Vol. 19, n. 4, novembre 2020

MONOGRAFIA

A proposito di apprendimento per imitazione nei bambini affetti da paralisi cerebrale

Adriano Ferrari1

Sommario

Fra le proposte terapeutiche praticabili anche a distanza per la rieducazione della paralisi cerebrale infantile, l’Action Observation Therapy, basata sull’osservare per imitare, raccoglie forti consensi fra professionisti e famiglie. Per sostenerne scientificamente l’efficacia, occorre dimostrare che il sistema mirror, posto alla sua base, funziona anche nei pazienti con lesione cerebrale permanente e che è in grado di far replicare l’azione osservata sia in termini di performance esecutiva che di risultato raggiunto.

Parole chiave

Paralisi cerebrale, rieducazione motoria, neuroni mirror, modelli proposti.

MONOGRAPHY

About mirror system learning in cerebral-palsied children

Adriano Ferrari2

Abstract

Among the therapeutic proposals applicable also remotely for the re-education of cerebral-palsied children, Action Observation Therapy, based on observation for imitation, meets with firm approval among professionals and families. In order to scientifically support its effectiveness, it is necessary to demonstrate that the mirror system, upon which it is based, also works in patients with permanent brain injuries and is able to replicate the observed action both in terms of executive performance and of achieved results.

Keywords:

Cerebral palsy, movement re-education, mirror neurons, proposed models.

Per le restrizioni imposte alla mobilità delle persone, la pandemia Covid-19 ha accentuato le già importanti problematiche legate al trattamento rieducativo dei bambini affetti da paralisi cerebrale. Domande come «Sono nel posto giusto (intendi servizio di riabilitazione infantile)?», «Con gli operatori giusti (fisioterapisti, neuropsicomotricisti, terapisti occupazionali, logopedisti)?», «Stanno facendo le cose giuste, nel modo giusto (metodo rieducativo seguito)?», e soprattutto: «Sto facendo abbastanza trattamento (frequenza e durata delle sedute terapeutiche)?» hanno alimentato in questo periodo l’incertezza e l’insicurezza dei genitori, generando in loro, accanto al primitivo senso di colpa,3 un altrettanto doloroso senso di colpevolezza.4 Fra le alternative legate a un trattamento rieducativo praticabile anche «a distanza» (intendi tele-riabilitazione), l’utilizzo di programmi basati sull’apprendimento per imitazione attraverso esercizi terapeutici videoregistrati (AOT: Action Observation Therapy, strategia rieducativa basata sul paradigma dell’Observation to Imitate, cioè sull’uso della capacità di osservazione per imitare le azioni osservate, Buccino et al. 2012) rappresenta certamente la proposta rieducativa più ragionevole e condivisibile fra professionisti e famiglie (Sgandurra et al., 2017; Beani et al., 2020). Prima di considerarla ottimisticamente una delle poche ricadute positive indotte dalla pandemia, è necessario trovare risposta a tre domande implicite.

  • Il bambino con paralisi cerebrale possiede ancora una sufficiente capacità di apprendere?
  • Può apprendere la normalità?
  • Può apprendere dalla normalità?

Per questa riflessione, la prima domanda è volutamente circoscritta all’apprendimento per imitazione, la modalità educativa messa in evidenza dallo psicologo canadese Bandura (1962), che ha ricevuto nei primi anni Novanta del secolo scorso uno straordinario rinforzo in ambito scientifico quando Rizzolatti e il suo gruppo hanno scoperto l’esistenza nel cervello della scimmia e poi in quello dell’uomo del sistema dei neuroni mirror.

