Vol. 19, n. 1, febbraio 2020

Forum

Essere padri di figli con disabilità intellettiva: l’autonomia come sfida educativa

Simone Visentin1

Sommario

L’articolo presenta gli esiti di una ricerca sul campo finalizzata a comprendere la percezione paterna sul proprio ruolo educativo, approfondendo le strategie a supporto dell’autonomia del figlio, adolescente o giovane adulto, con disabilità intellettiva.

Lo stato dell’arte iniziale ha evidenziato l’eterogeneità dei contesti familiari attuali e i differenti percorsi seguiti dai padri per costruire la propria identità genitoriale: una pluralità che ad oggi viene ancora letta come debolezza della figura paterna. Inoltre, la ricognizione bibliografica ha confermato come l’accompagnamento verso l’adultità sia una sfida educativa peculiare nelle biografie dei giovani con disabilità.

L’indagine empirica, organizzata seguendo un approccio quantitativo-qualitativo, ha visto la partecipazione di un gruppo di papà che, nel complesso, si ritiene soddisfatto della relazione col proprio figlio. Si tratta di genitori che hanno costruito il proprio ruolo paterno per prove ed errori, attraverso una quotidiana negoziazione all’interno della famiglia. Più che pensarsi come ponti per la transizione alla vita adulta dei figli, gli intervistati chiedono piuttosto che altre figure educative — insegnanti e professionisti dei servizi — siano maggiormente presenti e coinvolti nei percorsi di crescita dei loro figli.

Parole chiave

Paternità, giovani con disabilità intellettiva, autonomia e autodeterminazione, rapporti genitoriali e professionali, progetto di vita.

Forum

Father of a young adult with intellectual disability: autonomy as an educational challenge

Simone Visentin2

Abstract

The paper presents the outcomes of a survey finalized to understanding the father’s point of view on his own educational role, focusing deeply on the educational strategies supporting the personal autonomy of son and daughter, adolescent or young adult, with intellectual disability.

The state of art stressed the heterogeneity of current familiar contexts and the different paths followed by fathers in order to build their own parental identity: a plurality that it’s still seen as vulnerability of the paternal figure. Furthermore, the scientific literature stresses that the accompaniment to the adult phase is a peculiar challenge in the disabled young biographies.

In the empirical work, where we assumed a mixed approach, we met a group of fathers whom, in general, are satisfied about the relationship with their disabled sons and daughters. They have had to build by themselves their father role, through a daily negotiation inside the family. Instead of thinking themselves as bridges for the transition to the adulthood of their sons and daughters, they ask that different educational figures — teachers and professionals — are more engaged in the paths of their sons and daughters’ growth.

Keywords

Fatherhood, young with intellectual disabilities, autonomy and self-determination, parents and professionals relationship, life design.

Riflessioni introduttive su famiglia e ruolo paterno

La paternità non è un fatto di sangue.

Per come la vedo io, la paternità è qualcosa d’altro:

è un susseguirsi di domande e voglia di esserci.

Non esiste un manuale di istruzioni

sulla paternità buono per tutte le occasioni.

Esiste soltanto una risma di fogli bianchi

che i tuoi figli ti aiutano a riempire.

(Verga, 2014, p. 27)

La realtà sociale attuale racconta di scorci familiari eterogenei: ai nuclei tradizionali con una differenziazione piuttosto chiara dei ruoli coniugali-parentali, si sono affiancate sempre più famiglie nelle quali l’asse relazionale è orizzontale e la genitorialità è improntata alla reciprocità. All’interno di questo panorama polimorfo, in continua evoluzione, sembra perciò difficile individuare un modello univoco di padre. Piuttosto, come sottolineato da vari autori (Sellenet, 2006; Argentieri, 2014), constatiamo che siamo nel tempo dei papà, al plurale. Padri che assumono in modo differente il proprio ruolo e che, per aspirare ad essere genitori autorevoli, sono chiamati a farsi testimoni (Recalcati, 2013): figure educative che portano nel quotidiano incontro coi figli la propria persona, con le passioni personali e la capacità di essere responsabili, consapevoli della complessità del loro agire (Cambi, 2008).

Si tratta, sempre più frequentemente, di papà che fanno convivere funzioni affettive e normative. Un cambiamento identitario rispecchiato anche dall’evoluzione terminologica che contraddistingue la letteratura psico-pedagogica, nella quale etichette come «padre materno» o «funzioni materne» hanno lasciato il posto a concetti neutri quale ad esempio «funzioni di accudimento primario» (Argentieri, 2014).

La crescente intercambiabilità dei ruoli genitoriali fa sì che il profilo del buon padre descritto da Oliviero Ferraris (2012) — sostenere economicamente la famiglia, sostenere psicologicamente ed emozionalmente la madre, avere un ruolo di guida morale ed etica, contribuire alle cure e all’allevamento dei figli — possa calzare bene anche per delle mamme. Una flessibilità, questa descritta, che non è di per sé una criticità: come ricorda Zoja (2016), infatti, la problematicità emerge quando entrambi i genitori assumono esclusivamente funzioni di cura fisica e, trascurando le funzioni educative secondarie (con finalità socializzanti), costringono il figlio3 dentro relazioni educative poco emancipative. Perciò è importante che i genitori si impegnino a coltivare la complementarietà degli stili educativi, leva positiva per la crescita dei figli (Zanniello, 2016). Una dualità dei ruoli che non sottovaluta le differenze tra i percorsi identitari materni e paterni: se l’essere e il sentirsi madre si basano su aspetti primariamente biologici — com’è appunto la gravidanza, a cui poi si aggiungono componenti sociali e culturali — la paternità è invece una costruzione identitaria in cui prevalgono elementi sociali e culturali (Zoja, 2016), così «la paternità è, nel profondo e da sempre, la dimensione pubblica del generare: una madre dà alla luce un figlio, un padre lo offre al mondo» (Salomone, 2011, p. 128).

I papà e l’adolescenza di un figlio con disabilità

La lettura sistemica fin qui elaborata è lo sfondo generale dal quale muoversi per approfondire il fulcro del nostro lavoro: il ruolo paterno e la relazione educativa con figli adolescenti/giovani adulti con disabilità intellettive.

