Vol. 24, n. 1, febbraio 2025

PROSPETTIVE E MODELLI ITALIANI

Le relazioni di aiuto. Per una rivisitazione degli studi di Andrea Canevaro

Marika Savastano1

Sommario

L’articolo sviluppa una serie di argomentazioni su alcune teorizzazioni di Andrea Canevaro che riguardano il tema delle relazioni di aiuto. In particolare, l’analisi ha riguardato l’iter normativo sulla classificazione delle malattie, evoluto nel documento ICF, che ha promosso una nuova visione del deficit, ovvero riguarda il funzionamento della persona con disabilità; la considerazione del contesto in cui sono inserite le persone coinvolte nella relazione; la logica duale dominante e la necessità di acquisire una logica plurale; l’accettazione della diversità e la coevoluzione educativa; la funzione del linguaggio nell’interpretazione della realtà circostante e la necessità di cambiare prospettiva; infine, la drammatizzazione della sofferenza come bisogno comune di dare spazio ai «sentimenti», determinanti nello sviluppo della consapevolezza comune e collettiva. L’articolo ha lo scopo di proporre una nuova linea di ricerca sul tema delle relazioni di aiuto, che riguardi la possibilità di delineare una serie di approcci validi, da poter applicare nelle relazioni di aiuto concrete.

Parole chiave

Logica plurale, Coevoluzione educativa, Ambiente/contesto, Inclusione sociale.

ITALIAN MODELS AND PERSPECTIVES

Helping relationships. For a review of Andrea Canevaro’s studies

Marika Savastano2

Abstract

The article develops a series of arguments on some of Andrea Canevaro’s theories, which concern the theme of helping relationships. In particular, the analysis concerned the regulatory process on the classification of diseases, evolved into the ICF document, which promoted a new vision of the deficit, it concerns the functioning of the person with disabilities; the consideration of the context in which the people involved in the relationship are inserted; the dominant dual logic and the need to acquire a plural logic; acceptance of diversity and educational coevolution; the function of language in the interpretation of the surrounding reality and the need to change perspective; finally, the dramatization of suffering as a common need to give space to «feelings», which are decisive in the development of common awareness and the development of the common consciousness of the human being. The article aims to propose a new line of research on the topic of helping relationships, which concerns the possibility of outlining a series of valid approaches, which can be applied in concrete helping relationships.

Keywords

Plural logic, Educational coevolution, Environment/context, Social inclusion.

Non può esistere il pieno senza il vuoto, in quanto il troppo pieno si svuoterebbe di significato, perché non avrebbe la possibilità di riconnettersi con il suo significante, che scaturisce dalla coesistenza inevitabile con il troppo vuoto […] Mi interessa il tema della conoscenza e dell’apprendimento come trama che permette di elaborare una struttura simbolica tale da integrare il previsto e l’imprevisto, la continuità e la discontinuità (Canevaro, 2015, p. 19).

Introduzione

Andrea Canevaro (1939-2022), nei suoi studi sulla disabilità, ha fornito costrutti pedagogici che riguardano l’essere umano nella sua unicità costituente, con o senza disabilità, trasmettendo al pubblico di lettori le conoscenze chiave per una nuova interpretazione della disabilità e dell’handicap, in una dimensione che si sviluppa tra realtà e simbolismo, favorendo la riflessione e l’elaborazione di nuove linee di ricerca sul tema della relazione di aiuto.

I parametri che definiscono la differenza tra disabilità e handicap derivano dall’evoluzione degli strumenti di classificazione delle patologie organiche, comportamentali e psichiche, elaborati dall’Organizzazione Mondiale della Sanità a partire dal secolo scorso.

Nel 1970 l’OMS ha elaborato l’ICD (International Classification of Diseases), che classifica le patologie in base a caratteristiche fisiologiche ed eziologiche dei disturbi; nel 1975 ha emanato l’ICDH (International Classification of Impairments, Disabilities and Handicap), un’appendice che riguarda le conseguenze correlate alle malattie classificate nell’ICD; le due classificazioni sono state complementari fino al 1999.

