Vol. 19, n. 1, febbraio 2020

Monografia

Lavorare si può

Il confronto tra modelli e pratiche per l’inserimento lavorativo delle persone con disagio e disabilità psichica

Vincenzo Trono1

Sommario

Alcuni punti essenziali definiscono e chiariscono il rapporto tra il lavoro e la riabilitazione in salute mentale oggi e quali sono i vecchi e i nuovi metodi e strumenti per l’inserimento lavorativo degli utenti psichiatrici. Si registra un cambio di paradigma negli approcci dei servizi di salute mentale nei confronti dell’utente: dall’atteggiamento paternalistico e protettivo (vulnerabilità-stress) a uno che punta a rafforzare le risorse delle persone e le aiuta a recuperare un ruolo sociale attivo nella comunità (recovery), emancipandosi dalla condizione di malato. I percorsi socio-lavorativi e quelli del supporto individuale all’impiego (IPS): una coesistenza possibile?

Parole chiave

Lavoro, riabilitazione, utenti psichiatrici, inserimento lavorativo.

Monography

Working is possible

A comparison between models and practices for the job placement of psychiatric users

Vincenzo Trono2

Abstract

Some essential points define and clarify, as it is today, the relationship between work and rehabilitation in mental health and which are the old and the new methods and tools for the job placement of psychiatric users. We assist to a paradigm shift in mental health services approaches towards the user: from the paternalistic and protective attitude (vulnerability-stress) to one that aims to strengthen people’s resources and helps them to recover an active social role in the community (recovery), freeing itself from the condition of patient. The vocational rehabilitation paths and those of individual placement and support (IPS): a possible coexistence?

Keywords

Work, rehabilitation, psychiatric users, job placement.

Lavoro e salute mentale

A quarant’anni dall’applicazione della Legge Basaglia 180 di riforma psichiatrica, il tema del lavoro come strumento emancipativo, presente nelle pratiche di cura e di riabilitazione dei cittadini con sofferenza e disagio psichico, in carico ai Servizi di salute mentale, non rappresenta più un elemento di novità, ma certamente continua a rivestire un ruolo importante. Il lavoro è uno strumento fondamentale per la realizzazione personale: conferisce un senso di orgoglio, dignità e autostima, contribuisce a superare l’identificazione con il ruolo di paziente, definisce un’identità attraverso l’acquisizione di un ruolo sociale, facilita l’inclusione sociale attraverso l’interazione con i colleghi e con la comunità, fornisce opportunità di apprendimento diretto e meccanismi di problem solving derivanti dall’interazione (Skakic e Boreggiani, 2017).

Il cimentarsi con il lavoro aiuta a capire meglio chi siamo, quanto valiamo e cosa vedono gli altri in noi. Il nostro equilibrio psichico è legato alla nostra capacità o possibilità di dirci e di dire agli altri chi siamo e cosa stiamo a fare al mondo (Orsenigo, 2009). Un’identità lavorativa permette di essere qualcuno nel mondo. Gli utenti stessi, inoltre, dichiarano che il lavoro conferisce un senso di normalità alle loro vite, consente l’acquisizione di un ruolo sociale e favorisce l’inclusione sociale (Mancini, Hardiman e Lawson, 2005).

Del resto, dal punto di vista dei diritti, la Costituzione della Repubblica Italiana, all’Art. 1: «L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro», richiama il concetto che la comunità dei cittadini ha il lavoro come elemento fondativo della società e individua nei lavoratori i soggetti portatori dei valori necessari per una progressiva e concreta attuazione della società democratica (Art. 3). Il lavoro — con le sue opportunità e con la sua regolazione tramite il sistema di welfare — diventa uno degli strumenti principali per la riduzione e per il superamento delle diseguaglianze economiche e sociali.

