Test Book

Esperienze e progetti / Experiences and projects

Teatro come educazione all’alterità
Theatre as Education to Otherness

Vito Minoia


Autore per la corrispondenza

Vito Minoia
Indirizzo e-mail: vito.minoia@uniurb.it
Dottore di Ricerca in Pedagogia della Cognizione all’Università di Urbino, coltiva un interesse particolare in ricerche sulle funzioni educative dello spettacolo (teatro e cinema) e sui rapporti tra teatro e progetti, scolastici e non, di carattere educativo e inclusivo. Via Peschiera 30, 61030 Cartoceto (PU)



Sommario

L’intervento è intrecciato al vissuto esistenziale e professionale dell’autore. Il linguaggio teatrale (e le sue differenti pratiche sceniche) viene qui identificato come uno strumento privilegiato di intervento pedagogico e formativo. Attraverso la documentazione di alcuni interventi operativi lo scritto intende contribuire all’esigenza di favorire una coscienza collettiva attenta a promuovere processi di integrazione e inclusione e a valorizzare le potenzialità di ciascuno. Con particolare riferimento alle persone private della libertà personale, una certa attenzione può essere rivolta alla trasversalità delle competenze e alle strategie didattiche «per tutti», integrate da approcci di tipo cooperativo e utilizzo del dispositivo autobiografico. Le esperienze laboratoriali alle quali si fa riferimento nel testo sono state indirizzate nella Regione Marche, a uomini e donne recluse, con la convinzione che il carcere costituisca oggi una concreta «nuova emergenza educativa». Anche se i risultati di questa indagine sono provvisori, ci sono elementi che consentono di individuare buone prassi; fra queste, i riusciti tentativi di promuovere la formazione nei penitenziari.

Parole chiave

Teatro, carcere, educazione inclusiva


Abstract

The paper related to the existential and professional life of the author. Theatrical language (and its different scenic practices) is identified as a privileged instrument of pedagogic and formative interventions. By documenting some of the operative interventions, the written helps to establish a common understanding that integration and inclusion processes as well as enhancement of everybody potentialities are possible and, indeed, very needed. With particular attention to the prisoners, the intention is to activate transversality of competences and educational strategies «for everybody», integrated with a cooperative approach through the autobiographical device. Laboratory experiences to which the text refers have been addressed, in the region of Marche (Italy), to male and female people in prisons, with the belief that jail today is a real «new educational emergency». Although the results are preliminary, there are some elements that allow to identify good practices. Among those, the educational interventions in penal institutions have been very successful.

Keywords

Theatre, prison, inclusive education


Per un Teatro Educativo Inclusivo

Nel solco del fenomeno del Teatro di Interazione Sociale, che si sta diffondendo sempre più a livello internazionale, si tenterà di suggerire uno spunto di riflessione originale corredato da recenti studi e ricerche finalizzate a definire un nuovo campo di intervento. Si tratta del Teatro Educativo Inclusivo, definibile come «un luogo formativo che facilita inclusione, in cui un’équipe di professionisti (esperti di teatro e educatori o altri operatori coinvolti in progetti di carattere educativo) opera con gruppi di cittadini – in presenza di persone svantaggiate o con bisogni educativi particolari – e realizzano laboratori teatrali o performance e progetti espressivi e comunicativi con finalità educative, artistiche, culturali».1

Il Teatro Educativo Inclusivo è un insieme di esperienze, un luogo d’incontro di storie di vita e si realizza come un insieme di buone prassi al servizio di bisogni inclusivi. Al tempo stesso partecipa a processi di rinnovamento di linguaggi e tecniche.

Le esperienze stesse di alcuni artisti che operano nell’ambito della ricerca teatral-educativa e che hanno scelto di lavorare con detenuti e detenute, con persone disabili o con bisogni educativi particolari – in una dimensione di ascolto delle «differenze»2 – hanno creato «contaminazioni positive» e nutrimenti, che sono filtrati da una parte e dall’altra, in continue osmosi tra teatro e educazione.

Il Teatro Educativo Inclusivo, con attenzione alle feconde riflessioni promosse negli ultimi decenni in Italia, in particolare dalla Pedagogia Interculturale e dalla Pedagogia Speciale, intende contribuire a valorizzare le diversità in un’ottica inclusiva.

Il Teatro è un linguaggio multicodice, multidisciplinare, che intreccia parole e gesti, musiche e atmosfere, pensieri ed emozioni, passato e presente, vero e finto, e così via. Come ogni forma espressiva (la pittura e la poesia, il racconto e il canto), vive a infiniti livelli, dall’esperienza occasionale al buon artigianato, dall’attività locale, «di bottega», alla più alta, commovente, opera d’arte. È la diffusione dell’esperienza a ricordare la necessità di questo esercizio creativo.

La ricerca della bellezza tende ad affinare gli animi, costruire relazioni tra soggetti, produrre benessere. La costruzione poetica dell’esperienza arriva a valersi di tutti i materiali e di tutte le possibilità creative offerte dal teatro.

Il teatro possiede caratteri speciali, perché vive al plurale. Il risultato acquista respiro, valore, senso con il contributo di ciascuno singolarmente e del gruppo nella sua totalità. Inevitabilmente – e le prove sono sconfinate e le più varie – il teatro si è diffuso a tutti i livelli e in particolare, anche se non esclusivamente, lì dove si avvertiva l’esigenza di un’espressione formalizzata di condivisione e comunicazione da sperimentare insieme.

Questa diffusa «conoscenza di base», con le sue molteplici declinazioni proprie del teatro di gruppo (anche se spesso con un importante maestro di riferimento), ha contribuito a determinare in Italia, dagli anni Settanta, l’esperienza del teatro oltre i collettivi politici o i gruppi universitari. Il linguaggio teatrale poteva essere complesso, raffinato, denso e nello stesso tempo popolare, semplice, d’immediata comprensione e fruibilità. E oltretutto faceva incredibilmente bene: le discussioni avevano un fine comune, in gioco c’era la persona nella sua totalità, mente e corpo, pensiero e azione – e l’esito era di tutti (cfr. Molinari e Ottolenghi, 1979).

La pubblicazione di Riviste e di saggi di metodologia teatrale,3 la nascita di numerose compagnie sul territorio nazionale, la complementarietà diffusa del fare/insegnare teatro negli spazi gestiti dalle compagnie accanto a un rilevante movimento delle scienze sociali, della medicina e delle azioni di sviluppo di comunità verso l’arte quale processo di costruzione di identità e relazioni hanno portato, con preziosa naturalezza, all’espansione dell’esperienza teatrale fuori dai teatri. Sono state promosse attività di espressione scenica nelle scuole e nei quartieri, nei manicomi, nelle carceri e nei centri di riabilitazione, a favore di gruppi di persone che vivevano particolari forme di disagio e delle associazioni delle loro famiglie, o di gruppi di recente immigrazione e così via, ma anche in contesti dove il disagio non era evidente ma forte era invece la necessità di partecipazione, di cittadinanza attiva, di formazione umana e organizzativa (cfr. Perissinotto, 2004).