L’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), elaborata nel 2001, è il risultato di un lungo percorso che stabilisce la differenza tra deficit e handicap, focalizzando l’attenzione sulle abilità residue, le condizioni ambientali e socioculturali in cui il soggetto vive, e il benessere che ne deriva, sulla base dell’interazione con tali contesti.

Canevaro e Chiaregatti (1999, p. 18) sostengono che la differenza tra deficit e handicap deriva dalla necessità di non considerare alcun rapporto irreale, ovvero di sola accettazione, che può produrre una totale dipendenza o destrutturazione. La distinzione tra deficit e handicap implica la considerazione del binomio di accettazione/rifiuto nei rapporti interpersonali, che costituisce un’evoluzione di un pensiero rigido, lineare e dicotomico, il quale considera esclusivamente soltanto una delle due variabili nelle relazioni interpersonali, e si basa su sistemi simbolici «stagnanti», che non rispecchiano la complessità della realtà circostante, ma piuttosto implicano un errore interpretativo.

In definitiva, tale distinzione viene fatta alla luce della necessità di saper individuare e distinguere realtà simbolica e realtà concreta, per evitare l’errore conoscitivo accennato prima nei confronti di una persona con deficit, che provoca la destrutturazione della sua identità.

Le relazioni di aiuto possono basarsi su una «logica di confine» (Canevaro, 2006), che protegge l’individuo con deficit in un «involucro», il quale non gli consente di essere libero e autonomo, oppure su una «logica dei sentieri» (Canevaro, 2017), che implica la costruzione di un progetto di vita della persona con deficit prestabilito senza la sua considerazione e partecipazione.

Si rende necessario basare la relazione di aiuto sulla «logica delle scale» (Canevaro, 2017), che pone l’attenzione sul funzionamento dell’individuo nella relazione, equilibrando sia i bisogni soggettivi della persona con deficit che le risorse oggettive che sono necessarie per far fronte all’aiuto, senza che ci sia un’esclusiva burocratizzazione delle pratiche, che intendono controllare le persone con deficit.

Secondo Dowing (1995) ci sono diverse forme di aiuto:

  • il sostegno di accompagnamento, ovvero la presenza di una persona che rappresenta un punto di riferimento nella gestione di situazioni problematiche, per la persona con deficit;
  • il sostegno di controrisposta, che fornisce risorse immediate ai bisogni del soggetto con deficit, e può essere progettato senza innescare dipendenza nella relazione;
  • il sostegno della mano anonima, che si riferisce all’aiuto derivante dagli interscambi soggettivi in determinate situazioni e circostanze che si possono creare, e può implicare l’induzione di necessità del sostegno fiduciario, ovvero di ricerca di una persona di fiducia per il soggetto con deficit;
  • il sostegno a ping-pong, che implica l’impegno del proprio tempo e delle proprie possibilità verso persone che hanno bisogni speciali, non è facilmente generalizzabile e implica una progettazione educativa partecipata e consapevole;
  • il sostegno di confine, che è donato da una persona che rappresenta un punto di riferimento e può implicare conflittualità determinata dalla restrizione del confine, che può essere flessibile; in definitiva, si tratta di una base sicura intesa come luogo dove poter ritornare (Bowlby, 1996).

L’articolazione e la modulazione dei sostegni sono contemporaneamente l’articolazione dei bisogni e la scoperta delle competenze. Nelle relazioni di aiuto si devono sviluppare competenze di autonomia, negoziali, regolative, di richiamo e sganciamento, legate alla scelta del tempo giusto, dello stile, al controllo di sé e della situazione. In definitiva, si rende necessaria una progettazione che vada dal sostegno duale al contesto.

