Vol. 19, n. 1, febbraio 2020

Forum

Ricerca educativa e carcere: l’esperienza dei docenti e tutor universitari del Centro Universitario Devoto a Buenos Aires

Luca Decembrotto1

Sommario

La ricerca qui presentata approfondisce un’esperienza internazionale di università all’interno delle carceri: il CUD (Centro Universitario Devoto), la prima esperienza argentina, una delle prime al mondo di collaborazione fra università e carcere per l’accesso al diritto allo studio da parte di coloro che sono privati della libertà. Il contributo mira a fornire alcune riflessioni sviluppate nell’incontro con uno dei gruppi universitari coinvolti nel CUD, cercando di spiegare il loro approccio orientato all’emancipazione dei partecipanti.

Parole chiave

Carcere, diritto allo studio, università, educazione non formale, empowerment.

FORUM

Educational research and prison: the experience of the university professors and tutors of the «Centro Universitario Devoto» in Buenos Aires

Luca Decembrotto2

Abstract

The following research aim to deep an international experience of universitiy in prison: the CUD (Devoted University Center), the first Argentine experience, one of the first in the world. An experiance of cooperation between universities and prisons, for access to the right to study by freedom-deprived persons. The paper aims to provide some reflections developed in the meeting with one of the university groups involved in CUD, trying to explain their approach oriented to the emancipation of the participants.

Keywords

Prison, right to study, university, non-formal education, empowerment.

Premessa

In diverse parti del mondo si stanno sviluppando progetti di inclusione universitaria in carcere. Le origini di questi progetti sono variegate, individuabili a partire da esperienze di volontariato,3 da accordi formali tra istituzioni o a seguito di proteste degli stessi detenuti che chiedevano l’accesso agli studi universitari, ma i loro più recenti sviluppi, avvenuti negli ultimi due decenni, convergono verso un’organizzazione formale analoga, genericamente definibile come «centro universitario in carcere», «polo universitario penitenziario» secondo l’uso italiano, il cui comune denominatore è l’accesso agli studi come diritto umano (Friso e Decembrotto, 2018). Esperienze di questo tipo coinvolgono perlomeno l’Argentina (Parchuc, 2014; Parchuc, 2015; Umpierrez, 2016), il Regno Unito (Darke e Aresti, 2016; Armstrong e Ludlow, 2016), l’Uruguay, il Cile e l’Italia.

I Poli universitari penitenziari sorgono in Italia nel 1998, con la firma del protocollo d’intesa fra l’Università di Torino, il Tribunale di sorveglianza di Torino e il Provveditorato Regionale dell’Amministrazione Penitenziaria del Piemonte. Il primo di questi viene realizzato all’interno della Casa circondariale «G. Lorusso – I. Cutugno» (Le Vallette) di Torino, coinvolgendo le Facoltà di Scienze politiche e di Giurisprudenza, al quale segue uno sviluppo di analoghi centri universitari in tutta Italia, arrivati a coinvolgere 24 Atenei nel 2018.4 In Italia il Polo universitario penitenziario è una sezione detentiva per studenti universitari privati della libertà, nella quale è agevolato l’incontro fra studenti, docenti e altre figure di supporto (come i tutor); sono garantite la didattica e le altre attività formative, l’accesso della comunità esterna, l’utilizzo di spazi idonei allo studio ed è facilitata la reperibilità dei materiali e degli strumenti didattici.

A quattro anni dalla firma del protocollo che nel 2013 ha coinvolto l’Università di Bologna nella nascita di un Polo universitario penitenziario all’interno della Casa circondariale «Rocco d’Amato» di Bologna, il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dello stesso ateneo ha avviato un dibattito internazionale tra diverse università che offrono un’opportunità analoga a studenti detenuti, individuando come interlocutori iniziali quattro università dell’Argentina, del Belgio, del Regno Unito e dell’Uruguay. Terreno comune a tutte queste esperienze è l’accesso agli studi universitari come garanzia e rispetto dei diritti, elemento propulsore del cambiamento e della democratizzazione della società, prima ancora che come partnership educativa. Tale dibattito si è sviluppato all’interno di un progetto finanziato dall’Università di Bologna, UPLED (University and Prison: a way for Learning, Equity and Democratization), la cui fase finale ha prodotto un volume monografico collettaneo dedicato all’argomento (Friso e Decembrotto, 2018). In aggiunta a ciò, il Dipartimento di Scienze dell’Educazione ha finanziato una ricerca di tre mesi, per poter approfondire il modello educativo sviluppato dalla Università di Buenos Aires (UBA), formalizzato all’interno del Programa UBAXXII, oggetto di studio di questo articolo.

