Il contesto abruzzese e il Master attivato nell’Ateneo dell’Aquila

Il Master attivato presso l’Università dell’Aquila ha visto una grande partecipazione da parte del territorio. L’Abruzzo ha aderito al Progetto FAMI con l’attivazione di due analoghi master, uno da parte dell’Ateneo aquilano e l’altro da parte dell’Università “G. D’Annunzio” di Chieti-Pescara (Direttrice: Elsa Maria Bruni). Si tratta di una regione che presenta interessanti caratteristiche, per quanto poco visibile e poco “percepita” a livello nazionale, e che ha visto, da parte del mondo della scuola, una risposta esemplare: nell’insieme, i due percorsi hanno formato circa 200 docenti e dirigenti, il che rappresenta un potenziale significativo se rapportato ai numeri che fanno dell’Abruzzo un territorio particolarmente “disperso” dal punto di vista demografico, con la presenza di aree interne che risentono di fattori di svantaggio economico e delle sopraggiunte criticità legate ai disastri naturali che negli ultimi anni lo hanno particolarmente segnato.

Tra le regioni meridionali l’Abruzzo è quella che conta una presenza percentuale più alta di studenti e studentesse di cittadinanza non italiana, seppure al di sotto della media nazionale (7,2% su 9,4% nel 2016) (MIUR, 2018), come si evince dalla figura 1.

 

 figura1

 

Figura 1 Percentuale di studenti stranieri nelle regioni italiane (ripreso da MIUR, 2018).

 

Essendo una regione ampia ma non particolarmente popolosa, il numero degli istituti scolastici e dei docenti in servizio è relativamente basso rispetto alle altre regioni italiane, il che significa che la formazione attraverso i due master attivati è riuscita a coprire potenzialmente e in linea teorica quasi tutte le istituzioni educative (197, a cui si aggiungono 3 CPIA).[footnote]Miur, Focus “Anticipazione sui principali dati della scuola statale”, Settembre 2017, https://www.orizzontescuola.it/wp-content/uploads/2017/09/Dati-Avvio-anno-scolastico-2017-2018.pdf (ultimo accesso: 18/01/19)[/footnote]

Nell’impianto generale del Master, che ha rispecchiato le linee indicate dal progetto FAMI, si è cercato di lavorare – anche in continuità con le specificità del tipo di ricerca che da anni si porta avanti in ambito interculturale nell’Università dell’Aquila (Vaccarelli, 2009; 2017; Nuzzaci, 2011; Nanni, 2015) su almeno 4 macro-obiettivi che riguardano la professionalità docente, secondo un’idea di “insegnante interculturale” (cfr. Fiorucci, 2011) che assuma un ruolo almeno in altrettanti ambiti specifici di azione e di significato. In questo senso si è pensato, come profilo di uscita, ad un insegnante che sia:

 

  1. Ricercatore: in grado di analizzare la situazione, di saper interpretare i bisogni educativi e le dinamiche della scuola interculturale, per promuovere azioni coerenti con i bisogni, orientate a finalità e obiettivi congrui e controllati dal punto di vista scientifico.

  2. Decostruttore: si tratta prima di tutto di decostruire le proprie convinzioni, i propri concetti di senso comune e talvolta i propri pregiudizi, per poi estendere la prospettiva e la pratica della decostruzione alle attività educative e didattiche quotidiane.

  3. Costruttore consapevole di approcci e prassi: un/una docente, cioè, non solo in grado di implementare le prassi e le didattiche sulle questioni generalmente più sentite come urgenze (italiano L2, successo scolastico), ma anche capace di ri-orientare studenti e studentesse verso le formae mentis della cittadinanza interculturale.

  4. Moltiplicatore delle competenze interculturali: capace di diffondere le conoscenze e le competenze acquisite, sia attraverso l’esercizio di un ruolo che generi apprendimento organizzativo, sia attraverso la possibilità di diventare formatore/formatrice dei propri colleghi.

 

Nei paragrafi che seguono si cercherà di approfondire, anche attraverso la proposta di attività formative, la prospettiva della decostruzione, ipotizzando che, nella formazione iniziale e in servizio, una pars destruens e una pars construens siano strettamente necessarie per calibrare quegli atteggiamenti su cui far poggiare correttamente conoscenze e competenze di tipo interculturale. All’interno del master, soprattutto nell’insegnamento di pedagogia interculturale e in uno dei laboratori previsti (interamente dedicato ai temi della decostruzione di stereotipi e pregiudizi), si è cercato di proporre l’ottica della decostruzione come filo rosso costitutivo, fatto che ha stimolato diversi docenti nel loro lavoro di ricerca e project work (Bonifaci, Infra). Il master aquilano ha inoltre contribuito a livello nazionale con una videolezione, a cura di chi scrive, dal titolo Rappresentazioni dell'immigrazione e decostruzione pedagogica, tuttora accessibile liberamente, che può essere coerentemente integrata alla lettura del presente articolo.[footnote]https://www.youtube.com/watch?v=r9bJmipQuv0 (ultimo accesso: 11/03/19).[/footnote]

 

Il “tradimento delle immagini”: che cosa e perché decostruire

Per introdurre il tema della decostruzione, partiamo da un’opera dell’arte contemporanea del 1929, La Trahison des images, un dipinto a olio su tela dell’artista surrealista René Magritte. Essa non solo contiene in sé uno straordinario impatto comunicativo, ma muove anche il pensiero e la riflessione sul tema del “come vediamo le cose” e dunque, nello specifico del nostro contesto di discorso, delle rappresentazioni sociali e delle nostre percezioni della realtà.

