Vol. 22, n. 1, febbraio 2023

RICERCHE, PROPOSTE E METODI

L’avvio al lavoro della persona con disabilità nella prospettiva dei Servizi specialistici di mediazione

Gli esiti di un percorso di formazione e ricerca

Luciano Pasqualotto1, Angelo Lascioli1, Silvia Ceschel2, Leonida Fantuz2, Donatella Da Ros2, Flavia Pasin2 e Alessandra Lucchetta2

Sommario

L’articolo esplora il complesso tema del lavoro per le persone con disabilità. Nell’analisi della situazione italiana si evidenziano gli elementi da monitorare affinché attraverso l’accesso al lavoro venga promossa l’emancipazione generale del soggetto, nell’ottica della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. A supporto di modalità operative evidence-based, vengono presentati i risultati di una ricerca-azione svolta con gli operatori della mediazione del lavoro dell’Azienda ULSS di Treviso.

Parole chiave

Persone con disabilità, Lavoro, ICF, Accomodamento ragionevole, Valutazione.

RESEARCH, PROPOSALS AND METHODS

Access to work for people with disability in the perspective of labor mediation operators

Results of an action-research

Luciano Pasqualotto3, Angelo Lascioli1, Silvia Ceschel4, Leonida Fantuz2, Donatella Da Ros2, Flavia Pasin2 and Alessandra Lucchetta2

Abstract

The article explores the complex field of employment for people with disabilities. In the analysis of the Italian situation, the elements to be monitored are highlighted so that through access to work an overall emancipation of the person is promoted, in the perspective of the UN Convention on the rights of persons with disabilities. In support of evidence-based operating methods, the results of an action-research carried out with labor mediation operators are presented.

Keywords

Disability people, Employment, ICF, Reasonable accommodation, Assessment.

Introduzione

Il lavoro per le persone con disabilità è un tema complesso, in cui si intersecano elementi di diversa natura che è opportuno richiamare brevemente. L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro (Costituzione, art. 1) nella quale ogni cittadino ha il dovere di concorrere al progresso materiale o spirituale della società (Costituzione, art. 4), dovere che va riconosciuto anche in presenza di disabilità. A questo scopo il legislatore ha previsto un supporto particolare tramite il collocamento mirato e Servizi istituiti a questo scopo (Legge n. 68/1999).

Accanto al tema giuridico vi è quello economico: il lavoro produce valore, tra cui i profitti per l’impresa e il reddito per il lavoratore, che anche in presenza di disabilità hanno bisogno di essere considerati con particolare attenzione.

Non ultimo, il lavoro è rilevante per la realizzazione di sé, poiché fornisce apporti fondamentali alla biografia di ogni individuo (Gallino, 2001). Nel descrivere il processo di costruzione dell’identità personale, Lepri (2020) evoca l’immagine di un cantiere sempre aperto dove si incontrano e interagiscono, in una continua ricerca di sintesi, caratteristiche individuali, relazioni ed esperienze sociali e influenze di tipo culturale. A tal riguardo, è possibile individuare almeno tre caratteristiche peculiari dei contesti lavorativi, sintetizzabili con i concetti di qualità, necessità e organizzazione. Il lavoro richiede prestazioni professionali, qualunque sia la complessità delle mansioni, a fronte delle quali si riceve un corrispettivo economico o di altra natura. Inoltre, l’attività lavorativa, per essere considerata tale, deve essere utile e pertanto va svolta necessariamente da qualcuno. Infine, il lavoro richiede una forma organizzativa entro contesti regolati da norme, talvolta anche molto rigide, come in materia di sicurezza.

Oltre a qualificare l’esperienza lavorativa, tali caratteristiche concorrono a definire un sistema di aspettative molto preciso nei confronti del lavoratore. I giovani che accedono per la prima volta al mondo del lavoro si misurano giocoforza con tali aspettative, hanno occasione di maturare la consapevolezza dei propri limiti e punti di forza, imparando a fronteggiare frustrazioni e a gestire articolate relazioni professionali.

Per tutte queste ragioni, occorre riconoscere l’apporto dell’esperienza lavorativa alla conoscenza di sé, allo sviluppo dell’identità personale e, non secondariamente, all’espansione delle opportunità di autodeterminazione (Wehmeyer e Bolding, 2001).

Sebbene la letteratura scientifica e/o di settore abbia ampiamente esplorato tali aspetti, anche in riferimento alle persone con disabilità, questo articolo intende offrire una riflessione che apporta il punto di vista dei Servizi specialistici di mediazione al lavoro, avanzando alcune proposte operative guadagnate attraverso un percorso di ricerca, ispirate dalla prospettiva bio-psico-sociale dell’ICF (OMS, 2002).

Il lavoro per la persona con disabilità

Il lavoro è un’esperienza sociale ad alto impatto identitario anche per le persone con disabilità (Adorni e Balestrieri, 2016), in particolar modo se di tipo intellettivo (Montobbio e Lepri, 2000), in quanto consente l’accesso a ruoli sociali che hanno in sé la forza di influenzare positivamente le biografie personali. Secondo questa prospettiva, il lavoro va visto come una via fondamentale per l’emancipazione da una condizione di svantaggio, dovuta alle menomazioni, verso uno status sociale di piena cittadinanza.