Il contesto della ricerca

La ricerca condotta a Buenos Aires (Argentina) è stata incentrata sul Programa de Extensión en Cárceles (PEC) dalla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Buenos Aires. Il PEC rientra all’interno delle attività della extensión universitaria della Facoltà (in Italia coincidente con la terza missione universitaria), ma allo stesso tempo è anche incardinato all’interno del Programa UBAXXII, come offerta formativa universitaria in campo umanistico. Questa distinzione nasce dal fatto che il PEC offre sia l’accesso alla laurea in Lettere, sia una serie di laboratori e attività extracurriculari non strettamente universitarie, rivolti a tutta la popolazione detenuta e non solo a quella iscritta ai corsi di laurea.

La ricerca è stata realizzata in tre mesi, con osservazioni settimanali nei centri universitari di Devoto e di Ezeiza; la parte della ricerca qui pubblicata si riferisce al Centro Universitario Devoto (CUD), situato all’interno del Complejo Penitenciario Federal de Devoto, un carcere federale maschile, in cui sono ristrette circa 1.205 persone. La storia del CUD ha inizio nel 1985, quando un gruppo di detenuti del carcere di Devoto organizzò una protesta per ottenere l’accesso agli studi universitari, fino a quando, in quello stesso anno, il Servicio Penitenciario Federal (SPF) e la UBA firmarono un accordo per l’istituzione del Programa UBAXXII Educación en Cárceles, che comportò l’apertura del centro universitario. Il CUD si presenta come uno spazio indipendente rispetto alla gestione dell’unità penale, con una conduzione interna totalmente autonoma rispetto all’amministrazione penitenziaria: non ci sono agenti di polizia, ma esclusivamente studenti, docenti e tutor; gli spazi sono completamente autogestiti, dall’uso degli ambienti, alle pulizie, caratterizzando così il centro universitario come luogo di libertà intellettuale, culturale e fisica, sebbene all’interno di un istituto di pena.

Attualmente sei facoltà (Diritto, Scienze sociali, Economia, Scienze esatte e naturali, Psicologia, Filosofia e Lettere) partecipano al Programa UBAXXII, garantendo all’interno del CUD i propri corsi di laurea. A questi corsi si aggiungono gli insegnamenti interdisciplinari obbligatori del ciclo base comune (Ciclo Básico Común) (Parchuc, 2018) e un laboratorio di informatica dedicato. Gli insegnamenti sono offerti in maniera analoga a quelli accessibili agli altri studenti della UBA, anche garantendo regolari lezioni in aula (spesso basate sull’apprendimento cooperativo, oltre che sulla lezione frontale). Gli studenti universitari del CUD sono circa 400, di cui 6 studenti regolarmente iscritti al corso di laurea in Lettere e 7 uditori, a cui si aggiungono i circa 500 studenti dei laboratori extracurriculari, di cui 200 circa afferenti ai laboratori del PEC, e 40 iscritti al programma certificato in gestione socioculturale per lo sviluppo comunitario (Diplomatura de Pre-Grado en Gestión Sociocultural para el Desarollo Comunitario), un corso di formazione annuale sulla progettazione di interventi sociali e culturali community-based per la promozione di progetti dentro e fuori dal carcere (Parchuc, 2018).

Aspetti metodologici

La ricerca qui presentata si è occupata di indagare il punto di vista dei professionisti del Programa de Extensión en Cárceles (docenti, coordinatori e tutor), stipendiati e volontari, coinvolti nelle attività accademiche ed extra curriculari del gruppo di Lettere. A costoro sono state rivolte 25 domande riguardanti la loro esperienza, l’ambiente e le relazioni che si sviluppano nello spazio del CUD, al fine di far emergere l’impostazione metodologica, teorica e valoriale, oltre al vissuto, di quel gruppo di lavoro, uno dei più significativi e numerosi all’interno del Programa UBAXXII. Il questionario è composto da domande chiuse (a risposta multipla o su scale di valori) e domande aperte, secondo un’impostazione complementare mista quantitativa e qualitativa. La sua costruzione ha avuto una fase iniziale di stesura, una successiva fase esplorativa, durante la quale è stata vagliata la comprensione del questionario, e una fase finale di revisione delle domande, antecedente la sua distribuzione. Sono state invitate a partecipare alla ricerca 30 persone, che compongono l’intero gruppo dei volontari interessati alle carceri per adulti del PEC;5 tuttavia hanno risposto soltanto 21 persone, in quanto gli altri 9 volontari erano privi di incarichi curriculari o extracurriculari nell’anno in cui è stata svolta la ricerca.

Considerando l’età di partecipazione alle attività del PEC, circa la metà di coloro che hanno risposto all’indagine è coinvolta da molti anni, collaborando da cinque, fino a un massimo di tredici anni.

Tutto il gruppo degli intervistati si avvale di un incontro di coordinamento mensile, durante il quale raccordarsi, calendarizzare eventi e confrontarsi sulle situazioni critiche vissute quotidianamente in carcere, nonché di una formazione (e autoformazione) continua condotta assieme all’analogo gruppo coinvolto nei laboratori nelle carceri minorili.