Nell’opera, il disegno di una pipa – una riproduzione quasi reale, che sembra rasentare la perfezione – è accompagnata dalla scritta «Ceci n’est pas une pipe»: non si tratta di una pipa – vuole dirci Magritte – ma di un quadro, di una sua rappresentazione, visto che non la si può fumare né farla passare tra le dita. Un realismo, quello della pipa di Magritte, che è solo apparente (che quasi stride, senza di fatto tradirlo, con il surrealismo, di cui l’Autore è un grande rappresentante), denotando invece la distanza tra realtà e rappresentazione, segnando la con-fusione tra le due.

Partiamo da questa suggestione per affermare che il nostro modo di vedere la realtà sociale e di conoscerla non è mai esattamente la fotografia (che pure sarebbe una rappresentazione) di esso (cfr. Contini, 1992). Abbiamo ormai maturato, in ambito scientifico, importanti consapevolezze teoriche che problematizzano i temi della conoscenza e della percezione di ciò che ci circonda e che ci inducono, anche in un’ottica interculturale, ad assumere la prospettiva della complessità. Il rapporto tra soggetto e oggetto della conoscenza non è mai lineare ed è stato ormai superato quel “dualismo” che, soprattutto con il positivismo, postulava l’esistenza di due poli nettamente distinti, che dava la possibilità di un oggetto che funziona con regole proprie e di un soggetto in grado di rilevarle nella loro oggettività. Inoltre, la differenza tra conoscenza di senso comune e conoscenza scientifica non è di poco conto, soprattutto quando alle basi dell’agire il dato conoscitivo diventa particolarmente rilevante poiché funge da premessa all’azione stessa. E qui arriva il punto saliente del nostro discorso, almeno su due prospettive.

In primo luogo possiamo affermare che lo studio del pregiudizio ci ha resi ormai consapevoli del fatto che qualsiasi comportamento agito dipende in buona misura da ciò che conosciamo (o meglio ciò che crediamo di conoscere) e dagli orientamenti affettivi che costruiamo intorno ad uno specifico target (cfr. Contini, 1992). Lo stereotipo, nucleo cognitivo del pregiudizio, genera un’idea dell’altro, semplificata e generalizzante, che si accompagna a emozioni e comportamenti di solito congruenti: se il rom è per definizione un ladro, una persona sporca, una persona inaffidabile (questi i più comuni stereotipi sui rom), allora facilmente provo paura, ribrezzo, senso di distanza e potenzialmente mi trovo ad agire comportamenti specifici (dall’evitamento, allo scherno, all’aggressione) (cfr. Bolognesi e Lorenzini, 2017; Vaccarelli, 2009).

In secondo luogo occorre evidenziare che quello che sappiamo sulla nostra società è spesso frutto di specifiche rappresentazioni che sono strettamente connesse non solo ai sentimenti sociali più o meno evidenti e allarmanti (indifferenza, intolleranza, ostilità, ecc.), ma anche a un agire inconsapevole che, per quanto mosso da eventuali buone intenzioni, può risentire, come vedremo, di specifiche categorizzazioni dell’immigrazione e degli immigrati o di “narrazioni” di senso che sono vere e proprie trappole per una lettura “serena” della società multiculturale alla quale apparteniamo.

La prospettiva della decostruzione rappresenta una delle risposte possibili alle sfide dell’educazione interculturale, e in particolar modo si presta bene ad affrontare il problema, inteso in senso ampio, delle rappresentazioni sociali, del pregiudizio, degli atteggiamenti educativi, delle conoscenze di senso comune e delle false conoscenze che alimentano e condizionano i rapporti sociali. Nella formazione dei docenti la decostruzione diventa così un presupposto necessario, ma nella specificità di un approccio che deve considerare il fatto che essa, la decostruzione, non può essere presentata semplicemente come oggetto e contenuto della formazione stessa; va invece utilizzata anche e proprio come metodologia e strategia formativa, dando la possibilità ai docenti di:

 

  1. esperire in prima persona la dissonanza tra percezioni, senso comune e conoscenza scientifica delle realtà sociali (ad esempio rispetto a temi quali l’immigrazione, il concetto di cultura, le dinamiche interetniche, ecc.);

  2. individuare nel linguaggio quotidiano, ma anche all’interno dei propri immaginari, parole, etichette, concetti, mistificazioni – si pensi al concetto di razza ad esempio (Vaccarelli, 2005) – che orientano le visioni della diversità culturale, tracciano le forme delle relazioni, segnano anche l’agire educativo di un “implicito” tutto da consapevolizzare e mettere in discussione;

  3. costruire competenze riflessive sui propri orientamenti cognitivi e affettivi in tema di diversità culturale e sul loro ruolo giocato nell’agire educativo, nonché atteggiamenti ermeneutici e di continua interpretazione da spendere nella relazione e nella ricerca di strategie atte ad affrontare i problemi complessi della scuola multi e interculturale.

 

In breve, per decolonizzare le menti dei nostri studenti e delle nostre studentesse, noi docenti siamo i primi a essere chiamati a svolgere un lavoro di decolonizzazione della nostra stessa “mente” e in questo senso la prospettiva della decostruzione può favorire importanti passaggi e acquisizioni di nuove formae mentis pedagogiche.