Purtroppo, oggi il problema occupazionale rimane prepotentemente un outcome negativo e continua ad essere uno dei problemi centrali e critici della nostra società e delle attuali politiche di welfare e del lavoro che riguarda ancora milioni di persone. E diventa ancora più serio, se non drammatico, per alcune categorie specifiche di persone fragili e vulnerabili e per le deprivazioni a cui sono di conseguenza sottoposte. Ad esempio, secondo i dati riportati nel 2010 dalla National Alliance on Mental Illness (NAMI), il 60-80% degli individui con malattie mentali negli Stati Uniti è disoccupato, con un tasso di disoccupazione che sale al 90% per quelli con le patologie maggiori; anche nel rapporto Mental Health and Development: Targeting People with Mental Health Conditions as a Vulnerable Group, realizzato dall’Organizzazione Mondiale per la Sanità (WHO, 2010), si sottolinea come la mancanza di lavoro sia uno degli aspetti che maggiormente condiziona la vita delle persone con disabilità psichica. Infatti, tra tutte le forme di disabilità, i disturbi psichici sono associati con i più alti tassi di disoccupazione, normalmente tra il 70% e il 90%. Sono cifre inquietanti se si considera che il tasso di disoccupazione degli adulti con malattia mentale è da tre a cinque volte superiore a quello degli adulti sani. E il progresso negli ultimi decenni dei trattamenti farmacologici non ha modificato il problema della disoccupazione dei pazienti con patologie mentali maggiori (Fioritti e Berardi, 2017).

Pratiche e modelli d’inserimento lavorativo

Negli ultimi decenni si è cercato di superare questo gap promuovendo l’inserimento al lavoro con strumenti e metodi riconducibili alla riabilitazione psicosociale. La persona con disagio o disabilità psichiatrica era tradizionalmente ritenuta portatrice di un deficit che le impediva di adattarsi in un contesto sociale e lavorativo, per cui veniva ritenuto necessario che svolgesse un training addestrativo e preparatorio per apprendere le abilità e le competenze necessarie e utili per svolgere, con i dovuti supporti e agevolazioni, le mansioni, i compiti e le prestazioni richiesti dall’attività lavorativa. Si era convinti che occorresse prima curare e solo successivamente inserire gradualmente e in modo prudente in un contesto sociale o lavorativo, ritenendo che non si dovessero esporre a stimolazioni e richieste ritenute eccessive rispetto alla capacità di reggere l’impegno richiesto. Per poter svolgere un ruolo sociale, come il ruolo lavorativo, si riteneva che occorresse essere «pronti», ovvero aver prima acquisito le competenze relazionali, comportamentali e lavorative per affrontare l’inserimento nei contesti reali di vita.

L’esito di queste convinzioni, a cui sono andati incontro molti utenti, è stato quello di rimanere bloccati all’interno della stessa attività formativa o socio-lavorativa per anni, in seguito alla valutazione di non essere mai abbastanza pronti per un passaggio successivo ed evolutivo, con il rischio di ritrovarsi in un percorso senza uscita di desocializzazione, di esclusione e di cronicità.

Infatti, se osserviamo i dati sui percorsi e sulle attività di formazione e d’inserimento socio-lavorativo del Dipartimento Salute Mentale Dipendenze Patologiche dell’AUSL di Bologna, negli anni 2002-2010 la media di assunzioni, ovvero di percorsi che hanno avuto una realizzazione lavorativa, addirittura decresce dal 10% al 5%.

La prima ragione dello stato di disoccupazione quasi permanente delle persone con disagio psichico è da ricercarsi nel fatto che, a causa della malattia mentale, incontrano diverse barriere dovute a stigma, pregiudizio e discriminazione. In passato, le malattie psichiatriche maggiori, come la schizofrenia, erano considerate croniche, invalidanti e destinate a peggiorare nel corso della vita, inevitabilmente associate a una prognosi infausta. Il secondo motivo è la presenza di questa visione anche nei servizi di salute mentale e/o nei servizi deputati al collocamento lavorativo, scoraggiando gli utenti dall’intraprendere le normali attività di lavoro e di vita, nel timore che queste potessero risultare eccessivamente stressanti. In seguito a questi meccanismi, messi in atto più o meno consapevolmente, le persone con disagio psichico spesso reagiscono generando su di sé basse aspettative, basso senso di autoefficacia e di autostima, con compromissione della motivazione al lavoro, che viene sopraffatta da dubbi e paure (Bouwmans, De Sonneville, Mulder e Hakkaart van Roijen, 2015). Si crea così la spirale della desocializzazione — che è paradossalmente una definizione di Mark Spivak, uno dei massimi esponenti della riabilitazione psicosociale — con una eccessiva dipendenza degli utenti dai servizi, che finiscono per divenire per loro l’unico punto di riferimento (Becker, Whitley, Bailey e Drake, 2007).