In generale, durante l’adolescenza si attivano dinamiche relazionali che spesso mettono in discussione i precedenti equilibri familiari. I figli transitano progressivamente dall’infanzia verso l’adultità: un processo per niente scontato, nel quale il sogno infantile di essere onnipotenti lascia spazio a una maggiore consapevolezza che non sono i propri capricci a far girare il mondo attorno a sé (Pietropolli Charmet, 1995). Gli adolescenti trovano nel gruppo dei coetanei un nuovo e potenziale riferimento accanto ai genitori e la crescita personale passa anche attraverso esperienze trasgressive che sono funzionali al mettere alla prova i confini tra sé e l’altro da sé (Ricoeur, 1990).

In questa fase di vita i genitori dovrebbero, secondo De Singly (2010), dare continuità a due importanti processi educativi: quello trasmissivo — trasmettere sapere e valori da una generazione all’altra — ma soprattutto quello di scoperta, vale a dire organizzare spazi di scoperta per e con i propri figli, dentro processi relazionali co-costruiti e negoziati coi figli stessi, che sempre più spesso dimostrano di non essere più disposti ad accettare, come verità assolute, proposte calate dall’alto dai genitori.

Al centro, come suggerisce Cinotti (2017), c’è l’impegno a compiere anche scelte educative impopolari che fanno fare al figlio esperienza col diniego, il limite e la frustrazione.

In un simile contesto sociale per mamma e papà diventa difficile godere di un’autorità educativa sancita a priori; si trovano piuttosto impegnati a diventare un riferimento per il proprio figlio (Sellenet, 2006)4 facendosi testimoni (Recalcati, 2013), cioè adulti credibili, coerenti, appassionati, responsabili.

Coerentemente con quanto scritto finora, risulta calzante prendere a riferimento la serie di impegni che Oliverio Ferraris (2012) attribuisce idealmente al figlio adolescente e al proprio padre. L’autrice infatti si immagina che il primo debba:

  • familiarizzare con un corpo che cambia (sensazione di scissione tra il sé psichico e il proprio soma);
  • darsi una nuova identità (abbandonare l’identità infantile);
  • confrontarsi col mondo esterno (il Noi del gruppo comprova l’Io individuale);
  • svincolarsi progressivamente dai genitori (dalla modalità di rapporto figlio-genitore, alla modalità adulto-adulto);
  • seguire il proprio orientamento sessuale senza paura;
  • identificare degli obiettivi e fare delle scelte di vita in campo sentimentale, lavorativo e di impegno sociale (Oliverio Ferraris, 2012, pp. 175-180).

E nel contempo la figura genitoriale, per agevolare la libera espressione di questi compiti, dovrebbe:

  • imparare dagli errori;
  • non confondere i ruoli e restare al proprio posto;
  • non fuggire di fronte ai conflitti (la rivalità e il confronto sono preferibili all’apatia e all’indifferenza);
  • dialogare, non ignorare;
  • parlare dei temi delicati (come affettività e sesso);
  • essere discreti, non intrusivi, non cercare di sapere tutto;
  • tenere la buona distanza (essere vicini, ma non incollati);
  • manifestare il proprio affetto con ritegno e accordare fiducia;
  • incoraggiare a uscire per andare in avanti, verso l’esterno;
  • saper dire di no e dare prova di autorità, quando è necessario (Oliverio Ferraris, 2012, pp. 194-197).

Dentro questo gioco di mediazione, un’ulteriore complessità può essere rappresentata dal crescere un figlio in condizione di disabilità: le biografie degli adolescenti e dei giovani con deficit intellettivo narrano storie che Montobbio già una quindicina d’anni fa chiamava età della stagnola (2000), nelle quali i genitori faticano a riconoscere ai figli spazi di sperimentazione autonoma, di trasgressione, di partecipazione a riti di gruppo, perpetuando invece un’immagine del figlio come eterno bambino. In queste storie si rivela particolarmente generativo l’atteggiamento di un padre-genitore che si assume «la responsabilità di mettere in movimento una dinamica che favorisca non l’imposizione ma la scelta, non la spavalderia dell’azzardo, ma l’avventura del progetto sostenibile» (Parmeggiani, 2015, p. 12), favorendo di fatto la differenziazione: è ciò che Salomone indica, rivolgendosi alla figlia disabile, come il «compito di portarti nel mondo, in questo mondo, insegnandoti a incontrarlo. Quindi, non è costruirtene uno tutto per noi e viverci felici fino alla fine del nostro tempo» (Salomone, 2011, p. 37).

Lo stile educativo appena delineato è orientato da un immaginario genitoriale che pensa adulto il proprio figlio: accanto le risposte ai bisogni primari di accudimento, i papà dovrebbero sollecitare i desideri dei figli e le loro aspirazioni di autonomia, attraverso una spinta educativa emancipativa (Cinotti, 2017). La premura che crea vicinanza va alternata a un atteggiamento che incoraggia il figlio a fare nuove esperienze, consentendogli un distaccamento fruttuoso. Detto in altre parole, sono chiamati a trovare un «sano equilibrio che non sconfini né in una distanza eccessiva con i tempi interni del bambino/ragazzo (autoritarismo), né in una eccessiva vicinanza con i medesimi (permissivismo)» (Cinotti, 2013, pp. 55-56). E ancora, dovrebbero andare oltre quelle «cure ricorsive» che traducono in routine ripetitiva la quotidianità con i figli disabili (Canevaro, Battaglia e Chiurchiù, 2002). In definitiva, l’impegno paterno concorre alla costruzione, con il figlio, di un progetto di vita che promuove l’autonomia e l’autodeterminazione personali, sollecitando scelte basilari per un’identità che aspira ad essere adulta (D’Avenia, 2016; Visentin, 2016; Visentin e Strobbe, 2014).

La ricerca sul campo

Contesto e strumenti di ricerca5

L’itinerario seguito fin qui può essere sintetizzato in alcuni «appunti di viaggio» che hanno orientato l’indagine empirica di cui daremo conto nelle prossime pagine:

  • l’universo famiglia si è fatto progressivamente più variegato e al suo interno la coppia genitoriale trova forme di convivenza diverse: dall’organizzazione tradizionale basata sulla complementarietà tra mamma e papà, alle famiglie con un maggior interscambio di ruoli e funzioni, dove anche i papà assumono compiti di accudimento primario;
  • i padri odierni seguono traiettorie diversificate per affermarsi nel loro ruolo genitoriale;
  • i contesti familiari più fragili dal punto di vista educativo sono quelli nei quali sia mamma che papà attivano stili sostanzialmente identici, soprattutto se trascurano le funzioni educative socializzanti;
  • queste ultime, durante l’adolescenza del figlio, rappresentano la leva principale con cui i genitori, in primis i papà, dovrebbero supportare l’autonomia del figlio stesso; questo processo si rivela piuttosto arduo nelle storie degli adolescenti e dei giovani con disabilità intellettive.