Figura 1

Anni lavorativi e/o di volontariato all’interno del PEC.

Le risposte riportate in questo articolo sono mantenute in lingua originale, per non perdere in fase di traduzione alcune importanti sfumature; tuttavia per le citazioni più lunghe e complesse viene proposta in nota una traduzione dell’autore.

Un centro formativo a due valenze

Il CUD viene descritto dagli intervistati come uno spazio universitario di libertà («espacio de libertad»; «un espacio de libertad, de no cárcel dentro de la cárcel»), di resistenza («un lugar de libertad y de resistencia»; «un espacio de resistencia y fraternidad»; «un espacio de resistencia muy potente»; «un espacio de educación, organización, lucha y resistencia») e di formazione («un espacio de formación donde se garantiza el derecho a la educación, la participación, la cultura»; «no es solo un lugar de estudio, sino una pequeña comunidad organizada, un espacio político de reunión y formación, abierto a la población del pena»).6 Queste tre parole — libertà, resistenza e formazione — ricorrono maggiormente nelle descrizioni del centro, il quale oltre a essere percepito come uno spazio di rottura dalle logiche detentive («espacio de ruptura respecto de las lógicas de la cárcel») e di possibile tregua («un oasis en el ámbito de la cárcel»), è trasversalmente rappresentato come uno spazio trasformativo. Esistono, tuttavia, due modelli interpretativi di cosa significhi trasformazione: c’è chi ne marca maggiormente la dimensione politica e di lotta, e chi ne sottolinea la dimensione accademica e culturale. In questo secondo caso il CUD è descritto come un centro educativo con un’organizzazione differente («centro de educación con un tipo de organización diferente») in riferimento al contesto, uno spazio di apprendimento («espacio de formación»; «espacio de educación») e un’esperienza arricchente («experiencia enriquecedora»), spesso sconosciuta prima dell’ingresso in carcere («es un espacio autogestionado por los estudiantes en el que muchos acceden a una educación universitaria que en el medio libre normalmente no habrían conocido»),7 nonostante il diritto all’istruzione pubblica preveda l’accesso gratuito a tutte le università pubbliche. Al suo interno ci si educa al diritto e si promuovono i diritti secondo una prospettiva comunitaria («es un ámbito en el que se garantiza el derecho a la educación y a la educación superior y se socializa información clave para hacer valer otros derechos dentro de la cárcel»; «[un espacio] que busca garantizar el derecho a la educación y construir herramientas que nos permitan repensarnos como sujetos sociales»).8 Il CUD è uno spazio in cui dialogare e riflettere («un espacio que habilita el diálogo para pensar situaciones de nuestra vida cotidiana»),9 parimenti importante sia per gli studenti, sia per i docenti. Nondimeno il CUD è descritto da alcuni intervistati come uno spazio politico («un espacio político de reunión y formación») e, come precedentemente anticipato, di resistenza. Al suo interno è possibile organizzarsi per resistere alla violenza istituzionale, denunciare gli episodi di tortura, combattere le ingiustizie vissute e sviluppare strumenti sia per trasformare il sistema interno, sia affrontare l’uscita e il ritorno alla libertà («[un espacio en que] se definen, en conjunto, las estrategias y modos de organización para resistir la violencia institucional, denunciar la tortura, combatir las injusticias y producir herramientas para transformar la realidad adentro y poder afrontar la salida en libertad»).10 Questa percezione non è da considerarsi residuale, bensì una delle narrazioni che convivono all’interno del CUD, tanto che la stessa rivista prodotta dal laboratorio di Edición si intitola «La Resistencia».

Dovendo indicare sinteticamente tre elementi caratteristici del CUD, a partire da una lista di 13 possibilità, la risposta che ha raccolto più consensi è stata garantire il diritto allo studio (17 preferenze), a cui sono seguite lo sviluppo della coscienza critica (8 preferenze), il generare autonomia (7 preferenze) e il promuovere l’inclusione (7 preferenze).