In alternativa con le posizioni della riabilitazione psicosociale si sono sviluppati altri approcci riabilitativi più recenti che sostengono che non è sempre necessario un periodo preliminare di formazione e di tirocinio, e che è possibile l’inserimento diretto dell’utente in una realtà lavorativa reale. Il training può avvenire nel corso dello svolgimento dell’attività lavorativa stessa. Questo tipo di proposta presuppone una concezione della malattia psichiatrica, dell’utente e dell’intervento riabilitativo molto diversa dalla precedente, basata sulla coppia vulnerabilità-stress.

Il recupero (recovery) dalla malattia mentale è la prospettiva che attualmente guida, o che dovrebbe guidare, il sistema dei servizi di salute mentale.

Il concetto di recovery, abbastanza comune nel campo delle patologie fisiche e della disabilità, aveva in passato ricevuto poca attenzione, sia nella pratica che nella ricerca, rivolte a persone con un disturbo psichico grave e persistente. Con L’idea di recovery non significa che la sofferenza scompaia, che tutti i sintomi vengano rimossi e che il funzionamento sia stato ripristinato completamente. Ad esempio, una persona con una paraplegia può recuperare anche se il midollo spinale non si ristabilisce. Allo stesso modo, una persona con una malattia mentale può ristabilirsi, anche se la malattia non scompare.

La recovery è descritta come un processo personale, unico e profondo, di cambiamento dei propri atteggiamenti, valori, sentimenti, obiettivi, abilità e ruolo. È un modo di vivere soddisfacente e pieno di speranza, che sostiene l’esistenza anche di fronte alle limitazioni causate dalla malattia. La recovery implica lo sviluppo di un nuovo significato e di un nuovo scopo nella propria vita, così come comporta una maturazione oltre gli effetti catastrofici della malattia mentale. Il recupero dalla malattia mentale è spesso complesso, richiede molto tempo e comporta molto di più della guarigione dalla malattia stessa. Se la disabilità psichiatrica consiste in una o più anomalie funzionali che interferiscono con l’autonomia di una persona nelle aree del lavoro, dell’istruzione, delle relazioni familiari e sociali, delle attività ricreative e della vita in autonomia(Liberman, 2008), la recovery è definita dagli stessi pazienti come un percorso caratterizzato da un crescente senso di autonomia decisionale e libertà d’azione e da una maggiore partecipazione alle attività quotidiane quali il lavoro, lo studio e la vita di comunità (Drake e Whitley, 2014). L’idea di recovery implica dunque che la persona possa raggiungere obiettivi di inclusione sociale e di realizzazione di sé nonostante la persistenza dei sintomi e della disabilità. In questa prospettiva, il processo di recovery implica uno spostamento del focus dai deficit da rimediare alle risorse e ai punti di forza da potenziare, al fine di consentire all’individuo di recuperare un’identità e un ruolo che non siano quelli di malato psichiatrico.

Il lavoro è uno dei principali facilitatori e indicatori di recovery, specie se il tipo di impiego è frutto della partecipazione alla scelta e alla ricerca da parte dell’utente (Dunn, Wewiorski e Rogers, 2008).

