di un’esperienza che ha consentito di sperimentare quotidianamente, oltre all’indubbia efficacia dei mezzi impiegati nel mantenere funzionanti ed operative le attività nonostante la situazione avversa, i limiti, i punti ciechi, le carenze dell’insegnamento tecnologicamente assistito, pur nelle sue potenzialità (Bonaiuti, Calvani, Menichetti e Vivanet, 2017). Nel giro di poche settimane l’intero sistema scolastico italiano si è trovato di fronte all’urgente necessità di surrogare con qualsiasi mezzo, di operare aggiustamenti (Landowski, 2010) riguardo la didattica in presenza, quella che da sempre si organizza e si svolge nello spazio e nel tempo definiti dell’esperienza scolastica consueta, cogliendo, da parte dei contesti scolastici più motivati, l’opportunità di ripensare pratiche e saperi (Bertagna, 2020). La nuova modalità formativa, basata sulla sfida di un diverso e-learning capace di uscire dagli schemi della presenza in classe (Boccia Artieri, 2020), nata per colmare l’improvviso ed imprevisto vuoto di presenza tra docenti e alunni, non avendo un profilo identitario non coincide espressamente con la didattica in quanto non esiste didattica senza relazione, ovvero la didattica si rivela tale solo in una reale e concreta relazione educativa. Aspetto che acquisisce maggiore rilevanza per gli alunni della scuola dell’infanzia e della scuola primaria, in considerazione del loro profilo di funzionamento centrato sugli irrinunciabili bisogni di cura, di vicinanza emotiva e di sviluppo del pensiero consoni all’età evolutiva di riferimento. La parola e la presenza fisico-emotiva degli insegnanti rappresentano il focus della relazione educativa che, in questo caso eccezionale, viene sacrificata a vantaggio della promozione dei processi di formazione da remoto, capaci di ricostruire un mondo sicuro rappresentato come immagine-schermo (Heidegger, 1938), a scapito della perdita del coinvolgimento cognitivo-emotivo che influenza la complessità dei processi di apprendimento (Lucangeli, 2019). L’«inclusione via web», così come recita la pagina digitale creata dal MIUR nel marzo scorso, ha offerto servizi utili alle scuole per supportare l’organizzazione di una didattica inclusiva nella situazione di emergenza: webinar formativi, servizi, informazioni legislative, raccordi rapidi con associazioni del settore e con iniziative attivate dai territori. Nonostante le iniziative ministeriali che si sono succedute a questa abbiano faticosamente tentato di promuovere la progettazione didattica digitale inclusiva, il tema della disabilità è rimasto sfocato e orfano di strategie e soluzioni operative concrete sovraccaricando sproporzionalmente le famiglie di problematiche (Borgia e Griffo, 2020). In sintesi, l’istituzione scolastica è stata ed è attualmente colonizzata dal dogma della bio-sicurezza diventando un sistema formativo dominato dal digitale e caratterizzato dal distanziamento interpersonale che si avvale di accessori protettivi e difensivi tra i quali i banchi monoposto, le mascherine monouso (usate per difendersi dagli altri), la termomisurazione, le misure di sanificazione, la rimodulazione degli arredi scolastici, fino ad arrivare al rigido divieto, ispirato alle logiche di separazione, dello scambio di materiale scolastico tra studenti e tra docenti e studenti.

Verso il rischio della medicalizzazione della/nella scuola?

