Test Book

Riflessioni e teorie / Thoughts and theories

Una pratica teatrale interculturale. L’immaginario orientale e il teatro povero di Grotowski
An interculturAn intercultural theatrical practice. The oriental imaginary and the poor theatre of Grotowski

Francesco Cappa


Autore per la corrispondenza

Francesco Cappa
Indirizzo e-mail: francesco.cappa@unimib.it
Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione «Riccardo Massa», Università degli Studi Milano Bicocca, Piazza dell’Ateneo Nuovo, 1 20126, Milano



Sommario

C’è un grande mito che si aggira nella storia del teatro occidentale: il «teatro orientale». Questo mito, frutto del lavoro e del pensiero di quegli uomini e donne che hanno fatto la storia del teatro in Occidente, si è spesso presentato come un mito delle origini, delle fonti, ma più di una volta è servito a forzare e sfondare barriere proprie della tradizione occidentale. In questo senso l’immaginario del teatro orientale agisce ancora oggi, ovviamente anche fuori dalla cultura teatrale, come una delle facce di quel potere dell’immaginario che investe tutte le forme della vita diffusa e ha conseguenze sulla vita interiore ed esteriore delle persone. Da questa prospettiva, utilizzando l'esperienza degli albori del teatro di Grotowski, cercheremo di mettere in evidenza un modo di funzionamento dell'immaginario orientale. È una storia di intrecci e ritorni che in questo luogo vorrei fare emergere: una storia paradigmatica del funzionamento dell’immaginario (non solo orientale) che investe i modi in cui la tradizione estetica e artistica occidentale sceglie nuove vie per il suo rinnovamento e per «bruciare» i propri codici e simboli.

Parole chiave

Teatro, immaginario orientale, Grotowski, pratica, intercultura


Abstract

There is a great myth in the history of Western theatre: it's Eastern theatre. This myth, forged by the work of the men and the women who made the history of Western theatre, is always presented as a myth of the source, also outside theatrical culture. This myth has the power to transform the shapes of a lifetime and can transform the inner lives of subjects. From this specific perspective, exploring the birth of poor theatre by Jerzy Grotowski, we will attempt to illuminate a way of making the Eastern imaginary. What we will describe in this paper is a story of twists and reversals: a paradigmatic story that can change the different ways that the aesthetics and poetics of Western culture choose to profoundly renovate linguistic codes and symbols.

Keywords

Theatre, oriental imaginary, Grotowksi, practical, interculturality


Introduzione

C’è un grande mito che si aggira nella storia del teatro occidentale: il «teatro orientale». Questo mito, frutto del lavoro e del pensiero di quegli uomini e donne che hanno fatto la storia del teatro in Occidente, si è spesso presentato come un mito delle origini, delle fonti, ma più di una volta è servito a forzare e sfondare barriere proprie della tradizione occidentale. In questo senso l’immaginario del teatro orientale agisce ancora oggi, ovviamente anche fuori dalla cultura teatrale, come una delle facce di quel potere dell’immaginario che investe tutte le forme della vita diffusa e ha conseguenze sulla vita interiore ed esteriore delle persone. Per questo può risultare interessante cercare di capire meglio come un immaginario, inteso come sistema di produzione e mediazione di apparenze che generano valore, possa mutare o abbia influito sulla morfologia di alcuni luoghi privilegiati della nostra storia culturale (in questo caso della storia delle poetiche teatrali), con maggiore incidenza dalla metà del secolo scorso fino a oggi, indagandone i meccanismi interni di attuazione e di attualizzazione, che oggi a volte sono talmente radicati nell’esperienza vissuta da sfuggire all’analisi.

Da questa prospettiva sarebbe stato corretto, ma banale, descrivere solo le influenze esplicite o implicite, ammesse o negate del teatro rituale orientale, dello Hatha yoga, del training attoriale della tradizione del teatro di Pechino, del Kendo, del teatro danzato classico indiano, del pensiero zen e taoista sulla concezione e sulle pratiche specifiche del «teatro povero» di Jerzy Grotowski. È un’altra la storia di intrecci e ritorni che in questo luogo vorrei fare emergere: una storia paradigmatica, a mio avviso, del funzionamento dell’immaginario (non solo orientale) che investe i modi in cui la tradizione estetica e artistica occidentale sceglie nuove vie per il suo rinnovamento e per «bruciare» i propri codici e i propri palinsesti simbolici. Per altri versi questa storia, apparentemente circoscritta all’esperienza teatrale, dei rapporti fra l’immaginario, il suo discorso, e l’esperienza estetica occidentale ci porta vicini alla parte più magmatica e vitale (per questo più magnetica) di ciò che oggi si può ancora chiamare l’oggetto dell’estetico (ancor più che dell’estetica, forse).

Risonanze fra Grotowski e le sue fonti

Il grande contributo di Stanislavskij (1865-1938), secondo Grotowski, è quello di avere sollevato questioni fondamentali sul lavoro dell’attore e sulla motivazione delle sue azioni. Grotowski, nato in Polonia nel 1933, si considerava un allievo sui generis del grande uomo di teatro russo, ma ha ribadito in più occasioni che il più grande contributo alla professione dell’attore dato da Stanislavkij consisteva nel fatto di avere stabilito l’obbligo, per l’attore occidentale, del lavoro e del training quotidiano «al di là dello spettacolo».