Da una logica duale a una logica plurale

Secondo Canevaro (2008) la società contemporanea è basata su una logica duale basata sul potere economico, ad esempio, dentro-fuori, ricchi-poveri, vincenti-perdenti, il bene sta nella ricchezza e il male nella povertà. Apparentemente, la ricchezza può permettere l’acquisto della bontà, dell’onestà, della salute, della bellezza, mentre la povertà implica il contrario. La logica duale procede attraverso un sillogismo associativo quasi automatico, ovvero si procede per logiche a catena e contrapposte.

Il meccanismo funziona con l’effetto della parola «valigia» (De Kerckhove e Bassi, 1993), che fa scattare un automatismo, inibendo la riflessione. In questo meccanismo, le catene di parole-valigia non contengono informazioni per riflettere, ma informazioni svuotate di riflessione e capaci di far scattare, come un interruttore, un riflesso automatico; il riflesso inibisce la riflessione. Nelle logiche contrapposte si possono distinguere due processi, di umanizzazione e disumanizzazione, vissuti come naturali e indotti, più che agiti direttamente. In questo senso, si evitano anche i sensi di colpa, perché tutto avviene come un fenomeno di natura o voluto da altri. Di conseguenza, anche le persone con disabilità si collocano nel binomio dentro/fuori, attraverso un misto di selettività e pietismo.

La selettività permette di esibire chi, pur avendo una disabilità, riesce a conquistare visibilità, perché presenta caratteristiche omogenee a chi si trova dalla parte del bene; l’accentuazione della disabilità come differenza risulta funzionale alla conferma della bontà sostanziale della logica duale, che si deve presentare aperta ai «meritevoli». Questa dinamica si attua attraverso un pietismo difensivo, ovvero che tiene a distanza chi si considera, al massimo, degno della pietà altrui.

Esistono due tipologie di pietismo: il pietismo conservatore e il pietismo evolutivo. Il pietismo conservatore può essere descritto da preposizioni esemplificative come «decido io chi aiutare» (Canevaro, 2017); «so io chi ha davvero bisogno» (Canevaro, 2017); «gli aiuti devono andare a chi veramente li merita» (Canevaro, 2017). Il pietismo evolutivo, invece, avvicina condizioni umane ritenute inferiori; è un contatto; il contatto «apre» un periodo di tempo da dedicare a un servizio; il servizio mostra che c’è un’organizzazione alla base; l’organizzazione favorisce l’alfabetizzazione istituzionale; l’alfabetizzazione istituzionale mostra i compiti delle istituzioni; i compiti delle istituzioni trasmettono la prospettiva dei diritti e dei doveri.

Per esemplificare la suddetta logica si riporta il pensiero di Latouche (1992) sul comportamento colonialista delle società occidentali nei confronti delle culture altre, ovvero egli affermava che le società occidentali acquistavano potere e prestigio attraverso il dono, che gli consentiva di elevarsi a una posizione superiore rispetto alle culture bisognose di aiuto, perché il dono assumeva valore economico non risarcibile per queste ultime, ovvero nulla poteva colmare il debito. Oltre all’impossibilità di risarcire il creditore da parte delle culture più povere, esse non sono considerate da un punto di vista di identità culturale. Questa mancata considerazione, da un lato, può comportare cedimento e mancata resistenza alla volontà di annullare la propria identità, che può provocare perdita dell’identità, dall’altro può scoprire una linea di resistenza alla volontà di prevaricazione dell’altro, in caso di resistenza a non rinunciare alla propria identità. «Non si rifiuta la medicina che salva la vita, il pane che allevia la miseria, l’oggetto sconosciuto e magico che seduce e dal quale si può trarre prestigio di fronte alla propria cultura» (Canevaro e Chieregatti, 2015, p. 71).