La complessità delle nuove emergenze educativo-sanitarie sollecita la scuola ad affinare la flessibilità didattica e organizzativa, a rinforzare l’atteggiamento prevalentemente riflessivo nei confronti delle pratiche d’insegnamento, ad attivare strategie educativo-didattiche individualizzate, personalizzate e differenziate all’interno di una progettazione inclusiva orientata a tutti e a ciascun alunno. Nella prospettiva inclusiva è il sistema scolastico che si deve adattare alla diversità e alle differenze degli alunni (Medeghini, 2015) rispettandole e valorizzandole, nella loro complessità, senza etichettarle né medicalizzarle secondo l’adozione di innovativi percorsi educativo-didattici in nome di una scuola democratica a misura di alunno (Baldacci, 2008). Una scuola in grado, quindi, di offrire ad ogni allievo piena cittadinanza, equità ed appartenenza mediante l’accessibilità la partecipazione di tutti a garanzia del diritto all’apprendimento e alla socializzazione (Caldin, 2012). È necessario per l’istituzione scolastica possedere le competenze educativo-relazionali indispensabili per poter offrire all’alunno con «bisogni educativi speciali» efficaci risposte, prevalentemente disancorate alle logiche diagnostiche, in nome del diritto all’educabilità, alla partecipazione attiva e al senso di appartenenza di ogni cittadino. Abbracciando il suo statuto democratico e acquisendo consapevolezza delle continue e complesse emergenze educativo-culturali, ed ora anche bio-sociali dopo l’avvento della pandemia che possono provocare la marginalizzazione delle diversità, la scuola tende ad orientare e a proporre rinnovate direzioni e linee progettuali secondo la prospettiva inclusiva (Canevaro, 2013). In questo senso, svolge un fondamentale ruolo nel cercare di favorire e di promuovere la realizzazione di un’efficace cultura dell’inclusione (Bianquin, 2018), incidendo inevitabilmente sulle decisioni, sugli atteggiamenti e sulle prassi didattiche quotidiane in relazione all’incontro, perturbante, contaminante, faticoso e, nel contempo, creativo con le differenze e le diversità.

La prospettiva inclusiva mira a trasformare il contesto scolastico, considerando le differenze di ciascun alunno per la progettazione di una didattica che sappia rispondere ai bisogni formativi di ognuno, senza creare categorizzazioni e/o separazioni. In questa direzione, si colloca la Pedagogia Speciale che vuole affrontare i bisogni non (ancora) comuni, con la volontà di attenuare la «specialità» degli interventi (Ferrari e Cinotti, 2019, p. 126).

Agli alunni con difficoltà (di apprendimento, di attenzione, di linguaggio, di coordinazione motoria o spazio-temporale, di autonomia personale, di autogestione emotivo-relazionale), demotivati, con problemi emotivo-affettivi o di comportamento, in condizioni di disagio socio-economico e/o ambientale viene riconosciuto pieno diritto di cittadinanza quando entrano concretamente in relazione di scambio, aiuto, collaborazione, partecipazione e reciprocità solidale con la risorsa rappresentata dai coetanei.

La scuola inclusiva si prefigura, quindi, come comunità solidale che prova ad andare oltre la fredda oggettività della diagnosi (Argiropoulos, 2019), i limiti ed i pericoli di una «lettura» riduzionistico-deterministica di natura medicalizzata e psicologizzata (Bocci, 2019) che classifica e chiude le differenze e le diversità in tipologie, acronimi ed etichette stigmatizzanti (BES, DSA, ADHD, DDAI, DOP, DC, alunno H, alunni certificati, comportamento problema, ecc.) sempre relative al presunto e standardizzato ideale rappresentato dal desiderabile e scolarizzato alunno «normodotato». La corsa sempre più indiscriminata alla ricerca e all’utilizzo di etichette, ovvero all’uso esasperato delle diagnosi, rischia di essere profondamente emarginante in ambito scolastico in quanto produce un’apparente e rassicurante «lettura» dei deficit e dei disturbi dell’alunno a scapito delle potenzialità, delle diverse abilità e competenze da comprendere, valorizzare e condividere. Si tratta di uno sguardo miope dominato dal paradigma clinico-terapeutico che tende a ridurre, a chiudere l’orizzonte inclusivo, non aprendosi alle sfide formative ed esistenziali poste dagli alunni la cui diversità è essenzialmente ricchezza, risorsa e pluralità formativa universale. A. Goussot afferma opportunamente che la scuola, quale luogo dell’utopia pedagogica è in grado di

fare vivere ad ogni alunno, a prescindere delle proprie particolarità, la possibilità di accedere alla propria umanità e al suo aspetto più nobile, la capacità di pensare e di sentire che l’altro diverso da sé è anche simile. Pensata in questi termini la pedagogia fa dell’educazione e dell’istruzione un processo di emancipazione e liberazione umana che si oppone ad ogni forma di reificazione e di disumanizzazione; la pedagogia aperta alle esperienze vive degli alunni crea gli spazi dell’utopia concreta che forma dei cittadini consapevoli e soggetti attivi della comunità e del suo funzionamento democratico (Goussot, 2015, pp. 45-46).