Il suo sforzo di pensare sulla base di quello che è pratico e concreto. Come toccare ciò che non è tangibile? Volle trovare delle vie concrete verso ciò che è segreto, misterioso (Grotowski, 1980, pp. 194-195).

Nelle parole di Grotowski iniziamo a puntare la nostra attenzione sugli aspetti che colpiscono il regista polacco e che fatalmente ricalcano temi tipici della tradizione orientale e delle sue traduzioni per la cultura europea. Risulta quasi banale marcare l’analogia con l’indifferenza fra arte e vita che Grotowski apprezza nel lavoro sull’attore che Stanislavkij propone e il fatto che l’intangibile, che è però l’essenziale per la vita dell’opera e dell’artista è accessibile per una «via» concreta e pratica, proprio come non smette mai di ricordare il monaco zen.

Ma la questione più importante per Grotowski nell’insegnamento del mentore russo riguarda qualcosa di ancora più profondamente orientale: la questione dell’essenza fluttuante della verità. Stanislavskij era in costante situazione di rinnovamento, in una continua disponibilità a mettere in questione le fasi acquisite del processo di formazione dell’attore e dell’interpretazione dei testi. Grazie a lui Grotowski fa sua l’impossibilità metodologica a cristallizzare un metodo come «ricetta» per il lavoro dell’attore e del regista. Stanislavskij, come Artaud, altro nume tutelare di Grotowski, va salvato dallo scempio dei suoi epigoni che cercano di fissare qualcosa a uso di «produzione teatrale» e non di ricerca teatrale. Anche qui le risonanze orientaleggianti sono palesi: la via (il metodo) si dà solo se si rifà ogni volta di nuovo, come il teatro, l’evento che il teatro deve essere per sopravvivere alla sua morte, che c’è solo se si ridà ogni volta come nuovo l’incontro fra attore e spettatore, perché per Grotowski il teatro è essenzialmente questo incontro.

Quando giunsi alla conclusione che il problema della costruzione di un sistema mio era illusorio e che non esiste alcun sistema ideale che sia la chiave della creatività, allora la parola «metodo» cambiò per me significato. Esiste la sfida a cui ognuno dovrebbe dare la propria risposta (Grotowski, 1980, p. 194).

Quello che muta è il rapporto fra il processo e il prodotto: per Grotowski quello che conta è soltanto il processo di creazione di una propria risposta personale a problemi di tipo «metodologico». Pur credendo nell’esistenza di un percorso concreto di ricerca e di training per l’attore, egli ritiene che quest’ultimo sia qualificato e autentico solo se individuale e personale.

Cosa rimane dunque? Al posto del metodo rimane il rimando a una pratica, rimangono le tecniche e l’etica: anche qui siamo molto vicini allo zen. Le tecniche sono direttive pratiche, precise fino al parossismo, direttive che combinate in modi differenti danno risultati verificabili dal singolo soggetto che le mette in pratica. L’etica è l’uso delle tecniche: il come, quando e soprattutto il perché di quest’uso. L’etica dimostra qui la stessa importanza che ha in tutte le discipline orientali, la priorità che il maestro invita in ogni istante l’allievo a perseguire, la ricerca riguarda quindi più l’atteggiamento con cui le tecniche vengono praticate, scoperte, verificate e realizzate o non realizzate per scelta.

L’indicazione è molto vicina a quella delle tecniche di meditazione dello zen. Inoltre è lo stesso Grotowski che ribadisce la relazione fra l’atteggiamento etico che guida la ricerca estetica e la non distinzione fra arte e vita: «Non credo che il mio lavoro a teatro possa essere definito col nome di nuovo metodo [...]. Non ritengo neppure che si tratti di qualcosa di nuovo. Penso che questo genere di ricerca sia esistito più frequentemente all’esterno del teatro, benché talvolta sia esistito anche in certi teatri. Si tratta del cammino della vita e della conoscenza» (ibidem, p. 204).

Il dono nell’abbandono

Una delle frasi più celebri e citate – anche fin troppo – come carattere proprio della poetica del teatro povero di Grotowski riguarda la «penetrazione psichica dell’attore», che più che rimandare alle correnti introspezioniste o, in modo superficiale, alle traduzioni teatrali dei fondamenti della psicoanalisi, ci riportano ancora una volta, a mio parere, direttamente a una vicinanza con la meditazione orientale e soprattutto, sul piano teoretico, con le concezioni della soggettività e della trascendenza. Per dare ragione di ciò riprendo il passo di Grotowski ampiamente e non, come di solito fanno in molti, estrapolandone solo le ultime tre righe che si prestano bene a una definizione da mandare a memoria.

Comunque, il fattore determinante di questo processo è costituito dalla tecnica di penetrazione psichica dell’attore. Egli deve imparare a fare uso della sua parte come di un bisturi che gli serva per auto-sezionarsi.

Non si tratta di rappresentare se stesso alle prese con determinate circostanze, né di «vivere» un personaggio; né tanto meno comporta quel genere di recitazione, tipico del teatro epico, basato sull’analisi a freddo. È fondamentale, invece, utilizzare il personaggio come un trampolino, uno strumento che serva per studiare ciò che è nascosto dietro alla nostra maschera di ogni giorno – l’essenza più intima della nostra personalità – per offrirla in sacrificio, palesandola.