Negli ultimi anni lo spettro delle esperienze si è ulteriormente allargato, con il progressivo affermarsi di nuovi ambiti d’intervento (promozione della salute e dell’ambiente, sviluppo di comunità territoriali con attenzione ai temi della cittadinanza, ecc.).

Questo nuovo tipo di teatro si caratterizza non semplicemente per finalità terapeutiche o riabilitative ma perché coniugando arte, cura e cambiamento sociale – ovvero finalità estetica ed etica – sceglie di operare lì dove la società ha particolari doveri nei confronti di alcune persone, cittadini in situazione di difficoltà e di cui deve farsi carico. Sappiamo che in questi contesti è possibile apportare un importante contributo di benessere, condivisione, progettualità, stimolando la comprensione dell’altro, l’incontro tra diversità, lo sviluppo di risorse di cittadinanza attiva non tanto come effetti aggiuntivi e secondari quanto piuttosto come obiettivi intenzionalmente perseguiti al pari di quelli artistici e culturali (cfr. Pontremoli, 2014).

A sostenere ogni intervento di Teatro Educativo Inclusivo qualificato è abitualmente la competente conduzione di un laboratorio teatrale. Qui è possibile sperimentare su di sé, conoscere e affinare le proprie qualità creative, di relazione e di comunicazione, scoprire risorse di cui continuamente veniamo mutilati nella vita di ogni giorno. Riscoprendo il valore relazionale ed emozionale dell’esperienza nella cui direzione il teatro può guidarci, si rivela il suo profondo significato pedagogico.

Qui si presta ascolto, e si rispetta l’altro senza imporre o senza pretendere che ci sia nulla di già definito. Se l’esperienza dà molto, è perché nel laboratorio si può essere se stessi, non c’è giudizio, non c’è scherno, non c’è derisione ma rispetto e attenzione.

Nello spazio laboratoriale si canta, si balla, ci si maschera, ci si massaggia, si suonano strumenti. Tutto viene vissuto in modo diverso: a tutto quello che si fa, non si dà necessariamente l’obiettivo ultimo di rappresentare o mettere in scena. Non si accelerano i tempi, si rispetta il tempo di ognuno, e quello che si manifesta accade perché deve accadere in quel momento, cioè non è forzato.

Condividere il tempo, condividere lo spazio, condividere il silenzio, condividere se stessi, la propria anima, segreta e appartata. «In questo senso il laboratorio teatrale non è soltanto lo strumento di una comunicazione fine a se stessa, ma una concreta officina del sentimento che, nell’accettazione dell’altro attraverso l’accettazione di sé, rende concretamente visibile il dono e la ricchezza dell’altro: la sua interiorità non svilita, la sua umanità non disumanizzata» (Seragnoli, 1997, p. II).

Le tecniche espressive stimolano in una dimensione laboratoriale lo sviluppo di una crescita dal punto di vista sia relazionale che della percezione di sé. La persona si sente incoraggiata a esprimere il suo mondo interiore, a entrare in relazione con il mondo esterno, e le sue azioni vengono valorizzate in base allo sforzo impiegato nell’esecuzione. L’attività produce una ristrutturazione dell’autostima e aiuta a far acquisire progressive autonomie e responsabilità.

Oltre la dimensione della comunicazione unicamente verbale, si passa a una relazionale intesa in senso più globale, riconoscendo a ciascuno la propria specificità. Assume valore l’originalità senza diventare principio di affermazione di qualcuno.

Questa dimensione di ascolto favorisce la scoperta delle proprie possibilità (questo vale per tutti i partecipanti, non solo per le persone svantaggiate), l’individuazione di risorse che non erano mai state prese in considerazione o non avevano trovato condizioni favorevoli per emergere. Si vive in gruppo una piacevole dimensione sperimentale per uscire dalle convenzioni del quotidiano spingendosi nella conoscenza di nuovi modi di esprimersi, comunicare e quindi relazionarsi e integrarsi.

Teatro in Carcere, un’esperienza al servizio dei bisogni inclusivi

Recenti film di grande successo, tra i quali citiamo: Cesare deve morire dei fratelli Taviani,4 Reality di Matteo Garrone,5 Naufragio con spettatore di Fabio Cavalli6 hanno consentito di far conoscere a più persone un fenomeno come quello del teatro in carcere in Italia a oltre trentacinque anni dalla sua nascita. È del 2009 il volume Recito, dunque so(g)no7 (cfr. Minoia e Pozzi, 2009) che traccia una prima mappa di riflessioni e documentazioni sulle molteplici esperienze di teatro in carcere nel nostro Paese. Quella «g» inserita quasi con violenza in mezzo alla parola «sono» sta a significare il valore di un senso doppio: condizione di realtà e di fantasia al tempo stesso, un modo di evadere dalla triste quotidianità. Rappresenta inoltre il filo rosso di un percorso che fornisce lo spunto per formulare considerazioni su un mondo conosciuto male, spesso retoricamente, a volte rifiutato, altre volte volutamente ignorato («Essere» e «sognare», dunque. Sognare per essere). Il teatro è una piccola chiave di lettura, aiuta a decodificare sentimenti e ragioni, a rompere tabù, a mettere a nudo ipocrisie ed egoismi. La recita è una metafora, una maschera che sa diventare «nuda».

«Da sempre l’esperienza scenica attiva alcune disposizioni come quella valorizzatrice delle abilità e risorse predisposte, che nel Novecento si è esplicitata anche interagendo con le scienze del comportamento umano» (Meldolesi, 2007, p. 17).

Utilizzando tecniche di tipo relazionale per ampliare le comunicazioni e le possibilità di confronto, il teatro in carcere diventa uno strumento educativo per strappare il detenuto alla monotonia della vita carceraria e non solo.

Ma vediamo quali sono le potenzialità pedagogiche espresse dal linguaggio teatrale a beneficio delle persone private della libertà. Si può pensare al teatro come strumento di socialità, relazione, scambio, confronto? Perché il teatro diviene anche educazione all’alterità, al diverso, al cambiamento?

Le considerazioni sono molteplici. Proviamo a riportarne alcune:

  • Il teatro crea un’altra scena della vita. Sulla scena e non altrove è offerta l’opportunità di reinventare all’infinito la propria storia e di tentare di dare luce a nuove identità. Sulla scena, le storie della vita vengono raccontate e custodite, per formare un tesoro di esperienza da opporre all’oggettivazione.

  • Il teatro mette in moto l’immobilità. In scena si è contemporaneamente qui e altrove, dentro e fuori, adesso e mai; questo moto perpetuo, questo viaggiare senza posa in altri luoghi, altri tempi, altri panni, conduce naturalmente a un percorso interiore, a una ricerca incessante, in un flusso inarrestabile di desideri, emozioni, turbamenti.