Secondo Canevaro «in una relazione vi sono elementi da accettare e accettabili, e altri da rifiutare. […] accettazione e rifiuto è bene che convivano, evitando di privilegiare uno solo dei due termini» (Canevaro e Chiaregatti, 2015, p. 18). Tali atteggiamenti non sono pensabili e spiegabili con un pensiero rigido e cristallizzato, ma attraverso un pensiero complesso (Morin, 1999), che tiene conto di molteplici fattori che rientrano in ciò che Canevaro ha chiamato «contesto integratore di continuità e discontinuità» (Canevaro e Chiaregatti, 2015, p. 19).

«Il concetto di complessità designa la possibilità di descrivere l’unità (di un sistema, di un ambiente, del mondo, ecc.) ricorrendo alla distinzione fra gli elementi e le relazioni di cui essa si compone» (Luhmann, 1992). «[…] si è accumulato un immenso sapere sull’umano, sulle sue origini, sulla sua natura, sulle sue complessità. Ma questo sapere è disperso, parcellizzato e compartimentato fra tutte le scienze, e l’impotenza o l’incapacità di riunire questo sapere mantiene un’immensa ignoranza sulla nostra identità» (Morin, 2018, p. 85). In definitiva, la valorizzazione delle persone con disabilità promuove una logica plurale, vantaggiosa perché tiene conto della realtà plurale.

Dalla funzione del linguaggio alla coevoluzione educativa

Il linguaggio scritto è uno strumento di base per una cultura e può essere utilizzato per manipolare le masse di persone che non detengono la padronanza e la competenza tecnica di tale strumento (Olson e Torrance, 1986). Il sistema connettivo del linguaggio scritto ha in sé dei limiti, che non sono negativi o positivi e non sono definitivi: può comprendere spazi vuoti che evidenziano spazi pieni; le due parti diverse sono tali perché poste in relazione tra loro. Tale dinamica di scrittura può sfociare intenzionalmente in un simbolismo eccessivo, che manipola l’interpretazione della realtà.

Valentin Haüy descrive il momento in cui ha elaborato una lingua per soggetti ciechi esclusi dal linguaggio scritto, in una lettera a suo figlio (Swain, 1994). Haüy era il segretario di Luigi XVI e ricopriva un ruolo di prestigio e potere: il suo compito era quello di tradurre le lingue straniere e quelle ritenute illeggibili. Egli occupava una posizione di frontiera, in cui aveva facoltà di essere annunciatore di centralità oppure di altre centralità (relativismo). Nel 1782, mentre accompagnava la granduchessa di Russia, che passeggiava sul boulevard della Place Louis XV con il granduca suo consorte, vide una decina di ciechi bizzarri, con cappelli di carta e occhiali di cartone, che avevano davanti a loro spartiti aperti inutilmente e che suonavano male, tutti insieme contemporaneamente. Fuori dal cafè erano stati scritti otto versi di derisione su di loro. Haüy capì che il contesto culturale in cui si trovavano li collocava in una posizione di subalternanza statica, non dinamica. Perciò ha progettato delle parole in rilievo che potevano comprendere con il tatto; tuttavia, non sapeva se gli stesse arrecando beneficio, ovvero pensava che lui stesso potesse nutrire disagio, ma non le persone cieche. È certo che Haüy ha sentito un senso ingiustizia per le persone cieche.

Queste persone nel linguaggio scritto rappresentavano un «pieno sociale» (Swain, 1994, p. 21), un «pieno di assistenzialismo» (Swain, 1994, p. 21), da cui le persone con deficit faticano a svincolarsi, perché non sono autonome e temono di cadere nel «vuoto di assistenzialismo» (Swain, 1994, p. 22), vivono il cambiamento come una minaccia di abbandono. Il rapporto tra pieno e vuoto viene definito sulla base di due intenzionalità: la prima svaluta la persona che ha bisogno di aiuto; quindi, il pieno sociale di assistenzialismo agevolerebbe la persona che ha bisogno di aiuto, perché è ritenuta incapace (ad esempio, il concetto di copertura dell’orario scolastico corrisponde simbolicamente al pieno di assistenzialismo); la seconda considera l’esclusione sociale in strutture residenziali e/o socioassistenziali e corrisponde simbolicamente al troppo vuoto.