Ciò è un eccesso, non solo per l’attore, ma anche per il pubblico. Lo spettatore intuisce, a livello conscio o inconscio, che tale atto è un invito, rivolto a lui, ad agire in maniera analoga: questo causa spesso opposizione e indignazione, poiché i nostri sforzi costanti sono tesi a dissimulare la verità che ci concerne, non solo di fronte al mondo, ma anche di fronte a noi stessi; noi tentiamo di evitare la verità su noi stessi: ed ecco che qui, invece, siamo invitati a fermarci e ad analizzarci. E noi temiamo di venire tramutati in statue di sale, se ci giriamo, come accadde alla moglie di Lot.

Il compimento dell’atto in questione (auto-penetrazione, denudamento) comporta la mobilitazione di tutte le energie fisiche e spirituali dell’attore che si trova in un atteggiamento di risoluzione indolente, una disponibilità passiva che consente di realizzare una partitura attiva (Grotowski, 1970, pp. 45-46).

Ho scelto di riportare il passo per intero poiché credo che in questa forma più ampia restituisca meglio una doppia evidenza: da un lato Grotowski non può essere semplicemente liquidato come un buon lettore della psicoanalisi e questo passo in realtà dimostra anche la distinguibilità della sua posizione in campo teatrale rispetto a chi ha sposato in pieno certe derive psicoanalitiche per fare o «leggere» il teatro, dall’altro evidenzia chiaramente alcune risonanze orientali che abbiamo già ripreso.

Grotowski riteneva che l’accettazione di se stessi e l’integrità indispensabili al lavoro creativo si potessero raggiungere, paradossalmente, solo trascendendo la propria individualità e il proprio corpo, tentando di «rifarlo» il corpo, come vaticinava Artaud.

Gli «esercizi fisici», per Grotowski, fornivano l’area di lavoro per questo andare oltre: spesso erano basati su posizioni e movimenti ginnici molto vicini all’Hatha yoga e si fondavano su una «qualità di sfida». Affrontando questa sfida, atteggiamento questo molto simile a quello taoista, l’attore raggiungeva una condizione di «fiducia primaria», quando riusciva a vincere la sfida trovando il suo «modo» (la sua via) per raggiungere uno stato ignoto «lasciando che fosse la propria natura (per quanto possibile) a trovare il modo» (Grotowski, 1972, p. 112).

La trascendenza dell’io comune, quello che abita la «chiacchiera» del quotidiano, da parte dell’attore non è qualcosa di volitivo, di attivo: bisogna accettare un rischio che riguarda l’essere contagiati dalla verità e quindi anche il rischio di contagiare. Questo rischio è già presente negli esercizi fisici. «La trascendenza prevede che non si oppongano resistenze di fronte alla trascendenza» (Grotowski, 1979, p. 134).

Lo sblocco delle difese, il superamento delle barriere psichiche cifrate nel linguaggio del corpo consente l’abbandono verso la trascendenza, è una soglia molto vicina alla propria natura e al proprio «modo», non vi si oppone: questo è il cuore del gesto autentico, questa «risoluzione indolente», l’attività nella passività e la passività nell’attività. «Il risultato è l’annullamento dell’intervallo di tempo tra gli impulsi interiori e le reazioni esteriori in modo tale che l’impulso sia già una reazione esterna» (Grotowski, 1970, p. 22).

Questo è un dato empirico riscontrabile, ma è anche lo stesso atteggiamento che David Feldshuh riscontra nel suo articolo Lo Zen e l’attore: «Nello Zen c’è una parola che indica la divisione fra intelletto e azione. La parola è suki, che significa “uno spazio senza oggetti”, oppure “crepa, fenditura, spaccatura in un oggetto solido”. Ogni separazione tra pensiero e azione è una forma di suki, che porta a un’interruzione, a una rottura del flusso di creatività e sensibilità. Per quanto riguarda il moto fisico, il suki impone un velo di pensiero che può ostacolare il movimento espressivo e spontaneo» (1979, p. 89).

Grotowski lavora proprio su questo ostacolo, per affrontarlo in una modalità non volitiva. La qualità del processo che vede coinvolto l’attore del teatro povero non è distinta, connotata in modo forte dalla volontà, l’intenzione che rivela la posizione del soggetto rispetto all’evento che si fa in scena ha un’evidente valenza etica. Tale valenza punta a creare, in senso letterale e per questo il teatro di Grotowski vuole essere un rito, uno spazio vitale (e non solo psicologico, sarebbe riduttivo) in cui non ci sia interruzione fra pensiero e azione, fra conoscenza e vita, fra estetica e etica.

Una partitura attiva

«L’atteggiamento mentale necessario è una disponibilità passiva ad attuare una partitura attiva, non un atteggiamento per cui una persona vuole fare una determinata cosa, ma quello per cui fa a meno di non farla» (Grotowski, 1970, p. 22).

L’analogia con il pensiero taoista fa correre subito la mente al principio del wu-wei, letteralmente la «non azione»: Chuang Tzu scriveva: lasciate che ogni cosa possa fare quello che fa naturalmente, così che la sua natura sia soddisfatta; Lao Tzu, nel capitolo 48 del Tao Te Ching scrive: «Con la non azione si può fare tutto».