Scrive Franco Cambi (2001, p. 35):

 

La decostruzione: si tratta non di rovesciare, annullare le identità: processo, tra l’altro, impossibile perché in essa “siamo”, “viviamo”, “agiamo” e “pensiamo”; bensì di rimetterla in discussione come “punto di vista” che non esclude altri “punti di vista”, che deve anche tenerne conto, anche misurarsi con questi; si tratta di “mettere in questione” l’etnocentrismo esclusivo e imperialistico oppure difensivo e aggressivo, per dare spazio a una visione più relativistica, più critica, più dinamica, anche delle culture, a partire da quella di origine, ponendone in luce la parzialità nell’elaborazione dei valori, dei modelli, degli schemi mentali; operazione complessa, teorica e pratica, ma che risulta effettivamente di “base” per porsi in linea con la società pluralistica che è in marcia […].

 

Possiamo ragionevolmente sostenere che la pratica della decostruzione non rimanda a un’azione legata all’individuo o alla personalità, fatto che porrebbe problemi di tipo etico e deontologico, ma a tutte quelle conoscenze distorte, rappresentazioni fallaci, pregiudizi, stereotipi, luoghi comuni, categorie linguistiche etnocentriche, che sono al tempo stesso rivelatrici e artefici di relazioni sociali asimmetriche e affini o vicine, spesso inconsapevolmente, alle mentalità e alle forme del razzismo contemporaneo.

 

Domandarsi. Dal che cosa è l’immigrazione a come vediamo l’immigrazione

Chi sono gli immigrati? Ci poniamo troppo spesso questo tipo di domanda, fornendo risposte che, ancora una volta troppo spesso, attingono dal senso comune e da un immaginario tutto costruito attraverso un discorso sociale che poco ha a che vedere con il mondo reale dell’immigrazione. In effetti, la parola immigrato/a – linguisticamente neutra – converge nel discorso sociale su significati precisi che connotano una condizione sociale marcandone i caratteri di genere (immigrato più che immigrata), di debolezza o, talvolta, di pericolosità, costruendo peraltro interessanti varianti di quei classici “effetti” studiati dalla pedagogia, meglio noti come effetto alone ed effetto pigmalione. Detto per inciso, tale visione dell’immigrato diventa, anche nella relazione educativa, una vera e propria trappola, laddove la sua condizione viene percepita come naturalmente legata all’idea di svantaggio socioeconomico e dunque problematicamente affrontabile all’interno di approcci didattici di natura compensativa.

Balibar (1989) sostiene che la categoria immigrato funzioni attraverso una logica che paradossalmente tende alla generalizzazione (o amalgama) e alla differenziazione/gerarchizzazione. Le categorie immigrazione e immigrato, cioè, «assimilano in un’unica situazione e in un unico tipo “popolazioni”, profondamente eterogenee per provenienza geografica, passato storico (e di conseguenza culturale e modi di vita), condizioni di entrata nello spazio nazionale e statuti giuridici» (Balibar, 1989, p. 17) e al tempo stesso permettono di «operare una precisa gerarchizzazione all’interno dell’insieme, apparentemente “neutro”, degli stranieri e non senza equivoci: un portoghese sarà più “immigrato” di uno spagnolo (a Parigi), meno di un arabo o di un nero; un inglese o un tedesco non lo saranno di certo, un greco, forse» (Balibar, 1989, p. 17).

L’atteggiamento educativo, spesso accompagnato da visioni etnocentriche o collaterali a sentimenti e idee di tipo razzista, può condizionare fortemente gli esiti dei processi formativi attraverso una mediazione didattica e educativa orientata proprio da tali presupposti e che produce non soltanto abilità o competenze (in diverso grado e misura) ma anche valori, orientamenti affettivi e motivazionali che possono avere un forte impatto anche sull’esito interculturale del lavoro.

Valga, uno tra tanti, l’esempio relativo al peso che il docente può dare alla lingua d’origine nel complesso quadro degli apprendimenti linguistici se essa è prestigiosa socialmente oppure non lo è: si è più propensi a sconsigliare l’uso dell’albanese a casa (in base a una sorta di teoria ingenua secondo cui la L1 interferirebbe con l’apprendimento dell’italiano), mentre si può incoraggiare l’uso di una lingua socialmente prestigiosa (l’inglese, il francese, il tedesco, ecc.) partendo da un’altra implicita teoria ingenua che non prevede interferenze negative. Due pesi e due misure, dunque, che si applicano a partire dalla percezione di uno studente o di una studentessa come immigrato/a (albanese, cinese, marocchino, ecc.) o come “semplicemente” straniero.

Il tema delle rappresentazioni sociali è di grande interesse per la pedagogia interculturale non soltanto quando si affrontano le questioni di “merito”, ma anche quando ci si pone il problema metodologico della loro decostruzione (Vaccarelli, 2009; 2017). Il loro studio è stato avviato dalla psicologia sociale, con le ricerche pionieristiche di Moscovici, che le ha definite come sistemi di valori, idee, pratiche che si costruiscono all’interno e grazie alla comunicazione sociale e interpersonale (Farr e Moscovici, 1989). Si tratta dunque di sistemi di riferimento che consentono di attribuire senso e significato alla realtà e a nuovi e imprevisti elementi che possono contraddistinguerla.