La categorizzazione del pensiero implica l’identificazione delle persone con il loro deficit; il comportamento assistenzialistico descritto prima, da parte di chi si prende cura, provoca un atteggiamento di rifiuto del deficit da parte delle persone in cura e un atteggiamento di ricerca di privilegi generici (ad esempio, l’accettazione inconsapevole del pieno di assistenzialismo), l’incapacità emotiva di gestire piccoli problemi quotidiani e la ricerca di soluzioni immediate. Con questo approccio non c’è coevoluzione educativa.

In una relazione di aiuto si deve favorire lo sviluppo di maggiori richieste specifiche da parte delle persone in cura, che promuove una riduzione della disabilità e coevoluzione educativa; si deve trasmettere il senso del tempo, insito nella progettazione educativa, la conoscenza della storicità delle barriere, l’elaborazione di previsioni sul proprio percorso, che possono prevedere l’impossibilità di abbattere le barriere e la capacità di raggirarle (Canevaro, 2017). In altre parole, in una relazione co-educativa si deve promuovere un’educazione morale basata sulla responsabilità, che determini un senso di appartenenza a una struttura più ampia e sviluppi competenze di trasferibilità e generalizzazione — consumismo non significa sfruttare la terra, ma osservarla, rispettarla, praticare democraticamente la prevenzione e la manutenzione, consapevoli che tutti beneficiano delle nostre buone azioni in essa e che noi stessi potremo non beneficiarne. Questo tipo di relazione promuove uno sviluppo affettivo consapevole, in cui la persona con deficit percepisce che la sofferenza che prova per la propria condizione ha un senso, che ha l’obiettivo della propria riabilitazione. In definitiva, una relazione di aiuto si deve configurare attraverso un processo di coevoluzione reciproca degli apprendimenti.

Il contesto tra continuità e discontinuità

Il rapporto tra «pieno» e «vuoto» si intreccia con altre variabili come continuità e discontinuità, che hanno un peso significativo in certe prospettive interpretative. Una certa preoccupazione scolastica (Canevaro e Chieregatti, 2015) ha collocato il bene nella continuità, intesa come sviluppo lineare, e il male nella discontinuità, intesa come indifferenziazione. Tuttavia, l’indifferenziazione può scaturire anche dalla continuità: un pensiero lineare che non accetta punti di vista diversi. Renè Girard (1980) individua nella società che accetta la diversità un segno di salute; mentre individua nella società che non accetta la diversità un segno di disagio.

La continuità dovrebbe convivere con la discontinuità, così come il troppo pieno dovrebbe convivere con il troppo vuoto, anche se l’equilibrio tra le parti rischia di essere banalizzato (ad esempio, la pedagogia istituzionale si basa su una logica di complessità, ma nella prassi si trasforma in un eccessivo pragmatismo, che rischia di attribuire l’integrazione tra continuità e discontinuità al compito di programmazione). Il contesto integratore andrebbe ricondotto al significato etimologico di religione: re-legere, ovvero scegliere, con frequenza (re), guardare con attenzione (legere), e anche a re-ligare, ovvero mettere insieme. «Una struttura simbolica fa collegare pezzi diversi secondo un disegno unitario che precedentemente era forse intuibile ma non visibile pienamente» (Canevaro e Chiaregatti, 2015, p. 24). Lo sfondo integratore come struttura connettiva presuppone la consapevolezza dei caratteri di continuità e discontinuità della realtà circostante.