Uno dei contributi più importanti di Grotowski alla storia del training dell’attore sono sicuramente, accanto agli esercizi fisici e plastici ai quali abbiamo già accennato, le tecniche e il lavoro da lui scoperto sulla «voce naturale» (specialmente la scoperta dei «risuonatori») e sulla «respirazione naturale». Rispetto a questi due elementi del lavoro dell’attore, Grotowski, ammettendo apertamente un debito verso le tecniche degli attori della tradizione cinese, ha sempre insistito sulla componente non attiva del suo approccio alla tecnica e su come lo sblocco della voce e della respirazione coinvolgeva un lavoro sulle resistenze profonde (psichiche) che dovevano essere affrontate con una via negativa.

Questa via non solo doveva portare «alla rinuncia dell’azione contraria alla natura», il wu-wei, ma facendo esperienza dell’abbandono, di quello stato dell’attore in cui «non è completamente se stesso», doveva anche divenire visibile quello stato di perfezione e padronanza della tecnica in cui nell’opera, nel gesto la tecnica stessa scompare e lascia l’impressione e l’intuizione dello stato di natura. Come per il grande pittore di paesaggi giapponese, quindi, il gesto dell’attore del teatro povero, abbandonandosi insieme all’espressione, comunica l’estrema bellezza nella sublime povertà del gesto. Come l’attore del teatro Kabuki, anche l’attore del teatro povero grotowskiano non imita, ma significa (cft. Barthes, 1971) il personaggio. Manifestando così l’identità solo come possibile differenza, rifrazione sciolta nel sintagma del corpo, in un’estrema rarefazione del codice della rappresentazione teatrale.

L’estrema povertà di questo gesto è il senso che bisogna attribuire all’aggettivo «povero» che Grotowski usa per definire il suo teatro. L’abbandono dell’Io attivo-volitivo, l’accesso a un’esperienza transpersonale simile a quella della mente zen, il flusso vitale che passa attraverso il corpo «glorioso» dell’attore come «quasi inavvertito», tutti questi caratteri hanno a volte reso mitico l’evento che gli spettacoli di Grotowski hanno rappresentato nella storia del teatro del secondo dopoguerra in Occidente. L’estrema povertà del gesto, la forza espressa in questa risoluzione alla passività, la bellezza frutto del denudamento dell’attore che incontra il pubblico generano una qualità dell’attenzione e uno stato del soggetto che vanno oltre la coscienza e l’esperienza vissuta di ognuno, per legarsi nel rito della comunione dell’esperienza creaturale propria dell’uomo, della sua sacralità.

Si potrebbe ben sostenere che non siamo così lontani da una concezione della soggettività come «emergenza» fluttuante, se volessimo scomodare Varela e l’incontro di quest’ultimo con il sapere orientale. Tutti questi caratteri propri della concezione e della pratica teatrale di Grotowski si sono concretizzati nel suo allestimento simbolo, ossia nel Principe Costante, interpretato da Ryszard Ciéslack, che oltre a essere diventato l’attore-feticcio del Teatro Povero ha anche rappresentato per Grotowski un confronto continuo con il limite che il «corpo» del teatro presenta di fronte al teorico e al regista. L’attore affronta il testo, il ruolo in un «confronto nudo» senza esclusione di colpi fra la vicenda (del testo, del ruolo), i motivi che la muovono e i motivi che muovono il corpo dell’attore che non fanno più riferimento alle esperienze vissute dell’uomo-attore, ma attraversano la sua esperienza (Erfharung e non solo Erlebnis) di questo stesso confronto.

L’azione di Ciéslack sembra animata da un «corpo-vita» che non è più solo un «corpo-memoria», che si muove seguendo tracce spinte da motivazioni segrete dell’attore, che polemizza con queste motivazioni nei suoi gesti, gesti che non deve ritrovare, ma quasi inventare di nuovo, attingendo a un’esperienza profondamente radicata nella fisicità dell’attore e ad essa organica. Ciéslack nel Principe Costante «raggiunge un vertice psico-fisico simile all’estasi»,1 in cui l’espressività, la bellezza e la presenza al momento del corpo-vita sono massime, simile alla mente zen definita da Feldshuh «uno stato di concentrazione mentale e fisica, una condizione interiore ottimale per la creatività» (Feldshuh, 1976, p. 86).

Osservando le rare registrazioni filmate del Principe Costante sembra percepibile quello stato in cui si fondono tecnica e etica, in cui non sembra percepibile una spaccatura nella consapevolezza, fuori dalla coscienza di sé, dove ogni gesto, ogni voce arriva nell’incontro con il pubblico (nei due sensi del termine «pubblico») come un dono che nasce e muore ogni volta nell’istante, come se l’azione «secondo natura» fluisse senza fenditure nel corpo-vita dell’attore, come se incontrasse un vuoto attivo.

Sakuntala: un confronto generativo con l’immaginario orientale

Fin qui l’analisi ha solo rilevato alcune evidenti risonanze fra le posizioni di Grotowski, i caratteri del Teatro Povero e alcuni principi, concezioni o esperienze della cultura orientale. Il nostro vero intento, però, da cui forse deriverà un certo grado di novità, perlomeno rispetto alla prospettiva assunta, riguarda un antefatto che nel percorso di Grotowski e del suo Teatro Laboratorio precede di poco l’allestimento del Principe Costante. A questo punto si capirà anche perché le cose riportate fin qui andavano esposte prima, anche se di per se stesse non particolarmente nuove, in modo che retroattivamente possano assumere alla fine un’aria diversa e, spero, stimolante.