L’incontro con la disabilità e con le nuove emergenze educative è, quindi, sinonimo di apertura al nuovo, di nuove forme esistenziali inserite in un contesto educativo complexus, multifattoriale e multiprospettico (Montanari, 2020a). Nell’era della prassi diagnostica lo sguardo educativo aperto e flessibile va oltre l’ingiustificato incremento delle diagnosi mediche, cercando di porre in essere azioni virtuose e di natura educativa, prestando non eccessiva attenzione agli aspetti burocratico-medicalizzanti che abitano la scuola di oggi. Al fine di superare la visione lineare che tende ad ingabbiare la persona nella patologia (Sciacchitano, 2014) non tenendo sufficientemente conto della complessa trama di significati di cui è composta la sua esistenza, al fine di evitare interventi educativi fondati sulla «normalizzazione» del deficit, è necessario abbattere barriere, ostacoli, agenti disattivanti i processi di apprendimento e di piena partecipazione di tutti gli alunni cercando di modificare idee, atteggiamenti e soprattutto le tradizionali modalità di organizzazione educativo-didattica. Nell’attuale contesto sociale, culturale, politico, economico, educativo dove prevale la logica della paura del virus, ovvero del nemico invisibile, si rafforza, più che mai, il rischio della medicalizzazione della vita stessa (Maturo e Moretti, 2019) incrementato dal marketing farmaceutico, il Disease Mongering (Payer, 1992), con le sue estreme derive di commercializzazione della malattia che inizia, purtroppo, sin dalla prima infanzia (Vio e Lo Presti, 2014).

Alunni con BES fra medicina e didattica speciale

La lettura interpretativa dei bisogni speciali degli alunni in situazione di difficoltà, di disturbo, di svantaggio, di ipo-iperdotazione ed ora da disagio e da problematiche dovute all’impatto da Coronavirus (ansia, aggressività, regressione, irritabilità, stress, ecc.) (Gaslini, 2020) risulta difficile e complessa, in quanto dipende da una pluralità di fattori, esogeni ed endogeni, che meritano ampia riflessione a seconda del tipo di «sguardo» riferito a quella particolare trama esistenziale. In tale ottica, il pericolo di cadere nella trappola delle valutazioni generiche e indifferenziate è altrettanto presente quanto il rischio di essere attratti dall’«industria delle etichette» quale dimensione riduttivamente categorizzante ed emarginante. I «bisogni educativi speciali» (Pavone, 2015) non dovrebbero essere prevalentemente filtrati dalle categorie cliniche, nosografiche e sociali predeterminate, ma dall’osservazione pedagogica che non va, quindi, confusa con quella diagnostico-clinica per scongiurare il pericolo di trasformare gli insegnanti in operatori della clinica e gli alunni in potenziali portatori di disturbi, di disadattamento, di comportamenti problema che devono essere «curati» terapeuticamente per essere inclusi. In tale prospettiva, va evitata la ricerca delle diagnosi a tutti i costi, in quanto non è detto che la diagnosi preluda universalmente all’adozione di didattiche differenziate, viceversa, possono venire adottati percorsi di insegnamento potenziati e personalizzati anche in assenza di pronunciamenti medici. L’eventualità che gli alunni con «BES» vengano aprioristicamente considerati secondo una visione difettologica (Vygotskij, 1986) e identificati in base alle presunte, potenziali difficoltà di apprendimento, potrebbe compromettere le aspettative di successo scolastico da parte della scuola e della famiglia. La prospettiva pedagogico-didattica tende ad affidare alla decisione collegiale e individuale dei docenti di classe l’interpretazione, la mediazione, la traduzione delle informazioni cliniche in traiettorie progettuali per mobilitare calibrati interventi su ogni alunno e trasformarli in prassi educative organiche, non settoriali o emarginanti, seppur qualificate. Una buona diagnosi assume certamente un valore interpretativo importante e permette di trovare una chiave di lettura verso comportamenti e stati del bambino che sarebbero difficilmente comprensibili altrimenti. Il bambino, comunque, non si risolve nella diagnosi (Canevaro e Ferrari, 2019). Al di là dell’etichetta diagnostica (Dovigo, 2017), il bambino e gli adolescenti incarnano persone reali, con abilità e difficoltà specifiche che vanno osservate, accolte, riconosciute e curate (Mura, Rodrigues de Freitas, Zurru e Tatulli, 2019), per poterne facilitare l’incontro con i loro contesti di vita.