Contesto deriva dal latino con-texere, ovvero tessere insieme, mentre ambiente deriva dal latino ambire, ovvero andare attorno; il contesto è caratterizzato da significati simbolici, mentre l’ambiente è ciò che ci circonda. L’ambiente può ispirare per «leggere» un contesto, può contenere diversi contesti, può contenere l’imprevisto che produce cambiamenti, è una parte fondamentale del progetto educativo. Si rischia di trasformarlo in eccessivo razionalismo, che si basa su una sola funzionalità monocratica, ovvero che tende a ignorare elementi del contesto apparentemente inutili (Canevaro, 2017).

Uno dei campi più affascinanti per la contemporaneità e per la comprensione dei fenomeni storici è l’analisi delle relazioni di aiuto complesse; nello specifico, lo studio sul campo di concentramento di Auschwitz, sulle dinamiche di prevaricazione nelle relazioni tra culture ed etnie diverse, attraverso tre elementi fondamentali: ricerca azione; rapporto tra volontà di disumanizzazione e violenza e ricerca di una linea di resistenza alla violenza e umanizzazione; rapporto profondo tra resistenza alla violenza, riconoscimento dell’altro e il principio di responsabilità.

Kurt Gerstein (Friedlaner, 1967) si arruolò nei corpi nazisti cercando di trasmettere le conoscenze all’esterno, per avere una conoscenza precisa dello sterminio, ma ottenne solo la morte; questo episodio ha portato alla riflessione sul secondo aspetto: Bruno Bettelheim, che ha vissuto personalmente il campo di concentramento, si è imbattuto in situazioni che ha chiamato «esperienze estreme», che lo hanno fatto riflettere sul rapporto tra volontà di disumanizzazione e ricerca di una strategia di resistenza. La ricerca di una via di resistenza è collegata, in un rapporto profondo, al riconoscimento dell’altro e al principio di responsabilità, ampiamente esposto da Hans Jonas (1993).

Il principio di responsabilità consiste nella consapevolezza della vulnerabilità della natura umana, nel riconoscimento dei suoi diritti, e del fatto che la conoscenza ha un ruolo fondamentale nell’etica; la conoscenza implica la consapevolezza che le conseguenze della propria azione possono avere ricadute lontane nel tempo: «L’individuo consapevole dovrà ogni volta porsi nell’ottica di poter desiderare in seguito (col senno di poi) di non aver agito o di aver agito diversamente» (Canevaro e Chieregatti, 2015, p. 29).

Bisogno di sofferenza e bisogno di diversità

Renato Barilli (1997), in un articolo intitolato E l’oltraggio dei corpi si fa arte, critica il decano dei critici d’arte Gillo Dorfless che afferma che la spettacolarizzazione della disabilità è inaccettabile. La spettacolarizzazione rappresentava un aspetto di «eternità» delle persone con disabilità, come avviene per i bambini, esente dal «principio di realtà» teorizzato da Freud (1920) e dal «principio di prestazione» teorizzato da Marcuse (Arrigoni, 2003), e ha svelato la necessità di prendere parte a una «porzione» di eternità per gli individui che vivono l’attualità.

Maria Grazia Gregori (1997), nel suo articolo intitolato Corpo di scena da Blixan Aidaun, quando il dolore diventa spettacolo, si chiede se la spettacolarizzazione delle persone con disabilità sia giusta. Sembra che ci sia la necessità di fare i conti con il volto oscuro, «maledetto», della creatività, nonostante si sia convinti di fare a meno della sofferenza in questa epoca: è meglio rinunciare alla perlustrazione del corpo che imbattersi in un’organizzazione mostruosa del reale attraverso la dimostrazione «di infermità e di sofferenza» (Canevaro e Chieregatti, 2015, p. 74). Questa drammatizzazione viene accolta dal pubblico, che partecipa alla scena caratterizzata da razionalità e irrazionalità, dalla necessità di aggressività, dall’amore come onnipotenza, da separatezza e collettività, dallo smascheramento dell’inconscio (Canevaro e Chieregatti, 2015).