Queste annotazioni hanno ispirato le seguenti domande di ricerca:

  • Qual è la percezione paterna rispetto al proprio ruolo educativo e alla relazione coi figli?
  • Come condividono il tempo papà e figlio?
  • Quali sono le responsabilità educative che i papà si assumono? Precisamente, i papà incoraggiano l’autonomia del figlio? Se sì, come?

Il target di riferimento sono stati i padri di figli con un’età tra i 16 e i 22 anni, con disabilità intellettiva, frequentanti gli ultimi anni della scuola secondaria o impegnati in percorsi di inserimento lavorativo. Per coinvolgerli nell’indagine, abbiamo chiesto la collaborazione ai tre SIL (Servizio di Integrazione Lavorativa) della Provincia di Padova. E l’interazione con i servizi ha permesso di affiancare alla letteratura psico-pedagogica, poc’anzi descritta, anche il punto di vista degli operatori, secondo i quali:

  • papà e mamma assumono ruoli solitamente complementari;
  • alla madre sono delegate buona parte dell’impegno educativo e la responsabilità del rapporto con la scuola e i servizi socio-educativo-sanitari (Ly e Goldberg, 2014).

Sul piano metodologico, abbiamo elaborato un questionario strutturato e successivamente sono stati condotti quattro focus group, con ventotto papà, per socializzare i dati quantitativi e raccogliere da loro alcune chiavi interpretative.

I temi proposti negli strumenti d’indagine — in linea con la letteratura illustrata nei primi due paragrafi e coerenti con le domande esplorative — possono essere così sintetizzati:

  1. Introduzione:
    • Scelte educative cruciali e peso dei ruoli genitoriali.
  2. Focus principale:
    • Identità paterna: aggettivi per definirsi e modelli di riferimento
    • Clima relazionale tra padre e figlio
    • Attività da condividere, tra assistenza e autonomia.
  3. Conclusione:
    • Prospettive future
    • Sguardo ai servizi: quotidianità e aspettative di supporto.

I partecipanti

In totale sono stati raccolti 89 questionari e i dati sociodemografici rilevati hanno permesso di delineare la seguente fotografia dei partecipanti:

  • hanno un’età compresa tra i 42 e i 68 anni;
  • il 45% ha la licenza di scuola media inferiore mentre il 30% il diploma di scuola media superiore;
  • il 54% è un lavoratore dipendente mentre il 20% è pensionato;
  • Il 90% è sposato.

Le loro mogli hanno, nel 50% dei casi, un’età compresa tra i 51 e i 60 anni, mentre le donne tra i 40 e 50 anni sono state il 36%. La maggioranza (42 su 89, 47%) ha una licenza di scuola media o avviamento professionale, 28 (32%) hanno conseguito il diploma di scuola secondaria superiore o scuola professionale, dieci (11%) sono laureate e nove (10%) hanno conseguito la licenza elementare. Il 46% è casalinga, mentre il 34% è lavoratrice dipendente (metà a tempo pieno e metà part time).

Per quanto riguarda la composizione familiare, la maggioranza dei nuclei ha due figli (64%), mentre le famiglie che hanno un solo figlio (16%) sono tante quante quelle che ne hanno tre. A completare il quadro, tre famiglie con quattro figli. Nella prevalenza dei casi quello con disabilità è il figlio più piccolo (61%), mentre nel 33% delle situazioni risulta il maggiore e in cinque famiglie è il figlio di mezzo.

I figli con disabilità intellettiva hanno prevalentemente tra i 20 e i 23 anni (63%), mentre il 21% ha tra i 16 e i 19 anni e il 16% ne ha più di 23. Dodici (14%) frequentano la scuola secondaria mentre il resto (86%) è inserito in progetti di avviamento al lavoro. Riguardo al tipo di disabilità:

  • il 50% ha una disabilità intellettiva;
  • il 33% delle situazioni vede associato ad essa anche un deficit di tipo fisico e/o sensoriale;
  • il 17% presenta anche dei disturbi comportamentali e relazionali.

Presentazione dei dati6

I dati prodotti dalla parte introduttiva del questionario raccontano che la madre ha un ruolo centrale nelle scelte educative. Interrogati sul «chi» e «come» abbia contribuito alle scelte dei percorsi scolastici e lavorativi dei figli, i partecipanti hanno risposto che si tratta di processi la cui responsabilità ricade soprattutto sulla figura materna (media: 4,2, soprattutto quando le madri hanno un titolo di studio elevato; chi-quadrato: 0,000), seguita dal padre (media: 3,8, soprattutto quando il figlio è maschio; chi-quadrato: 0,020) e infine dal figlio stesso (media: 3,5). Quest’ultimo, lo confermano le narrazioni nei focus group, è coinvolto in seconda battuta, solo dopo che i genitori hanno vagliato le principali opportunità: si tratta, come affermato da un partecipante, di «una scelta che vorrebbe essere autonoma ma alla fine è già incanalata».

La centralità della figura materna è sottolineata anche dalle risposte alla domanda che chiedeva ai padri da chi fossero maggiormente supportati nel loro ruolo: la moglie/compagna è la figura prevalente (media: 4,2).7 Piuttosto distanziati, ci sono gli altri figli (media: 2,9), i professionisti dei servizi (media: 2,2), la famiglia d’origine (media: 2,1, aiuto significato per i padri che hanno un solo figlio/a; chi-quadrato: 0,012), genitori di altri figli disabili (media: 1,8). Dunque, si conferma una dinamica di co-genitorialità tra madre e padre. Al contrario, poco significativo risulta l’aiuto ricevuto da altri papà e questo dato è accompagnato da giustificazioni complementari: durante i focus group alcuni partecipanti si sono lamentati della mancanza di occasioni per incontrarsi in spazi d’ascolto, mentre qualcun altro ha confidato che per potersi confrontare ha bisogno di fiducia e trova quindi molto più rassicurante il dialogo con la propria compagna.