Le rappresentazioni sociali hanno la funzione di classificare situazioni, eventi e attori sociali nonché di rendere possibile un giudizio su di essi. Il linguaggio e la conversazione quotidiana producono e costruiscono in questo senso la realtà sociale. Il discorso sociale sui migranti e sulle migrazioni – e il pensiero va principalmente ai mass media, ma anche all’interazione sociale più fluida, inintenzionale, informale – converge su una costruzione di una rappresentazione distante dalla realtà e sensibile a sentimenti sociali che deformano l’immaginario di fronte a ciò che socialmente si ha davanti (Calvanese, 2011): dunque la sindrome da invasione, dunque l’amplificazione di certi fenomeni legati alla paura sociale e la dispercezione del fenomeno generalmente inteso, dunque l’affermazione del paradigma, giustamente definito da Genovese (2003) una “trappola”, dello scontro delle civiltà.

Si propone uno strumento di ricerca (un breve questionario) che è stato utilizzato nella formazione iniziale e in servizio dei docenti anche in chiave decostruttiva (e che a sua volta può essere utilizzato nelle classi scolastiche), per dimostrare che le nostre percezioni e rappresentazioni dell’immigrazione sono decisamente falsate dalle narrazioni sociali, che a più livelli, vengono costruite. Prima di parlare di immigrazione o di immigrati/e vale la pena dunque stimolare le conoscenze che se ne hanno per poi ricercare, insieme ai soggetti stessi, le informazioni che l'indagine scientifica ci offre e per riflettere su quei presupposti impliciti (la sindrome da invasione ad esempio, che ci lascia sovrastimare i fenomeni) che deviano le nostre percezioni e divengono premesse per l’azione educativa e sociale.

Una versione ridotta del questionario (Box 1), il grafico (figura 2) e la tabella 1 di seguito inseriti (riferiti solo ad alcune domande) si riferiscono alla ricerca iniziale (pubblicata nel 2017 su “METIS”) che ha cercato di validare lo strumento e il senso della metodologia di ricerca/formazione utilizzata (Vaccarelli, 2017).

 

SESSO: ________            ETÀ: ________  CORSO DI LAUREA, INDIRIZZO, ANNO: ______________________

 

Scuola frequentata ____________________________________________

 

SECONDO TE: Qual è la percentuale di immigrati in Italia sul totale della popolazione?________

 

SECONDO TE: Qual è la percentuale di maschi e di femmine tra gli immigrati?  Maschi: ___ Femmine: ___

 

SECONDO TE: Qual è la percentuale di studenti immigrati nella scuola italiana? ____________________

 

SECONDO TE: Tra gli immigrati ci sono più cristiani o musulmani? _________________________ Puoi fare una stima percentuale? Il ___ % di cristiani e il ___% di musulmani.

 

Puoi provare a indicare quali sono le 5 comunità più numerose in Italia?   1.______________

2. ______________ 3.__________________ 4. ________________ 5. ___________________

 

Indica con un sì o con un no quali soggetti di seguito descritti possono essere considerati a tutti gli effetti migranti:

una musicista francese residente a Milano

 

un muratore albanese residente a Roma

 

Rosa, un’insegnante rumena di scuola primaria a Roma

 

una casalinga marocchina arrivata in Italia per ricongiungimento familiare

 

un venditore ambulante senegalese sulle spiagge di Rimini

 

un rom residente a Pescara

 

una famiglia di profughi siriani

 

uno studente iraniano di ingegneria all’Aquila

 

una bambina cinese che frequenta la scuola all’Aquila

 

una lettrice statunitense di lingua inglese presso UNIVAQ

 

un pizzaiolo egiziano che ha preso la cittadinanza italiana

 

una tua compagna di scuola che studia e lavora a Londra da un anno

 

______________________________________________________________________________

Box 1: Questionario sulla percezione del fenomeno migratorio, adattato da Vaccarelli, 2017.

 

 

vaccarelli2

 

Figura 2 La presenza di immigrati in Italia - Confronto tra dati reali (IDOS, Confronti, Unar, 2016) e stima media della percentuale fornita dal campione (adattato da Vaccarelli, 2017). Il dato consente di rilevare la dispercezione del gruppo e di riflettere sul concetto di “sindrome da invasione” e di verificare quanto ne siamo condizionati.

 

Tabella 1 : La categorizzazione dei gruppi e delle nazionalità (adattato da Vaccarelli, 2017)

 

Indica con un sì o con un no quali soggetti di seguito descritti possono essere considerati a tutti gli effetti migranti:

 

% Sì

Un venditore ambulante senegalese sulle spiagge di Rimini

92,6

Una famiglia di profughi siriani

92,0

Una casalinga marocchina arrivata in Italia per ricongiungimento familiare

66,3

Rosa, un’insegnante romena di scuola primaria a Roma  

64,4

Un muratore albanese residente a Roma

63,2

Un rom residente a Pescara

61,3

Una bambina cinese che frequenta la scuola in Abruzzo

55,2

Uno studente iraniano di ingegneria all’Aquila

51,5

Una lettrice statunitense di lingua inglese presso l’Università

50,3

Una tua compagna di scuola che studia e lavora a Londra da un anno

50,3

Una musicista francese residente a Milano

42,9

Un pizzaiolo egiziano che ha preso la cittadinanza italiana

35,0

Nota. La domanda e i risultati ottenuti sono stati utilizzati per introdurre la teoria, di sopra esplicitata, di E. Balibar.

 

“Giocare” con la cultura: un esempio di decostruzione pedagogica

Gli approcci ingenui, di senso comune, al concetto di cultura portano a dare una definizione semplificata del che cosa è la cultura. Essi, soprattutto quando si situano nel setting educativo, portano spesso a inciampi, equivoci, visioni semplificate che poco hanno a che fare con l’approccio interculturale, rischiando di produrre o rafforzare (anziché decostruire) stereotipi e pregiudizi.