Uno spazio libero, autonomo e autodeterminato

L’indipendenza del CUD è considerata unanimemente importante (49%) o molto importante (81%). L’autogestione degli spazi è rappresentata da elementi visibili, come l’assenza del personale di polizia11 o la possibilità per gli studenti di poter votare i propri rappresentanti, ma anche da elementi invisibili, di controcultura rispetto alla cultura deresponsabilizzante detentiva («es una manera de confrontar con la lógica penitenciaria, que promueve justamente todo lo contrario: la pérdida de la autonomía y la autodeterminación»).12 Per un intervistato è la libertà dei corpi («la libertad de los cuerpos») a essere centrale: nel CUD vi è la possibilità di esprimersi liberamente, oralmente e corporalmente («la autogestión de los estudiantes, la forma en la que pueden expresarse oralmente, corporalmente»),13 così come quella di muoversi con estrema libertà all’interno dei suoi spazi. La libertà di esprimersi può manifestarsi nella costruzione della rivista, «La Resistencia», ma anche nel decidere se partecipare a un laboratorio, restarci o abbandonarlo, proporre al suo interno contenuti e/o discuterli: tutto genera autodeterminazione. Non importa la motivazione con cui si accede al CUD, ma il partecipare, poiché questo garantirà un’esperienza inedita («la decisión de estar “ahí” por cuenta propia, sea por el motivo que fuera, es importante para la experiencia de la persona respecto de lo que significa la universidad y la educación pública»).14 Questo processo di autodeterminazione è descritto da un intervistato nei termini di un’esperienza di autodisciplina («la autodisciplina es un elemento fundamental del funcionamiento y la existencia del CUD»).15

Vi sono altri elementi che connotano l’ambiente in tal senso e che riguardano la possibilità di accedere a libri, pubblicare, costruire clip radio, fare fotografie, dipingere, tutte attività che permettono di rendere manifesto, risignificare e resistere al carcere («permitiendo visibilizar, resignificar y resistir el encierro»). Anche i servizi interni, come la gestione degli spazi, delle attrezzature, delle pulizie e dell’accesso dei detenuti al CUD, offrono un’idea positiva di cosa possa generare uno spazio indipendente, così come i servizi di auto mutuo aiuto, come il supporto fornito dal centro studenti (Centro de Estudiantes de Devoto), la consulenza legale e la presenza di un sindacato SUTPLA (Sindicato Unificado de Trabajadores Privados de Libertad Ambulatoria). Al contrario, ogni limitazione dovuta a interventi esterni dell’amministrazione penitenziaria (indiretti, ad esempio non permettendo l’accesso al CUD, o diretti, qualora ci siano ingressi all’interno delle aule universitarie) è percepita come estremamente negativa in quanto limitano o comportano una perdita d’autonomia.

In sintesi, lo spazio libero, autonomo e autodeterminato permette agli studenti detenuti di potersi sperimentare in un contesto totalmente altro rispetto a quello penitenziario, secondo una scelta personale che non richiede vincoli:

Hay quienes participan efusivamente de los debates y quienes solo escuchan, a medida va pasando las clases se ven como la apertura genera cambios en la escucha de quienes más les cuesta y aliento a hablar en público de quienes se ven quizás más «tímidos» o con más reticencia para hablar. Poder vernos en nuevas situaciones o actuando desde un lugar distinto es algo que a mi entender pocos espacios lo permiten y los espacios educativos generan condiciones para poder repensar nuestro hacer constantemente.16

Responsabilità e deresponsabilizzazione degli studenti

All’interno dei sistemi detentivi sono vissuti importanti processi adattivi17 (Goffman, 1968; Clemmer, 1997) che contribuiscono a decostruire l’identità del soggetto privato della libertà, portandolo a identificarsi con la sola dimensione detentiva (il detenuto), diminuendo al contempo il suo grado di autodeterminazione e aumentando la sua deresponsabilizzazione. Il tempo è il fattore più importante rispetto all’impatto che questi processi adattivi hanno sulla vita della persona detenuta: maggiore sarà il tempo trascorso in carcere, maggiori saranno sia la perdita d’identità passata, a favore di una costruita sul ruolo di detenuto, sia l’adesione ai codici di condotta, l’acquisizione di un linguaggio e la perdita di capacità critiche. La sottrazione dei riferimenti identitari è, tuttavia, stata messa in discussione dagli studiosi che registrano il persistere di tratti identitari tra alcuni reclusi, assieme a una loro significativa capacità di resistenza (Sbraccia e Vianello, 2018) e altre forme di resilienza, elementi che contribuiscono a costruire ulteriori subculture detentive. Queste, non più prodotte dall’istituzione, ma dai reclusi stessi, agiscono nel medesimo sistema detentivo, operando contemporaneamente alle altre, generando un contesto plurale, anche quando disfunzionale.

A partire da questo quadro generale, per altro non completo, è stato chiesto agli intervistati di esprimersi rispetto a quale rapporto ha il CUD con lo sviluppo della responsabilità del singolo e del gruppo, così come si sviluppa il contrasto alla deresponsabilizzazione. Le domande hanno fatto riferimento al sistema di sanzioni disciplinari applicate a seguito di infrazioni, corrisposte ai detenuti in base alla loro mancanza di aderenza alle norme, per comprendere se questo elemento influisca anche sulla vita dello studente privato della libertà e sul CUD stesso, o se quest’ultimo riesca a creare uno spazio totalmente altro, in cui poter allontanarsi dagli usuali processi sociali vissuti al di là dei confini del centro universitario.