Se definiamo funzione la relazione dinamica interattiva che si stabilisce fra il mondo intrapersonale di ciascun individuo e il suo mondo extrapersonale, o contesto, a sua volta composto da ambiente, comunità e cultura, il controllo posturale, la locomozione, la manipolazione, il linguaggio, ecc. rappresentano funzioni di primo livello, mentre l’apprendimento costituisce la funzione «madre» in grado di generarle. Questo anche nel bambino affetto da paralisi cerebrale. L’apprendimento può essere infatti definito, come ci ha insegnato Milani Comparetti (1982), una funzione di secondo livello trasmessaci geneticamente allo scopo di farci acquisire, attraverso l’esposizione a esperienze significative più o meno guidate (educazione), quanto non è ancora stato geneticamente previsto. Come sostiene Kandel (2016), neurofisiologo premio Nobel per la medicina del 2000, «L’apprendimento è il meccanismo grazie al quale acquisiamo nuova conoscenza sul mondo e la memoria è il processo grazie al quale conserviamo la conoscenza acquisita nel corso del tempo. Noi siamo ciò che siamo, come individui, in gran parte in virtù di ciò che impariamo e ricordiamo».

Può apparire superfluo o del tutto scontato sostenere che in un cervello irreversibilmente leso, come quello di un bambino affetto da paralisi cerebrale,5 la funzione apprendimento, in quanto funzione di secondo livello, risulta inevitabilmente più o meno compromessa.

Non mi sento più tanto sicuro di questa affermazione dopo aver saputo che alcuni ricercatori statunitensi, guidati da Dean Falk (2013), hanno potuto documentare le ridotte dimensioni e la presenza di complesse malformazioni (come anomalie della glia e aumento dei solchi e delle circonvoluzioni della corteccia prefrontale, specie nell’emisfero sinistro) nel cervello di un individuo al di sopra di ogni sospetto per quanto attiene la sua capacità di apprendimento: il fisico Albert Einstein. Come sosteneva Heidegger (1996), «Insegnare è più difficile che imparare […] perché insegnare significa far imparare. Chi propriamente insegna non fa imparare null’altro che questo imparare». Insegnare attraverso l’imitazione significa offrire un modello implicito (scopo dell’azione)6 ed esplicito (modalità esecutiva) al fare dell’altro. Concedere cioè, più o meno consciamente, la propria personale esperienza, dimostrando i risultati ottenuti. Per mezzo del sistema dei neuroni mirror, l’osservazione di un’azione eseguita da un’altra persona permette infatti a chi la sta osservando di attivare, automaticamente, lo stesso circuito nervoso deputato alla sua esecuzione. L’osservatore può così appropriarsi, copiandola, dell’esperienza che ha permesso all’osservato di giungere a compiere quella determinata azione in quel determinato modo. Questo apprendimento avviene in due fasi. In un primo momento l’azione è scomposta negli atti motori che la compongono, che vengono registrati come movimenti potenziali da parte dell’osservatore. Nella seconda fase, gli atti motori vengono assemblati in uno schema spazio-temporale (prassia) che replica quanto mostrato dal modello. Un’azione elementare, già presente nel repertorio dell’osservatore, può essere riprodotta immediatamente senza apprendimento, mentre un’azione complessa, assente nel repertorio mirror dell’osservatore, richiede dapprima l’analisi dei pattern motori che la compongono e successivamente l’analisi della sequenza che li collega. Il sistema mirror oltre alla dinamica dell’azione osservata permette di comprenderne il significato, rivelando l’intenzione dell’attore, e induce una riprogrammazione immediata dell’azione osservata (mental imagery) anche in assenza di una sua esecuzione. Attraverso questo processo di identificazione con l’osservato, permette all’osservatore di condividerne anche lo stato d’animo (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006). L’unione di osservazione e immediata esecuzione dell’azione osservata, applicata in campo terapeutico attraverso l’AOT, permette di potenziare l’apprendimento rispetto al solo allenamento motorio, incrementando la plasticità della corteccia motoria e facilitando la memorizzazione dell’esperienza compiuta (Cattaneo e Rizzolatti, 2009; Sgandurra et al., 2013).

