Vol. 23, n. 3, settembre 2024 — pp. 93-99
Rubrica
Recensione
Disabilità visiva e inclusione scolastica e sociale
Luigi d’Alonzo, Pietro Piscitelli e Stefano Salmeri (a cura di) (2023), Brescia, Scholé
Il volume, cui ha contribuito una pluralità di esperti a livello nazionale, offre uno sguardo a tutto campo sulla condizione esistenziale e sociale delle persone con disabilità visiva, dalla nascita alla vita adulta, sotto diverse angolature: il rapporto tra il soggetto e la sua famiglia, le molteplici declinazioni del disturbo, l’inclusione scolastica e sociale, l’accesso al lavoro, il ruolo di supporto delle tecnologie, indicazioni e spunti per la ricerca in campo educativo e riabilitativo. La riflessione, nell’insieme, offre uno spaccato esaustivo sulla specificità di un disturbo che, sebbene poco diffuso nella condizione di cecità assoluta, è indubbiamente più presente nella declinazione dell’ipovisione.
Domandiamoci: quante sono le persone con disabilità della vista? Le statistiche del Ministero della Salute (2023) segnalano che, nel nostro Paese, sono quasi 1,5 milioni gli ipovedenti e 220.000 i ciechi. In ambito scolastico, le cifre rilevano che l’insieme degli studenti con minorazioni sensoriali (cecità e ipovisione, sordità e ipoacusia) rappresenta quasi l’8% della totalità dei frequentanti (anno 2022/23); fra questi, il 3,8% ha problemi della vista, con differenze poco rilevanti fra ordini di scuola. Il dato può essere meglio ponderato, se lo si confronta con l’ampia prevalenza degli studenti con disabilità intellettiva (37%), con disturbi dello sviluppo psicologico (31,8%) e con disturbi specifici dell’apprendimento (19,4%).
Al di là del dato statistico quantitativo, occorre essere consapevoli che, lungo il corso della vita, sul piano clinico e personale, la condizione di cecità — a maggior ragione quella di ipovisione — descrive situazioni individuali molto differenziate, per un ampio ventaglio di cause (periodo di insorgenza, severità del disturbo, presenza di pluri-minorazioni, condizionamenti ambientali, altro); tanto che taluni suggeriscono di parlare, al plurale, di cecità e di «ipovisioni».
Il volume si affaccia con taglio scientifico su questo variegato universo, con intento informativo e formativo verso famiglie, insegnanti e operatori dei servizi, decisori, ponendosi in contrasto con le rappresentazioni stereotipate della disabilità visiva, purtroppo ancora molto diffuse. Secondo i luoghi comuni, il cieco/ipovedente è considerato una persona depotenziata, per la mancanza di un organo sensoriale strategico (l’OMS informa che le persone acquisiscono, attraverso la vista, oltre l’84% delle conoscenze); oppure, all’opposto, è ritenuto un soggetto «normale» — un «vedente senza la vista» — in quanto tale carenza è giudicata del tutto compensabile con adeguate tecnologie. L’assunto comune alle due antitetiche rappresentazioni pregiudiziali è che, in ogni caso, debbano essere le persone con problemi della vista a compiere il passo verso l’integrazione nei contesti di normalità. La condizione per potersi confrontare con soggetti a funzionamento «tipico» è dunque l’assimilazione ai comportamenti della maggioranza.
Su un’impostazione socio-pedagogica indiscutibilmente più aperta e inclusiva, si muove la prospettiva proposta dagli autori. La dichiara in premessa Stefano Salmeri, professore di Pedagogia Generale e Sociale all’Università «Kore» (Enna). Il rapporto tra i soggetti con disabilirà visiva e il contesto sociale non è subalterno ma dialogico, «fondato su relazioni, situazioni e vissuti di riconoscimenti di partecipata e partecipante reciprocità, frutto di intrecci di autentica solidarietà. […] il dialogo è operazione trasparente di trasformazione e di cambiamento, nella condivisione […] frutto di una ricerca costruita grazie all’ascolto e al confronto» (pp. 6-7).