Il Principe Costante viene presentato nel 1965; cinque anni prima Grotowski a Opole, nell’ormai mitico Teatro delle Tredicifile, debutta con il suo nuovo spettacolo: Sakuntala, tratto dall’omonimo poema classico indiano del IV o V secolo d. C., dramma che aveva già adattato e diretto per la radio poco tempo prima. Questo spettacolo risulta particolarmente interessante se si vuole ragionare sugli effetti che una certa concezione dell’immaginario (non solo orientale) ha e può avere sulla generazione di nuovi stili e opere che successivamente entrano nella tradizione, nel circuito e nel mercato culturale occidentale influenzandolo e mutandolo.

Sakuntala è uno spettacolo molto importante per il percorso di Grotowski per almeno due motivi:2 in primo luogo questo spettacolo rende esplicita la scelta che predilige il teatro come rito e non come teatro di «illusione», espressione che definisce una certa attitudine del teatro borghese dell’Ottocento che proseguirà evolvendosi durante il XX secolo. In secondo luogo, durante l’elaborazione di questo lavoro nasce l’esigenza in Grotowski e nella sua compagnia di concentrare il lavoro di ricerca sul training, sulla costruzione di un «sistema di segni» teatrale proprio dell’Occidente che mostrasse la sua distanza dal sistema di segni del teatro orientale.

Inoltre, ed è questo il perno della lettura che qui si propone, Sakuntala rappresenta un caso emblematico di loop fra Occidente e Oriente che si fonda proprio su uno scarto immaginario, scarto paradigmatico che genera conoscenza, nuovi oggetti e una discontinuità nella tradizione (teatrale) occidentale a partire dalla riflessione su quel sistema di apparenze che producono valore e che tanta parte ha, oggi, nella costituzione e sensibilizzazione etica e estetica della soggettività che abita l’età dell’immagine.

Sakuntala nella sua forma classica di poema racconta in modo elementare una storia d’amore, in modo poetico. Grotowski introduce nella messa in scena una dialettica degli opposti, già nel linguaggio: c’è nello spettacolo un continuo rimando fra la poesia idealizzata dell’amore e il linguaggio piatto e prosaico del rito sessuale, delle sue regole e delle prescrizioni del costume sessuale, testimoniata da parti del Kama-Sutra direttamente inserite nel copione, come in un montaggio alternato. Scrive Flaszen, che lavorò fin dai primissimi anni fianco a fianco con Grotowski a Wroclaw, nel programma di sala: «Il teatro orientale è un teatro di tipo rituale, dove lo spettacolo costituisce una cerimonia, che comunica con lo spettatore attraverso segni convenzionali e dove inoltre non esiste la divisione fra scena e pubblico. Il teatro rituale è l’opposto del teatro di illusione, in cui si raffigura in scena un’immagine fittizia della vita, mentre lo spettatore in disparte osserva. Tutti gli spettacoli di Grotowski, non solo Sakuntala, realizzano il principio del rito. [...] Noi qui stiamo, letteralmente, giocando al teatro orientale; anzi per essere più precisi, pseudo-orientale. Ricorrendo a gesti convenzionali e a un modo particolare di parlare, elaborando un intero alfabeto di segni scenici anch’essi convenzionali intendiamo proporre una sintesi del teatro orientale (o, per meglio dire, una parodia dei concetti tipici del teatro orientale)» (Flaszen, 19760).

Quello che qui è interessante non sono le chiare influenze orientali e nemmeno gli intenti parodici che cercano di ribaltare insieme ad alcuni luoghi comuni sull’amore anche una certa idea che gli occidentali frequentano dell’amore e dell’Oriente. Piuttosto è interessante la qualità di un processo di «pseudo-traduzione» che porterà Grotowski a sperimentare una posizione desueta e originale rispetto alla sua tradizione, attraversando le riverberazioni di «un» immaginario orientale. Questo processo è importante non solo perché, fatalmente, mette a nudo radici comuni a tutte le tradizioni, ma anche perché genera una distanza creativa e una potenzialità di immagini e oggetti nuovi (la stessa «distanza potenziale» che sta fra la cosa e la sua imago, fra la «cosa» e il suo fantasma), non appartenenti né all’Oriente né all’Occidente, e che nascono proprio dall’attraversamento di un immaginario orientale da parte di un soggetto occidentale, dalla tensione che questo attraversare (tradurre) innesca.

In una conferenza tenuta a Parigi nel 1968, Grotowski spiegava che con Sakuntala si voleva «creare uno spettacolo che desse un’immagine orientale non autentica, ma aderente alla concezione degli europei». Una raffigurazione ironica di immagini sull’Oriente, considerato come qualcosa di misterioso ed enigmatico, due caratteri fondamentali che contraddistingueranno, ad esempio, le successive analisi di Said sull’Orientalismo.

Tuttavia sotto quegli esperimenti, ammetteva lo stesso Grotowski, ironici e rivolti contro le false immagini del pubblico europeo, si nascondeva un altro obiettivo, quasi non consapevole: scoprire un sistema di segni adatto al nostro teatro e alla nostra civiltà.