L’esigenza di passare a un modello riabilitativo, e in particolare d’inserimento al lavoro, recovery-oriented si rese evidente negli Stati Uniti già all’inizio degli anni Novanta. Secondo l’approccio orientato alla guarigione, il lavoro è una scelta individuale nella quale ciascuno mette in gioco le proprie capacità, le proprie esperienze e le proprie motivazioni. La forza di questa spinta motivazionale può essere potenziata con supporti personalizzati alle capacità individuali.

Capovolgendo la pratica di fornire lunghe preparazioni prelavorative (formazione professionale, tirocini, ecc.) prima di trovare un lavoro (modello train and place) Wehman e Moon (1988) sono stati i primi a focalizzare i loro interventi orientati allo sviluppo delle competenze socio-professionali su un modello di sostegno al lavoro da loro stessi definito place and train, cioè di contemporaneo collocamento e formazione. Il modello place and train prevede l’assistenza alle persone nella ricerca di una occupazione in tempi relativamente brevi, per poi fornire il training individualizzato e un sostegno adatto alla tipologia di lavoro trovata e alle caratteristiche della persona. A differenza del metodo tradizionale della mediazione, l’operatore non si sostituisce all’utente nella ricerca del lavoro o nei contatti/rapporti con i contesti, ma lo «sostiene» nel processo di ricerca attiva e nel mantenimento dell’occupazione, oppure può eventualmente affiancarlo se esplicitamente richiesto (Fioritti e Maone, 2015). La logica proposta dalla recovery supera il rapporto di cura paternalistico e veicola un rapporto consulenziale nei confronti del paziente, che inizia ad assumersi la responsabilità della gestione dei propri problemi di salute e di vita, acquisendo un ruolo sociale attivo e non connotato. Dal lavoro di Wehman e Moon trae origine il modello IPS (Individual Placement and Support – Supporto individuale all’impiego), creato e sviluppato negli Stati Uniti all’inizio degli anni Novanta da Robert Drake e Deborah Becker, presso il Dartmouth Supported Employment Center (New Hampshire, USA). Nel corso degli anni, il modello IPS e le sue tecniche sono stati ampiamente testati, i risultati hanno fornito la prova empirica dell’efficacia del programma e attualmente è manualizzato (Swanson e Becker, 2011) sulla base di otto principi.

  1. Obiettivo lavoro competitivo: gli specialisti IPS aiutano i clienti a ottenere occupazione competitiva nel mercato del lavoro.
  2. Sostegno integrato con il trattamento della patologia mentale: i servizi IPS sono strettamente integrati con il lavoro dei servizi di salute mentale. Gli specialisti IPS sono membri di team multidisciplinari che si incontrano regolarmente per esaminare l’evoluzione della situazione dei clienti.
  3. Zero exclusion: l’ingresso in un programma IPS è una libera scelta del cliente. Ogni persona con grave malattia mentale che voglia lavorare è idonea per l’IPS, indipendentemente dalla diagnosi psichiatrica, dai sintomi, dalla storia lavorativa, o da altri problemi come abuso di sostanze o disturbi cognitivi.
  4. Attenzione alle preferenze del cliente: i servizi si basano sulle preferenze e le scelte dei clienti, non sulle valutazioni e sui giudizi dei professionisti.
  5. Consulenza sulle opportunità economiche: gli specialisti IPS aiutano i clienti ad accedere e mantenere i benefici sociali ed economici, come sicurezza sociale, assistenza medica, altre indennità economiche e pensionistiche.
  6. Rapida ricerca del lavoro: gli specialisti IPS aiutano i clienti a cercare lavoro direttamente, piuttosto che offrire una scelta tra l’ampia gamma di attività prelavorative di valutazione e formazione o di esperienze lavorative «protette».
  7. Lavoro sistematico di sviluppo professionale: gli specialisti IPS sviluppano relazioni con i datori di lavoro del territorio in cui operano.
  8. Sostegno a tempo illimitato: i tempi della durata del sostegno sono individualizzati e basati sulle richieste e sulle necessità del cliente (Fioritti e Trono, 2015).

