Vol. 19, n. 1, febbraio 2020 — pp. 1-2
EDITORIALE
Chi sono loro? Chi sono gli altri?
Sembra che certi esseri umani siano diversi. Mentre altri giocano, fanno sport e si divertono, loro fanno attività ludiche o ludoterapia. Se lavorano, mentre gli altri faticano per realizzare qualcosa, loro fanno terapia occupazionale. Orto terapia. Altri dipingono, disegnano, cantano, ballano, recitano. Loro fanno arte terapia, danza terapia, teatro terapia. Sembrerebbe che certi esseri umani siano particolari, speciali. Per loro vengono utilizzate parole ed espressioni particolari, speciali.
Sono parole ed espressioni che avvicinano o separano? Intrecciano o allontanano?
In un’orchestra, gli orchestrali suonano strumenti diversi uno dall’altro. Hanno tutti lo stesso spartito. Dovremmo avere tutti e tutte lo stesso linguaggio, che dovrebbe attingere a parole di tutte e tutti. C’è chi è orchestrale, e legge lo spartito di tutti i musicisti dell’orchestra sapendo che anche l’illustre compositore lo leggeva; e c’è chi applaude dal pubblico non sapendo leggere uno spartito.
Le parole possono essere utilizzate, senza loro colpa, per segnalare che qualcuno è su un gradino più su di qualcun altro. Sono messe al servizio di una organizzazione gerarchica che può sembrare naturale. Questa è la realtà in cui ci è dato vivere. Possiamo accettarla con fatalismo. Accettarla approfittandone per fare carriera. O accettarla per cambiarla. Passività. Carrierismo, anche accademico. O accettazione responsabile. È superfluo dichiarare la nostra preferenza. Bisogna praticarla. La materia non dovrebbe essere personalizzata. Può essere trattata con un certo distacco. Prendiamo atto, e vediamo cosa è bene fare. Essendo questa una rivista che si occupa di inclusione, possiamo partecipare alla dinamica del cambiamento che non dovrebbe negare la realtà da cui partire. Le parole vengono ricevute con un significato. Possono essere rilanciate con un senso significante diverso. Tutti siamo arrivati al mondo trovandolo già organizzato con un linguaggio che ha i significati condivisi, giusti o meno giusti che siano. Venendo al mondo, ciascuno di noi ha fatto il tentativo di creare, attraverso vocalizzi vari, un proprio linguaggio originale. Abbiamo capito, con la pratica, che potevamo usare le parole che sentivamo con le nostre intenzioni. Potevamo aggiungere o togliere gentilezza e affetto, ma anche arroganza o rabbia, a una parola che ci era arrivata con tono neutro e inerte. Abbiamo capito vivendo che la parola è il passaporto, ma che la direzione del viaggio è anche nostra. Non perché siamo onnipotenti. Ma perché possiamo assumerne la responsabilità. Dargli un senso. È vero che lo abbiamo capito? Probabilmente la comprensione impegnerebbe tutta una vita. Anche la vita di una rivista. Che usa i mezzi che la realtà mette a disposizione e non rinuncia a cercare di esprimere le sue intenzioni.
Le parole nostre e le loro. Sono le stesse, e quelle un po’ troppo speciali possono indurre a conoscenze condivise, fra chi le ha studiate nei libri e chi le vive giorno dopo giorno. Senza l’enfasi della testimonianza eccezionale. Con la cura paziente e impaziente insieme che esige ogni dinamica evolutiva. In un intreccio che ha per motto «lavori in corso». Il linguaggio è un cantiere. Come tutti i cantieri può sembrare caotico e indurre qualcuno a gettarci rifiuti. Chi lavora nel cantiere ha la pazienza di mettere ordine senza sentirsi né diminuito, né costretto a ricominciare tutto da capo. Si va avanti. Non sentendosi obbligati a censurare «ludoterapia», ma con l’esigenza di chiarire e conoscere. Se questo contribuisse a fare in modo che tutte e tutti giochino, si divertano, facciano sport…
Andrea Canevaro