L’AOT rappresenta una metodica rieducativa estremamente vantaggiosa per il trattamento della paralisi cerebrale infantile perché elude le precedenti esperienze del paziente, condizionate dalla patologia e conservate sotto forma di memorie procedurali, per attingere direttamente a quelle del modello osservato, il terapista, il coetaneo, il genitore, provenienti invece dal repertorio della normalità. Per essere più efficaci, i modelli di azione proposti devono essere però strettamente coerenti con il contesto di vita proprio del paziente e incontrare i suoi maggiori interessi. L’ambiente in cui vive il bambino con paralisi cerebrale è comunque pieno di modelli (vedi inserimento scolastico): ci si può chiedere perché egli debba apprendere più efficacemente da videoregistrazioni, per quanto costruite ad hoc, piuttosto che dalle esperienze della vita di tutti i giorni. Possibili risposte stanno nel fatto che:

  • l’osservazione naturale (informale, casuale) mescola i modelli e differisce sensibilmente dalle attività specifiche condotte a scopo rieducativo in un setting terapeutico dedicato, guidato da un terapista esperto;
  • l’interazione con il terapista è essenziale per l’istruzione del paziente sull’obiettivo cercato, per sostenere la sua concentrazione e per limitare, attraverso l’incoraggiamento verbale e il sostegno empatico, lo stress e la frustrazione che inevitabilmente insorgono a fronte di possibili fallimenti;
  • l’intensità del trattamento e la progressione calibrata delle difficoltà somministrate, partendo dalla zona di sviluppo prossimale, sono infine di fondamentale importanza per l’efficacia di ogni processo di apprendimento, compresa l’AOT.

Come sostiene Berthoz (2015) «Ciascuno di noi ha un suo modo di imparare. La sfida per l’apprendimento, e per l’insegnamento, non è trovare “il” metodo buono, ma scoprire il metodo più opportuno per ciascun cervello. Possiamo spingerci oltre e dire che ognuno di noi deve trovare la propria strategia di apprendimento». Se prescindiamo dunque dalla conoscenza della modalità e della misura (come e quanto) dei processi di apprendimento ancora possibili nel bambino con paralisi cerebrale, è pretestuoso dichiarare che l’AOT sia un buon modo, forse il migliore, per rieducarlo (Ferrari, 2010). Per dimostrare che il sistema mirror è presente e attivo anche nel bambino affetto da paralisi cerebrale e che l’AOT induce cambiamenti vantaggiosi e durevoli anche in pazienti considerati ormai stabilizzati, e perciò insensibili ad altre proposte terapeutiche, abbiamo compiuto uno studio clinico randomizzato controllato, con valutazione in cieco, sotto la guida del Prof. Rizzolatti stesso, sottoponendo a trattamento rieducativo e indagini di risonanza magnetica funzionale (fMRI) un campione di bambini emiplegici di età compresa fra 8 e 14 anni con differente grado di compromissione della mano paretica. Per gli scopi della ricerca è stato messo a punto uno specifico setting di strumenti informatici e di oggetti da manipolare, sono stati ideati e videoregistrati esercizi terapeutici di complessità crescente, mono e bimanuali, è stata perfezionata la preparazione dei medici e dei terapisti coinvolti nella somministrazione delle prove e sono stati selezionati referee esperti per la valutazione in cieco dei risultati. Al termine del trattamento sperimentale, durato tre settimane, l’AOT è risultata efficace nella rieducazione dell’arto superiore affetto. I progressi ottenuti erano ancora presenti sei mesi dopo la fine del trattamento, testimoniando la capacità del paziente di memorizzare, facendole proprie, le conoscenze acquisite. Lo studio ha potuto dimostrare che il sistema dei neuroni specchio è attivo e funziona anche nei bambini con lesioni cerebrali permanenti e che le strategie riabilitative basate sull’AOT sono adatte al recupero della manipolazione in questo tipo di patologia (Sgandurra et al., 2011).