Nella sezione Identità paterna: aggettivi per definirsi e modelli di riferimento, i papà si definiscono prevalentemente come sensibili (media: 3,7), fiduciosi (media: 3,5), amorevoli e scherzosi (entrambi con media: 3,4), nonché pazienti (media: 3,3) e giocherelloni (media: 3,2). Con valori intermedi abbiamo l’aggettivo serio (media: 2,9) che caratterizza soprattutto i padri più anziani (chi quadrato: 0,033), permissivo (media: 2,8) e autoritario (media: 2,5), che risulta ad appannaggio di chi ha un figlio maschio (chi quadrato: 0,016) e infine severo (media: 2,3). Gli intervistati si ritengono invece poco gelosi, silenziosi, ansiosi e paurosi (tutti con media: 2.0) e per niente indifferenti (media: 1,2).

Successivamente, chiamati a scegliere gli aggettivi per descrivere il padre che hanno avuto, i partecipanti indicano un sestetto di aggettivi (tutti con media uguale o superiore a 3,0) che disegnano un padre in chiaroscuro: da una parte fiducioso, sensibile e amorevole — riproponendo caratteristiche che qualificano anche i padri dei giorni nostri — e dall’altra serio, severo e autoritario, che riportano in primo piano quel pater familias documentato anche in letteratura (Zanfroni, 2005).

Il confronto, sviluppato sul fronte degli aggettivi, tra «i padri che siamo» e «i padri che abbiamo avuto» — in coerenza con l’obiettivo di comprendere se e come il proprio padre sia stato un modello per il ruolo paterno dei nostri partecipanti — è stato proposto anche sul versante dei valori. I risultati mostrano che i principali valori ereditati dal padre sono gli stessi di quelli trasmessi al figlio. A cambiare, seppur di poco, sono la gerarchia e l’intensità: i valori ricevuti dai padri sono rispettivamente la lealtà (media: 4), il rispetto (media: 3,9), la giustizia (media: 3,9) e la sincerità (media: 3,8). Il quartetto di valori che accompagna l’educazione dei figli è dato da sincerità (media: 4,3), lealtà (media: 4,2), rispetto (media: 4,2), giustizia (media: 4,0).

L’approfondimento di questa parte di dati ha animato buona parte dei focus group perché era cruciale comprendere come i rispondenti avessero costruito il proprio ruolo paterno. Hanno testimoniato di «essersi costruiti da soli, provando, per prove ed errori» perché «è impensabile riproporre lo stile del proprio padre. I padri di una volta erano poco presenti in famiglia e quando c’erano, come figli, si viveva anche nella sudditanza». Non potendo prendere a modello i padri della generazione precedente, i partecipanti hanno raccontato che per la maggior parte di loro è stato naturale interfacciarsi con la propria moglie.

Al punto Clima relazionale tra padre e figlio, i papà descrivono la relazione come aperta (media: 3,8, soprattutto per chi ha una figlia femmina; chi-quadrato: 0,009), scherzosa (media: 3,5), dove c’è reciprocità (media: 3,1), serietà (media: 3,0), ma anche creatività (media: 2,9) e complicità (media: 2,7). Inoltre, la considerano decisamente poco conflittuale, unidirezionale e ansiosa (che risulta una caratteristica significativa per i padri più anziani; chi-quadrato: 0,049) e ancor meno chiusa.8

Il tema Attività da condividere, tra assistenza e autonomia ha evidenziato uno scenario articolato e per certi versi ambiguo. Innanzitutto, hanno un buon riscontro quegli atteggiamenti a sostegno dell’autonomia del figlio: incoraggiarlo ad esplorare il mondo (media: 3,6), incoraggiarlo a scegliere da solo (media: 3,8), consolarlo (media: 3,5), rimproverarlo e lasciarlo sbagliare (media: 3) e, con i punteggi più elevati, dargli fiducia e ascoltarlo, riconoscergli i propri spazi personali, educarlo alle regole (tutti con media: 4,0).

Tuttavia, se dagli atteggiamenti passiamo alle attività, quelle che evocano reciprocità e condivisione sono le meno frequenti: praticare sport e cucinare hanno entrambe una media del 2 (con quest’ultima che è significativa per chi ha una figlia femmina; chi-quadrato: 0,027). A seguire il giardinaggio (media: 2,2, soprattutto per chi ha un figlio maschio; chi-quadrato: 0,041), il cinema e il teatro (media: 2,5). Ben più alte sono le medie delle attività contraddistinte da una maggiore asimmetria di ruoli: assistere il figlio nelle cure mediche (media: 3,6) e partecipare agli incontri con i professori della scuola e gli operatori del SIL (media: 3,5). Valori intermedi li ottengono attività eterogenee:

  • educazione alla sessualità/affettività (media: 2,9);
  • gestione degli orari d’uscita da casa del figlio (media: 2,9);
  • accompagnare il figlio a scuola o al SIL (media: 2,9);
  • gestione della paghetta del figlio (media: 2,8);
  • assistenza nell’igiene personale (media: 2,8);
  • aiuto nei compiti scolastici (media: 2,7).

Nel poco tempo a disposizione — la quasi totalità dei partecipanti lavora a tempo pieno e si dedicano ai figli soprattutto nei weekend — i papà si assumono responsabilità propriamente di cura primaria, ricalcando in questo il compito materno, piuttosto che spendersi in attività che permetterebbero al figlio di aprirsi ai contesti extrafamiliari e ai padri stessi di rinforzare quel codice paterno richiamato da una parte della letteratura (Fornari, 1981; Cinotti, 2017).

Anche dal confronto in presenza si è avuta conferma di una difficile convivenza tra il desiderio di «vedere i propri figli camminare con le proprie gambe» — che ritroviamo tradotto nel positivo atteggiamento di fondo — e la cruda consapevolezza che «se hai un figlio disabile lo sai che non potrà arrangiarsi e fare come hanno fatto gli altri figli». L’affiancamento paterno è insomma ancora un’azione di accudimento dove manca, come ci raccontava un papà, «quell’aspetto di complicità che a volte ti aspetti di avere con un figlio, soprattutto se maschio. Questa cosa proprio non c’è».

Le confidenze paterne hanno poi ribadito la centralità di due sfide che caratterizzano le biografie dei giovani con disabilità intellettiva: la gestione del tempo libero e l’educazione sessuale (Lepri, 2016; Veglia, 2000). Quanto alla prima, un papà ad esempio ha riconosciuto che «nostro figlio a 21 anni ci viene ancora troppo dietro e quando esce lo fa con gli amici dell’associazione. Le amicizie che aveva con i compagni di scuola si sono perse con il passare degli anni». Dunque, si tratta di un «tempo libero protetto», che non lascia presagire una qualche componente trasgressiva. Per questo, anche la gestione degli orari d’uscita da casa del figlio (uno degli item del questionario) non è avvertita come una preoccupazione perché il figlio è comunque affidato ad altri adulti. Sulla sessualità prevalgono invece due posizioni: da un lato un atteggiamento passivo — con un papà che racconta: «quando è capitato ne abbiamo parlato perché è stato lui a fare delle domande» — e dall’altro un sentimento di preoccupazione e di frustrazione perché «a volte ci dice che vuole anche lui una morosa come il fratello».