  • Il teatro cambia la sostanza del tempo. Il tempo del teatro non ha l’irrimediabilità del tempo della vita. Sulla scena, il tempo può essere fermato con un gesto o una parola, ogni cosa può essere ripensata, rifatta, ridetta, reinventata. Nessuna scelta è irrevocabile e le parti possono essere redistribuite all’infinito; cadono così i ruoli nei quali si è costretti dall’irrevocabilità delle scelte fatte e subite.

  • Il teatro inventa lo spazio. In prigione si sta stretti; manca lo spazio fisico e mentale. Si è rinchiusi e obbligati a comprimere emozioni, gesti, discorsi. Si è barricati dentro una cella e si è barricati dentro se stessi, perché il proprio territorio va difeso da chiunque. Sulla scena, invece, lo spazio diventa sostanza elastica, si allarga e si restringe, si conquista e si cede; le porte possono essere riaperte allo scambio, può riaffiorare il desiderio di condividere, di comunicare.

  • Il teatro riempie il silenzio di parole. La parola diventa materia viva, tesoro di cui ognuno si appropria liberamente. Sulla scena le parole si fondono, si confondono, s’inventano e si colorano, la parola è oggetto di scambio e lo scambio interrompe la solitudine, «condizione prima della sottomissione».

  • Il teatro getta luce nell’ombra. A teatro il diritto all’attenzione è una conquista di nuovo possibile; basta un piccolo gesto, un gesto non fatto, un’immobilità, un’attesa che già vuol dire desiderio. Il riflettore del teatro inchioda e libera; sulla scena non si può rimanere invisibili, bisogna rivelarsi, scoprirsi, esprimersi, spezzando quell’autocontrollo esasperato che in carcere nasce dalla convenienza a occultare il proprio mondo interiore.

 

Il teatro in carcere è possibilità infinita contro impossibilità, «Immaginazione contro emarginazione», come ha scritto Claudio Meldolesi in un suo saggio del 1994 (cfr. Meldolesi, 1994, pp. 41-68): una pratica che non rientra negli argini ristretti del palcoscenico e investe e racchiude dentro di sé gli infiniti mondi possibili. Teatro soprattutto come risposta a un bisogno, come tempo e luogo per dare sostanza alle emozioni, sperimentare il corpo e i suoi poteri, superare limiti, svelarsi e mascherarsi, mettere in scena sogni, incubi, speranze e desideri. Tutto questo in carcere, dove per il teatro non c’è luogo e non c’è tempo.

Ma il linguaggio teatrale può costituirsi come un insieme di buone prassi al servizio di bisogni inclusivi? Un’evidenza che emerge dalle ricerche che ho condotto negli ultimi ventiquattro anni8 è che il teatro propone buone prassi quando diventa un luogo di incontro di storie di vita (cfr. Taliani, 2015).

Il dispositivo autobiografico si è rivelato un ottimo strumento formativo, in linea con l’ampia letteratura scientifica in campo educativo (Demetrio, 2007; Formenti, 2009; Canevaro et al., 2000; Gaspari, 2008; Sirignano e Maddalena, 2012). I vantaggi dell’interazione dell’autobiografia con il linguaggio teatrale sono superiori quando detenuti e detenute partecipano attivamente alla scrittura di testi e alla messa in scena degli schemi di rappresentazione prescelti.

La scrittura in chiave drammaturgica valorizza l’elemento autobiografico con spunti e scenografie ambientali, sia quando sprigiona fantasie e sogni (Minoia, 2012),9 sia quando si cala nella descrizione realistica della vita quotidiana.10

In carcere parole o partiture di gesti e azioni possono diventare «crepe nel muro» (Demetrio, 2009), quando sono motivate da una forte tensione verso lo slancio comunicativo con «qualcuno al di fuori».11

Una conferma importante sulla validità del dispositivo autobiografico arriva dagli USA. Durante un periodo di ricerca alla Harvard University ho incontrato alcuni studiosi che hanno ribadito la validità di questa procedura anche nelle più recenti sperimentazioni statunitensi. J. Troustine, docente al Middlesex College e autrice del testo Shakespeare Behind Bars (cfr. Troustine, 2001), mi ha parlato dell’adattamento di testi classici insieme alle detenute del Massachusetts Correctional Institution di Farmingham. Lo stesso Howard Gardner riferisce del potere del teatro di enfatizzare sia la nostra diversità che la nostra umanità comune: «Il mondo di Shakespeare (o di Eschilo, o di Racine) è completamente diverso dal nostro mondo; eppure ogni essere umano può guardare attraverso le differenze e scoprire i nostri più comuni problemi, passioni, possibilità» (Gardner, 2016). In particolare, Jodi Jinks della Oklahoma State University ha riportato riscontri positivi sull’ attuazione di uno specifico programma da lei condotto, il Devised Theatre, sulla base di scritture di vita di detenuti e detenute. Jinks dal punto di vista teorico si è orientata a Roger Simon, autore dell’importante volume The Pedagogy of Witnessing (cfr. Simon, 2012; Jinks, 2016; Shailor, 2011).

Questo trend è registrabile anche in Italia, dove il teatro professionale sta rivolgendo l’attenzione sempre più alla cronaca e alla vita quotidiana più che alla fantasia (cfr. Guccini, 2010).

Anche il mio progetto sul Teatro Educativo Inclusivo aderisce a questi processi di rinnovamento dei linguaggi e delle tecniche. In carcere, in particolare, il linguaggio scenico è fortemente condizionato dal contesto, dall’uso dello spazio e dalle relazioni interpersonali (cfr. Garavaglia, 2014; Ottolenghi, 2017).

Il teatro in carcere non solo contribuisce alla costruzione di buone prassi ma costituisce anche un’occasione formativa in grado di contrastare il fenomeno della recidiva (cfr. De Pascalis, 2014). La documentazione di tipo narrativo prodotta nel corso della sperimentazione che ho attuato a Pesaro si è affidata non tanto alla registrazione quantitativa dei risultati quanto piuttosto alla capacità di rilevare e interpretare i cambiamenti del e nel processo, attraverso un monitoraggio costante dell’evoluzione delle competenze emotive, espressive e relazionali e dei fattori di partecipazione e di contesto.

Il teatro in carcere si fa carico dell’«ascolto» ed è aperto all’altro. Ovvero alla differenza che è contenuta nell’altro, riferimento della «pedagogia della reciprocità» (cfr. Canevaro, 2008).

