La Compagnia teatrale «Il Campanile dei Ragazzi»: note biografiche e di contesto

La Compagnia nasce nel 2001 dal desiderio di Paolo Giuffrida e Tatiana Neri di offrire a un territorio povero di occasioni di aggregazione socio-culturale, soprattutto per i giovani, un’opportunità di praticare un’audace e innovativa «idea» di teatro comunitario, solidale e autogestito, ossia un teatro rivolto a tutti e che privilegiasse, nei metodi e nei contenuti, l’aspetto sociale e la cura delle relazioni interpersonali. Si trattava di una proposta culturale rivolta soprattutto a persone che vivevano condizioni di fragilità o di svantaggio sociale che, in un territorio, che potevamo, e potremmo ancora oggi, definire marginale, erano maggiormente a rischio di emarginazione sociale. Il territorio di cui stiamo parlando è quello della Media Valle del Reno e, in particolare, dei comuni di Grizzana Morandi, Vergato e Marzabotto della provincia di Bologna.

Si tratta di piccole comunità dove, se il viverci può rappresentare una scelta che offre molte opportunità per sperimentare un «buon vivere», sono presenti anche non poche criticità legate, ad esempio, ai trasporti, ai servizi, alle scarse attenzioni nelle politiche sociali e culturali degli enti locali, alle paure collettive che hanno fatto richiudere in se stesse le vecchie identità delle comunità. Crediamo, quindi, di avere offerto, in un tempo storico preciso, qualcosa di cui c’era un’assoluta necessità, e siamo altrettanto certi che, se oggi la nostra esperienza continua, ciò ormai sia dovuto non più, o non solo, a quel bisogno che oggi si presenta con caratteristiche diverse, ma anche alla qualità raggiunta dal nostro lavoro. Sin dal suo nascere, «Il Campanile dei Ragazzi»,[footnote]Il nome fu dato dai «ragazzi» del gruppo che si formò agli inizi e di cui facevano parte diversi minori, adolescenti e adulti. Attualmente, il gruppo è costituito da adulti e giovani adulti, molti dei quali sono i ragazzi di allora.[/footnote] pur operando inizialmente in difficili condizioni logistiche, ha sempre tenuto dei laboratori teatrali che hanno visto, nel tempo, la realizzazione di 25 diversi spettacoli teatrali che, per le scelte di contenuto e metodologiche, hanno spaziato in tanti ambiti. Nella sua storia, infatti, troviamo il teatro comico e il cabaret, quello classico, il mimo, il teatro di figura, lavori su temi di attualità utilizzando alcune tecniche del teatro dell’oppresso, il teatro danza, il teatro brechtiano, ecc.

La prima esperienza teatrale nacque in maniera casuale. Non era chiaro il tipo di progetto che si voleva portare avanti e, durante le attività organizzate dal gruppo nel suo primo anno di vita, per favorire la conoscenza e l’affiatamento tra i ragazzi, venne organizzato un laboratorio di scrittura sul viaggio, scelto come tema conduttore dai ragazzi stessi. Si fecero ricerche, letture individuali e collettive, e, infine, si provò a scrivere un canovaccio di «sceneggiatura» per uno spettacolo teatrale immaginario. Immaginario, perché, le finalità erano altre. Alla fine, la passione per quello che stava emergendo[footnote]Anche nel nostro piccolo esperimento, che si limitava solo a immaginare una possibile messa in scena, stava emergendo la forza straordinaria che il teatro ha come comunicazione sociale che è capace di creare e determinare le condizioni di partecipazione e condivisione ad un’esperienza collettiva. Alla fine, fu quasi naturale porre la domanda finale: «ma lo spettacolo teatrale per cui abbiamo finto di lavorare, quando lo facciamo?».[/footnote] ci spinse a proseguire l’esperienza, approfondendo le complesse tematiche proprie dell’attività teatrale: la recitazione, le scene, le scenografie, i costumi, le luci, il lavoro di sapiente regia per rendere il tutto coerente dal punto di vista narrativo e comunicativo, e fu così che realizzammo una vera e propria messa in scena del nostro primo lavoro a cui demmo il titolo di La vita è tutta un tour. La rappresentazione avvenne in un vero teatro e fu per tutti noi un’esperienza travolgente e appassionante. Ad essa parteciparono tutti i ragazzi[footnote]L’adesione spontanea a una proposta annunciata solo da uno striscione messo a fianco della chiesa e da un efficace passaparola come accade sempre nelle piccole comunità fu sorprendentemente alta. Per quasi tutti i pomeriggi di un’intera estate dai 20 ai 30 ragazzi parteciparono alle attività che si proponevano. Non tutti i ragazzi e le ragazze si conoscevano, visto che alcuni di loro venivano anche dai comuni limitrofi. Un’altra caratteristica del gruppo che ci sorprese fu la netta prevalenza numerica delle ragazze. Quest’ultima caratteristica del nostro gruppo iniziale si è mantenuta nel tempo e ancora oggi, pur con i ricambi che si sono avuti, le donne sono più degli uomini. Quando iniziammo, il gruppo era formato soprattutto da adolescenti; c’erano alcuni preadolescenti e alcuni che superavano i 20 anni. Oggi, dopo 16 anni, l’età media è molto cresciuta, anche se ultimamente abbiamo avuto l’inserimento di due ragazzi e di una ragazza di poco più di 20 anni.[/footnote] che avevamo riunito semplicemente per trascorrere gli afosi pomeriggi di una lunga estate.