Interrogati su questi elementi di criticità, i partecipanti hanno lasciato cadere la domanda e solo un papà è intervenuto dicendo che «su queste cose noi abbiamo bisogno di una mano da fuori. Non voglio lavarmene le mani ma se ci fosse qualche educatore che aiutasse mio figlio a diventare più autonomo io sarei contento».

Con uno sguardo rivolto al futuro, abbiamo successivamente chiesto quali fossero le eventuali paure: il timore meno frequente è quello di non soddisfare le aspettative della propria compagna (9%). Successivamente troviamo il timore di non essere all’altezza del ruolo di padre (16%, soprattutto per chi ha una moglie con titolo di studio elevato; chi-quadrato: 0,042) e la paura di non saper contribuire all’educazione del figlio (19%). Tuttavia, le due maggiori paure dei papà sono il timore di avere reazioni esagerate a causa della stanchezza (23%) e la paura di non riuscire a mantenere economicamente la famiglia (33%), dato quest’ultimo che la letteratura aveva già evidenziato grazie a Baumann e Braddick (1999) e Rivard e Mastel-Smith (2014).

Complessivamente il 46% dei padri è molto o del tutto soddisfatto di come adempie al ruolo educativo (media: 3,5); quasi il 54% dei padri giudica come molto o del tutto soddisfacente la relazione con il figlio disabile (media: 3,6). Tuttavia, le discussioni in gruppo hanno restituito degli stati d’animo meno ottimistici e qualcuno ha confidato la stanchezza, dei genitori in generale, nel seguire i figli.

Riflessioni conclusive

La grande maggioranza dei partecipanti incarna un profilo tradizionale di padre: il 90% è sposato — spesso con una donna casalinga o lavoratrice part time9 — lavora a tempo pieno e la sua principale paura è di non riuscire a supportare economicamente la famiglia. Pur con queste premesse, gli intervistati hanno faticato a trovare nei loro padri un modello educativo di riferimento: anche nei focus group, come già documentato, hanno testimoniato di «essersi costruiti da soli». Se i loro papà esercitavano la leadership familiare attraverso una «presenza fisica silenziosa», la maggior parte di loro fa notare che «adesso un papà in famiglia deve negoziare tutto».

Ecco perché è comprensibile come, in questo disorientamento, la moglie diventi la figura di riferimento con cui confrontarsi per l’educazione dei figli. Una compagna che, nella maggioranza delle storie incontrate e in linea con altri riscontri della letteratura (Davys, Mitchell e Martin, 2016), è la figura centrale del sistema familiare.

Non è così sorprendente, allora, scoprire che a volte i partecipanti — soprattutto coloro che hanno una moglie con un titolo di studio elevato — possano non sentirsi all’altezza della situazione (Quinn, 1999). Uno stato d’animo interpretabile anche alla luce della capacità che la donna ha saputo, nel tempo, costruirsi un sempre più solido potere negoziale (Saraceno, 2012).

Una parte dei papà confessa di percepire attorno a sé un contesto che ha delle aspettative elevate, come se l’impegno assiduo sul versante lavorativo non bastasse a legittimare il loro ruolo all’interno della famiglia. Sensazioni che ricalcano le parole di Merucci quando scrive: «per la sola ragione che io sia un uomo, si crede che io sappia sempre cosa fare e che io possa anche farlo. Nessuno aiuta i padri, bisognerebbe prevedere un aiuto per i padri» (2006, p. 67).

Gli intervistati hanno descritto in modo decisamente positivo sia la relazione che hanno coi figli che sé stessi come genitori. Rientrando nel cosiddetto profilo del breadwinner (Zoja, 2016), è sul versante lavorativo che investono la maggior parte delle energie. Ma l’impegno professionale diventa, di fatto, una barriera per coloro che vorrebbero dedicarsi più frequentemente al figlio (Carpenter e Towers, 2008).10

La risposta alla prima domanda di ricerca, sulla percezione del ruolo paterno e della relazione educativa, è in chiaroscuro: sostanzialmente positiva se consideriamo le valutazioni globali degli intervistati; con qualche elemento di problematicità quando si sofferma su aspetti specifici (la mancanza di un modello di riferimento; il non sentirsi a volte all’altezza della situazione; il peso della responsabilità economica).

Gli esiti che hanno permesso di rispondere al secondo e terzo quesito d’indagine — sui temi Attività condivise e Sostegno all’autonomia — hanno evidenziato alcune contraddizioni. Come già illustrato nella sezione di presentazione dei dati, i papà confessano di avere un atteggiamento improntato a sollecitare l’emancipazione del figlio, eppure nella concretezza della quotidianità riconoscono, innanzitutto, che la maggior parte delle scelte dei figli sono «scelte guidate» dai genitori. Questo perché ritengono che i figli abbiano un basso livello di consapevolezza rispetto a ciò che è importante per loro e hanno bisogno di una semplificazione della gamma di scelte. I partecipanti non sono sembrati sufficientemente consapevoli che nei processi di scelta potrebbero porsi come mediatori tra la madre — orientata a proteggere il figlio anticipandolo nella scelta — e il figlio, favorendo lo spazio di sperimentazione di quest’ultimo, incarnando fattivamente l’essenziale ruolo evolutivo di terzo affettivo (Chirico, 1985; Cinotti, 2017).

In aggiunta, abbiamo visto che i padri sono impegnati soprattutto in situazioni relazionali asimmetriche piuttosto che in attività ludiche e di tempo libero votate alla reciprocità: scelgono, qualcuno consapevolmente, di dedicare il poco tempo disponibile a compiti di cura primaria, anche per sgravare la moglie dalle quotidiane fatiche educative.11

L’immagine, rielaborando alcuni spunti offerti in precedenza da Oliverio Ferraris (2012), è quella di un papà che:

  • non fugge di fronte ai conflitti ma sente la fatica della continua negoziazione familiare;
  • si impegna nel dialogo — concretizzando un «aver cura» con la parola (Boffo, 2008) — pur dimostrando poca confidenza coi temi delicati come la sessualità;
  • vive quotidianamente la sfida della «buona distanza», dichiarando di saper incoraggiare il figlio a uscire per andare in avanti, ma concretizzando in realtà un’azione educativa che si svela ancora sostanzialmente protettiva;
  • si sente più a suo agio nel manifestare il proprio affetto piuttosto che nel dire dei no.