Giustifica il conservato funzionamento del sistema mirror, anche in presenza di lesioni cerebrali permanenti, la multi modalità della sua attivazione sensoriale (prevalentemente visiva, ma anche uditiva e propriocettiva), l’ampia distribuzione anatomica del sistema con possibilità di ingresso nella rete da più punti, l’aumento della eccitabilità del tratto corticospinale, anche in assenza di esecuzione dei movimenti immaginati, la stretta associazione con i movimenti appresi ecologicamente significativi presenti nel repertorio dell’osservatore e la possibilità di progressione nel livello di complessità del modello osservato (Sgandurra et al., 2018). Il sistema mirror permette una comprensione immediata e implicita, cioè senza ragionamento, dell’azione osservata, riducendo il tempo richiesto per l’apprendimento di nuove abilità, privilegia gli atti motori più pratici e consueti, specie quelli legati alle attività della vita quotidiana, avviene in stretta aderenza con il modello proposto e il contesto utilizzato, favorendo così una immediata capacità di interazione dell’osservatore con il proprio contesto. Sappiamo che tutti i bambini, compreso quelli affetti da paralisi cerebrale, sono naturalmente attratti dall’osservazione di immagini in movimento. In questa situazione, tramite l’AOT, possono apprendere in modo automatico, aggirando il complesso problema della motivazione richiesto da altre forme di insegnamento. Questo è il grande vantaggio offerto dall’AOT rispetto agli altri metodi di rieducazione motoria. La prima delle tre domande implicite che ci siamo posti (una sufficiente capacità di apprendere nel bambino con paralisi cerebrale) ha trovato risposta, almeno per quanto riguarda la modalità di apprendimento per imitazione. Studiando attentamente i risultati delle ricerche sull’AOT del nostro campione di bambini e adolescenti emiplegici, abbiamo potuto osservare che, pur nell’ambito di un sicuro e duraturo miglioramento delle loro abilità motorie, i pazienti con mano paretica meno compromessa miglioravano effettivamente nella performance, cioè nella modalità esecutiva dell’azione, mentre i pazienti con mano più compromessa miglioravano nella strategia, cioè nella capacità di raggiungere il risultato cercato pur attraverso modalità esecutive parzialmente o totalmente differenti da quelle loro mostrate. A entrambe queste modalità sappiamo presiedere il sistema mirror. A questo punto è più corretto definire imitazione la capacità di copiare la performance come tale, ed emulazione la capacità di ottenere lo stesso risultato attraverso una performance differente. Del resto, viene spontaneo chiedersi perché il paziente emiplegico, che possiede una mano conservata (non la definisco sana perché la salute è un bene indivisibile e non si può essere sani a metà) non copi da quella. È letteralmente sempre «a portata di mano» e in molti pazienti è capace, per necessità, di esprimere abilità (mono manuali) superiori addirittura a quelle della mano dominante dei coetanei sani. Per età, sesso, dimensioni, ambiente, cultura, esperienze, interessi personali, ecc., sarebbe il modello ideale da imitare. Per poter copiare la performance, il paziente deve trascurare completamente le proprie esperienze motorie (mappe procedurali) e aggirare i vincoli provenienti dalla struttura della mano paretica (forza muscolare, resistenza, articolarità, spasticità, sensibilità, ecc.). Se questo fosse interamente possibile, potrebbe finalmente «guarire» dalla propria paralisi. Per copiare il risultato, può rimaneggiare l’intera dinamica del gesto dal punto di vista cinematico tenendo presente lo scopo da raggiungere, piuttosto che il percorso necessario per ottenerlo. Il ricorso a questa strategia si giustifica pienamente nella paralisi cerebrale infantile dove la prestazione motoria è contemporaneamente influenzata dalle componenti centrali (top down), dalle caratteristiche dell’apparato locomotore (bottom up) e dalle le esperienze accumulate strada facendo (coping solutions) da parte del paziente (Ferrari e Cioni, 2009). L’influenza esercitata dalla lesione del sistema nervoso centrale non si limita infatti alla sola progettazione della azione, a partire dalla motivazione del soggetto, attraverso l’immaginazione motoria e la successiva costruzione del progetto. Ne compromette contemporaneamente la pianificazione esecutiva, disturbo spesso nascosto sotto la più appariscente alterazione degli schemi motori e del tono muscolare (Sabbadini et al., 1978), e la stessa realizzazione, condizionata ingiustamente ancora dalla idea che nella paralisi cerebrale infantile l’apparato locomotore sia solo e sempre vittima di un sistema nervoso incapace, mentre ne sono state ormai ampiamente dimostrate le importanti alterazioni strutturali, spesso dipendenti dalla sede, natura, misura ed epoca della lesione nervosa piuttosto che dalla espressione della paralisi, intesa come forma delle funzioni adattive7 messe in atto da un cervello che è statoirrimediabilmente leso. In altre parole, l’apparato locomotore più che «vittima» deve essere considerato «complice», se non addirittura «mandante», delle scelte operate dal suo sistema nervoso centrale (Ferrari, 2019). Questo spiega l’efficacia di alcuni interventi terapeutici, primo fra tutti la chirurgia funzionale. Poco conosciute e ancora troppo poco considerate sono le componenti afferenziali che concorrono a compromettere il controllo motorio del paziente, a partire dalla alterazione dei recettori sensitivi e sensoriali, attraverso la costruzione di alterate percezioni8 e di conseguenti distorte rappresentazioni centrali,9 per giungere una alterazione della consapevolezza stessa di essere l’autore dei propri errori (sense of agency)10 (Ritterband-Rosenbaum et al., 2012).