Salomone (2017) definisce l’espansione delle opportunità relazionali e di vita indipendente come un processo sociomorfogenetico, che per le persone con disabilità generalmente involve al termine della scuola e per le quali l’esperienza lavorativa assume una funzione decisiva nell’accesso alla vita adulta (Montobbio e Lepri, 2000). Attraverso il lavoro, infatti, è possibile fare nuove esperienze, sviluppare conoscenze, abilità e comportamenti che contribuiscono alla propria autodeterminazione, alla conoscenza dei propri limiti e delle proprie risorse. Tale evoluzione avviene per tutte le persone, in forza di un contesto che esige, seleziona e condiziona, al quale ci si deve adeguare, almeno in parte. È comunemente riconosciuto che l’inclusione si costruisce in virtù di un reciproco adattamento, in assenza del quale ogni condizione di limite opererebbe come fattore espulsivo. Questo concetto va reso operativo anche riguardo al lavoro, che non può essere preteso dalla persona con disabilità (o dai suoi famigliari) alle proprie condizioni, come diritto risarcitorio e con la stessa logica con cui si richiede, in alternativa e in condizioni di necessità, la pensione di invalidità civile.

Coerentemente a queste premesse, utili per evitare di affrontare il tema del diritto al lavoro delle persone con disabilità in modo ideologico, è necessario approfondire ulteriormente la questione attraverso l’analisi di alcuni elementi costitutivi dell’esperienza lavorativa: in particolare la produttività, l’inquadramento giuridico, la retribuzione.

Nei contesti orientati al profitto, la produzione deve essere di qualità, anche quando è svolta da un lavoratore con disabilità. Questa esigenza si concretizza nell’individuazione di mansioni in cui la persona possa svolgere correttamente alcune fasi del ciclo produttivo, anche semplici, ma che comunque richiedono qualità di esecuzione. Un’occupazione priva di queste caratteristiche rischia di essere più simile a un passatempo e, sicuramente, poco edificante per la persona con disabilità; anche per l’azienda, la presenza di un lavoratore impegnato in attività improduttive sarebbe vissuta solo come un peso, l’obolo da pagare alla burocrazia che impone l’assunzione di cittadini con disabilità. Accanto alla qualità, la produzione richiede il rispetto dei tempi, dei ritmi produttivi e delle regole organizzative del contesto aziendale (Lascioli e Menegoi, 2006). Questo aspetto va gestito secondo una personalizzazione che non sempre trova sintesi con la necessità aziendale di rendere efficiente l’impiego delle risorse umane. Per questa ragione, il collocamento mirato, ai sensi della Legge n. 68/1999, risulta più agevole nel Terzo Settore e negli Enti pubblici, dove l’aspetto della produttività e il rispetto dei tempi e dei ritmi lavorativi si prestano (anche per assetto giuridico e finalità istituzionali) a più elevati livelli di adattamento. Questo collocamento va ricercato senza derogare dalla necessità che anche per il lavoratore con disabilità valgano le stesse regole degli altri, in quanto intrinseche al senso stesso dell’esperienza lavorativa, in particolare: puntualità, sicurezza, rispetto dei ruoli e dei clienti, rispetto della privacy, ecc.

Fatta salva la via dell’«accomodamento ragionevole» del contesto lavorativo indicata dalla Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità, cui si accennerà in seguito, oltre alle varie forme di tirocinio (formativo, di mediazione al collocamento, ecc.), è realistico considerare l’opzione del tirocinio finalizzato all’inclusione sociale (Conferenza delle Regioni e delle Province autonome, 2014) quando non vi siano le condizioni per un inserimento produttivo che generi benessere per il lavoratore e per l’azienda che l’accoglie. In questo non facile orientamento, che non va risolto scegliendo l’opzione meno problematica, può essere utile ribadire che anche la persona con disabilità ha bisogno di fare esperienza entro contesti in cui «si è giusti così come si è», lasciandosi alle spalle quel mondo di speciale protezione che spesso ancora caratterizza l’età evolutiva. Certamente, il tirocinio di inclusione sociale porta con sé il problema della retribuzione, che va intesa non solo come corrispettivo per il lavoro svolto, ma anche in vista di quell’autosufficienza economica necessaria alla persona con disabilità per poter esercitare la propria adultità, ad esempio attraverso un progetto di vita indipendente. L’indennità di partecipazione riconosciuta al tirocinante non è certamente equiparabile a uno stipendio, né dal punto di vista giuridico né economico, seppure sia una forma di riconoscimento del tempo impiegato e delle attività profuse. All’azienda ospitante può essere proposto di riconoscere alla persona con disabilità un’integrazione di quanto è tenuto a corrispondere per legge l’ente proponente, che va intesa quale modalità inclusiva di riconoscere l’apporto «produttivo» del tirocinante con disabilità, fornendogli una quota di reddito che possa permettere il perseguimento dei propri obiettivi esistenziali.