Gran parte dello spettacolo, della sua partitura, si basava su «segni vocali», per migliorare l’esecuzione dei quali si rese necessario un approfondimento del training degli attori di Sakuntala. Grotowski, procedendo nella preparazione dell’allestimento, si rende conto durante il training condotto insieme agli attori che, anche se lo spettacolo presenta un’alta qualità e raffinatezza, si fonda su segni e ideogrammi costruiti ad arte che in nessun modo si distaccavano da quelli che Stanislavkij definiva «cliché gestuali». Questa consapevolezza sui cliché gestuali orientali, va sottolineato, emersa esclusivamente dalla pratica psico-corporea messa in atto, ha innescato il vero lavoro di ricerca che diede una svolta anche alla poetica del Teatro Povero, ossia portò alla lenta decostruzione dei cliché gestuali che pervadevano la scena del teatro occidentale, ed ebbe forse su Grotowski lo stesso effetto immaginario che ebbero i «geroglifici» del teatro balinese su Artaud. Questo momento, lo ripeterà più volte Flaszen, fu fondamentale per tutto il resto e stabilì un punto di torsione irreversibile nel modo di vedere le cose all’interno del Teatro Laboratorio.

Nello spazio di questa nuova consapevolezza agisce il valore conoscitivo e di verità dello scarto immaginario: nella misura in cui Grotowski affronta radicalmente il sistema di segni e di apparenze che sono prodotte dall’immaginario orientale con il quale interagisce allestendo Sakuntala, questo stesso sistema di segni con le sue mediazioni (oggi diremmo con la sua disseminazione mediale) e rappresentazioni inizia a retroagire perversamente e a proporsi come una zona differenziale positiva, con i suoi oggetti e le sue immagini, sempre più autonoma proprio perché frutto di una mediazione irriconoscibile (in questo perversa) fra Oriente e Occidente.

Un dispositivo di traduzione pervertita

Grotowski ha sempre elogiato gli attori orientali: nel 1971 rispondendo a un attore giapponese definì la propria posizione come una forma di grande rispetto per la «moralità del loro lavoro». Torna qui il tema che unisce tecnica, etica e trascendenza del sé nel lavoro dell’attore.

Grotowski aggiunge, per chiarire la sua posizione, la differenza che orientali e occidentali assumono rispetto alle discipline sportive: per gli europei l’obiettivo, a volte un po’ mascherato magari, è sempre l’acquisizione di una qualità per sconfiggere l’avversario, mentre per gli orientali «è un mezzo per uscire dalla propria individualità, per incontrare la vita; di fatto, è la vita stessa, un modo di esistere. E qualcosa del genere è presente nel teatro orientale, nel loro teatro classico».3 L’effetto immaginario di scarto è confermato, anche a dispetto delle influenze e risonanze orientali nel suo lavoro, da una ferma e chiara presa di posizione di Grotowski che aggiunge subito dopo nella stessa intervista, che «la loro [degli attori orientali] estetica orientale mi è completamente estranea».4

Perché? Perché una distinzione così perentoria? Per Grotowski, fattore questo essenziale per la nostra interpretazione, la differenza è di carattere culturale, o meglio, riguarda il rapporto che una cultura (non solo teatrale) instaura con le pratiche e l’interpretazione dei caratteri specifici del tempo storico in cui vive.

Per Grotowski la differenza fra l’estetica orientale e la sua scelta estetica consiste in modo specifico nell’atteggiamento verso il gesto o il segno, l’atteggiamento che fa vivere la relazione triangolare fra l’attore, lo spettatore e il gesto/segno. Questa differenza di atteggiamento divenne chiarissima a Grotowski proprio quando iniziò a confrontarsi con il suo immaginario del teatro orientale.

Eugenio Barba, prima allievo di Grotowski e poi regista a sua volta e teorico dell’antropologia teatrale, di ritorno dall’India portò la sua esperienza di «visione» del teatro classico indiano nel gruppo di lavoro del Teatro Laboratorio grotowskiano: «Ogni gesto, ogni piccolo movimento, è un ideogramma che trascrive la storia e che può essere compreso solo se si conosce il significato convenzionale, lo spettatore deve imparare il linguaggio, o meglio, l’alfabeto del linguaggio per capire quello che (fa) dice l’attore» (Barba, 1967, p. 38).

Qui si gioca la differenza per Grotowski. Egli crede in un teatro sacro, il «Teatro dell’Invisibile-reso-Visibile» (Brook, 1968, p. 53), rituale nel quale la disciplina e la spontaneità si rinforzano reciprocamente, la conoscenza e la passione vengono offerte nel gesto nudo del corpo dell’attore. Nella messa in scena di Sakuntala, Grotowski capì che il «teatro occidentale» (ci si passi l’espressione), e soprattutto il suo, non poteva realizzare l’equilibrio essenziale fra disciplina, spontaneità e lo spazio che accogliesse il mistero della comunicazione umana ricorrendo a un «alfabeto orchestrato di gesti» di altri, seppure tradotti. Questo perché «l’identificazione collettiva nel mito, l’equazione di verità personale, individuale e verità universale, è oggi praticamente impossibile» (Grotowski, 1970, p. 30).

In Occidente questo rapporto diretto si è perso, mentre in Oriente è ancora una realtà viva e questo consente agli spettatori di comprendere sempre i segni anche dietro un sistema complesso e «pesante» (come per il Noh e il Kabuki) perché i geroglifici vocali e corporei sono riferimenti pienamente condivisi in un quadro non solo estetico, ma anche etico chiaramente codificato.

Grotowski pensa il «suo» Oriente quasi mezzo secolo fa, e questo va tenuto presente, ma credo che proprio in questo confronto immaginario sia nata l’esigenza della «povertà» del suo teatro, anche come risposta «decostruttiva» necessaria di fronte alla caduta dei grandi quadri valoriali e la conseguente disseminazione delle grandi narrazioni, che prese avvio già nel secondo dopoguerra.