Se è vero, come sosteneva Poincarè già nel 1905, che «Nessuno dei sensi è funzionale senza l’apporto del movimento» (facendoci riflettere sull’importanza dell’assenza nella paralisi cerebrale di movimenti specializzati per la raccolta di informazioni affidabili), è altrettanto vero, come affermava Bernstein (1967), che «Nessun movimento è funzionale senza l’apporto dei sensi. In mancanza di adeguate afferenze sensitive non è possibile alcuna attività motoria». La paralisi cerebrale infantile compromette entrambe le componenti e il suo recupero richiede interventi bilanciati e paralleli fra movimento e percezione.

È questa la seconda domanda implicita che ci siamo posti: il bambino con paralisi cerebrale può apprendere la normalità? Possiamo rispondere coscientemente no, o almeno non ancora.

Per rispondere alla terza domanda (il bambino con paralisi cerebrale può apprendere dalla normalità?), siamo partiti dalle precedenti osservazioni circa il diverso comportamento dei bambini con paralisi lieve, che copiano la performance, a differenza di quelli con paralisi più severa che emulano il risultato. Già Calvo-Merino e il suo gruppo (2006) avevano segnalato che, per il carattere stereotipato delle sinergie motorie, attraverso i neuroni specchio simuliamo tanto più facilmente i movimenti quanto più li percepiamo come familiari. Del resto, possiamo immaginare che, come noi ci troviamo a disagio nell’osservare la motricità patologica di un bambino con paralisi cerebrale (pensiamo ad esempio a un bambino distonico), potrebbe altrettanto sentirsi a disagio il paziente invitato a copiare la normalità, come fino ad ora gli abbiamo proposto di fare anche con l’AOT. Abbiamo perciò progettato ed effettuato un nuovo studio di risonanza magnetica funzionale (fMRI) (Errante et al., 2019) su un gruppo di bambini emiplegici di età compresa tra i 9 e i 14 anni, omogeneo per livello di deficit motorio nella mano paretica e per localizzazione della lesione cerebrale. I bambini sono stati sottoposti a una sessione di fMRI, in cui veniva richiesto loro di osservare sullo schermo creato da un particolare visore, indossabile anche nel tunnel della risonanza, azioni di raggiungimento e di afferramento di oggetti eseguite da un bambino sano o da un bambino emiplegico. Il livello di deficit motorio del modello patologico era simile a quello dei partecipanti allo studio. Le attivazioni cerebrali del sistema mirror dei bambini emiplegici sono state poi confrontate con quelle di altrettanti bambini con sviluppo tipico che osservavano le stesse immagini nello stesso setting sperimentale. Dai risultati di questo studio è emersa prima di tutto la conferma che il sistema dei neuroni specchio si attiva sia nei bambini a sviluppo tipico che in quelli con paralisi cerebrale infantile, nonostante il sovvertimento e la successiva riorganizzazione del sistema sensori-motorio, confermando i risultati delle precedenti ricerche. I bambini con paralisi cerebrale mostravano però, a differenza dei coetanei a sviluppo tipico, una maggior attivazione a livello delle aree frontali e parietali del sistema specchio durante l’osservazione di azioni eseguite dal modello patologico rispetto al modello sano. Tale risultato dimostra che il sistema specchio è in grado di coordinare l’informazione visiva con l’esperienza motoria dell’osservatore, suggerendo che l’AOT deve essere adattata alle specifiche caratteristiche del paziente, utilizzando videoregistrazioni di azioni eseguite da un modello patologico, naturalmente migliorativo rispetto alla capacità raggiunta dal paziente in trattamento, piuttosto che da un modello a sviluppo tipico. Trova così risposta anche la domanda sul perché il bambino