Come evidenzia Enrichetta Vilella, responsabile dell’area educativa della Casa Circondariale di Pesaro, sede delle sperimentazioni, oggetto della ricerca: «Il palcoscenico diventa una piazza dove le persone si incontrano con una gran voglia di comunicare e si trovano a dover fare i conti con lingue diverse, usi e costumi diversi. In questo contesto si va alla ricerca di ciò che accomuna. Così si recita seguendo semplicemente il canovaccio dell’essere umani e viventi. Si recita a soggetto. Non bisogna imparare le battute a memoria, è sufficiente sapere cosa si vuole dire ed essere consapevoli di chi si è. È necessario e vitale imparare i tempi drammatici, perché se non ascolti non riesci neanche a rispondere, se ti accavalli tutta la comunicazione si interrompe. Una partitura rigorosa che si sposa con la creatività. I segni di questa esperienza, noi tecnici del trattamento, li abbiamo visti tracciati, in maniera più o meno profonda, nelle persone che hanno calpestato la piccola pedana della sala teatro di Villa Fastiggi».12

Il teatro in carcere è un connubio di etica ed estetica, una forma alta di teatro popolare, un’arte per tutti, un quid che cambia la vita a chi lo fa e a chi lo vede.

Le testimonianze narrative di persone che, durante la reclusione a Napoli, Livorno, Pistoia, Pesaro e a Venezia, hanno partecipato intensamente a un’esperienza di laboratorio teatrale in carcere, possono essere incrociate con quelle documentate a Pesaro.

Vale la pena pertanto selezionare le seguenti, raccolte con la videointervista, per esporre, attraverso questo esiguo ma indicativo campione, alcuni effetti positivi.

  1. «La mia esperienza teatrale nasce nell’OPG di Aversa, dove ho incontrato Anna Gesualdi e Giovanni Trono, che hanno organizzato un gruppo per produrre un’opera. All’inizio dell’esperienza teatrale ero un po’ restìo, nel senso che non accettavo il “trattamento”, poi praticando la scena, praticando le persone, avendo a che fare con l’umano che c’è dentro di ognuno di noi, ho capito che potevo fidarmi, che potevo accettare anche le influenze esterne. In questo modo ho potuto capire che c’era altro all’infuori di me. Il mio mondo era circoscritto in una sfera emotiva particolare. Mi sono liberato di questo peso, che impediva alla mia persona di comunicare con l’esterno» (G., ex internato in OPG, oggi persona libera).

  2. «La mia esperienza nasce dal bisogno di evadere dalla realtà in cui si vive dentro: una maniera per svagarsi. Da un’esigenza di evasione è diventata una passione. Ho approfondito e siamo arrivati a oggi. Sicuramente mi ha fatto vivere la carcerazione in un’altra maniera e me l’ha fatta affrontare in maniera diversa. Mettermi a confronto con le persone. Esteriorizzi delle tue emozioni, cosa che dentro sei abbastanza impossibilitato a fare. Poi ti apre anche un po’ la mente, sinceramente» (M., sottoposto a misure di Esecuzione penale esterna).

  3. «Quando ho iniziato a fare laboratorio teatrale ho scoperto delle cose dentro di me che non avevo nemmeno l’idea che esistessero. In quel momento non pensavo né alla cella, né ai processi, né al carcere. Pensavo solo di fare qualcosa di utile, qualcosa di buono per me e allo stesso tempo anche per la comunità. La cosa più bella è stata che nel 2011 questa recita veniva fatta all’interno della Casa Circondariale ma con il pubblico esterno. In quel momento lì, non so, non ho parole per esprimere l’emozione così forte; quando finiva lo spettacolo e me ne andavo su in cella, quell’emozione me la portavo dietro per tutta la giornata» (G., ex detenuto, oggi persona libera).

  4. «Per me è iniziato tutto un po’ per curiosità e per passare il tempo. Sai, appena entri, hai bisogno di svaghi. Poi andando mi è piaciuto, ho cominciato a conoscere meglio me stessa, ad avere più fiducia in me, a scoprirmi piano piano. Mi ha aiutato e adesso mi piace. Penso che continuerò anche un giorno fuori dal carcere» (S., detenuta).

  5. «Dentro un carcere, il teatro è come “tirare la tenda”. Sei dall’altra parte. Ti fai un sipario tra te e il carcere. Rinforza anche la personalità» (N., detenuta).

  6. «Riesci a ritrovare la libertà nonostante tu sia tra quattro mura. Ti aiuta un pochino in più a capire chi sei, i tuoi limiti e anche a superarli. Quando li superi sul palco, poi è più facile superarli anche nella vita privata. In un posto come il carcere, dove c’è questo limite, questo chiudersi costantemente… perché quando vivi in una situazione difficile anche la fantasia si blocca e vivendo al massimo la felicità vivi al massimo anche la tristezza, quindi cerchi di contenere un po’ tutto. Quando ti metti a contatto con questa realtà, hai la possibilità di dare libero sfogo a te stessa, a quello che comunque provi» (V., ex detenuta, oggi persona libera) (cfr. Taliani, 2015).13

 

Nelle testimonianze riportate, in quella che appare come un’inconciliabile alterità tra mondi, sta il senso di offrire una possibilità: davanti alla totalizzazione c’è bisogno di paradossi. Il «bisogno di teatro» fiorisce con tanta più urgenza proprio nei luoghi della negazione; esprime, qui con più forza che altrove, una necessità di difesa, un’ansia di trasformazione, il bisogno di «resistere collettivamente, con la fantasticheria, al male che divora il soggetto umano forzato a sottomissioni paralizzanti» (Meldolesi, 1994, p. 46). In carcere, per queste necessità e per queste urgenze, il teatro può essere la risposta: nel luogo dell’impossibilità può essere l’oasi del possibile e si manifesta in tutte le sue potenzialità di autoformazione e liberazione.

Il progetto Kafka, una sperimentazione inedita che coinvolge anche la Scuola

In ambito educativo focalizziamo l’attenzione sull’importanza della collaborazione tra la Casa Circondariale di Pesaro e l’Istituto Comprensivo Statale «Galilei», ininterrottamente attiva dal 2003, attraverso il coinvolgimento di allievi dodicenni o tredicenni della scuola secondaria di primo grado in progetti che li vedono coinvolti insieme a detenute e detenuti in attività recitativa con apporti e contaminazioni creative reciproche. I rapporti con la struttura scolastica, e con i diversi gruppi di adolescenti coinvolti, ogni anno sono stati realizzati grazie al progetto E.S.C.O. (educare a scuola per conoscere e orientare).

Come testimonia Enrichetta Vilella, responsabile dell’area educativa della Casa Circondariale di Pesaro: «Tra gli obiettivi educativi e didattici perseguiti dalla Scuola vi è quello di “far conoscere la struttura carceraria, ciò che la pena e la detenzione comportano”. Le perplessità iniziali sull’opportunità di far incontrare dei “delinquenti” con dei minorenni vengono superate attraverso un’accurata pianificazione del lavoro che prevede un avvicinamento graduale, e fortemente sostenuta dalle motivazioni che ci ritroviamo a condividere e cioè: la necessità che siano le persone a incontrarsi; l’opportunità che il carcere venga vissuto come un luogo dove sia possibile agire un’interazione col territorio; la convinzione che una relazione significativa si costruisca sul fare insieme (raccontare, dipingere, recitare, giocare…)».14

Un recente progetto di lavoro ha visto coinvolti nel corso degli anni 2014/2015 gli allievi della IIB, coordinati dal docente di lettere, professor Antonio Rosa. A collegare la ricerca espressiva del gruppo dei ragazzi e di quello di detenuti e detenute della Compagnia «Lo Spacco», le produzioni letterarie di Franz Kafka.