A proposito di Sguardo ai servizi: quotidianità e aspettative di supporto, gli intervistati non sono molto soddisfatti dell’aiuto ricevuto: la valutazione dei servizi socio-educativo-sanitari durante la fase 0-18 anni del figlio è stata di 2,5 (a metà tra «poco» e «abbastanza» soddisfatti), mentre la media scende a 2,3 quando hanno valutato il supporto ricevuto dopo i 18 anni del figlio. In molti rivendicano la mancanza di un adeguato supporto psicologico alla paternità (media: 2,5) e chiedono di potersi incontrare maggiormente con altri genitori, meglio se tra soli papà, per creare un gruppo di sostegno nel quale il clima solidale possa essere costruito o attraverso laboratori di scrittura autobiografica (Gelati, 2008) o con delle attività pratiche condivise.12

Soffermandoci sulla riflessione in chiave professionale, quello che si potrebbe profilare è uno spazio dove costruire quella che Stern (1999) aveva definito «matrice di supporto», in grado come spiega Cinotti di «fornire un sostegno, che possa offrire una sicurezza nella costruzione delle proprie capacità genitoriali, anche grazie alla guida di chi ha già vissuto un’esperienza analoga» (2013, p. 58). Un’impalcatura che si ispiri alla prospettiva della co-educazione (Silva, 2016; Rayna, Rubio e Scheu, 2010), legittimando e dando valore alle competenze complementari di professionisti e genitori, permettendo a questi ultimi di «acquisire strumenti di lettura della realtà, di gestione della crisi, di consapevolezza […], di trasformazione flessibile delle strategie educative, di rielaborazione delle proprie rappresentazioni» (Formenti, 2001, p. 103).

Tale strategia si rivelerebbe efficace anche per mitigare stili educativi infantilizzanti che sono ancora eccessivamente presenti nelle biografie di queste famiglie (Caldin e Gajo, 2002; Carbonetti e Carbonetti, 2004). E per questa via, si andrebbe a rinforzare quella che Cinotti (2015) chiama, rifacendosi a Chirico (1985), funzione paterno-normativa ed etica: una funzione che non si identifica necessariamente col padre, ma riguarda più in generale la capacità di un genitore di richiedere prestazioni e di introdurre la frustrazione, calibrandola in modo graduale e a seconda della situazione, dell’età e della fase evolutiva del figlio, ossia quelle modalità educative che promuovono la crescita, l’autonomia e l’erranza dei figli, attraverso l’esperienza del limite, delle regole (p. 193).13

I partecipanti auspicano per i figli nuove possibilità di inserimento in gruppi di pari e chiedono anche più progetti di autonomia e di inserimento lavorativo. In sostanza desiderano che qualcuno si aggiunga — o si sostituisca, ci viene da ipotizzare — a loro proprio in quella funzione educativa socializzante che li dovrebbe rappresentare (Zoja, 2016). I professionisti non devono cadere nella trappola assistenziale che li faccia sostituire ai padri, ma devono piuttosto accompagnarli nel conquistare, ciascuno a proprio modo, un ruolo da protagonisti nei riti di iniziazione e nei processi di socializzazione di figli e figlie (Lepri, 2011).

Gli esiti confermano la necessità che l’intervento dei professionisti sappia essere dunque personalizzato: è essenziale individuare e riconsegnare ai genitori, e soprattutto ai padri, uno spazio di espressione e incontro anche all’interno dei servizi […] dove non esiste un modello unico, copiabile e riproponibile, ma dove ogni padre, ogni genitore, trova un’occasione di confronto, [...] opportunità con cui misurarsi per poter individuare percorsi educativi «personali», sintonizzati con le aspettative e le domande dei propri figli (Natalone, 2006, p. 11).

L’accompagnamento non va dato al solo ruolo di padre, ma a quell’uomo nella sua globalità, aiutandolo a trovare un buon equilibrio nell’esercizio dei vari ruoli sociali.

Contemporaneamente, il progetto di cura deve assumere uno sguardo evolutivo,14 deve farsi audace e innovatore (Caldin e Santi, 2017), attento a considerare anche la fase di vita familiare nel quale si colloca: il periodo adolescenziale è uno tra i più delicati e i papà possono avere la necessità di ricevere, più che in altri momenti, efficaci suggerimenti in chiave educativa per giocarsi al meglio il loro ruolo (Quinn, 1999).

In conclusione, la sfida che abbiamo di fronte è di co-costruire opportunità di ben-essere che sappiano, come precisa Caldin (2012), andare oltre gli svantaggi generati dalla situazione di disabilità del figlio, per abitare nei tempi e negli spazi dell’ordinarietà, poiché i bisogni, i desideri e le aspirazioni di un figlio con disabilità assomigliano non di rado a quelli di qualunque altro figlio: crescere, imparare, essere amato dai propri genitori, giocare e stare con i coetanei, saper lavorare e costruirsi una propria famiglia, dentro una storia personale originale, generatrice per questo di un’identità adulta autentica (Goussot, 2009; Mancuso 2009).

Bibliografia

Andolfi M. (a cura di) (2001), Il padre ritrovato: Alla ricerca di nuove dimensioni paterne in una prospettiva sistemico-relazionale, Milano, Franco Angeli.

Argentieri S. (2014), Il Padre Materno, Torino, Einaudi.

Baumann S.L. e Braddick M. (1999), Out of their element: fathers of children who are ‘not the same’, «Journal of Pediatric Nursing», vol. 14, n. 6, pp. 369-378.

Boffo V. (2008), Genitori di figli adolescenti: «aver cura» con la parola, «Rivista Italiana di Educazione Familiare», n. 1, pp. 101-109,

Boyraz G. & Sayger T.V. (2011), Psychological well-being among fathers of children with and without disabilities: the role of family cohesion, adaptability and paternal self-efficacy, «American Journal of Men’s Health», vol. 5, n. 4, pp. 286-296.

Caldin R. (2004), Vissuti genitoriali e figli con disabilità, «Studium Educationis», n. 3, pp. 536-545.