Dovendo rispondere in base a una scala di valori da 1 a 5, dove 1 rappresenta il «per niente d’accordo» e 5 il «totalmente d’accordo», gli intervistati hanno dichiarato che non sono né in accordo, né in disaccordo (11 risposte) nell’affermare che nel CUD esista la cultura detentiva della punizione e della premialità; tutt’al più vi è una propensione a essere in disaccordo (7 risposte) con tale affermazione. Agli estremi sostanzialmente si equivalgono le risposte di chi è totalmente d’accordo (2 risposte) o, al contrario, in totale disaccordo (1 risposta).

Figura 2

Domanda sulla logica premiale all’interno dell’istituzione.

Rispetto alla possibilità che gli studenti riproducano all’interno del CUD le logiche della cultura detentiva, di ricompensa e di punizione, gli intervistati hanno prevalentemente dichiarato che non sono né in accordo, né in disaccordo (13 risposte), con un equo e speculare posizionamento dei restanti intervistati fra coloro che sono d’accordo (4 risposte) e coloro che non sono d’accordo (4 risposte) con tale affermazione.

Figura 3

Domanda sulle logiche della cultura detentiva, di ricompensa e di punizione.

Chiedendo di descrivere come la subcultura carceraria possa manifestarsi all’interno del CUD, attingendo dalla propria esperienza, la risposta maggiormente ricorrente è stata quella della strumentale richiesta di un certificato di partecipazione: capita che i laboratori extracurriculari siano frequentati da studenti il cui scopo principale è ottenere un certificato di partecipazione, per poter così avere accesso a benefici (si pensi ad esempio al ridurre l’effettivo tempo di reclusione).

Questa richiesta viene fatta anche da chi ha partecipato solo in parte o non ha partecipato affatto, creando potenzialmente delle tensioni nel gruppo («discusiones fuertes y vehementes con estudiantes que querían certificado sin haber participado del curso»).18 I docenti ne sono coscienti e descrivono questo momento nei termini di un’opportunità, un punto iniziale da cui partire sollecitando la partecipazione, sviluppando un interesse in un primo momento assente:

Sí, los estudiantes pueden manifestar un interés sesgado y limitado exclusivamente a la obtención de un certificado, lo cual no considero ilegítimo. Sin embargo, en muchos casos, esas intenciones pueden ir cambiando o sumándose a otras que respondan más a la propuesta pedagógica, la posibilidad de vinculación y los proyectos colectivos.19

Al inicio del cuatrimestre son varios, después cambian su actitud.20

Los motivos por los que un estudiante llega al CUD no son necesariamente los mismos por los que permanece allí.21

Creo que ante eso, si la persona, más allá de su interés particular en el certificado, asiste a clase y se suma a las dinámicas y propuestas de la materia no debería tener conflicto. Mi postura ante esto es que quizás en algún momento se pueda enganchar con algo que pensaba que en un primer momento no le iba a interesar.22

Constantemente, a lo largo de todos estos años que trabajé no solo en el CUD, sino también en otros espacios de encierro, muchas de las personas que asisten a los talleres, lo hacen solamente, o al principio, para obtener certificado de participación. Y eso es muy válido por el contexto en el que se encuentran. Luego, está en nosotros como docentes y coordinadores/as, poder convocar a esos estudiantes, para que sigan sosteniendo el espacio y lo atraviesen no solo por el certificado, sino por el placer de aprender, por la curiosidad, por el aprendizaje, para mejorar su calidad de vida allí, para movilizarse por sus derechos, para imaginarse y proyectar nuevos horizontes de posibilidad, y tantos otros motivos.23

Per alcuni la subcultura carceraria impostata sulla logica di privilegi e punizioni è comunque un aspetto della vita detentiva da affrontare e, pertanto, viene trattata in momenti specifici del laboratorio o dell’insegnamento («a partir de ciertos textos, tematizamos esa lógica del premio-castigo para discutirla»).24

Indagando se la partecipazione al CUD abbia un effetto positivo sul senso di responsabilità degli studenti frequentanti, le risposte sono state in accordo (5 risposte) o totalmente in accordo (15 risposte). Solo un intervistato si è espresso né in accordo né in disaccordo. È stato successivamente chiesto di argomentare la risposta, fornendo esempi di maggiore responsabilità. Questi hanno riguardato una gamma molto ampia di situazioni, in alcuni casi riguardanti impressioni o intuizioni, in altri prove (evidence).

Figura 4

Domanda sull’impatto del CUD rispetto alla responsabilizzazione degli studenti.