Due le opere analizzate e che hanno accompagnato singolarmente i due laboratori: Il Processo (per il lavoro svolto in carcere) e La Tana (per quello svolto a scuola).

A influenzare il lavoro in carcere, inoltre, anche i testi Lettera al padre, ancora di Kafka e Gli occhi di Eleonora, un romanzo scritto da Vincenzo Lerario, detenuto partecipante al laboratorio, nel quale riecheggiano temi oggetto della ricerca espressiva del gruppo.

Incorporato nel capitolo IX del romanzo incompiuto Der Prozess (Il Processo), il racconto Davanti alla legge (che darà il titolo allo spettacolo della Compagnia Lo Spacco) fu pubblicato autonomamente da Kafka nel 1915 nel settimanale ebraico «Sebstwehr». Si tratta della vicenda di un anonimo «uomo di campagna» che chiede a un altrettanto anonimo «guardiano» di accedere alla legge, la cui porta è sempre aperta. L’usciere nega il permesso, ma non esclude che l’uomo possa essere ammesso in seguito, pur sottolineando l’improbabilità di un esito positivo. L’uomo attende per anni davanti alla porta, inutilmente. Poco prima di morire domanda come mai nessun altro sia venuto a chiedere di essere ammesso e l’usciere risponde che «quella porta era riservata a lui solo e ora, con la sua morte, verrà richiusa».

Nella traduzione teatrale della Compagnia Lo Spacco forti sono i rinvii ai temi della Giustizia e dell’Attesa. In particolare, sempre attraverso il metodo della riscrittura creativa del testo originale in chiave autobiografica, i partecipanti sono stati invitati a coppie a riformulare il testo del dialogo tra il guardiano e il contadino scandito in fasi del tempo trascorso in attesa.

Eccone due esempi significativi:

 

Primo esempio/dialogo tra il Guardiano (Kendal) e il Contadino (Slim)

 

Contadino: Buongiorno.

Guardiano: Buongiorno.

Contadino: Posso entrare ora?

Guardiano: No, non puoi entrare.

Contadino: Come non posso?

Guardiano: Non puoi entrare.

Contadino: Ho passato anni qua.

Guardiano: Non puoi entrare ancora.

Contadino: La mia mezza vita è sgangherata.

Guardiano: E l’altra mezza vita?

Contadino: Deserto.

Guardiano: Non puoi entrare.

Contadino: Devo entrare oggi.

Guardiano: Non puoi entrare, non sei ancora pronto.

Contadino: Sono pronto, mi manca la mia campagna.

Guardiano: Sei sposato?

Contadino: No, c’è qualche differenza?

Guardiano: No, così.

Contadino: Devo entrare oggi.

Guardiano: Non puoi entrare.

Contadino: Ho passato anni qua.

Guardiano: Ti ricordo solo che oltre questo portone ci sono delle persone più potenti di me. Non posso farti entrare.

Contadino: Fammi entrare, parlo io con loro.

Guardiano: Non puoi entrare.

Contadino: Entra tu e parla con loro.

Guardiano: No, questa è la mia posizione e qui devo rimanere.

Contadino: Devo entrare oggi.

Guardiano: Non posso farti entrare.

Contadino (Parla tra sé in arabo e una voce fuori campo traduce): Perché, perché non posso entrare? Ah, ho capito, la giustizia non è giusta, perché è stata creata da uomini che hanno il potere, che sono ricchi. E così il povero e il contadino come me stanno sempre sotto. Certo loro comandano con il loro potere, ma si sono scordati che noi abbiamo la pazienza, il dono che ci è stato regalato da Dio. Io sono paziente, aspettando davanti alla porta della giustizia e sperando che prima o poi io possa entrare. Io entrerò. La cosa che mi fa stare male e che mi ferisce il cuore come un albero piegato dalla neve dell’inverno è che a volte penso che non vedrò mai più la mia campagna, la mia terra. Mi manca il profumo dei fiori, il rumore dei fiumi e degli uccelli. Mi mancano le persone che... Mi sento debole come un fiore nell’ombra sperando in una brezza che diffonda il suo seme nel sole dove si può vivere nuovamente in bellezza. Ma adesso basta, questo guardiano deve farmi entrare oggi, sono stanco di aspettare.

Contadino (ancora verso il Guardiano): Senti, devo entrare oggi, ho aspettato anni qua.

Guardiano: Non sei pronto.

Contadino: Sono pronto.

Guardiano: Non puoi entrare.

Contadino: Devo entrare.

Guardiano: Non sei pronto.

Contadino: Sono pronto.

Guardiano: Non sei pronto.

Contadino: Sono pronto.

Guardiano: Non posso farti entrare.

Contadino: Devo entrare.

(Buio)

 

Secondo esempio/dialogo tra il Guardiano (Romina) e il Contadino (Gianluca)

 

Guardiano: Chi abbita sto monno senza er titolo de Papa, de Re o d’Imperatore, quello non ce po avè voce in capitolo.

Scambio di ringhi rabbiosi tra il guardiano e il contadino.

Contadino: Eriecchice qua, ma senti un po’, oggi me fai entrà? No eh!

Guardiano: Ma statte zitto, va.

Contadino: Qui tutti i giorni è la solita tarantella, nun me voi fa entrà? e famme entrà che voio vedè che ce sta là dentro… niente eh.

Guardiano: Nun ce pensà.

Contadino: Senti un po’ na cosa, tutti i santi giorni, io vengo dalla matina ala sera, sto qua, e tu non me fai entrà. Alora, guarda qua che t’ho portato. T’ho portato un atrezzo pe zappà la terra.

Guardiano: Ma che sei matto, guarda ste mani.

Contadino: E so zozze ste mani.

Guardiano: Ma che dici, queste nun hanno mai zappato niente capito?

Contadino: Ma dai famme da n’occhiata.

Guardiano: Sta bbono sa, sta bbono.

Contadino: …ma io dico no, quant’è che se conoscemo?

Guardiano: Da tanto.

Contadino: Semo cresciuti insieme no?

Guardiano: Eh sì.

Contadino: Eravamo pischelli, poi tu hai preso na strada, e io n’ho presa n’altra.

Guardiano: Eh, allora?

Contadino: Che te costa famme entrà? Niente. Guarda che t’ho portato! È pe fa le callarroste.

Guardiano: Noo, basta.

Contadino: Come nun te piacciono le callarroste. Famo na cosa: ho portat’ e carte. Se famo na scopetta: si vinco io entro, si vinci tu te aspetto. Come a vedi? Sa a famo sta scopetta.