Per Grotowski non si poteva meramente tradurre il quadro estetico orientale o i suoi stilemi in Occidente, si trattava invece di generare nuovi miti da nuovi riti, o più precisamente tornare a quella fonte che permette di generare miti dalla nuova pratica di antichi riti: dal rinnovamento del rito teatrale indicare una mitologia che riguardi il contemporaneo.

L’aspetto interessante sta nel fatto che questa esigenza, certamente interna al percorso personale di Grotowski e del Teatro Laboratorio, si trasformi in un’innovazione sul piano estetico proprio nel momento in cui Grotowski, con Sakuntala, affronta un doppio confronto con l’immaginario orientale. Infatti, da un lato rispetto all’immaginario orientale egli innesca un movimento critico (con effetti ironici e parodici) rispetto agli aspetti ingenui di un immaginario a «uso degli Europei», creando con lo spettacolo Sakuntala un dispositivo di smascheramento degli elementi di cattiva coscienza che hanno generato certi cliché sull’Oriente. Allo stesso tempo indicando però la profondità e la ricchezza straniante del sapere orientale, della relazione fra aspetti mitici, rituali e estetici interni allo spazio istituito dall’evento teatrale, al di là della cultura di appartenenza.

Dall’altro lato il movimento di ricerca generato dal lavoro per la messa in scena di Sakuntala ha una retroflessione perturbante sulle stesse precomprensioni di Grotowski sull’Oriente e sull’immaginario orientale che in lui ha guidato il primo movimento di elaborazione e rappresentazione critica e parodica. Attraverso il lavoro sul training dell’attore, attraverso il confronto serrato con i cliché gestuali «orientaleggianti» Grotowski intuisce che lo stesso discorso critico rivolto al pubblico «europeo» poteva valere, in modo assai più radicale, per i gesti e i segni che egli stesso – dentro la tradizione occidentale – stava usando per costruire il «suo» Sakuntala.

Gesti e segni che lo costringevano a sperimentare uno scarto immaginario, che poneva il suo lavoro interpretativo in una posizione smarcata sia dall’immaginario orientale a uso degli europei sia dall’immaginario «supposto-autentico» al quale egli stesso si era riferito per criticare il primo del tutto «ideologico» e inautentico. Nel doppio confronto con l’immaginario orientale così Grotowski cercò e trovò le condizioni di possibilità e di praticabilità di una scena in cui nuovi gesti e segni si animarono generando uno spazio teatrale qualitativamente differente, originale. Il Teatro Povero divenne, a sua volta, quasi immediatamente un oggetto/evento mitico per il teatro occidentale del secondo Novecento, non direttamente ascrivibile né alla tradizione orientale né a quella occidentale, generato da un movimento proprio dell’immaginario.

La dimensione estetica della pratica

Per Grotowski il quadro estetico orientale non poteva funzionare o essere semplicemente tradotto in Occidente e per questo, grazie al confronto con l’immaginario orientale, iniziò a «spogliare» il teatro di tutto, per rintracciare ciò che gli è veramente essenziale.

Quando tutto quello che è personale e intimo si è rivelato, vengono scartate le caratteristiche del comportamento individuale; allora l’attore diventa un paradigma della specie umana (Birski, 1969, p. 89).

Questo ulteriore passaggio è essenziale perché fonda la scelta etica e estetica che porta Grotowski a mettere a fuoco la caratteristica originale del Teatro povero. Lo spiega molto bene Flaszen nel 1981 intervistato da Jennifer Kumiega: grazie alla ricerca sul training dell’attore per la messa in scena di Sakuntala, si passa dalla costruzione di un sistema di segni artificiale (ancora vigente in questo stesso spettacolo che debutta nel 1960) alla ricerca di un «sistema di segni organico», che sarà quello visibile nel Principe Costante (1965) nella sua forma più compiuta.

Possiamo dire che nella prima fase di lavoro [di Grotowski, quella della disciplina coniugata con la spontaneità] i sintomi di vita alimentassero i segni, la costruzione. In seguito la pensammo in modo opposto e le cause furono il pretesto per manifestare i sintomi. Durante queste due fasi nel lavoro erano presenti entrambi gli elementi ma nel passaggio si determinò una qualità diversa, una gerarchia nuova (Kumiega, 1989, p. 90).

L’inversione dell’importanza, nel lavoro di Grotowski, fra segno e sintomo è fondamentale per il lavoro di decostruzione del rapporto fra attore e corpo dell’attore: risalire attraverso la decostruzione dei cliché gestuali orientali alla fonte dei cliché gestuali dell’attore (non solo occidentale) ha significato per Grotowski trovare la sua via per far fluire una verità «nuda» sulla scena del teatro. Non cercare ancora una volta di tradurre i «sintomi di vita» in linguaggio, ma lasciar fluire nella lingua dei sintomi una comunicazione che affonda la sua verità non nella costruzione di un linguaggio costruito per la verità, quanto piuttosto nella condivisione «organica» di una verità, che riguardando la specie umana, la sua sacralità, può costruire una lingua per la «sua» verità: questa è stata la scommessa del Teatro Povero. Comunicazione che utilizza un sistema di segni organico perché profondamente radicata nell’incontro fra il corpo dell’attore e il suo pubblico, l’unico elemento «causa» che non può essere eliminato dall’esperienza teatrale, secondo Grotowski. La differenza di qualità, la costruzione di una nuova gerarchia che orienta il «lavoro» estetico si manifesta durante il percorso grotowskiano nel passaggio dal sistema di segni artificiale a quello organico: questo passaggio, indicato dallo spettacolo Sakuntala, nasce dal confronto con un oggetto dell’immaginario, fra Oriente e Occidente.