In primo luogo, gli esempi riguardano lo sviluppo dell’individuo. Il CUD stimola lo sviluppo intellettuale e personale dello studente privato della libertà, minando alcuni suoi dogmi e accrescendo la sua capacità argomentativa e la prospettiva critica. Il senso di responsabilità è visibile nella preparazione degli esami o nella partecipazione ai laboratori; sono inoltre sviluppate capacità, strumenti personali e di gruppo, che consentono ad alcuni degli studenti di gestire (o autogestire) il proprio lavoro e le proprie attività economiche una volta terminata la pena. In tal senso progettare il futuro è uno degli esempi maggiormente citati dagli intervistati, come la possibilità di creare un lavoro autonomo, una volta ottenuta la libertà. Questa pianificazione può riguardare sia la sfera privata, nella progettazione del futuro personale o familiare, sia quella pubblica, nella progettazione del futuro del quartiere di provenienza. Il CUD inciderebbe sullo sguardo sul futuro, modificandolo in termini positivi e progettuali, non soltanto al termine della pena. Negli anni gli studenti hanno strutturato una cooperativa di lavoro, un sindacato, ma anche un collettivo culturale e artistico, oltre ad aver scritto proposte di legge d’impatto collettivo.

Infine, rientra all’interno di questi esempi positivi lo sviluppo della responsabilità reciproca, uno degli obiettivi espliciti di diversi intervistati: lo sviluppo di un’identità collettiva, gruppale, non esclusivamente individuale o di clan, e la creazione di legami con i compagni di detenzione, che portino a poter cooperare, fare un lavoro di squadra e condividere progetti collettivi, come quelli già citati: «La posibilidad de pensar con otros y no contra otros me parece quizás el principal aporte que el Centro puede hacer a quienes están privados de su libertad».25

In questi termini il CUD si presenterebbe come uno spazio culturalmente alternativo alla cultura carceraria.

Conflitti, violenza e cura delle relazioni

Sono stati presi in esame diversi tipi di violenza vissuti abitualmente all’interno di contesti di privazione della libertà e nelle istituzioni totali (tentativi di suicidio, autolesionismo, violenza fisica e violenza verbale), cercando di capire se questi trovino spazio anche all’interno del CUD e, nel caso in cui esistano, come vengano affrontati.

Solo uno degli intervistati ha ricordato un episodio di autolesionismo per esperienza diretta o indiretta, mentre gli altri hanno risposto che, secondo la propria esperienza e le informazioni a disposizione, non ci sono stati episodi di autolesionismo (13 risposte) o non ne sarebbero a conoscenza (7 risposte). I tentativi di suicidio appaiono, invece, un elemento totalmente estraneo al CUD: non ci sarebbero stati episodi (15 risposte) o questi non sarebbero conosciuti o ricordati (6 risposte). Il discorso cambia se si prendono in considerazione gli episodi di violenza fisica e verbale. In questi casi l’esperienza è variegata, sebbene più della metà degli intervistati dichiari di aver assistito direttamente o conosca indirettamente episodi di violenza fisica (11 risposte) o verbale (12 risposte) avvenuti all’interno del CUD. Nonostante ciò, in entrambi i casi la frequenza sarebbe molto rara: potendo quantificare tali episodi come settimanali, mensili, annuali, quasi mai o mai, solo in una risposta ha indicato gli episodi di violenza fisica a frequenza annuale, così come 2 risposte hanno indicato gli episodi di violenza verbale a frequenza mensile e 2 a frequenza annuale.

Lo strumento condiviso per affrontare e risolvere i conflitti è il dialogo. Spesso il dialogo esercitato all’interno di un contenitore assembleare («el diálogo y la escucha; la palabra, el diálogo; el diálogo y la negociación»; «el diálogo y la mediación de los compañeros»; «dialogando y en asambleas»; «los propios compañeros son los que intervienen y promueven el diálogo para resolver el conflicto»), talvolta facendo ricorso alla memoria collettiva («la memoria colectiva») oppure problematizzando l’oggetto della discussione sempre all’interno di un’assemblea («la tematización de los problemas y discusión colectiva en asamblea de estudiantes»).

Come già evidenziato nella descrizione del Centro Universitario, questo al suo interno è privo di agenti di polizia e di altri soggetti coinvolti nell’amministrazione penitenziaria; ciò comporta la mancanza di soggetti che possono intervenire per sedare i conflitti. Dovendo rispondere in base a una scala di valori da 1 a 5, dove 1 rappresenta «per niente» e 5 «certamente», gli intervistati hanno dichiarato che l’assenza del personale penitenziario per alcuni certamente influisce (10 risposte) nella risoluzione dei conflitti, mentre per altri (8 risposte) ciò non influisce per nulla rispetto alla risoluzione dei conflitti. Questa situazione è, in ogni caso, considerata in termini positivi.

Figura 5

Domanda sull’impatto dell’assenza del personale penitenziario nella risoluzione dei conflitti all’interno del CUD.