A questo riguardo, è utile sapere che in alcune Regioni italiane si stanno promuovendo le «adozioni lavorative», che consistono nel richiedere alle aziende con più di 15 dipendenti, che non riescono ad assumere la loro quota di lavoratori con disabilità, di versare 8 mila euro in un fondo regionale attraverso il quale offrire un tirocinio retribuito in un altro contesto aziendale. Secondo l’Agenzia Nazionale Disabilità e Lavoro circa 800 persone con disabilità stanno già svolgendo tirocini nel mondo del lavoro secondo questa modalità (ANDEL, 2021).

Preparare al lavoro fin dalla scuola

La ricerca pedagogico-speciale ha ampiamente esplorato i processi d’integrazione lavorativa delle persone con disabilità, individuando gli elementi che possono determinare positivamente questa esperienza e quali sono le variabili da cui dipende la tenuta lavorativa in ambiti produttivi (Caldin e Succu, 2004; Lascioli e Menegoi, 2006; Giorgini, 2010; Boffo, Falconi e Zappaterra, 2012; Marchisio e Curto, 2019; Friso, 2017).

Innanzitutto, è necessario coltivare precocemente specifiche abilità sociali e una forma mentis adulta, che consenta alla persona con disabilità di assumere comportamenti adeguati al contesto lavorativo (Canevaro et al., 2022). Tale guadagno è possibile anche in presenza di disabilità di tipo intellettivo, a patto che durante l’età evolutiva la famiglia e la scuola abbiano favorito lo sviluppo di competenze metacognitive e relazionali coerenti all’età anagrafica. Diversamente, la persona con disabilità che si comporta come un bambino — e alla quale il mondo circostante restituisce quest’immagine — non sarà in grado di inserirsi né al lavoro né in altri contesti sociali adulti. Inoltre, dalle ricerche emerge chiaramente la necessità che famiglia e scuola coltivino lo sviluppo di capacità lavorative e para-lavorative: imparare a lavorare «significa saper vivere all’interno di un ambiente fatto di ruoli, regole, doveri» (Berarducci, Scivola e Contardi, 2012, p. 33). La scuola può svolgere in questo un ruolo decisivo: infatti, si può imparare ad aver cura del proprio materiale, a seguire una procedura, a portare a termine un’attività, ad aumentare i tempi di applicazione su un compito, a rispettare gli orari, a riconoscere ruoli e gerarchie, ad affinare le abilità fino-motorie, riconoscere e rispettare le regole relazionali anche con i propri pari, ecc. (Lascioli e Pasqualotto, 2021; Lascioli, 2017).

Un’occasione privilegiata per l’acquisizione di abilità spendibili nel mondo del lavoro è rappresentata dai Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO), le cui Linee Guida sono state pubblicate con il DM n. 774 del 4 settembre 2019. Attraverso questa esperienza di alternanza scuola/lavoro, prevista a partire dal terzo anno degli istituti di istruzione superiore, lo studente con disabilità ha modo di sperimentarsi in contesti diversi da quelli conosciuti in precedenza, caratterizzati da spazi, relazioni, mansioni e aspettative molto diversi da quelli scolastici. Per tali motivi, pur essendo prevista dalle norme la possibilità di svolgere questa parte del curricolo formativo all’interno della scuola, è sempre consigliabile individuare un contesto esterno, eventualmente prevedendo una frequenza dilazionata nel tempo (ad esempio uno giorno alla settimana). Non secondariamente, i PCTO sono l’occasione per coinvolgere i Servizi territoriali che hanno competenze specifiche nell’inserimento lavorativo delle persone con disabilità, in modo da condividere quelle conoscenze utili alla transizione personale e istituzionale che si prospetta al termine della scuola, come indicato dalle Linee Guida sui PEI nazionali (DI n. 182/2020, Allegato B).

I Servizi di mediazione e di accompagnamento al lavoro

La Legge n. 68/1999, recante «Norme per il diritto al lavoro dei disabili», ha previsto l’istituzione di Servizi di sostegno e di mediazione finalizzati al collocamento mirato. In particolare, all’interno dei Centri per l’Impiego (CPI), cui competono l’attuazione delle politiche attive per il lavoro, sono previsti «uffici competenti» per le persone con disabilità (Legge 68/1999, art. 6), che si avvalgono dei Servizi sociali, sanitari, educativi e formativi del territorio. Tali Servizi di supporto ai CPI hanno denominazione e configurazione che variano da Regione a Regione, ma generalmente hanno valenza specialistica in virtù delle diverse professionalità presenti al loro interno. Con il Decreto dell’11 marzo 2022, il Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali ha emanato le Linee guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità, a cui si rinvia per i necessari approfondimenti.

In questa sede preme operare alcune sottolineature metodologiche rispetto alle modalità di accompagnamento al lavoro della persona con disabilità da parte dei Servizi specialistici di mediazione. La prima questione riguarda la «postura» degli operatori, che è fondamentalmente educativa al di là della specifica professionalità di chi la esercita. Si tratta, infatti, di alimentare un immaginario sulla persona con disabilità che dischiuda un futuro di qualità, di cui il lavoro è parte costituente seppur non esaustiva. Questo compito di progettazione esistenziale è tanto più necessario quanto più la persona è cresciuta entro contesti improntati da logiche assistenziali centrate sul presente, prive di una prospettiva di medio-lungo termine (Lascioli e Pasqualotto, 2021).