Le intenzioni degli scrittori, spesso, non corrispondono alle necessità delle persone che hanno bisogno di aiuto:

Evidentemente chi compone un articolo di questo genere non sa nulla di quello che scrive o, meglio, lo sa in funzione unicamente di quello che è lo scopo della sua scrittura, ma senza entrare in un contatto dialogico e di reciprocità con il soggetto di cui parla. Non sa che down minuscolo è un termine inglese che vuol dire qualcosa di non molto lusinghiero per il soggetto che viene indicato, perché probabilmente potrebbe essere interpretato, nella traduzione letterale, come «sub», sotto: una sottospecie, un sottouomo, un sottoindividuo (Canevaro e Chieregatti, 2015, p. 74).

La persona con disabilità viene identificata con il deficit, per mantenere un parametro di confronto e distinzione dal resto della società.

Canevaro afferma che le professioni sono state organizzate attorno alla permanenza della sofferenza, a una forzatura di interpretazione di sofferenza della diversità e a un’economia fatta di ruoli professionali (Canevaro e Chieregatti, 2015, p. 75).

In tal senso esiste una distinzione tra professionalità e professionismo: la prima significa entrare in ascolto non giudicante con la persona con disabilità, conoscerla e conoscersi in una relazione di coinvolgimento reciproco, per costruire un progetto formativo, attraverso la partecipazione attiva di entrambi, attraverso una prospettiva lungimirante e progressiva.

Il professionismo è un attività che, al massimo, si può prolungare fino a una buona giornata di benevolenza, che non si assume responsabilità e che se si basa sullo slittamento dell’azione da un’attività di reciproco aiuto volontario a un’attività in cerca di remunerazione redditizia ed economica (Canevaro e Chieregatti, 2015, p. 75).

Icaro ha voluto cambiare, volare da solo, alzarsi, ma nel modo sbagliato... infatti la vicenda è terminata male. Dal primo obiettivo chiaro che ha raggiunto ne ha visto un altro più ambizioso in cui ha fatto «il volo solitario» di raggiungere il sole, che poi lo ha portato alla morte. Questo pericolo è spesso incontrato nella vita quotidiana, quando siamo dentro una relazione di aiuto, ad esempio quando nutriamo velleità di compiere un «salto di qualità», come passare da un’azione condotta con professionalità a un’attività condotta con professionismo, comportando l’allontanamento della possibilità di indicare la strada agli altri e la possibilità di farsela indicare (Canevaro e Chieregatti, 2015, p. 76).

La relazione di aiuto può portare alla dimensione pervasiva dell’esclusione sociale. Inoltre, è necessario comprendere a pieno e a fondo che l’esclusione sociale non può esistere per permettere alle persone, che rispecchiano l’ideale di normalità, di sentirsi bene nel proprio ruolo.

Conclusioni

L’articolo ha descritto, ricostruito e reinterpretato alcuni concetti teorizzati da Canevaro nei suoi studi filosofici sulla relazione di aiuto, alla luce della possibilità di pensare nuovi percorsi di ricerca sul tema. Sono state sviluppate una serie di argomentazioni, che hanno tenuto conto della discrepanza tra realtà fattuale e ideale, che confluiscono in teorizzazioni dello studioso, analizzate e reinterpretate con originalità.

L’articolo è stato introdotto dalla presentazione dei documenti di classificazione delle malattie, che mostrano il passaggio dalla considerazione del deficit a quella del funzionamento della persona con disabilità, e dall’affermazione della necessità di considerare il contesto in cui le persone che partecipano alla relazione si trovano, piuttosto che solo le singole persone; quindi, l’introduzione del presente contributo ha presentato alcuni documenti e principi fondamentali delle argomentazioni che sono seguite, mentre queste conclusioni corrispondono a una sintesi delle teorizzazioni dello studioso, e a una loro configurazione in un ordine applicabile, allo scopo di renderle operative.