Nella formazione dei docenti (iniziale e in servizio) diventa necessario insistere non solo sul concetto di cultura così come esso è stato affrontato dalle scienze antropologiche, ma anche (come punto di partenza!) sulle definizioni ingenue che lavorano all’interno delle menti e delle scelte professionali.

Il passaggio dalla conoscenza di senso comune alla conoscenza scientifica, tanto affrontato nella didattica delle discipline e tanto studiato se applicato agli apprendimenti dei nostri alunni, diventa dunque un percorso interessante anche all’interno della formazione interculturale dei docenti, avendo in sé un potenziale decostruttivo che può suscitare, successivamente, una proficua occasione di riflessione.

In anni di formazione dei docenti, si è potuto verificare che un’idea di cultura come insieme di “usi e costumi dei popoli”, non problematizzata all’interno di una necessaria profondità teorica, induce gli stessi/le stesse a scelte di campo che postulano l’idea di cultura come sistema chiuso, asfittico, centrato sulle tradizioni popolari e sulle curiosità di tipo etnico. Spesso si tratta di persone che hanno anche nel loro bagaglio formativo lo studio dell’antropologia culturale. Ciò può significare che certi passaggi della formazione accademica, tipicamente trasmissiva, non penetrano all’interno della formazione professionale, trasformandosi in sensibilità complesse, in formae mentis e atteggiamenti che possano consapevolmente orientare le scelte professionali.

Per promuovere una conoscenza problematizzante e un atteggiamento di cautela sulle culture altre, si è proposta un’attività (nell’ottica di un approccio ludiforme di visalberghiana memoria) che ha come obiettivi:

 

  1. individuare la definizione ingenua e implicita di cultura che lavora nei nostri processi di percezione dei fenomeni culturali;

  2. individuare le semplificazioni e le logiche stereotipate che applichiamo alle culture altre;

  3. individuare le complessità e le differenziazioni interne alle diverse culture;

  4. riflettere sui significati di “decostruzione” pedagogica.

 

Nella pars destruens dell’attività si invitano i soggetti a scrivere su un biglietto una definizione del concetto di cultura e di consegnarlo al conduttore, che li conserverà per le fasi successive dell’attività.

In seguito si apre una fase in cui, collettivamente, si deve rispondere alla domanda “Quali sono gli elementi che secondo voi descrivono questa cultura”? Si divide dunque la lavagna in tre colonne, una per la cultura cinese, una per la cultura araba e l’ultima per la cultura italiana. All’interno di ogni colonna si scriverà quanto emerge in questa sorta di brainstorming di gruppo (si richiede di fornire parole “chiave”, elementi rappresentativi), segnando il tempo impiegato per la “descrizione” di ogni singola cultura. Nella tabella 2 si riporta quanto emerso all’interno di uno degli incontri di formazione (con studentesse e studenti di scienze della formazione primaria e scienze dell’educazione).

 

Tabella 2: Esempio di risposte fornite da studentesse e studenti di scienze della formazione primaria e scienze dell’educazione

 

CULTURA CINESE

Tempo: 2 minuti

CULTURA ARABA

Tempo: 4 minuti

CULTURA ITALIANA

Tempo: 6 minuti

1.      Mao

2.      Riso

3.      Confucianesimo

4.      Gheisha

5.      Guanxi

6.      Oroscopo

7.      Gatto portafortuna

8.      Muraglia cinese

9.      Dragone

10.   Tao

11.   Bruce Lee

12.   Gingseng

13.   Bacchette

14.   Sviluppo economico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.     Ramadan

2.     Corano

3.     Burqa

4.     Allah

5.     Velo

6.     Maometto

7.     La Mecca

8.     Sunna

9.     Tabù del maiale

10.  Hummus

11.  Sceicco

12.  Beduini

13.  Califfato

14.  Kajal

15.  Imam

16.  Divano

17.  Numeri

18.  Alfabeto

19.  Grafemi

20.  Kebab

21.  Narghilè

22.  Kalasnikov

23.  Unguenti

24.  Fatima

25.  Patriarcato

26.  Terrorismo

27.  Kamikaze

28.  Petrolio

29.  Gaza

30.  Isis

31.  Musica araba

32.  Bataclan

33.  Qatar

 

1.      Spaghetti

2.      Pizza

3.      Mafia

4.      Cupola

5.      Papa

6.      Lirica

7.      Pavarotti

8.      Made in Italy

9.      Caffè

10.   Ferrari

11.   Roma

12.   Razzismo

13.   Calcio

14.   Dante

15.   Leonardo da Vinci

16.   Cenone di Natale

17.   Vespa

18.   Mandolino

19.   Gondola

20.   Inno di Mameli

21.   Dialetti

22.   Babà

23.   Fascismo

24.   Turismo

25.   Consumismo

26.   Monoteismo

27.   Mirabilandia

28.   Montagna

29.   Gesticolare

30.   Colosseo

31.   Tasse

32.   Trenitalia

33.   Alitalia

34.   Terrone

35.   Mondiali 2006

36.   RAI

37.   Cattiva edilizia

38.   Caso Cucchi

39.   Costituzione

40.   Televisione

41.   Vino

42.   Stivale

43.   Tartufo

44.   Corruzione

45.   Raccomandazioni

46.   Isole

47.   Populismo

48.   Pulcinella

49.   Unità d’Italia

50.   Chiusura mentale

51.   Bidet

52.   Invenzione della pila

53.   Parità uomo/donna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Al termine di questa prima fase si fornisce una nuova consegna. Mentre il conduttore rileggerà ognuno degli elementi descrittivi riferiti alle singole culture, il gruppo dovrà esprimersi per confermare o non confermare che l’elemento in questione sia veramente rappresentativo di quella cultura. Basta un “No” da parte di un membro per cancellare con un segno la voce dalla lista (tabella 3).