Non secondariamente, coloro che operano per l’inclusione lavorativa sono chiamati a curare la rappresentazione della persona con disabilità all’interno dell’azienda, poiché il modo con cui essa viene percepita impatta significativamente sulla tenuta lavorativa (Lascioli e Menegoi, 2006). Si tratta di atteggiamenti che condizionano l’accoglienza e hanno il potere di alimentare o deprimere l’autostima e il senso di autoefficacia del lavoratore con disabilità. Una modalità utile a promuovere una cultura più inclusiva nei contesti lavorativi consiste nel preparare a tale compito il tutor aziendale. Lascioli e Menegoi evidenziano che per esercitare al meglio tale ruolo il tutor dovrebbe godere di buona considerazione tra i colleghi ed essere una persona cui sono riconosciute responsabilità all’interno dell’organizzazione. Oltre al supporto diretto alla persona con disabilità nello svolgimento dei compiti assegnati, il tutor potrebbe così facilitare le relazioni e promuovere il senso di appartenenza, tutti elementi che favoriscono la buona riuscita dei progetti di inserimento al lavoro. Dalla ricerca emerge anche la necessità che il tutor aziendale cambi nel tempo, per evitare che la relazione con il lavoratore con disabilità si sclerotizzi e/o si logori.

Un terzo rilievo metodologico riguarda la necessità di specializzare gli operatori della mediazione sugli «accomodamenti ragionevoli» indicati all’art. 2 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità. Con tale termine si intendono «le modifiche e gli adattamenti necessari e appropriati che non impongano un carico sproporzionato o eccessivo, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per assicurare alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e di tutte le libertà fondamentali». In ambito lavorativo, gli accomodamenti possono riguardare: i ritmi e gli orari di lavoro, le pause, gli ambienti di lavoro (luci/rumori/suoni), i cicli produttivi, l’ergonomia della postazione, le modalità di affiancamento e di supporto, i riferimenti all’interno dell’organizzazione, le modalità di comunicazione intraziendale, l’accesso agli spogliatoi, ecc. Su questi aspetti, la sfida da vincere riguarda la realizzazione di contesti lavorativi quanto più accessibili, dei quali possano beneficiare non solo le persone fragili ma tutti i lavoratori, secondo la logica del Design for all (Persson et al., 2015).

Infine, è fondamentale che i Servizi di mediazione si raccordino con gli altri Servizi della rete sociosanitaria, nella prospettiva di definire e realizzare un progetto esistenziale che abbracci le diverse dimensioni della vita di ciascuna persona. A questo scopo, è necessario mettere in atto interventi di orientamento precoci e continuativi con i genitori, capaci di generare prospettive di vita adulta al contempo realistiche e di qualità. La motivazione al lavoro della persona con disabilità si alimenta di questi immaginari famigliari, specie se proiettati sulla vita indipendente (Lascioli, 2017).

Gli strumenti di assessment e di progettazione

Il successo di un inserimento lavorativo, sia nelle forme del tirocinio che dell’assunzione, va valutato principalmente in termini di benessere, di cui la «tenuta», cioè il mantenimento nel tempo, è il principale elemento di evidenza (Lascioli, 2017). A questo scopo, gli operatori dei Servizi specialistici di mediazione sono chiamati a prestare attenzione ai vissuti della persona con disabilità e, allo stesso tempo, alla positività dell’esperienza da parte del contesto di accoglienza.

Sul piano tecnico, è utile distinguere due momenti del progetto: quello dell’avvio/presa in carico e quello del monitoraggio. Le nuove Linee Guida in materia di collocamento mirato delle persone con disabilità (MLPS, 2022) prevedono inizialmente, da parte del Centro per l’Impiego, la definizione di un «profilo personale di occupabilità», che si ricava attraverso una procedura automatizzata sulla base delle informazioni fornite in sede di registrazione sul Sistema Informativo Unitario/Portale INPS. Tale «profilazione quantitativa», che indica la «distanza dal mercato del lavoro», si arricchisce successivamente di altri elementi di conoscenza attraverso un percorso base di orientamento e di formazione finalizzati alla ricerca attiva del lavoro.

In presenza di un potenziale profilo di fragilità e/o difficoltà di inserimento lavorativo, è previsto che l’Ufficio Competente del Centro per l’Impiego avvii una fase di approfondimento attraverso colloqui finalizzati a una «profilazione qualitativa» delle dimensioni cruciali per il successo dell’inserimento lavorativo. Tale profilazione approfondita deve tenere conto dell’impatto che la condizione di disabilità ha nelle varie dimensioni, nonché della presenza di barriere e facilitatori ambientali secondo la prospettiva bio-psico-sociale (MLPS, 2022, p. 21). Il colloquio viene guidato da una scheda apposita fornita tra gli allegati delle Linee Guida, che ricalca alcune attività previste dalla Classificazione ICF e fattori personali che vengono valutati attraverso gli stessi qualificatori dell’ICF.