In un contesto democratico, la scuola in particolare dovrebbe cessare di essere il luogo della riproduzione di pregiudizi svalutanti e di discriminazioni nei confronti dei più fragili, per realizzare la propria vocazione di ambiente che promuove e sollecita le capacità di tutti. Queste «non sono mai in toto un già dato, qualcosa di predefinito e precostituito», ma dipendono piuttosto da processi continui di assimilazione e di accomodamento. Anziché preoccuparsi «di incasellare la singolarità dei singoli in griglie spesso male interpretate […]» o di interpretare l’azione didattica «come mera e passiva applicazione di tecnicismi didattici e di strategie preconfezionate», gli insegnanti dovrebbero adottare «la logica della levitazione che cerca di far venire fuori il meglio di ciascuno, rispettandone peculiarità ed effettive risorse» (p. 13). A tale scopo, è fondamentale che i docenti prendano in considerazione la globalità del profilo, nelle molteplici manifestazioni espresse dall’allievo con disabilità visiva nella realtà quotidiana; ed è bene che lo stimolino a partecipare, insieme ai compagni, a tutte le attività scolastiche senza esoneri preventivi, nel dovuto rispetto delle peculiari modalità di accesso alla conoscenza, all’esperienza del mondo e all’apprendimento (nello specifico, il ricorso all’integrazione multisensoriale).
Nel volume si riportano le relazioni presentate, in un omonimo Convegno (Milano, 2022), da esperti di fama della minorazione visiva. In apertura, Fabio Bocci conduce una disamina critica sui possibili vissuti dei soggetti con disturbi della vista, nei percorsi di inclusione scolastica, lavorativa e sociale. Roberta Caldin ed Enrica Polato evidenziano l’importanza del ruolo materno, nei primi anni di vita del bambino con deficit visivo, nell’offrire stimolazioni alla sua curiosità, al fine di costruire, mantenere e consolidare il contatto con la realtà, in maniera sempre più autonoma, rispettosa del suo stile percettivo e cognitivo.
Stefano Salmeri ricorda nel suo saggio che, sebbene la presenza del disturbo visivo non comprometta la possibilità di raggiungere i traguardi di autonomia di pensiero e di azione delle persone a funzionamento tipico, tuttavia comporta il superamento di limiti oggettivi e richiama la diversificazione dei percorsi di apprendimento, in un’ottica compensativa. In continuità, Maurizio Sibilio, Iolanda Zollo e Michela Gardieri indagano con rigore epistemico il principio della vicarianza per cui, grazie all’impiego del codice Braille e degli strumenti tiflodidattici e tiflo-informatici, anche la persona con disabilità visiva può diventare autonoma nei suoi percorsi personali, scolastici, lavorativi e sociali. Nicola Stilla ribadisce che il Braille, nonostante abbia due secoli di vita, rimane il sistema di letto-scrittura prevalente per i ciechi.
Sul piano esistenziale personale, Pietro Piscitelli analizza alcune peculiarità dell’accesso al mondo e alla conoscenza da parte del bambino cieco: modalità che devono essere ben note sia alla famiglia, sia alla scuola. Michele Borra riflette invece sulla condizione dei soggetti con disabilità complesse — cioè con minorazioni aggiuntive rispetto alla cecità, di cui soffre circa il 50% dei minori ciechi — declinandole sia in prospettiva educativa e riabilitativa, con riferimento sia alle problematiche familiari sia alle traiettorie longitudinali.
Luigi d’Alonzo entra nel merito dei paradigmi epistemologici a fondamento della ricerca sulla disabilità visiva in didattica e in pedagogia speciale. In ambito scolastico, Lucio Cottini affronta il tema di una progettazione educativa individualizzata ben collegata al curricolo di classe, in ottica inclusiva. Alessandra Lo Piccolo si occupa della necessità di formazione altamente specializzata degli insegnanti di sostegno, a garanzia di un’efficace inclusione.