Guardiano: Pe me.

Contadino: Vie qua. Eh n’antra giornata sta vedè che nun posso entrà manco oggi. Alora, pe chi da le carte… Sette, i cancelli, dalle te va, nnamo bene, anche oggi, mamma mia... Sette e una otto.

Guardiano: Scopa!

Contadino: Incominciamo bene….

(Buio)15

 

Prende forma, come traspare dalla scrittura (e ancora di più dall’interpretazione scenica), un vissuto soggettivo, che mette in luce e valorizza le differenze, le identità, le biografie emotive e socioculturali dei singoli partecipanti.

Si va dal vissuto della persona nordafricana strappata alla propria terra (che rievoca ricordi e desideri), a quello del ragazzo «di borgata», inizialmente introverso, che riscopre attraverso l’attività teatrale (e l’uso della propria lingua) tutta la sua spontaneità.

Lo spettacolo incontra il pubblico dei detenuti di tutte le sezioni e alcune classi di tre diversi istituti superiori di Pesaro per sei volte dal 14 al 20 marzo 2015, oltre agli allievi della IIB della Scuola Media Galilei, impegnati in una ricerca intorno al testo La Tana di Franz Kafka.

Lo spettacolo visto il 21 marzo 2015 in carcere influenzerà molto la loro creazione scenica che avrà come titolo Conoscendo Kafka.16 In particolare, assumerà importanza anche per loro il rapporto controverso tra Franz Kafka e suo padre Hermann, esponente della borghesia ebraica di Praga che non tollerava l’idea di vedere suo figlio desiderare un futuro da scrittore e non occuparsi dell’attività commerciale della famiglia.

La Lettera al padre di Kafka è composta come un atto di accusa contro il padre e l’educazione autoritaria da lui ricevuta, responsabile, secondo Franz, delle sue inquietudini e dei suoi turbamenti da adulto. Ecco come i ragazzi hanno messo in scena il rapporto tra Hermann e Franz:

 

(Il padre di K. è nel suo ufficio, arriva una telefonata):

Pronto, buongiorno signor Guttemberg, come va? Sì, bene anche a me, mi dica. Cosa? I miei prodotti non vanno bene? I miei prodotti sono i migliori, ha capito, lei è un ignorante, addio. Sbatte la mano sul tavolo con disappunto. Si sente bussare, è K. con una voce debole.

K.: Salve padre… Salve padre.

Padre: Salve.

K.: Vorrei chiederle una cosa.

Padre: Quale cosa?

K: Volevo parlarle a proposito del mio lavoro ideale.

Padre: Non ho sentito bene, vieni un po’ più vicino.

K: Insomma, volevo chiederle se potrei fare lo scrittore.

Padre (battendo di nuovo sul tavolo): Cosa? Tu farai l’assicuratore. Mi oppongo.

K.: Ma, padre, lei mi ha sempre detto che occorre inseguire i propri sogni.

Padre: So di averti detto questo, ma pensa al capitale della famiglia, gli scrittori guadagnano poco, facendo l’assicuratore manterresti alto il nome della famiglia. I tuoi sogni sono i miei sogni, anzi i miei sogni sono i tuoi sogni.

K: Va bene padre, arrivederci.

Padre: Arrivederci, e chiudi la porta.

 

Sta andando al lavoro, è molto triste, compra un giornale da una signorina che gli sorride ma non gli interessa leggerlo, lo mette in tasca ed entra nel suo ufficio dove appende il proprio cappotto e capello a un attaccapanni (oggetto interpretato e poi animato da uno studente). Si siede al suo tavolo e tutti i pensieri negativi (interpretati dagli altri ragazzi) iniziano a tormentarlo.

 

Pensieri: «Dove sei, perché ti nascondi?», «Devi dar retta a tuo padre, altrimenti ti punirò», «Il tuo lavoro è l’assicuratore non lo scrittore», «Vieni con me, vieni con me, insieme ci divertiremo molto», «Ah! Ah!», «Sei un fallito, farai la mia stessa fine», «Tu hai paura di me», «Porterò tristezza nel tuo cuore», «Se non farai l’assicuratore morirai assassinato», «Non avrai speranza di vivere, arriverà la tua morte», «Sono il tuo incubo peggiore», «Perché scappi, tanto non puoi sfuggire ai tuoi doveri», «Oh, l’assicuratore ah, ah, ah!», «Questo non è un lavoro adatto a te», «Seguimi o morirai», «Perché tremi, di che cosa hai paura?».

L’attaccapanni inizia ad animarsi indossando i vestiti di K. e dice: «Sono un fallito, dovevo fare lo scrittore. Mentre sono morto dentro anche il mio corpo sta andando in rovina. Fallito!» Gli getta addosso i vestiti.[…]17

 

Nello spettacolo prendono corpo temi come l’incomunicabilità, l’amore, l’amicizia, l’interazione, l’aggressività, la guerra, la pace. Passi indicativi sono quelli nei quali viene sviscerato l’innamoramento non corrisposto tra Franz Kafka e Felice Bauer (in uno in particolare si fa riferimento alla passione dell’autore per la scrittura); completano il percorso alcune riflessioni dei ragazzi sulle relazioni tra Kafka, il carcere e se stessi, e alcune scene che illustrano il rapporto con i propri genitori e come potrebbe migliorare se vi fosse una maggiore e sentita vicinanza e comunicabilità.

Ma ritorniamo a Kafka e al lavoro creativo dei detenuti e delle detenute che ha ispirato quello dei ragazzi. In questo caso ciascuno ha scritto una lettera al proprio padre, dopo avere letto e commentato il testo Lettera al padre dell’autore boemo. Si riportano alcuni frammenti del testo originale di Kafka utilizzato nello spettacolo: «Mio caro papà, non è molto che mi hai chiesto perché asserisco di aver paura di te. Come al solito non ho saputo rispondere, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché motivare questa paura richiederebbe troppi particolari, che non saprei cucire in un discorso. […] Vedi, papà, è assai probabile che, anche se fossi cresciuto libero dal tuo influsso, non sarei diventato un uomo come volevi tu. Sarei stato felice di averti come amico principale, zio, nonno e perfino (sebbene con qualche esitazione) come suocero. Soltanto che tu, come padre, eri troppo forte per me. […] Tu, un bambino lo sai trattare solo secondo il tuo carattere, con forza appunto, con sonori scoppi d’ira, e nel mio caso ciò ti sembrava quanto mai opportuno, perché volevi fare di me un giovane forte e coraggioso. […] Bisogna dire che non mi hai mai percosso. Ma le grida, la faccia paonazza, il gesto di slacciarti la cinghia e tenerla pronta sulla spalliera della seggiola era quasi peggio. Un po’ come quando uno aspetta di essere impiccato» (cfr. Kafka, 1919, pp. 3-4).