Secondo le Linee Guida, «la combinazione fra misurazione quantitativa della distanza dal mercato del lavoro e l’utilizzo di tecniche di profiling qualitativo migliorerà l’efficacia delle attività di valutazione dell’operatore nell’analisi del bisogno, attivando la persona attraverso le azioni che meglio rispondono alle sue specifiche esigenze e potenzialità» (MLPS, 2022, p. 19). La corretta valutazione delle caratteristiche della persona con disabilità (si veda l’Allegato 2 delle citate Linee Guida) richiede una conoscenza approfondita dell’aspirante lavoratore, che di certo non può esaurirsi nel corso di un breve colloquio.

La fase di assessment iniziale prevede anche la definizione di un «profilo di funzionamento della persona con disabilità», tramite una serie di item della Classificazione ICF individuati nell’Allegato 1 delle Linee Guida (MLPS, 2022), che si conclude con la stipula del Patto di Servizio personalizzato, cioè di un progetto complessivo all’interno del quale può essere prevista l’azione del Servizio specialistico di mediazione al lavoro. Va rilevato che tutte queste attività sono previste nei Livelli Essenziali delle Prestazioni sociali (LEP).

I risultati di una ricerca sul campo

Nell’ambito di un percorso di formazione-ricerca con il Servizio di Integrazione Lavorativa5 (SIL) dell’Azienda ULSS 2 Marca Trevigiana del Veneto, svolto nell’autunno 2021, è stato approfondito il tema dell’assessment della persona con disabilità in funzione della definizione del suo progetto occupazionale. Oggetto della ricerca è stato l’approfondimento di quanto previsto dall’art. 2, Legge 68/1999: «Strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione».

Il gruppo di ricerca, composto da 23 operatori del SIL, dopo aver preso visione degli strumenti ICF-ADAT (www.icf-adat.it) e del sistema di profilazione messo a punto dall’Università di Verona (Lascioli e Pasqualotto, 2021), ha evidenziato la necessità di raccogliere ulteriori elementi di conoscenza della persona con disabilità utili alla definizione del suo progetto di inserimento lavorativo. A tal scopo è necessario acquisire una comprensione profonda del funzionamento del soggetto in interazione con l’ambiente, e quindi saper evidenziare, oltre alle sue difficoltà, le potenzialità di sviluppo, compresi i suoi bisogni e desideri, nell’ottica di promuovere una vita di qualità anche attraverso l’avvio al lavoro.

La ricerca ha fatto emergere una serie di elementi utili a valutare il potenziale lavorativo in ottica bio-psico-sociale, in larga parte coincidenti con quelli forniti negli Allegati delle Linee Guida citate nel paragrafo precedente. Attraverso la tecnica di etichettatura mutuata dalla Grounded Theory (Mortari e Ghirotto, 2019), sono state individuate nove tipologie di competenze, ciascuna delle quali fa sintesi di specifiche capacità codificate dalla Classificazione ICF (OMS, 2002) tramite i seguenti item della componente di «Attività e Partecipazione»:

  1. capacità cognitive: abilità strumentali (d166, d170, d172); problem solving (d175); presa di decisioni (d177); applicazione delle conoscenze (d179); uso del denaro (d860);
  2. apprendimento di abilità: per imitazione (d130), uso di strumenti (d155);
  3. autoorganizzazione e autogestione (d210, d220, d2302, d2303, d2304, d240);
  4. comunicazione interpersonale: capacità comunicative (comprensione: d310, d315; produzione comunicativa: d330, d335, d350; uso di strumenti di comunicazione: d360);
  5. capacità relazionali (d710, d7202, d730, d740, d750), tra cui il rispetto delle regole implicite ed esplicite dei contesti (d7203);
  6. motricità e prassie (d450, d430);
  7. mobilità sul territorio, che influenza le opportunità di lavoro: d460, d470, d475;
  8. cura di sé: abbigliamento (d540), sicurezza antinfortunistica (d5702);
  9. capacità lavorative/occupazionali: di ricerca attiva del lavoro (d8450), di frequentare un tirocinio (d840) o un posto di lavoro con adeguata produttività (d850), mantenendolo nel tempo (d8451), o di svolgere un lavoro non retribuito (d855).

L’analisi delle competenze individuate tramite l’ICF si è completata con l’indagine di una serie di caratteristiche individuali ricavate con la stessa metodologia di ricerca, anch’essi importanti per la definizione del profilo qualitativo di occupabilità. Si tratta dei seguenti elementi:

  • preparazione scolastica e professionale (in riferimento al Quadro Europeo delle Qualifiche);
  • esperienze lavorative/occupazionali pregresse;
  • cultura del lavoro acquisita in famiglia;
  • aspettative esistenziali correlate al lavoro (motivazioni);
  • consapevolezza dei propri punti di forza e di criticità;
  • propositività/spirito di iniziativa e di collaborazione;
  • presenza di altri interessi personali.

Questi risultati di ricerca hanno portato all’implementazione in ICF-ADAT di una specifica elaborazione attraverso la piattaforma «ICF Applicazioni» (www.icfapplicazioni.it), resa disponibile gratuitamente dall’Università di Verona, che consente di generare un profilo bio-psico-sociale di funzionamento della persona con disabilità propedeutico al progetto di inserimento lavorativo (figura 1).