In un caso è stato espresso un aperto conflitto, evidenziando come la cultura universitaria (vissuta come democratica, dialogica e tesa all’emancipazione) sia in contrasto con la cultura del servizio penitenziario (nelle sue pratiche, azioni e norme):

mayor presencia del servicio, mayor violencia se genera entre las personas detenidas. Las prácticas, las acciones, las normas del Servicio Penitenciario, están en franca oposición a las prácticas democráticas, dialógicas y con pretensión emancipadora, que intentamos promover.26

Conclusioni

Se si considera il carcere come un «campo di tensioni» attraversato da molteplici dimensioni sociali, culturali, politiche ed economiche (Parchuc, 2015), certamente l’esperienza dell’équipe del Programa de Extensión en Cárceles all’interno del Centro Universitario Devoto agisce come elemento di continua problematizzazione di queste «tensioni» e offre una lettura dello stesso CUD pienamente orientato a svolgere questa funzione, tanto da voler includere all’interno dei propri corsi non soltanto studenti con i requisiti per accedere a percorsi universitari classici, ma anche studenti senza requisiti, coinvolti attraverso percorsi extracurriculari. Entrando nelle contraddizioni tipiche del sistema detentivo (autodeterminazione vs. disciplina, responsabilizzazione vs. deresponsabilizzazione, diritti vs. privilegi), il gruppo promuove una cultura alternativa non solo rispetto a quella dell’istituzione detentiva, ma anche rispetto alla cultura d’origine degli studenti, senza che in questo processo vi sia un giudizio morale a priori, bensì ricercando sempre una chiave di lettura critica, problematizzante, capacitante, che restituisca potere (e libertà) alla persona e alla collettività. Anche chi dichiara di uscire formalmente da questa cornice educativa («como equipo no nos proponemos ser funcionales a nada, y criticamos esos términos que son arcaicos y responden a una mirada bastante despreciativa sobre las experiencias de vida de los estudiantes»),27 ne rigetta i termini formali, ma non la direzione del proprio impegno, che ne determina il senso ultimo. La formazione è collettiva e ha tra i suoi obiettivi quello di sostenere una resistenza di gruppo, con una memoria e una forte impronta solidaristica, così determinante da protrarsi anche al termine della reclusione. In tal senso, non si tratta di un’esperienza da dimenticare, ma da narrare e da far conoscere all’esterno.

Volendo ragionare a livello formale, il CUD si configura come un’esperienza di intersezione tra istituzioni (Sbraccia e Vianello, 2018), uno spazio fisico preciso e identificabile, determinato da un quarantennale dialogo istituzionale, per quanto questo è e possa essere stato controverso, faticoso e conflittivo. Pur mantenendo diverse prospettive, università e carcere collaborano per mantenere questo spazio aperto e libero, generando al suo interno esperienze pedagogicamente significative, di segno diverso (Bertolini e Caronia, 1993) rispetto a quelle passate e presenti. Tra queste esperienze spicca quella articolata dal Programa de Extensión en Cárceles della Facoltà di Lettere, la quale attraverso un approccio narrativo e autobiografico, propone ai soggetti privati della libertà una ridefinizione della propria identità, favorendo il loro sviluppo come soggetti politici, soggetti di diritto, soggetti di conoscenza, soggetti in formazione, soggetti consapevoli della propria situazione, soggetti «liberi» nonostante la detenzione (Bustelo, 2017). È in questa precisa ottica che le tre parole più utilizzate per descrivere il CUD nel corso delle interviste di questa ricerca (libertà, resistenza e formazione) trovano una precisa collocazione in chiave educativa e politica, secondo una strada che mira alla democratizzazione, non solo della conoscenza, quanto a quella più radicale della società, fornendo strumenti trasformativi e critici alle persone escluse da quel processo per potervi partecipare.

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Vianello F. (2012), Il carcere. Sociologia del penitenziario, Roma, Carocci.


1 Assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze Dell’Educazione «Giovanni Maria Bertin» dell’Università degli Studi di Bologna.

2 Researcher, Department of Educational Sciences «Giovanni Maria Bertin», University of Bologna.

3 È il caso italiano riguardante un gruppo di docenti universitari coinvolti negli anni Sessanta nel primo corso universitario in un carcere italiano, precisamente nella Casa di Reclusione di Piazza Castello a Padova.

4 Il 9 aprile 2018 è nata come coordinamento nazionale la Conferenza Nazionale dei Delegati dei Rettori per i Poli universitari penitenziari (CNUPP) istituita dalla CRUI.

5 Al di fuori del Programa UBAXXII, il PEC coordina anche un insieme di laboratori rivolti a giovani privati della libertà nelle carceri minorili (Parchuc, 2018).

6 Traduzione: uno spazio di formazione dove si garantisce il diritto allo studio, la partecipazione, la cultura; non è solo un luogo di studio, ma una piccola comunità organizzata, uno spazio politico d’incontro e di formazione, aperto alla popolazione detenuta.

7 Traduzione: è uno spazio autogestito dagli studenti, in cui molti hanno accesso a una formazione universitaria che non avrebbero conosciuto normalmente in libertà.