Sul versante storico, Maria Volpicelli presenta la figura di Augusto Romagnoli, ben conosciuto educatore di giovani ciechi e fondatore di indirizzi metodologici innovativi per la loro istruzione.
Dentro le parole. L’orizzonte pedagogico nel lessico normativo italiano verso l’inclusione
Gianluca Amatori e Emiliano De Mutiis, 2023, Lecce, Pensa Multimedia
Come testimonia un’ampia letteratura scientifica, l’approccio alla disabilità nel corso dei secoli e, in particolare, negli ultimi cento anni, si è manifestato attraverso paradigmi, sistemi simbolici culturali, scelte progettuali e operative e linguaggi molto differenziati, lungo una linea evolutiva dall’esclusione verso l’inclusione sociale. Secondo il sociologo Stiker, non esistono disabilità e disabili al di fuori di precise strutturazioni sociali e culturali, e non esistono atteggiamenti nei confronti della disabilità, al di fuori di una serie di riferimenti e strutture della società (1997). Prima di lui, un altro grande pensatore, Foucault, ha argomentato che non si possono comprendere pensieri, pratiche e atteggiamenti verso la disabilità, al di fuori di una «episteme», ossia di norme, valori, significati, organizzazioni specifiche e linguaggi delle varie epoche (1966).
Nel loro volume, Amatori e De Mutiis selezionano il linguaggio della disabilità — nella sua evoluzione nel tempo e nello spazio — come unico aspetto rappresentativo dell’«episteme» Foucoltiana. Le parole della e sulla disabilità sono indicatori e mediatori dei significati semantici con cui le varie società hanno approcciato la minorazione. Ispirandosi al filone degli studi classici di filosofia teoretica e del linguaggio — a Heidegger e Wittgenstein in particolare — e alla psicopedagogia di Vygotskij e di Bruner, gli autori condividono il nesso dinamico esistente tra linguaggio e pensiero, nonché il punto di vista per cui le parole non sono solo strumenti per esprimere il pensiero, ma sono le condizioni stesse per poter pensare. All’interno di una relazione triadica tra «pensiero, linguaggio e realtà, la parola emerge come rappresentativa dell’idea che convoglia e fautrice della sua stessa creazione» (Introduzione, p. 7).
Il linguaggio assume dunque la valenza di uno scrigno capace di contenere dentro di sé, globalmente, un paradigma culturale, un sistema simbolico, una storia e un modello operativo declinati nel tempo e nello spazio. Anche in un orizzonte storiografico, la dimensione racchiusa dentro le parole può rappresentare una rilevante frontiera di indagine: ogni concetto fondamentale in un periodo storico — e ogni parola che lo reifica — vanno analizzati nella loro «profondità diacronica», intesa sia come deposito di esperienze passate e presenti, sia come apertura ad aspettative rivolte al futuro (p. 9). Proiezione verso l’innovazione e permanenze del passato possono coesistere a lungo.
L’indagine sulla storia dell’educazione e dell’inclusione sociale delle persone con disabilità rappresenta un terreno sensibile, particolarmente fertile nel testimoniare queste convivenze. Ad esempio, sebbene i termini «minorati e invalidi» possano condensare in sé un modello culturale superato, proprio degli anni Cinquanta-Settanta del secolo scorso, tuttavia sopravvivono ancora in una parte della legislazione dei giorni nostri, oltre che in una parte del sentire comune. Analogamente ancora convivono, in quanto configurano una realtà in divenire, il principio di «integrazione» (affermato negli anni Settanta) e quello di «inclusione» (figlio della cultura del nostro secolo, a partire dalla Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, CRPD, 2006).