Figura 1

Esempio di profilo lavorativo.

Nell’elaborazione grafica, i dati qualitativi raccolti con il Questionario ICF-ADAT vengono incrociati tra loro e riportati a sintesi in una modalità che rende più obiettiva la situazione di partenza, facendo emergere in modo immediato i punti di forza e gli elementi che richiedono supporto e mediazione. Nell’esempio riportato in figura 1, emerge un basso potenziale cognitivo, che limita l’apprendimento di nuove abilità, ma una discreta capacità relazionale, pur con modeste abilità comunicative. Le difficoltà di autoorganizzazione e autogestione suggeriscono l’individuazione di mansioni strutturate, che utilizzino le risorse motorie e manuali del soggetto, con richieste di produttività non elevate e poco esposte a rischio infortuni. Le caratteristiche personali indicano la necessità di un monitoraggio costante della tenuta lavorativa.

Il gruppo di ricerca ha inoltre condiviso l’orientamento di attribuire all’assessment iniziale una funzione previsionale ma non pregiudiziale per la definizione del progetto di inserimento lavorativo, poiché durante la definizione del patto di Servizio e del progetto personalizzato vanno garantite l’eguaglianza di opportunità e la non discriminazione come previsto dall’articolo 5 della Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità e dal DLgs 216/2003, «Attuazione della direttiva 2000/78/CE per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro» (MLPS, 2022, p. 26).

In altre parole, le evidenze che emergono dal profilo così concepito possono orientare gli operatori della mediazione verso un certo tipo di esperienza lavorativa, nello sforzo costante di trovare la migliore sintesi possibile tra domanda e offerta, ossia tra la persona con disabilità e l’azienda ospitante. Nel caso in cui la persona avesse altri desideri e/o fosse indisponibile un «posto su misura», occorre spostare l’investimento progettuale sull’abilitazione dei contesti, cioè operando quegli accomodamenti ragionevoli che, compensando il più possibile le difficoltà sperimentate dalla persona a causa delle sue particolari condizioni di salute, le consentano comunque di sperimentarsi positivamente nel contesto lavorativo. In definitiva, la rilevazione di capacità ridotte non dovrebbe delimitare a priori le opportunità, ma orientare le progettualità verso «livelli di rischio accettabili», secondo il principio pedagogico che l’esperienza lavorativa debba essere stimolante e non eccessivamente protetta, perché solo in questo modo può essere in grado di sostenere il processo di crescita della persona con disabilità. Parimenti l’utilizzo degli strumenti di osservazione e profilazione ICF-ADAT dovrebbero «far luce» sul progetto in costruzione, senza che diventino filtri che restringono le possibilità d’azione. A tale scopo andrebbe coltivata nel tempo un’approfondita comprensione dei bisogni delle persone accompagnate dai Servizi, con uno sguardo aperto alla promozione di tutte le dimensioni della vita adulta.

Il monitoraggio dei progetti

Una volta avviato l’inserimento al lavoro, è necessario che il Servizio specialistico di mediazione si concentri sulle condizioni utili al suo mantenimento nel tempo. In questa fase il potenziale lavorativo trova la sua esplicazione in un contesto particolare, che richiede prestazioni specifiche entro una rete di relazioni, sia interne al luogo di lavoro, sia esterne, negli ambiti famigliare e sociale. Secondo il linguaggio ICF, l’attenzione degli operatori si dovrebbe spostare dalle capacità alle performance, individuando precocemente le eventuali difficoltà a cui far seguire azioni di miglioramento. Le performance possono essere sostenute potenziando i facilitatori o introducendone di ulteriori, senza trascurare la necessità di riconoscere eventuali elementi che fungono da barriere entro l’ecosistema in cui avviene il collocamento (Bronfenbrenner, 1986). Come già affermato, si tratta di curare nel miglior modo possibile le condizioni che generano il benessere del soggetto e dell’ambiente in cui si inserisce.

In casi particolari, l’azione di monitoraggio potrebbe portare anche a un cambio del contesto lavorativo, individuandone uno che consenta un maggiore o diverso livello di sostegno ove necessario. D’altro canto, non è da escludere che l’esperienza in contesti reali faccia emergere potenzialità inattese, perché è noto che «il ruolo attiva le funzioni»: in alcuni casi l’opzione di inserire la persona con disabilità in contesti di minor protezione/supporto può essere un’opportunità da esplorare.

Non da ultimo, il monitoraggio dovrebbe considerare altri aspetti non strettamente implicati con l’inserimento lavorativo come, ad esempio, il guadagno di autoconsapevolezza che la persona ne sta ricavando (anche dei propri limiti), lo sviluppo di relazioni amicali (talvolta anche intime), l’incremento della partecipazione sociale, nuove dinamiche interne alla vita domestica: tutti elementi che possono influire positivamente sul benessere complessivo del soggetto. Anche in questo caso, si tratta di mantenere aperta l’attenzione alla complessità del progetto di vita della persona con disabilità, di cui la dimensione lavorativa — si ribadisce — è sì un aspetto fondamentale, ma non isolabile dagli altri. Da questo punto di vista, l’Allegato 3 delle Linee Guida per il collocamento mirato (MLPS, 2022), dedicato proprio al «funzionamento sul posto di lavoro», appare molto limitato.