 

 

Tabella 3: Prospetto dal quale si evincono le parole cancellate

 

CULTURA CINESE

Tempo: 1 minut0

CULTURA ARABA

Tempo: 2 minuti

CULTURA ITALIANA

Tempo: 10 minuti

1.     Mao

2.     Riso

3.     Confucianesimo

4.     Gheisha

5.     Guanxi

6.     Oroscopo

7.     Gatto portafortuna

8.     Muraglia cinese

9.     Dragone

10.  Tao

11.  Bruce Lee

12.  Gingseng

13.  Bacchette

14.  Sviluppo economico

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1.     Ramadan

2.     Corano

3.     Burqa

4.     Allah

5.     Velo

6.     Maometto

7.     La Mecca

8.     Sunna

9.     Tabù del maiale

10.  Hummus

11.  Sceicco

12.  Beduini

13.  Califfato

14.  Kajal

15.  Imam

16.  Divano

17.  Numeri

18.  Alfabeto

19.  Grafemi

20.  Kebab

21.  Narghilè

22.  Kalasnikov

23.  Unguenti

24.  Fatima

25.  Patriarcato

26.  Terrorismo

27.  Kamikaze

28.  Petrolio

29.  Gaza

30.  Isis

31.  Musica araba

32.  Bataclan

33.  Qatar

1.     Spaghetti

2.     Pizza

3.     Mafia

4.     Cupola

5.     Papa

6.     Lirica

7.     Pavarotti

8.     Made in Italy

9.     Caffè

10.  Ferrari

11.  Roma

12.  Razzismo

13.  Calcio

14.  Dante

15.  Leonardo da Vinci

16.  Cenone di Natale

17.  Vespa

18.  Mandolino

19.  Gondola

20.  Inno di Mameli

21.  Dialetti

22.  Babà

23.  Fascismo

24.  Turismo

25.  Consumismo

26.  Monoteismo

27.  Mirabilandia

28.  Montagna

29.  Gesticolare

30.  Colosseo

31.  Tasse

32.  Trenitalia

33.  Alitalia

34.  Terrone

35.  Mondiali 2006

36.  RAI

37.  Cattiva edilizia

38.  Caso Cucchi

39.  Costituzione

40.  Televisione

41.  Vino

42.  Stivale

43.  Tartufo

44.  Corruzione

45.  Raccomandazioni

46.  Isole

47.  Populismo

48.  Pulcinella

49.  Unità d’Italia

50.  Chiusura mentale

51.  Bidet

52.  Invenzione della pila

53.  Parità uomo/donna

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Una prima riflessione da attivare riguarda i tempi e il numero delle risposte date. Successivamente si chiedono spiegazioni sulla natura degli elementi che sono emersi e infine sul perché, paradossalmente, le voci riferite alla cultura italiana sono quelle che più sono messe in discussione e cancellate. Si osserva spesso, peraltro, che ogni volta che si cancellano voci riferite ad altre culture, il gruppo accetta di buon grado e non dibatte sui motivi dell’eliminazione della voce, mentre quando lo si fa per la cultura italiana il dibattere si fa spesso acceso, con argomentazioni pro e contro che rendono particolarmente vivace il clima. Altra questione che va sollevata riguarda il significato di “cultura araba”, chiedendo ai soggetti di chiarire quale riferimento geografico hanno utilizzato per costruire l’idea più generale, oppure quale riferimento religioso e linguistico. La domanda “critica” che porta alla riflessione è spesso la seguente: “I macedoni, o gli afghani, che sono a maggioranza musulmani, sono dunque anche arabi”?

 

Solitamente emergono le seguenti riflessioni:

 

  1. le culture “altre”, essendo più distanti da noi, sono più facilmente descrivibili, ma solo illusoriamente: si tratta spesso di visioni che rimandano generalmente a stereotipi o a elementi che vengono erroneamente trasferiti da altre culture (come nel caso della gheisha, ad esempio);

  2. la cultura araba di per sé non viene collocata in modo condiviso su un’area geografica particolare, ma nella sua definizione lavora esclusivamente l’idea di Islam e di religione islamica. Nessuno si pone la domanda se la cultura araba sia in realtà un’applicazione troppo ampia a un mondo sociale e politico estremamente complesso e diversificato del quale, peraltro, esiste una definizione sostanzialmente misconosciuta;

  3. la cultura italiana è quella che meglio si conosce attraverso l’esperienza sociale e dunque quella che ottiene il maggior numero di voci. Adincrementare la complessità con cui ci si rivolge alla cultura italiana però non troviamo soltanto questo dato quantitativo, ma soprattutto il paradosso che si incontra quando ci si trova di fatto a cancellare numerosissime voci;

  4. la dialettica che si impone su alcuni temi relativi alla cultura italiana, che non trova posizioni condivise nel gruppo (la parità di genere è raggiunta, la parità di genere NON è raggiunta; l’Italia è un Paese cattolico, l’Italia NON può definirsi cattolica, e via dicendo) porta a prendere consapevolezza che la diversità intraculturale sia una caratteristica importante delle culture.