emiplegico non copia dalla sua mano conservata. Occorre non sottovalutare i risultati di questa ricerca che, al di sopra della AOT, mettono in discussione le fondamenta stesse della riabilitazione neuromotoria. Pur con diverse interpretazioni dello sviluppo del bambino sano e differenti proposte terapeutiche, tutti i metodi di riabilitazione infantile sono accumunati dal presupposto di insegnare il movimento normale, cercando di inibire, o almeno di non esercitare, per non potenziarlo, il movimento patologico. La sola eccezione è l’educazione conduttiva proposta da Petö, un medico ungherese che lavorava a Budapest in un centro per pazienti neurologici, bambini e adulti, a metà del secolo scorso. L’educazione conduttiva, tuttora praticata in diverse nazioni, è basata sulla terapia di gruppo. Motivazione, partecipazione attiva e conquista di autonomia, in qualunque modo ciò sia possibile, ne sono gli ingredienti base. I pazienti non sono seguiti da personale sanitario (fisioterapisti, terapisti occupazionali, neuropsicomotricisti), ma da educatori appositamente formati. Resta ora da dimostrare che, come l’AOT si è rivelata idonea al trattamento di pazienti con paralisi cerebrale infantile ormai stabilizzati, la sua efficacia può ulteriormente aumentare proponendo modelli desunti dalla patologia (naturalmente migliorativi rispetto alle condizioni del paziente) piuttosto che tratti dal repertorio della normalità. È questo l’obiettivo della ricerca che stiamo conducendo ora, confrontando i risultati clinici e di fMRI ottenuti su due gruppi di pazienti emiplegici, omogenei per livello di compromissione della mano paretica, entrambi trattati con AOT, uno con modelli sani l’altro con modelli patologici (Errante et al., 2019). Se i risultati confermeranno l’ipotesi sperimentale, dovremo modificare radicalmente l’approccio terapeutico alla paralisi cerebrale, per l’acquisita consapevolezza che il paziente non può apprendere dalla normalità. Non sarà semplice, perché mentre lo sviluppo normale tende a replicarsi in modo simile se ambiente, comunità e cultura restano stabili, lo sviluppo patologico è in continuo cambiamento, per il miglioramento della assistenza alla gravidanza e al parto, per la maggior efficacia delle terapie a sostegno della sofferenza cerebrale, e un po’ anche per il miglioramento delle pratiche riabilitative. A fronte di questo va considerata la sopravvivenza di un maggior numero di soggetti con danno cerebrale severo. Il tasso di paralisi cerebrale può essere infatti considerato il rovescio di quello della mortalità neonatale. Se quest’ultima cala crescerà la prima. Un solo dato per sottolineare l’importanza del problema e l’attenzione che merita la ricerca nel campo della cura, compresa la medicina riabilitativa: nel nostro Paese nasce un bambino con danno cerebrale permanente e tuttora inemendabile ogni cinque ore.

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1 Professore ordinario di Medicina fisica e riabilitazione, Università di Modena e Reggio Emilia.

2 Università di Modena e Reggio Emilia.

3 Senso di colpa: ferita narcisistica capace di indurre rancore verso il bambino reale (inquietante estraneo) e nostalgia per quello immaginario (desiderio irrealizzato). Si accompagna a smarrimento, depressione, insicurezza, distacco, incapacità, impotenza, perdita di autostima, desiderio di fuga, bisogno di delegare ad altri, volontà di espiare.

4 Senso di colpevolezza: bisogno di saturare la propria disponibilità per non sentire il rimorso di non aver saputo fare abbastanza, desiderio di riscatto, bisogno di riversare le proprie energie positive in qualche cosa di favorevole per il bambino, aspettativa di successo.