La coprogettazione

Un tema ancora molto aperto riguarda la titolarità del progetto di avvio al lavoro. A questo riguardo, le Linee Guida individuano la necessità di attivare l’interessato attraverso il Patto di Servizio Personalizzato (MLPS, 2022, p. 25), indicando quindi una modalità di presa in carico diversa da quella tradizionale dei Servizi, nei quali la persona con disabilità è ancora essenzialmente vista come un «utente» che chiede una prestazione. Se gli operatori del mercato del lavoro esauriscono il loro mandato individuando un contesto accogliente, è forte il rischio di «lavorare a catalogo», cioè di esplorare soltanto le opportunità già note ai Servizi. In questo modo si oltrepassano i desideri della persona con disabilità e dei suoi famigliari, esonerandoli dalla responsabilità di individuare loro stessi le soluzioni più idonee.

La personalizzazione dei progetti richiede lo sforzo di «deutentizzare» il soggetto con disabilità, superando quelle relazioni assoggettanti che attribuiscono alla persona e alla sua famiglia un ruolo prevalentemente ricettivo, dipendente e sottomesso (Colleoni, 2016; Marchisio, 2019). Dunque, non si tratta di trovare soluzioni per coloro che richiedono di essere aiutati nell’avvio al lavoro, ma di costruirle assieme, secondo modalità di coprogettazione in grado di valorizzare le risorse della persona e della sua rete relazionale, ma soprattutto restituendone il protagonismo e la responsabilità nell’attuazione.

La bussola dell’operatore dei Servizi specialistici di mediazione lavorativa, pertanto, è orientata verso la prospettiva dell’autodeterminazione, intesa come azione volta a creare le possibilità per la persona di operare come agente causale della propria esistenza, cioè di compiere le scelte che la riguardano secondo le proprie prospettive di valore. Si tratta di un compito arduo, perché è ancora frequente che le persone con disabilità crescano con modalità eterodirette, soprattutto in presenza di deficit intellettivi o del neurosviluppo.

A questo scopo, è utile valorizzare operativamente il concetto di empowerment, che il Secondo programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità individua come centrale per il «pieno coinvolgimento delle persone nelle scelte che riguardano la loro vita o aspetti di essa» (DPR 12 ottobre 2017, p. 48). Concretamente, lo sviluppo dell’empowerment personale avviene secondo una progressione in cui è possibile individuare tre fasi. Innanzitutto, si tratta di accompagnare la persona a maturare un sentimento interiore di adeguatezza rispetto alla titolarità sulla propria vita, cioè il «sentirsi in grado e in diritto» di poter desiderare e richiedere. Dopo questa prima fase di «consapevolezza emancipatoria», l’empowerment va declinato come «capacitazione», da intendere sia come sviluppo di capacità individuali, sia come moltiplicazione delle opportunità sociali (Sen, 2000). Solo a queste condizioni, l’empowerment si può esplicare come «esercizio di potere», cioè assunzione di responsabilità nei confronti di sé stessi e degli altri (Pasqualotto, 2016).

In definitiva, il compito dei Servizi specialistici di mediazione lavorativa si esplica nell’accompagnare la persona con disabilità verso un percorso di emancipazione che la porti a divenire parte attiva nelle decisioni che riguardano il suo progetto esistenziale, esplorando la dinamica desiderio-realtà in vista di un orientamento consapevole a cui concorrono corresponsabilmente tutti gli attori in gioco, compresi i famigliari. Il ruolo degli operatori dei Servizi diviene così «sussidiario» rispetto al progetto della persona (Lascioli e Pasqualotto, 2021) e si esplica attraverso modalità di ascolto profondo e paziente, di apertura verso l’ignoto, di tolleranza dell’incertezza, di disponibilità a rivedere la progettualità via via che cresce la consapevolezza della persona con disabilità e cambiano le prospettive, come avviene per ogni altro essere umano (Marchisio, 2019). Si tratta di mettere operativamente a tema la «fatica di crescere», l’incontro con la delusione e il dolore legati all’esperienza del limite che anche la persona con disabilità deve attraversare per divenire adulta, e che spesso «gli altri» preferiscono evitargli nel quotidiano. Si tratta, altresì, di superare quei pregiudizi, apparentemente benevoli, che spesso diventano per la persona con disabilità trappole esistenziali che la privano di opportunità, ma anche dei diritti che devono essere assicurati a ogni persona, a prescindere dalle sue condizioni individuali (Baratella e Littamè, 2009).

Il mainstreaming istituzionale

Quando si pone il lavoro all’interno di un più ampio progetto di vita per la persona con disabilità emerge con forza la necessità di una maggiore integrazione istituzionale. Accanto agli specialisti della mediazione al lavoro, infatti, molto spesso operano altri Servizi sociali e sanitari che erogano prestazioni parcellizzate, secondo le proprie specifiche competenze, spesso prive di un coordinamento complessivo. In questo modus operandi viene a mancare una visione globale e concertata in grado di sostenere il percorso di autorealizzazione della persona disabile nell’ottica delle pari opportunità, che dovrebbe costituire la misura degli outcomes di ogni intervento, sia in termini di efficacia che di appropriatezza.