Il loop che parte da Occidente passa in Oriente e torna in Occidente è tutto interno allo spazio creato dall’immaginario, inteso come dimensione in cui vige un sistema coerente di apparenze che danno origine a nuovi oggetti comprensibili solo e proprio a partire da questa «natura» immaginaria, natura che nasce dal confronto con immagini e fantasmi. In questo senso si può sostenere che l’esigenza del passaggio qualitativo che ha portato il Teatro Povero a trovare la sua forma più matura è stato generato da uno scarto immaginario.

Per altri versi, si può affermare che l’immaginario come «dispositivo di traduzione pervertita» non riguarda solo differenze culturali o la ricorrenza diacronica e sincronica di forme (figure, immagini, simboli) in diversi contesti storici, e quindi come tali ascrivibili a problemi di traduzione e di genealogia in senso stretto. L’immaginario così inteso rende meglio visibili le discontinuità nei mondi «creati» dalle immagini e problematizza l’illusione di armonia fra le culture che l’antropologia riflessiva continua a smontare. Inoltre, a dispetto di alcune forme ben mascherate di neoromanticismo che guardano all’universo dell’immagine con riverenza e invocano il suo potere salvifico di passionalità e purezza, una concezione dell’immaginario come quella qui proposta mette in guardia rispetto a ogni possibile purezza del valore d’immagine e rispetto all’illusione potentissima delle immagini mostra come questa stessa illusione veicoli nel suo seno ben altre armonie che quelle della sacralità dell’umano.

L’immaginario, così inteso, ha una forte propensione alla «demitizzazione», proprio e anche in risposta a un uso e abuso del termine «immaginario» da parte della retorica vuota dell’economia delle esperienze e dei beni simbolici. L’immaginario come dispositivo di traduzione pervertita mira a «un confronto con il mito piuttosto che a un’identificazione», poiché solo in questo confronto è possibile «incarnare un mito, indossando le sue scomode vesti, per prendere coscienza della relatività dei nostri problemi, del loro legame con le fonti, e della relatività delle fonti stesse alla luce dell’esperienza contemporanea» (Grotowski, 1970, p. 30). Inoltre il potenziale creativo e conoscitivo che da questo immaginario può scaturire non può prescindere da un confronto con le pratiche (estetiche), con le strategie di esistenza, individuali e collettive, in uso nel sistema dei segni che connota l’esperienza contemporanea.5

Tale immaginario crea un piano di conoscenza e di generazione di nuove pratiche, scopre «oggetti sensibili» rilevanti per interpretare l’attualità e la tradizione passata, suggerisce strategie di smarcamento dalla manipolazione del mondo delle immagini e indica, radicandole nella storicità, qualità dell’esperienza umana (e non solo dell’uomo orientale o di quello occidentale) sempre imminenti.

Bibliografia

Barba E. (1967), The Kathakali Theatre, «The Drama Review», vol. 36.

Barthes R. (1971/1984), L’impero dei segni (trad. it. a cura di M. Vallora), Torino, Einaudi.

Birski M. (1969), Grotowski e la tradizione indiana, «Dialog», vol. 8.

Brook P. (1968), Il teatro e il suo spazio (trad. it. a cura di R. Petrillo), Milano, Feltrinelli.

Flaszen L. (1960), Siakuntala, «Materialy-Dyskusje», vol. 5.

Grotowski J. (1970), Per un teatro povero (trad. it. a cura di M.O. Marotti), Roma, Bulzoni.

Grotowski J. (1972), Co bylo-Kolumbia etc., «Dialog», vol. 10.

Grotowski J. (1979), Cwiczenia, «Dialog», vol. 12.

Grotowski J. (1980), Risposta a Stanislavki, in F. Cruciani e C. Falletti (a cura di), L’attore creativo, Firenze, La Casa Usher.

Kumiega J. (1989), Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e oltre il teatro 1959-1984 (trad. it. a cura di L. Gandini), Firenze, La Casa Usher.



Note

1 An interview with Grotowski, «The Drama Review», vol. 40, 1968, p. 43.
2 Per la ricostruzione della vicenda e per trarre spunti per noi rilevanti rispetto alla formazione e all’evoluzione della poetica e del lavoro di Grotowski è stato molto importante il confronto con il testo di J. Kumiega, Jerzy Grotowski. La ricerca nel teatro e oltre il teatro 1959-1984, trad. it. a cura di L. Gandini, Firenze, La Casa Usher, 1989.
3 Meeting with Grotowski, «The Theatre in Poland», vol. 7, 1972, p. 10.
4 Ibidem.
5 Come si è visto, il confronto con le pratiche degli attori sperimentate da Grotowski nello spazio immaginario di Sakuntala ha cambiato la tradizione del training attoriale in Occidente e ha inaugurato scelte estetiche che hanno profondamente inciso sulle poetiche della seconda metà del Novecento in campo teatrale.

DOI: 10.14605/EI1521701


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ISSN 2421-2946. Educazione interculturale.
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