Caldin R. (2012), Verso dove? L’abitare familiare e insolito della Pedagoga Speciale. In L. D’Alonzo e R. Caldin (a cura di), Questioni, sfide e prospettive della Pedagogia Speciale, Napoli, Liguori, pp. 247-269.

Caldin R., Gajo S. (2002), Educare e prevenire. Una ricerca retrospettiva su depressione e famiglia, «Studium Educationis», vol. 1, pp. 102-123.

Caldin R. e Santi M. (2017), Prefazione. In Cinotti A. (2017), Padri e Figli con disabilità. Incontri generativi, nuove alleanze, Napoli, Liguori, pp. 1-2.

Cambi F. (2008), Tra padri e figli: un rapporto conflittuale… in trasformazione, «Rivista Italiana di Educazione Familiare», n. 1, pp. 39-44.

Canevaro A., Battaglia A. e Chiurchiù M. (2002), Figli per sempre. La cura continua del disabile mentale, Roma, Carocci.

Carbonetti D. e Carbonetti G. (2004), Mio figlio Down diventa grande. Lasciarlo crescere accompagnandolo nel mondo degli adulti, Milano, FrancoAngeli.

Carpenter B. (2002), Inside the portrait of a family: the importance of fatherhood, «Early Child Development and Care», vol. 172, n. 2, pp. 137-154.

Carpenter B. e Towers C. (2008), Recognising fathers: the needs of children with disabilities, «Support for learning», vol. 23, n. 3, pp. 118-125.

Chirico A. (1985), Tossicodipendenza e disagio giovanile, Torino, Omega.

Cinotti A. (2013), Essere padri: inclusi o esclusi? Uno sguardo sulla funzione paterna nella disabilità, «Formazione & Insegnamento», vol. 11, n. 1, pp. 53-62.

Cinotti A. (2015), Il ruolo educativo dei padri. Disabilità e nuove sfide a sostegno della genitorialità, «Formazione & Insegnamento», vol. 13, n. 2, pp. 191-199.

Cinotti A. (2017), Padri e Figli con disabilità. Incontri generativi, nuove alleanze, Napoli, Liguori.

Cinotti A. e Corsi M.F. (2013), L’educare dei padri con figli/e disabili. Riflessioni pedagogiche e progetto di ricerca, «Italian Journal of Special Education for Inclusion», vol. 1, n. 2, pp. 133-145.

Contini M.G. e Manini M. (a cura di) (2007), La cura in educazione: Tra famiglie e servizi, Roma, Carocci.

Davys D., Mitchell D. e Martin R. (2016), Fathers of people with intellectual disability: A review of the literature, «Journal of Intellectual Disabilities», vol. 21, n. 2, pp. 175-196.

D’Avenia A. (2016), L’arte di essere fragili, Milano, Mondadori.

De Singly F. (2010), Comment aider l’enfant à devenir lui-même, Paris, Fayard.

Di Nicola P. (a cura di) (2002), Prendersi cura delle famiglie, Roma, Carocci.

Formenti L. (2001), Il genitore riflessivo: premesse a una pedagogia della famiglia, «Studium Educationis», n. 1, pp. 100-110.

Fornari F. (1981), Il codice vivente. Femminilità e maternità nei sogni delle madri in gravidanza, Torino, Boringhieri.

Gelati M. (2008), Autobiografie di genitori di fronte alla disabilità, «Rivista Italiana di Educazione Familiare», n. 1, pp. 56-78.

Goussot A. (a cura di) (2009), Il disabile adulto. Anche i disabili diventano adulti e invecchiano, Rimini, Maggioli Editore.

Hadadian A. e Merbler J. (1995), Fathers of young children with disabilities: how do they want to be involved?, «Child and Youth Care Forum», vol. 24, n. 5, pp. 327-338.

Harrison J., Henderson M. e Leonard R. (2007), Different Dads: fathers’ stories of parenting disabled children, London, Jessica Kinglsey.

Kersh J., Hedvat T.T., Hauser-Cram P. e Warfield M.E. (2006), The contribution of marital quality to the well-being of parents of children with developmental disabilities, «Journal Of Intellectual Disability Research», vol. 50, pp. 883-893.

Lamb M.E. (a cura di) (2010), The role of the father. In child development, Hoboken, John Wiley & Sons.

Lepri C. (2011), Viaggiatori inattesi. Appunti sull’integrazione sociale delle persone disabili, Milano, FrancoAngeli.

Lepri C. (a cura di) (2016), La persona al centro, Milano, FrancoAngeli.

Levine J.A., Murphy D.T. e Wilson S. (1993), Getting men involved: Strategies for early childhood programs, New York, Scholastic.

Ly A.R. e Goldberg W.A. (2014), New measures of fathers of children with developmental challenges, Journal of Intellectual Disability Research, vol. 58, n. 5, pp. 471-484.

MacDonald E.E., Hastings R.P. e Fitzsimons E. (2010), Psychological acceptance mediates the impact of the behaviour problems of children with intellectual disability on fathers’ psychological adjustment, «Journal of Applied Research in Intellectual Disabilities», vol. 23, pp. 27-37.

Mancuso V. (2009), La vita autentica, Milano, Raffaello Cortina Editore.

May J. (1996), Fathers: the forgotten parent, «Pediatric Nursing», vol. 22, n. 3, pp. 243-246.

Meltzer D. e Harris M. (1986), Il ruolo educativo della famiglia. Un modello psicoanalitico del processo di apprendimento, Torino, Centro Scientifico Torinese.

Merucci M. (2006), Etre père d’enfant handicapé. Une réflexion sur la fonction paternelle, «Thérapie Familiale», vol. 27, n. 1, pp. 61-73.

Montobbio E. e Lepri C. (2000), Chi sarei se potessi essere. La condizione adulta del disabile mentale, Tirrenia, Edizioni Del Cerro.

Oliverio Ferraris A. (2012), Padri alla riscossa: Crescere un figlio oggi, Firenze, Giunti.

Parmeggiani R. (2015), L’uomo come padre e il padre in quanto uomo. Archetipi del maschile in letteratura, «Accaparlante», n. 1, pp. 9-14.

Pietropolli Charmet G. (1995), Il nuovo padre, Milano, Mondadori.

Pleck J.H. (2010), Paternal Involvement: Levels, Sources and Consequences. In M.E. Lamb, The Role of Father in child Development, New York, Wiley.

Quinn P. (1999), Supporting and Encouraging Father Involvement in Families of Children Who Have a Disability, «Child and Adolescent Social Work Journal», vol. 16, n. 6, pp. 439-454.