Il citato Programma di azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità raccomanda di «migliorare e qualificare la progettazione mirata alla piena inclusione delle persone con disabilità, nel solco dei principi fondanti della Convenzione ONU (mainstreaming ed empowerment in particolare)» (DPR 12 ottobre 2017, p. 26). Per superare «una certa disomogeneità, che sconfina talora in disorientamento o elusione, nell’applicazione di strumenti di progettazione personale, nella loro congruente applicazione, nel loro necessario monitoraggio» (DPR 12 ottobre 2017, p. 26), il Programma auspica Linee guida «che possano essere utili alle Regioni e agli Enti locali nella elaborazione delle proprie politiche e, ancor più, nella organizzazione dei Servizi sui territori» (DPR 12 ottobre 2017, p. 27).

Lo strumento già disponibile per operare in questa direzione è sicuramente il Progetto Individuale, previsto dall’art. 14 della Legge n. 328/2000, cioè un progetto globale in cui devono essere definiti e concertati, secondo modalità di coprogettazione, tutte le azioni necessarie per consentire pari opportunità e una vita di qualità alle persone disabili.

La mediazione al lavoro si inserisce all’interno di questo sistema di Servizi, per cui una delle sfide più urgenti è il superamento della settorialità verso una sempre più efficiente integrazione con gli altri Servizi della rete socio-riabilitativa.

Conclusioni

La realizzazione di una vita adulta piena e di qualità è per tutti condizionata dall’accesso a un’occupazione stabile, che consenta di emanciparsi dalla famiglia di origine, sia sul piano psicologico e relazionale, sia economico. In tal senso il lavoro svolge la funzione di pivot rispetto alle altre dimensioni dell’adultità. La questione assume ancora maggior pregnanza esistenziale per le persone con disabilità, perché in questi casi l’accesso al lavoro è un’occasione di inclusione sociale e di emancipazione personale difficilmente surrogabile. Tale esperienza si colloca entro una complessità in cui agiscono, talvolta anche in contrapposizione tra loro, questioni di tipo educativo e formativo, giuridico e organizzativo, oltre che economiche. Per questo è necessaria un’azione tecnica di mediazione, che la Legge n. 68/99 e le leggi applicative regionali collocano oggi in capo a una rete di Servizi specifici. Essi, però, non vanno pensati come titolari «in esclusiva» di quest’azione, ma agenti di una rete più ampia, che comprende la persona con disabilità e la sua famiglia, i Centri per l’Impiego, i Servizi sociali e sanitari, la scuola, ossia tutti i diversi attori che condividono la responsabilità di immaginare e rendere esistenzialmente «appetibile il futuro».

La logica in base alla quale la risposta al bisogno di inclusione lavorativa delle persone con disabilità consista nella ricerca del «posto giusto», dove collocarla in base alle sue condizioni cliniche, appartiene a un modo di concepire il lavoro di mediazione dei Servizi ormai superato. La personalizzazione dei progetti di inserimento lavativo richiede creatività per uscire dalle logiche della tipicità e delle opportunità solitamente disponibili, nonché attenta osservazione delle attitudini, accettazione del rischio come ineludibile motore della crescita personale, esplorazione costante delle risorse formali e informali del territorio, coraggio nell’attivare collaborazioni inedite. Il supporto di strumenti di osservazione e profilazione, come ICF-ADAT, possono favorire gli operatori della rete dei Servizi a sviluppare una conoscenza più ampia e profonda delle persone prese in carico in funzione di una progettazione quanto più personalizzata.

Un’ulteriore e più ampia sfida riguarda il superamento del pregiudizio culturale circa ciò che una persona con disabilità può essere e fare nel corso della sua vita. La Convenzione ONU sui Diritti delle Persone con Disabilità (2006) offre i riferimenti necessari per affrancarsi dalle logiche di tipo assistenzialistico, che ancora permeano il modus operandi dei Servizi sociali e sanitari, da cui non è scevro neppure il mondo del lavoro. L’accoglienza di una persona con disabilità non può più essere vissuta solo come «un’opera buona» di fronte a un «caso umano», ma con la convinzione (o almeno la speranza) che ogni persona — anche chi ha una disabilità — possa apportare valore «materiale o spirituale» (Costituzione, art. 4 c. 2) all’azienda, come si sta comprendendo con l’attivazione del disability management (Girelli e Ribul, 2019). Quando ciò avviene non è mai per un automatismo, ma per il fatto di aver curato nel miglior modo possibile tutte le condizioni affinché l’esperienza lavorativa sia positiva per il lavoratore e per il contesto che lo accoglie (Subramanian e Mital, 2009).

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1 Dipartimento di Scienze Umane, Università di Verona.

2 Servizio di Integrazione Lavorativa, Azienda ULSS 2, Treviso.

3 Università di Verona.

4 Azienda ULSS 2, Treviso.

5 I Servizi specialistici di mediazione al lavoro sono definiti «Servizi di Integrazione Lavorativa» nella Regione Veneto.

Vol. 22, Issue 1, February 2023

 

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