Fondamentale è che il lavoro di cura, educativamente inteso, e la relazione d’aiuto non si confondano con il loro stesso fine (che è anche quello di permettere al minore disabile di vivere in mezzo agli altri), e non si irrigidiscano in interminabili iniziative tese a rafforzare il curare, in senso medico e psichiatrico, e, parallelamente, dirette a cancellare l’esistenza della persona e il suo progetto di vita: così facendo, infatti, la relazione d’aiuto diviene un’imposizione di aiuto asettica e impersonale, priva della dimensione dialogica della relazionalità e mancante di quello scambio di umanità che rende significative le relazioni tra le persone (Caldin, 2016, p. 117).

Se la diagnosi viene vissuta come lo strumento principale che permette di intervenire sul bambino e sul contesto, si può correre il rischio di sminuire l’importanza della progettazione educativa e della scelta di metodologie e strumenti inclusivi per agire nell’ottica della partecipazione e dell’accessibilità alle attività educative. È possibile, secondo la fertile e dialettica prospettiva tra il punto di vista medico e il punto di vista della Didattica speciale (Cottini, 2017), che la diagnosi sia utile ai docenti per affrontare una situazione di impasse nel facilitare la presa di consapevolezza da parte di genitori che negano o sottovalutano le difficoltà e i disagi del figlio, oppure quando la diagnosi aiuti a fare chiarezza su peculiari aspetti della disabilità. In tali contesti si pone anche l’accento su un ambito pratico e organizzativo fondamentale: la diagnosi porta con sé la possibilità di avvalersi dell’insegnante di sostegno in classe quale competente figura e risorsa di sistema in grado di contribuire efficacemente, insieme ai docenti curricolari, alla qualità dell’inclusione scolastica e sociale. In sintesi, il rapporto tra Medicina e Pedagogia (Gambacorti Passerini, 2016), tra Medicina e Didattica speciale ha bisogno di essere rivitalizzato e alimentato costantemente per riuscire a promuovere e realizzare un soddisfacente Progetto di vita in risposta agli specifici bisogni educativi del bambino (Montanari, 2020b). Assume, pertanto, forte rilevanza un’efficace e funzionale interazione costituita dallo scambio di informazioni e di comunicazioni tra l’istituzione medica e quella scolastica per riuscire a rimodulare, in corso d’opera, gli interventi didattici e sanitari, questi ultimi così attualmente prioritari, e contemporaneamente renderli coerenti e complementari tra loro (Bocci, 2019). Secondo Bertolini (1984), infatti, il rapporto che intercorre tra Medicina e Pedagogia dovrebbe fondarsi su un necessario, autentico e biunivocamente costruttivo dialogo, di ordine teorico-pratico, in grado di rendere esplicite, efficaci e reciproche le prospettive teoretiche e metodologiche comuni e condivise nell’interesse globale di tutti gli attori della cura: medici, pazienti, famiglie, strutture sanitarie, sociali e educative. La cura diventa, così, la ricerca di una comunicazione non perduta (Borgna, 2015), ma autenticamente contaminata da ogni forma di discorso e da ogni forma di diversità, capace di creare un ponte reciprocamente arricchente tra il sapere pedagogico e quello medico, entrambi portavoci di una complessa istanza generativa e trasformativa.

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1 Docente a contratto di Didattica e Pedagogia Speciale, Università di Urbino..

2 Università di Urbino..

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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