Nelle opere di Kafka è riscontrabile una denuncia della disgiunzione di un’integrazione sociale che è al tempo stesso familiare (in questo caso attraverso la sua controversa relazione col padre). Qui la letteratura e, ancor più, la successiva scrittura autobiografica e creazione scenica della Compagnia Lo Spacco «impongono» la loro «differenza».

Ecco alcuni brani selezionati dalle scritture dei partecipanti:

  1. «Caro papà, ricordo sinceramente tutti i rimproveri che mi hai fatto, giustamente vista la mia vivacità, e non potrò certamente dimenticare l’educazione che insieme a mamma mi hai trasmesso; inutile dire che preferivo la sua usanza di mamma, un po’ più dolce, rispetto al modus operandi che adotti tu».

  2. «Papà, so che posso averti deluso come figlia e vorrei morire per questo, so che hai sempre fatto tutto quello che hai potuto per non farci mancare niente».

  3. «Papà, non ti ho mai conosciuto, ma ho sempre chiesto di te e mamma mi ha raccontato tutto della tua vita».

  4. «Papà, ti chiedo perdono per tutto quello che ho fatto sia in Italia che in Tunisia. Sai, papà, non ti chiedo di capirmi, ma nella mia giovane età seguivo i miei sogni».

  5. «Eri sempre critico, il tuo modo di vivere non lo capivo».

  6. «Caro papà, ti avrei voluto dire parecchie cose che non ho mai avuto il coraggio di dirti: perché mi hai messo al mondo se poi non ti sei mai preso cura di me? Perché mi hai abbandonato, perché? Che cosa avevo fatto per meritarmi tutto quello? Che colpa ne avevo? Perché non ti sei mai preso cura di me?».18

 

Anche in queste ultime testimonianze riscontriamo come la relazione di tipo pedagogico e quella di tipo teatrale abbiamo in comune alcuni tratti fondamentali: in primis l’aspirazione alla comunicazione e alla formazione, poi il bisogno d’alterità, la ricerca del sé, il desiderio di libertà, l’esigenza di emozionalità, di empatia, di libertà e di verità. La «rappresentazione» proietta il mondo interiore verso il «fuori» e offre finalmente la possibilità di costruirsi un proprio e autonomo percorso di avvicinamento a se stessi e agli altri. Dunque il teatro lavora anche per produrre nessi, scambi, varchi, reti tra sé e gli altri, tra interno ed esterno; per riaprire la circolarità tra i mondi, per ricucire le lontananze, affinché l’interruzione non diventi definitiva, ma possa essere discussa e recuperata.

Il palcoscenico diventa un ponte tra carcere e collettività, attraverso il quale detenuto e cittadino s’incontrano e si confrontano faccia a faccia in un rapporto attore-spettatore; qui, l’incontro può farsi scoperta, cultura, occasione di superamento di pregiudizi. Al riguardo sono emblematiche, sempre nell’ambito del Progetto Kafka, le testimonianze degli studenti della IIB del Liceo artistico «Mengaroni» di Pesaro. Grazie allo sviluppo di riflessioni e di report narrativi raccolti a seguito di incontri teatrali organizzati in collaborazione con i docenti che hanno accompagnato i ragazzi in carcere per la visione dello spettacolo Davanti alla legge, abbiamo avuto la possibilità di riscontrare innanzitutto che gli stereotipi presenti nell’immaginario adolescenziale sulla vita dei detenuti in carcere (molto presenti negli studenti dodicenni o tredicenni della Scuola «Galilei») persistono in alcuni casi anche all’età di 15-16 anni.

Citando alcune delle osservazioni raccolte, i detenuti continuano a essere immaginati come persone che «mangiano pane e acqua», vestiti con «tute tutte uguali». Si tratta di stereotipi generati prevalentemente da linguaggi massmediatici cinematografici o televisivi, spesso di derivazione statunitense («… avevo visto il carcere solo in televisione…» o «… sicuramente questo carcere è a cinque stelle in confronto a quelli in America…»). A fronte di alcune testimonianze più restie all’ «ascolto dialogico» («… mi aspettavo un carcere più serio…»), in altri casi, dopo la tensione del dover essere stati sottoposti a controlli (lasciando all’ingresso ogni oggetto o effetto personale, scrutati in ogni angolo da telecamere) e del dover attraversare diverse grandi porte di metallo (che si chiudevano alle spalle) appare entusiasmante come l’esperienza sia stata in seguito altamente proficua proprio dal punto di vista dell’«incontro con l’altro» nell’ottica di una «pedagogia della reciprocità», dato essenziale di un contesto inclusivo («… non appena ci siamo seduti e abbiamo iniziato a conoscere con lo sguardo quelle persone così fragili e piene di emozioni, tutta la tensione iniziale svaniva. Eravamo noi e loro, vite completamente diverse, età diverse, provenienze diverse…»; «… ho capito quanto una persona possa essere forte, coraggiosa, piena di vita, perché il loro scopo è quello di ricominciare a vivere… e la passione che ci mettono nel riuscirci è straordinaria…»).

«Nessuna vita è minuscola» è il motto di Charles Gardou che in una sua recente opera                                                   (Gardou, 2015) ci ricorda con chiarezza e incisività, interpellando cittadini e istituzioni, quanto sia auspicabile lo sviluppo di pratiche culturali e artistiche inclusive.

Anche Dario Fo, che ho avuto occasione di rivedere durante la visita ai detenuti del carcere di San Vittore a Milano l’8 gennaio 2013, nella giornata in cui la Corte Europea dei diritti umani infliggeva all’Italia una condanna per trattamento inumano delle persone recluse, ha dichiarato che sarebbe educativo che i ragazzi visitassero le carceri come «rito assoluto», come momento di presa di coscienza, ascoltando le storie di vita di chi vi è rinchiuso (cfr. Minoia, 2013, p. 3).