 

Ma allora esiste la cultura? Questa domanda, che spesso emerge durante questa attività, apre la pars construens del percorso, dentro la quale si forniscono diverse definizioni del concetto di cultura, dando centralità a quella che l’antropologo svedese Hulf Hannerz (1996; 2001) ha elaborato nei suoi studi sulla diversità e sulla complessità culturale

È importante, comunque, partire dalle accezioni più ingenue, più legate al senso comune, che caratterizzano fortemente l’azione educativa e condizionano gli atteggiamenti delle persone nel loro quotidiano. I corsisti spesso forniscono definizioni di questo tipo:

 

  • “L'insieme degli usi e dei costumi dei popoli”

  • “I valori, le credenze, le religioni”

  • “La lingua, la religione, le abitudini sociali”

  • “La cultura è la visione del mondo e i modi di pensare di un popolo”

  • “Saperi, concezioni, arte, scienza”.

 

Il problema terminologico e concettuale, in tal senso, come d’altronde sempre accade, non è un fatto puramente formale e per così dire nominalistico, bensì sostanziale. Concezioni di senso comune, come quelle di sopra elencate, sono condizionate da immaginari spesso esotici e probabilmente da rielaborazioni ipersemplificate, attraverso il discorso sociale, delle prime definizioni date dall’antropologia culturale a ciò che chiamiamo cultura. Non va dimenticato che il termine cultura ha origini antiche, da rintracciarsi nella lingua latina (Colo: coltivare). Il significato più classico e canonico va legato certamente all’ideale greco di paideia, a quello romano di humanitas, alla ripresa sei-settecentesca del termine cultura come processo di formazione della personalità umana e la sua capacità di progredire. Il concetto scientifico, quello antropologico, ha una storia assai più breve (Rossi, 1970). Il primo fu Tylor, il fondatore dell’antropologia, che nel 1871, dentro le matrici dell’evoluzionismo britannico forniva una prima definizione di cultura, alla quale se ne sono aggiunte numerose altre. In modo schematico e per nulla esauriente, si riportano alcune delle definizioni (non solo di antropologi, ma anche di sociologi e psicopedagogisti della levatura di Weber e Bruner) da utilizzare all’interno dell’attività formativa:

 

1871 – Tylor in “Primitive Culture” (cit. in Rossi, 1970, p. 7):

 

La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell’insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società.

 

Con questa prima definizione abbiamo ancora un’accezione di cultura come “contenitore”, pur continuando a riconoscere a Tylor il grande merito di aver fornito il primo, e ancora oggi in certa misura utile, inquadramento scientifico del termine. Nelle accezioni di senso comune sembra risuonare ancora (in una forma banalizzata e semplificata) questa definizione di cultura. Diventa importante, nella pars construens del percorso, riflettere sui vari passaggi che le scienze antropologiche (ad esempio con Tylor, Boas, Geertz, Hannerz), ma anche sociologiche e psicopedagogiche (è il caso di Weber e di Bruner) hanno fatto per arrivare a sostenere un’idea di cultura come contesto soprattutto comunicativo in cui il tema del significato assume centralità. Mettiamo dunque in rassegna alcune tra le innumerevoli definizioni date al concetto di cultura, fatto che di per sé comprova la complessità teorica e metateorica del termine.

 

1922 – Weber in Il metodo delle scienze storico sociali (Weber, 1958, p. 96):

 

La cultura è una sezione finita dell'infinità priva di senso del divenire del mondo, cui è attribuito senso e significato dal punto di vista dell'uomo.

 

1938 – Boas in The mind of primitive man (cit. in Rossi, 1970, p. 35):

 

La cultura può essere definita come la totalità delle reazioni e delle attività intellettuali e fisiche che caratterizzano il comportamento degli individui i quali compongono un gruppo sociale – considerati sia collettivamente sia singolarmente – in relazione al loro ambiente naturale, ad altri gruppi, ai membri del gruppo stesso, nonché di quello di ogni individuo rispetto a se stesso. Essa comprende anche i prodotti di queste attività e la funzione che essi assolvono nella vita dei diversi gruppi. La cultura non si riduce tuttavia alla semplice riduzione di questi vari aspetti della vita; essa è qualcosa di più, perché i suoi elementi non sono indipendenti ma possiedono una struttura.

 

1973 - Geertz in Interpretazione di culture (Geerts, 1987, p. 97):

 

Un sistema di significato creato storicamente, nei cui termini noi diamo forma, ordine, scopo e direzione alla nostra vita.

 

Da Geertz la concezione forse più breve, ma ermeticamente densa di grande problematicità, di cultura come ragnatela di significati.

 

1986 – Bruner in La mente a più dimensioni (Bruner, 1988, p. 151):

 

Le realtà sociali non sono pietre nelle quali inciampiamo, né possono produrci ematomi se le prendiamo a calci, sono i significati a cui gli uomini pervengono mettendo in comune le proprie conoscenze. Una concezione negoziale, “ermeneutica” o transazionale come quella che sono venuto esponendo presenta implicazioni profonde e dirette che investono il terreno della prassi educativa. […]. L’implicazione più generale è che una cultura vive un processo di rielaborazione costante, in quanto viene costantemente interpretata dai suoi membri. Da questo punto di vista, essa è tanto un forum per negoziare e rinegoziare un significato, nonché per dare ragione all’azione, quanto un insieme di regole e di indicazioni per l’azione stessa.