5 Paralisi cerebrale infantile: descrive un gruppo di disturbi dello sviluppo del movimento e della postura che causano limitazione dell’attività, che sono attribuiti a disturbi non progressivi che si sono verificati nello sviluppo del cervello fetale o infantile. I disturbi motori della paralisi cerebrale sono spesso accompagnati da disturbi della sensazione, della percezione, della cognizione, della comunicazione e/o del comportamento, da epilessia e da problemi muscoloscheletrici secondari.

6 Azione: movimento organizzato cognitivamente per raggiungere uno scopo; «la risposta motoria è il prodotto di una sintesi che prende in considerazione gli aspetti motori, cognitivi ed emozionali del problema» (Anokhin, 1975). «L’azione è un modo di farsi una rappresentazione, una codifica del reale. La prima rappresentazione è esecutiva e si basa sull’azione reale, successivamente essa si modifica per essere sostituita da una rappresentazione iconica, cioè dalla forma oggettivizzata di un’immagine, fino a giungere alla rappresentazione simbolica» (Bruner, 1976). Trasformazione delle realtà esterna e interna poiché l’individuo, riflettendo sulla propria azione, modifica le proprie strutture cognitive. L’azione è lo strumento di formazione della conoscenza sul mondo e ha, in questo senso, le stesse caratteristiche del pensiero (Piaget, 1968). L’azione non è motricità. L’azione e il gesto sono progetti, intenzioni, emozioni, ricordi per prevedere il futuro, speranze che derivano dai successi passati e sconfitte che si trasformano nel desiderio di opportunità future. L’azione e il gesto sono contemporaneamente il tempo presente e il tempo passato, proiezione dell’istante nel futuro, deliberazioni, decisioni (Berthoz, 2003). L’azione deriva da un dialogo fra il corpo e il suo doppio; la deliberazione e la decisione esprimono questo dialogo fondamentale. Abbiamo due corpi; il corpo fisico e il corpo mentale. Il corpo mentale è formato dall’insieme dei modelli interni che costituiscono gli ingredienti elementari dello schema corporeo e permettono al cervello di simulare e di emulare la realtà. È il corpo che percepiamo quando sogniamo. Anch’esso ha una realtà fenomenica (Berthoz, 2003). «Il pensiero è un movimento che non si è ancora espletato» (Calvin, 1996). «Pensare è trattenersi dall’agire» (Bain, 1894).

7 Adattivo: vantaggioso per l’attore, adeguato allo scopo, adatto al contesto (Sabbadini, 1978).

8 Percezione: capacità del cervello di elaborare, confrontare e integrare fra loro le informazioni sensitive e sensoriali raccolte, ricercandone la coerenza con il mondo e con se stessi. Opinione personale espressa sulle informazioni raccolte, condita di abbondante pregiudizio. Al centro della percezione, come sosteneva Fodor (1983) vi è la fissazione di una credenza, e la fissazione di una credenza è un processo di conservazione, un processo sensibile, in svariati modi, a quello che il percipiente già sa. La percezione è funzione non tanto dell’intensità di una stimolazione, quanto della concordanza di questa con un’ipotesi formulata dal cervello (Berthoz, 2011).

9 Rappresentazione: le rappresentazioni mentali sono mappe che costituiscono il destino finale delle informazioni dopo che esse sono state raccolte ed elaborate attraverso l’esperienza. Queste mappe fanno parte del patrimonio delle memorie procedurali su cui si basano i meccanismi anticipatori e vengono ogni volta dinamicamente ri-attualizzate nel corso dell’esecuzione dell’azione stessa.

10 Sense of agency: si riferisce all’esperienza di se stesso come autore delle proprie azioni (Callager, 2000). È il nucleo centrale di differenti esperienze fenomeniche posto alla base della autocoscienza (Newen e Vogely, 2003). Al suo interno può essere differenziata la sensazione dell’agire (feeling of agency) dal giudizio di essere gli artefici dell’azione (judgment of agency). Il primo legato ai processi sensomotori di base, il secondo connesso a processi di ordine superiore (Sirugu et al., 1999).

Vol. 19, Issue 4, November 2020

 

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