Rapoport R. e Rapoport R.N. (1982), British Families in transition. In R.N. Rapoport, R. Rapoport e M.P. Fogarty (a cura di), Family in Britain, Routledge, London.

Rayna S., M.N. Rubio e H. Scheu (2010), Parents-professionnels: la coéducation en questions, Toulouse, Érès.

Recalcati M. (2011), Cosa resta del padre? La paternità nell’epoca ipermoderna, Milano, Raffaello Cortina.

Recalcati M. (2013), Il complesso di Telemaco: Genitori e figli dopo il tramonto del padre, Milano, Feltrinelli.

Ricoeur P. (1990), Sé come un altro, Milano, Jaca Book.

Rivard M.T. e Mastel-Smith B. (2014), The lived experience of fathers whose children are diagnosed with a genetic disorder, «Journal of Obstetric, Gynecologic and Neonatal Nursing», vol. 42, pp. 38-49.

Salomone I. (2011), Con gli occhi di padre: Viaggio intorno a quel che resta del mondo, Trento, Erickson.

Saraceno C. (2012), Coppie e famiglie. Non è una questione di natura, Milano, Feltrinelli.

SCIE (2005), Research briefing 18: Being a father to a child with disabilities: issues and what helps, London, Social Care Institute for Excellence.

Sellenet C. (2006), Nuovi papà, bravi papà, Milano, Fabbri.

Silva C. (2016), L’encouragement à la coéducation dans les milieux éducatifs urbains, «Rivista Italiana di Educazione Familiare», n. 2, pp. 7-17.

Solomon A. (2013), Lontano dall’albero: Storie di genitori e figli che hanno imparato ad amarsi, Milano, Mondadori.

Stern D. (1999), Nascita di una madre: come l’esperienza della maternità cambia una donna, Milano, Mondadori.

Veglia F. (2000), Handicap e sessualità: il silenzio, la voce, la carezza, Milano, FrancoAngeli.

Verga M. (2014), Un gettone di libertà, Milano, Mondadori.

Visentin S. (2016), Progetti di vita fiorenti, Napoli, Liguori.

Visentin S., Caldin R. e Chiandetti L. (2015), Families with pluridisabled children: the parental point of view on their relationship with health and social services. In E. Kourkoutas, Hart A., Mouzaki A. (a cura di), Innovative practise and intervention for children and adolescents with psychosocial difficulties and disabilities, London, Cambridge Scholar Publication.

Visentin S. e Strobbe E. (2014), Autonomi assieme, ciascuno a proprio modo. I percorsi di autonomia per adolescenti e giovani adulti con sindrome di Down, visti con gli occhi dei genitori, «L’integrazione scolastica e sociale», vol. 13, n. 1, pp. 67-80

Zanfroni E. (2005), Educare alla paternità tra ruoli di vita e trasformazioni familiari, Brescia, La Scuola.

Zanniello G. (2016), L’integrazione dei compiti della madre e del padre nell’educazione dei figli e delle figlie, «Rivista Italiana di Educazione Familiare», n. 1, pp. 145-161.

Zoja L. (2016), Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, Torino, Bollati Boringhieri.


1 Docente e ricercatore presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia, Psicologia Applicata (FISPPA) dell’Università di Padova.

2 Professor and researcher, Department of Philosophy, Sociology, Pedagogy, Applied Psychology (FISPPA), University of Padova.

3 Nel testo, con «figlio» ci riferiamo sempre sia al genere maschile che al genere femminile.

4 L’autrice francese fa notare la somiglianza tra la parola père (padre) e repère (riferimento).

5 La definizione del problema di ricerca è frutto di un confronto dell’autore nel periodo 2012-2016 con: Roberta Caldin (Università di Bologna), Fabio Bocci e Francesca Maria Corsi (Università di Roma Tre), Alessia Cinotti (Università di Torino), Margherita Merucci (Université Catholique de Lyon).

6 I dati sono presentati seguendo la mappa tematica che ha caratterizzato questionario e focus group: per ogni sezione, quindi, i dati quantitativi saranno illustrati per primi e poi integrati dai dati qualitativi. I primi sono stati analizzati attraverso il software SPSS (statistiche descrittive), mentre per le conversazioni di gruppo, una volta sbobinate, si è proceduto con l’analisi del contenuto con il software Atlas.ti. Si precisa che nella presentazione dei dati i virgolettati sono porzioni di testo ricavate appunto dai focus group.

7 Dato in linea con quanto rilevato anche da altri studi, vedi Harrison, Henderson e Leonard, 2007.

8 Le domande a risposta multipla prevedevano una scala Likert a cinque punti: 1: «per niente»; 2: «poco»; 3: «abbastanza»; 4: «molto»; 5: «del tutto».

9 Tale dato va riletto alla luce di una situazione sociale e lavorativa più ampia. Secondo i dati di Eurostat, l’Italia è tra i Paesi europei nei quali è più ampia la forbice tra l’occupazione maschile e quella femminile. Se le medie europee parlano di un 70,1% di uomini occupati contro il 59,6% di donne, nel nostro Paese i maschi occupati sono il 65,5% del totale contro il 47,2% delle donne (fonte: http://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php/Category:Employment). Inoltre, seppure il numero di matrimoni sia costantemente in diminuzione anche in Italia, tale istituto rappresenta il 71,2% di tutti i nuclei familiari (fonte: https://ec.europa.eu/eurostat/statistics-explained/index.php?title=Archive:Statistiche_demografiche_a_livello_ regionale).

10 Un atteggiamento che aveva già trovato riscontro in letteratura negli anni Novanta: si veda Hadadian e Merbler, 1995; May, 1996; Quinn, 1999.

11 Dato confermato anche dalla letteratura: si veda Kersh, Hedvat, Hauser-Cram e Warfield, 2006.

12 Questi dati sulle aspettative paterne in merito al supporto dei professionisti sono in linea con altre indagini. Si veda: Levine, Murphy e Wilson, 1993; Ly. e Goldberg, 2014; Davys, Mitchell e Martin, 2016.

13 Sullo sfondo, teniamo a mente che i processi emancipativi non sono problematici solo per le famiglie con un figlio disabile: il Rapporto Giovani del 2016 evidenzia infatti che il 60% dei giovani tra i 25 e i 30 anni viva ancora con i genitori (www.rapportogiovani.it).

14 Questa prospettiva è suggerita anche in un recente contributo di Cinotti e Corsi, 2013.

 

Indietro