 

1992 – Hannerz in La complessità culturale (Hannerz, 2001, p. 4):

 

[…] come avviene per un fiume quando lo si guardi da lontano, la cultura appare qualcosa di permanente, di durevole, di identico, ma come il fiume essa è sempre in movimento e benché se ne possa cogliere la struttura, in realtà essa è completamente dipendente da un processo continuo […].

 

Di Hannerz, l’idea di cultura come diversità organizzata.

 

Hannerz descrive, come abbiamo appena visto, questo concetto così problematico entro la metafora del flusso: un fiume che si osserva da lontano appare permanente, durevole, identico a se stesso, ma da vicino ci si accorge che è sempre in movimento. Così accade nel “gioco” proposto: la cultura cinese, vista da lontano, appare una “realtà” chiara e compatta, che non si presta alla rivisitazione e alla rielaborazione; la cultura italiana, nella quale siamo immersi, appare talmente fluida e complessa da essere sfuggente e dunque scarsamente “descrivibile”. Così come il fiume, la cultura è potente e persistente, ma solo parzialmente, essendo anche adattiva, flessibile, capace di nuove strategie: in questo modo la metafora di Hannerz si accompagna appieno all’immagine di forum che Bruner ha formulato.

La cultura, che dovremmo leggere nella sua stessa potenzialità interculturale, si presenta solo apparentemente come un dato statico, preordinato, fisso. Essa piuttosto consente un’organizzazione della diversità, almeno secondo quanto Hannerz (1998) ha sostenuto in merito. In ottica intraculturale, potremmo aggiungere che essa è dunque quell’aggregato che ci consente di muoverci nello spazio dell’intellegibilità, di fare chiarezza interpretativa o percettiva anche quando non sentiamo, come soggetti, che un valore, uno stile di vita o qualsiasi altra esperienza culturale ci appartengono pur essendo membri dello stesso macrogruppo sociale: essere pro o contro l’eutanasia, ad esempio, non segna alcun limite culturale dentro quello che chiamiamo “cultura italiana”, poiché sappiamo bene quanto il tema divida l’opinione pubblica, le sensibilità, i dibattiti interni alla nostra società. Quello che ci rende appartenenti alla stessa cultura è proprio la possibilità di avere chiari i significati (anche quando non li condividiamo), di usare gli stessi linguaggi, di rappresentarci gli impliciti e le premesse dei discorsi, di attingere a un mondo di significati che padroneggiamo e che ci “aspettiamo” anche quando non sono i “nostri” significati.

Chiudiamo con un altro passaggio di Ulf Hannerz (2001, p. 90) che sembra sostenere in modo efficace quanto appena detto:

 

Non dobbiamo perdere di vista il fatto che la cultura è il mezzo tramite il quale gli esseri umani interagiscono. Essi si sforzano di rendersi reciprocamente più comprensibili attraverso la cultura e, quanto più ampia è la parte di cultura condivisa, tanto più efficace risulta (almeno per certi versi) il loro coordinamento nell’interazione. […]. La formula organizzativa ideale è “io so e so che tu sai e so che tu sai che io so”.

 

Interpretazione, negoziazione, produzione dei significati, flessibilità della cultura, nei contesti multiculturali, rendono possibile l’interculturalità, ma solo attraverso un’educazione che sappia canalizzare i conflitti, sciogliere i nodi dell’incomunicabilità, evitare le forme di fagocitazione delle culture minoritarie entro quella maggioritaria, immettersi nel flusso culturale senza avere la presunzione di schematizzarlo.

 

Per concludere: coltivare il mistero dell’altro

Noi chiamiamo volto il modo in cui si presenta l’Altro. Questo modo non consiste nel mostrarsi come un insieme di qualità che formano un’immagine. Il volto d’Altri distrugge a ogni istante e oltrepassa l’immagine plastica che mi lascia (Lévinas, 1990, p. 48).

 

Sono le parole di Emmanuel Lévinas, uno dei più importanti filosofi del Novecento, che ha messo al centro della sua riflessione il tema del volto dell’altro, che genera tutto il suo pensiero sull’etica e sull’alterità (1990). L’incontro con l’altro per Lévinas avviene attraverso il suo volto, che ci interroga e ci inquieta, e che non possiamo mai conoscere fino in fondo. E questa impossibilità di conoscerlo diviene anche, se accettata, la condizione del suo riconoscimento: se non si accetta il mistero dell’altro, se non si rinuncia alla sua definitiva conoscenza (peraltro impossibile), significa che vogliamo impossessarcene e dominarlo. L’altro trascende dunque ogni possibilità di oggettivazione. È un invito, questo, a coltivare il dubbio più che la certezza, a chiederci “come” vediamo gli altri e le altre, prima ancora di parlare di chi sono, a inserire nello sfondo il tema dello “specchio”, in cui ogni immagine riflessa rimanda a un io spesso inquieto e inconsapevole, come anche Kristeva (1990) ha cercato di dirci. La formazione interculturale, ricca di queste riflessioni, si pone il compito di decostruire, di seminare la cultura del dubbio piuttosto che della certezza, di promuovere la problematizzazione di ogni questione sociale e educativa, di rifuggire dalle tentazioni dell’oggettivazione, per costruire al contrario una forma mentis e un atteggiamento ermeneutico su cui poggiare le scelte e le prassi educative.

 

 

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