Come ricorda Canevaro, ispiratore della Pedagogia Speciale italiana e maestro di studi sulla disabilità, in questo particolare ambito di ricerca è importante porre attenzione ai termini utilizzati, non tanto per ragioni estetiche o formali, ma perché «utilizzare termini impropri e fare confusioni linguistiche può essere un modo per aumentare l’handicap, anziché ridurlo» (2000, p. 1). Nel loro studio, i ricercatori si propongono di mostrare come, nel corso della storia, la scelta di determinate parole al posto di altre — decisione che, come abbiamo detto, ha portato con sé orizzonti di pensiero, atteggiamenti culturali, attitudini sociali proprie delle varie epoche — non sia stata un’operazione irrilevante o casuale (al limite, inconsapevole), ma abbia avuto per conseguenza l’incremento — o la riduzione — del grado di disabilità delle persone nei reali contesti di vita.
Quali rappresentazioni del mondo, quale idea di uguaglianza e quale gerarchia di pensiero, nel passato e nel presente, veicola il lessico sulla disabilità utilizzato? In che modo le parole sono state recettive-produttive o espansive-costrittive, rispetto al processo di costruzione di un orizzonte per le persone con disturbi personali e di affermazione dei loro pari diritti rispetto agli altri? Nella dialettica tra permanenze e trasformazioni propria dell’excursus storico, tali cambiamenti si verificano in corrispondenza di importanti nodi storici che, mostrando le inadeguatezze degli equilibri in essere, generano conseguentemente transizioni concettuali e instabilità semantica e lessicale.
Il volume si focalizza sull’effettiva mutazione del lessico normativo e amministrativo — in ambito sociale ma soprattutto scolastico — in corrispondenza di snodi evolutivi connessi a importanti eventi politici e culturali, che si sono sviluppati dagli anni Venti del secolo scorso a oggi. La scansione cronologica è dunque quella solitamente adottata in merito al processo di inclusione nella scuola, suddivisa in cinque fasi:
- l’esclusione (dagli anni Venti agli anni Sessanta);
- la medicalizzazione (dagli anni Sessanta agli anni Settanta);
- l’inserimento (dal 1970 al 1977);
- l’integrazione (dal 1977 al 2009: una stagione ricchissima di nuove elaborazioni e scelte a favore delle persone con disabilità, sotto il profilo scolastico, sanitario e sociale, sia sul piano nazionale, sia internazionale. Uno snodo storico inaugurato con la Legge n. 517/77 e connotato — per riferire solo alcuni traguardi — dall’emanazione della Legge n. 104/92 (Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), dall’approvazione del modello bio-psico-sociale di descrizione della disabilità, da parte dell’OMS (ICF, 2001); dalla Legge n. 328/2000, che ha ampliato l’orizzonte dalla scuola alla vita adulta e allo spazio sociale;
- l’inclusione (dal 2009 a oggi: stagione della proclamazione dei diritti alle pari opportunità in tutti i settori di vita, inaugurata dall’ONU, con la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, 2006; nel nostro Paese, periodo declinato, con l’ampliamento dell’ombrello dei bisogni educativi speciali riconosciuti nella scuola, e la riforma scolastica del 2015 (Legge n. 107); fase che ha visto l’approvazione della Legge delega al Governo n. 227/2021, di riordino delle disposizioni in materia di disabilità, a partire dalla definizione della condizione di disabilità e dal suo accertamento/valutazione multidimensionale.
Il lettore può trovare nel libro il riferimento a un amplissimo e analitico repertorio di leggi e disposizioni applicative che, soprattutto nel nostro Paese, si riverberano su un ampio spettro di istituzioni e settori sociali. Una sfida di sintesi e interpretazione tanto pregevole quanto impegnativa.
Marisa Pavone
Bibliografia
Canevaro A. (2000), Le parole che fanno la differenza, Trento, Erickson.
Foucault M. (1998), Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane, Milano, BUR Rizzoli, ed. or. 1966.
Stiker H.J. (1997), Corps Infirmes et societés, Paris, Aubier-Montaigne.