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Note

1 La definizione di Teatro Educativo Inclusivo è dell’autore, strutturata a seguito di alcune riflessioni sul teatro sociale e di comunità maturate nel tempo con i colleghi del Master di Teatro Sociale e di Comunità all’Università di Torino e con l’amica V. Ottolenghi, responsabile dell’Associazione Nazionale dei Critici di Teatro, nonché di valutazioni terminologiche approfondite nell’ambito degli studi per il Dottorato di Ricerca in Pedagogia della Cognizione all’Università di Urbino. Definizione utilizzata per la prima volta nel 2014 come titolo di due distinti interventi tenuti dall’autore il 14/10/2014 (su invito della Prof.ssa L. de Anna all’interno della sessione «Modelli culturali espressivi attraverso la creatività per l’inclusione», nell’ambito del secondo convegno internazionale del GIEI in Educazione e Inclusione presso l’Università Roma Foro Italico) e il 18/10/2014 (su invito della Prof.ssa E. Di Fabio della Harvard University, del Prof. W. Valeri del The Boston Conservatory e del Dott. D. Saio Teker, direttore dell’Educational Office del Consolato Generale d’Italia a Boston nell’ambito del Symposium «Teaching Italian in Partnership with the Arts», presso il Department of Romance Language and Literature della Harvard University, Cambridge MA). In entrambe le circostanze la fruttuosa interazione con gli studenti e studiosi presenti mi ha consentito di raccogliere ed elaborare spunti per lo sviluppo delle riflessioni.
2 Qualità essenziale per il Teatro Educativo Inclusivo.
3 Sulla strada aperta da questo movimento culturale è stata fondata nel 1996 all’Università di Urbino da V. Minoia e E. Pozzi, con il decisivo apporto di C. Meldolesi, la Rivista europea «Catarsi, teatri delle diversità». La pubblicazione, riconosciuta dall’ANVUR tra i periodici di carattere scientifico di Area 10, si avvale della collaborazione di un comitato scientifico internazionale di studiosi di teatro e altre discipline umanistiche e sociali, tra i quali spicca il nome del pedagogista A. Canevaro.
4 Cesare deve morire è un film del 2012, diretto da Paolo e Vittorio Taviani. Documenta lo spettacolo «Giulio Cesare» di William Shakespeare messo in scena dal regista Fabio Cavalli, co-direttore artistico del Centro Studi Enrico Maria Salerno di Roma, con la Compagnia dei detenuti del reparto G8 del Carcere di Rebibbia Nuovo Complesso a Roma. La pellicola ha vinto l’Orso d’oro al festival cinematografico di Berlino nel 2012.
5 Reality è un film prodotto nel 2012, diretto da Matteo Garrone. Il ruolo del protagonista del film è affidato a Aniello Arena, detenuto nella Casa di Reclusione di Volterra e nato artisticamente nella Compagnia della Fortezza diretta da Armando Punzo. Nel film interpreta il ruolo di un pescivendolo napoletano, ossessionato dal desiderio di partecipare al reality televisivo del «Grande Fratello».
6 Naufragio con spettatore è un cortometraggio prodotto nel 2016 dal Centro Studi Enrico Maria Salerno con la regia di Fabio Cavalli, segnalato con una menzione speciale per il premio MigrArti alla 73a Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia. Si tratta della storia di Nadil, un giovane detenuto di origine egiziana di fede mussulmana che ha incontrato in carcere alcuni jihadisti e se n'è tenuto lontano con la forza e il desiderio di continuare a essere se stesso, senza rinunciare alla sua fede, ma anche senza cedimenti al fanatismo.
7 L’attenzione del volume si è principalmente concentrata sui luoghi di ordinaria carcerazione, in Italia, dove scontano condanne i soggetti ritenuti colpevoli di reati previsti dall’attuale Codice penale. Testimoni e protagonisti (sono stati chiesti contributi ai registi delle trenta esperienze teatrali più longeve e significative ma anche a detenuti/detenute o operatori sociali e penitenziari che entrano quotidianamente in contatto con il carcere) hanno espresso liberamente il loro pensiero e aiutato a fare, sia pure provvisoriamente, il punto su un problema sociale che rappresenta oggi soprattutto una cartina al tornasole delle coscienze degli uomini, a qualsiasi comunità appartengano.
8 Dalle prime sperimentazioni condotte nel carcere «S. Anna» di Modena negli anni 1994-1996 (coinvolgendo gruppi di studenti universitari di Urbino), agli esperimenti attuati nelle carceri di Ancona e Macerata Feltria e alle ricerche più strutturate condotte grazie al laboratorio permanente La comunicazione teatrale dal 2002 a oggi nella Casa Circondariale di Pesaro, con la costituzione della Compagnia Lo Spacco composta da detenuti e detenute.
9 Una particolarità espressa dal progetto Il sogno dei reclusi realizzato nella Casa Circondariale di Pesaro nel corso del 2011 attuando un’inedita valorizzazione del sogno come strumento di autoliberazione, come via di comunicazione, rappresentazione e conoscenza, attraverso la scrittura e condivisione di sogni effettuati realmente durante il tempo della detenzione ed influenzati dalla stessa.
10 Emblematico è il caso del progetto Il piombo e l’orologio (2013/2014), nel quale gli allievi del Centro Socio Educativo Riabilitativo «Margherita» di Casinina di Auditore, in una particolare sperimentazione che li ha visti in relazione con i detenuti della Casa Mandamentale di Macerata Feltria, hanno messo in luce una nuova realtà, quella della Cooperativa Sociale di tipo B, e la ricostruzione del lavoro quotidiano al suo interno.
11 Qui l’elemento autobiografico può essere veicolato dalla scrittura di lettere, poi utilizzate nella scrittura drammaturgica, come documentato, nei casi dei progetti Lettere dal carcere (2010), ispirato agli scritti di Antonio Gramsci, o Progetto Kafka (2015), ispirato alla Lettera al padre, testo che l’autore boemo rivolse a suo padre Hermann. (Entrambe le sperimentazioni sono state effettuate nell’ambito del laboratorio La Comunicazione teatrale nella Casa Circondariale di Pesaro).
12 Dichiarazioni videoregistrate nel corso della sperimentazione fin qui attuata a Pesaro, in sintesi espresse anche in M.C. Taliani (2015), Destini incrociati, op. cit. (https://www.youtube.com/watch?v=jnklc_Xxwgg) (ultimo accesso: 30/05/2017).
13 La condizione di privazione della libertà dichiarata a fianco al nome di chi ha offerto la testimonianza si riferisce al momento in cui è stata rilasciata l’intervista (12-13-14/12/2015).
14 Dichiarazioni raccolte nel corso della sperimentazione fin qui attuata. Cfr. anche M.C. Taliani (2015), Progetto Kafka, produzione Teatro Universitario Aenigma di Urbino (https://www.youtube.com/watch?v=NNurc_DhuqM) (consultato in data 30/05/2017).
15 Compagnia Lo Spacco, Davanti alla legge, dal testo dello spettacolo rappresentato dal 17 al 21 marzo 2015 a Pesaro.
16 Lo spettacolo è stato presentato al pubblico tre volte: a scuola il 19 maggio 2015; presso la Biblioteca Comunale «San Giovanni» di Pesaro nell’ambito dell’evento «L’Arte Sprigionata» (manifestazione organizzata dall’Istituto penitenziario in collaborazione con la municipalità di Pesaro) il 4 giugno 2015; in carcere, davanti a detenuti e detenute, il 14 dicembre 2015, in chiusura della Rassegna Nazionale di Teatro in Carcere Destini Incrociati promossa dal Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere (https://www.teatrocarcere.it, ultimo accesso: 30/05/2017)
17 Dal testo conclusivo dello spettacolo Conoscendo Kafka, allievi della IIB, ICS «Galilei», a.s. 2014/2015.
18 Compagnia Lo Spacco, dal testo dello spettacolo Davanti alla legge.

DOI: 10.14605/EI1521708


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