8 Traduzione: è un settore in cui è garantito il diritto allo studio e all’istruzione universitaria e si socializzano le informazioni chiave per far valere altri diritti all’interno del carcere; [uno spazio] che cerca di garantire il diritto allo studio e costruire strumenti che ci permettono di ripensarci come soggetti sociali.

9 Traduzione: uno spazio che promuove il dialogo per riflettere sulle situazioni della nostra vita quotidiana.

10 Traduzione: [uno spazio in cui] si definiscono, nel suo insieme, le strategie e i metodi organizzativi per resistere alla violenza istituzionale, denunciare la tortura, combattere l’ingiustizia e produrre strumenti per trasformare la realtà interna e poter affrontare la scarcerazione.

11 La polizia penitenziaria gestisce esclusivamente i flussi di ingresso e d’uscita dell’area universitaria, rimanendone all’esterno.

12 Traduzione: è un modo di affrontare la logica penitenziaria, che promuove esattamente l’opposto: la perdita dell’autonomia e dell’autodeterminazione.

13 Traduzione: l’autogestione degli studenti, il modo in cui possono esprimersi oralmente, corporalmente.

14 Traduzione: la decisione di essere «lì» autonomamente, per qualsiasi motivo, è importante per l’esperienza della persona rispetto a quello che significano l’università e l’istruzione pubblica.

15 Traduzione: l’autodisciplina è un elemento fondamentale del funzionamento e dell’esistenza del CUD.

16 Traduzione: c’è chi partecipa intensamente alle discussioni e chi si limita ad ascoltare, [ma] col passare di classe in classe si nota come l’apertura generi cambiamento nell’ascolto tra quelli a cui risulta più difficile ascoltare e capacità di parlare in pubblico tra quelli che sembrano più timidi o più reticenti nel parlare. Poterci immaginare in nuove situazioni o [poter] agire da un punto di vista nuovo è qualcosa che per quel che capisco pochi spazi permettono e gli spazi educativi creano le condizioni per poter ripensare continuamente le nostre azioni.

17 Ne sono possibili esempi l’acquisizione di sentimenti, ricordi e linguaggi (subcultura carceraria) spesso estranei alla persona prima della detenzione (Berzano e Prina, 1995; Vianello, 2012).

18 Traduzione: discussioni forti e veementi con studenti che volevano un certificato senza aver partecipato al corso.

19 Traduzione: sì, gli studenti possono manifestare un interesse parziale e limitato esclusivamente all’ottenimento di un certificato, cosa che non considero illegittima. Tuttavia, in molti casi queste intenzioni possono cambiare o aggiungersi ad altre che rispondano maggiormente alla proposta formativa, alla possibilità di integrarsi e ai progetti collettivi.

20 Traduzione: all’inizio del quadrimestre sono diversi, in seguito cambiano la propria attitudine.

21 Traduzione: i motivi per i quali uno studente arriva al CUD non sono necessariamente gli stessi per i quali vi rimane.

22 Traduzione: credo che se la persona, oltre al suo interesse particolare nel certificato, frequenta la lezione e si integra con le dinamiche e le proposte dell’insegnamento, non dovrebbero esserci conflitti. La mia posizione a riguardo è che forse, a un certo punto, può essere coinvolto in qualcosa che in un primo momento non gli sarebbe interessato.

23 Traduzione: costantemente, considerando tutti questi anni nei quali ho lavorato non solo nel CUD, ma anche in altri spazi di reclusione, molte delle persone che assistono ai corsi lo fanno solamente, o principalmente, per ottenere il certificato di partecipazione. E ciò è molto valido considerando il contesto in cui si trovano. Dopodiché, sta a noi come docenti e coordinatori/trici, essere in grado di attrarre questi studenti, in modo che possano stare in questo spazio e lo frequentino non solamente per il certificato, ma per il piacere di imparare, per la curiosità, per l’apprendimento, per migliorare la propria qualità di vita in quel luogo, per battersi per i propri diritti, per immaginarsi e progettare nuovi orizzonti di possibilità, e tante altre ragioni.

24 Traduzione: a partire da alcuni testi, noi tematizziamo quella logica della punizione-ricompensa per discuterla.

25 Traduzione: la possibilità di pensare con gli altri e non contro gli altri mi sembra forse il principale contributo che il Centro può dare a coloro che sono privati della libertà.

26 Traduzione: maggiore presenza del servizio, maggiore violenza si diffonde tra le persone detenute. Le pratiche, le azioni, le norme del Servizio penitenziario sono in aperto contrasto con le pratiche democratiche, dialogiche e con pretese emancipative che cerchiamo di promuovere.

27 Come équipe non ci proponiamo di essere funzionali a nulla e critichiamo quei termini che sono arcaici e rispondono a uno sguardo piuttosto sprezzante sulle esperienze di vita degli studenti.

 

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