È rilevante il fatto che gli utenti del metodo IPS sono sempre concettualizzati e definiti come «clienti», proprio a sottolineare la particolare contrattualità che hanno nel rapporto con gli operatori e il fatto che sono loro e le loro preferenze a guidare il processo.

Con l’introduzione della metodologia IPS nel DSM-DP (Dipartimento di Salute Mentale – Dipendenze Patologiche) di Bologna, le finalizzazioni assuntive dei percorsi d’inserimento lavorativo negli anni 2015-2016-2017, sono diventate del 42,5%, del 43% e del 50,6%.

Conclusioni

Due considerazioni sono necessarie alla luce di quanto riportato sinora.

La spinta propulsiva del lavoro per la crescita dell’individuo e dell’intera comunità deve confrontarsi anche con le sue contraddizioni, espresse soprattutto in termini di criticità ambientali. Il professionista sanitario che si occupa di inserimenti lavorativi deve cogliere gli aspetti positivi del lavoro che possono incidere sulla salute, ma, allo stesso tempo, non deve disconoscere le situazioni di rischio e di stress correlato all’ambiente di lavoro, che possono trasformarlo in un contesto difficile e ostile. La conoscenza di entrambe le connotazioni del lavoro permette all’operatore di agire con sapienza e con competenza nel momento in cui si progetta e si attua un inserimento lavorativo e in cui si consiglia e si insegna all’utente di quali strumenti dotarsi per poter gestire le situazioni critiche e difficili (Carozza, 2006). Le strategie di adattamento e di gestione (coping) degli eventi stressanti e critici, richiedono e comportano un lavoro per l’utente su di sé per rendere più accettabili tali situazioni e per avere gli strumenti psicologici e comunicativi per affrontarle.

Infine sappiamo che nei percorsi d’inserimento lavorativo possiamo avere persone che, a parità di diagnosi, hanno diverse caratteristiche e disabilità: utenti gravi e gravosi con marcata disabilità che difficilmente potranno mai collocarsi in un lavoro vero e proprio, che richiedono contesti protetti e con buone mediazioni e aiuti, ma anche utenti con un buon livello di autonomia e di funzionamento personale e sociale che, se supportati psicologicamente a livello individuale, possono ambire a dei lavori nel libero mercato al pari degli altri cittadini.

In questo confronto tra inserimenti lavorativi tradizionali della riabilitazione psicosociale e quelli del supporto all’impiego IPS non c’è meglio o peggio, non ci sono attività e operatori migliori rispetto agli altri, ma ci sono le attività e i percorsi che in quel dato momento e in quel particolare contesto sono adeguati e opportuni per quell’individuo. Una condizione reversibile, che nel tempo può portare l’utente a cambiare tipologia di percorso sia in un senso che nell’altro; ciò rende attuali e necessari tutti i tipi di intervento e dovrebbe far convergere gli operatori IPS, gli operatori degli inserimenti lavorativi e della salute mentale verso un reciproco accordo e una costante collaborazione.

Poiché alla fine devono essere legittimamente gli utenti a poter porre delle richieste di lavoro che talvolta vanno nella direzione del libero mercato e talvolta verso situazioni di maggiore protezione. Tali indicazioni devono essere intese sempre come vere, come scelte e non come semplici pareri, meritando entrambe di essere sempre prese seriamente in considerazione (Trono e Skakic, 2017).

Bibliografia

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Carozza P. (2006), Principi di riabilitazione psichiatrica. Per un sistema di servizi orientato alla guarigione, Milano, FrancoAngeli.

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Swanson S.J. e Becker D.R. (2011), Supported employment. Applying the Individual Placement and Support (IPS) Model to help clients compete in the workforce, Center City, Dartmouth PRC-Hazelden.


1 Educatore professionale, specialista in Scienze Riabilitative delle Professioni Sanitarie, Dipartimento Salute Mentale Dipendenze Patologiche AUSL di Bologna.

2 Professional Educator, specialized in Health Professions of Rehabilitation Sciences, Dipartimento Salute Mentale Dipendenze Patologiche AUSL di Bologna.

 

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