Canevaro (Canevaro e Chieregatti, 2015) descrive una serie di approcci che vengono applicati nelle relazioni di aiuto, suggerendo l’approccio basato sulla reciprocità della relazione, ovvero sulla possibilità di sviluppare competenze negoziali, di autonomia, regolative, di richiamo e sganciamento, legate alla scelta del tempo giusto, dello stile, del controllo di sé e della situazione; suggerisce lo sviluppo di uno sguardo rivolto al contesto, piuttosto che alla singola persona con disabilità.

In seguito, è stata analizza la logica duale, che identifica la ricchezza con il bene e la povertà con il male, si manifesta come meccanismo naturale, di situazioni concatenate, in cui rientrano anche le persone con disabilità; le quali, se assumono i caratteri simili alla logica del bene, vengono evidenziate nella loro diversità. Si tratta di un meccanismo autoreferenziale, che legittima la bontà della logica duale e premia i «meritevoli». In tal senso, la logica duale si accompagna al pietismo conservatore, che sceglie chi includere e non includere dalla parte del bene (accentuando la diversità, come parametro di confronto).

Secondo Canevaro (Canevaro e Chieregatti, 2015) alla logica duale deve sostituirsi la logica plurale che tiene conto di elementi da accettare e da rifiutare in una relazione; in tal senso, si descrivono le fasi del pietismo evolutivo, ovvero avvicina condizioni umane ritenute inferiori; è un contatto; il contatto «apre» un periodo di tempo da dedicare a un servizio; il servizio mostra che c’è un’organizzazione alla base; l’organizzazione favorisce l’alfabetizzazione istituzionale; l’alfabetizzazione istituzionale mostra i compiti delle istituzioni; i compiti delle istituzioni trasmettono la prospettiva dei diritti e dei doveri (Canevaro, 2017).

Si è fatto riferimento al potere del linguaggio nel determinare e veicolare significati, come i confini di inclusione ed esclusione sociale, e alla coevoluzione educativa. La coevoluzione educativa si caratterizza per la reciprocità, per l’attenzione e l’ascolto, in cui entrambe le persone coinvolte nella relazione sono co-responsabili del processo educativo; promuove una riduzione della disabilità e una maggiore frequenza di richieste specifiche sul progetto educativo di cui la persona con disabilità è protagonista. Tale processo promuove consapevolezza e competenza emotiva, che consente lo sviluppo di strategie per «raggirare» e/o gestire gli ostacoli, nonché un senso di appartenenza a una struttura più ampia, che implica l’esercizio di un comune senso del dovere, attraverso pratiche democratiche di osservazione, ascolto, rispetto, prevenzione e manutenzione delle persone coinvolte e dell’ambiente di riferimento.

In tal senso si sono esplicati i concetti di ambiente e contesto: contesto deriva dal latino con-texere, ovvero tessere insieme, mentre ambiente deriva dal latino ambire, ovvero andare attorno; il contesto è caratterizzato da significati simbolici, mentre l’ambiente è ciò che ci circonda. L’ambiente può ispirare per «leggere» un contesto, può contenere diversi contesti, può contenere l’imprevisto che produce cambiamenti, è una parte fondamentale del progetto educativo. Si rischia di trasformarlo in eccessivo razionalismo, che si basa su una sola funzionalità monocratica, ovvero che tende a ignorare elementi del contesto apparentemente inutili (Canevaro, 2017). Infine, è stata considerata la drammatizzazione della sofferenza, come bisogno comune di dare voce ai sentimenti più profondi della natura umana, e alla pluralità di forme che può assumere.

Per concludere, l’articolo ha fornito spunti di riflessione e approcci configurabili in una forma che può essere resa operativa nelle relazioni di aiuto concrete e adattata ai diversi contesti.

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  1. 1 Università degli Studi di Foggia, Dipartimento di studi umanistici, Lettere, Beni culturali, Scienze della Formazione.

  2. 2 University of Foggia, Department of Humanities, Letters, Cultural Heritage, Education Sciences.

Vol. 24, Issue 1, February 2025

 

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