Dal 2001 a oggi abbiamo attraversato molti momenti di difficoltà e di crisi: molte sono le persone che si sono fermate solo per qualche anno a lavorare con noi, e molte le persone che invece ci accompagnano sin dall’inizio e che, puntualmente, rinnovano il desiderio di continuare a fare teatro insieme. Oggi il gruppo attraversa una fase di maturità artistica, frutto di tanti anni di sperimentazioni, e che ci permette di misurarci con progetti nuovi e impegnativi. La Compagnia è formata da circa 25 persone, tra attori e addetti alle varie incombenze che fare teatro comporta.

 

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Fig. 1 Esempio di teatro di figura utilizzato all’interno di uno spettacolo teatrale: Il monologo della cazzuola storta, da Leonia rifà se stessa tutti i giorni, liberamente ispirato a Le città invisibili di I. Calvino.

Alla ricerca di un metodo che favorisca la crescita personale

Riflettere su quanto abbiamo cercato di costruire insieme con l’esperienza teatrale ci costringe a ricercare una coerenza metodologica che, nelle intenzioni e nel nostro lavoro concreto, all’inizio non era così marcatamente presente. Ricercare a posteriori questa coerenza, cercando di sistematizzare il nostro approccio al teatro collettivo così come lo abbiamo realizzato, significa tenere conto che dal lavoro che si compie si impara continuamente, ma si corre anche il rischio di «ripetere senza più innovare e ricercare».[footnote]Noi crediamo che lo sforzo maggiore, che deve compiere chi si occupa – facendolo – di teatro, sia quello di testimoniare come esso possa rappresentare un potente strumento «vivo» di comunicazione sociale. Questa operazione non potrà riuscire senza una continua ricerca e capacità di innovazione. Scrive, a tal proposito, Eugenio Barba: «Bisogna progettare il proprio spettacolo, saperlo costruire e pilotarlo verso il gorgo, dove esso si sfascia oppure assume una nuova natura: significati non pensati prima, che i loro stessi «autori» osserveranno come enigmi» (cfr. La canoa di carta, p. 63). Su Konstantin S. Stanislavskij, il grande innovatore del teatro novecentesco, Fausto Malcovati racconta un episodio assai eloquente: «Sembra (me lo raccontava Anatolij Smeljanskij) egli avesse negli ultimi anni un incubo ricorrente: vedeva un’aula scolastica, lui in cattedra con l’aria polverosa e pignola di certi maestri elementari ottocenteschi con basette e pince-nez, e intorno a lui alcuni tristissimi allievi che dai banchi ripetevano a memoria le sue formule sull’attore. Si svegliava gridando: «Distruggete tutti i miei libri, i miei fogli, i miei appunti! Bruciate il ‘sistema’. Lasciatemi in pace!» Quasi effetto di quell’incubo, questo libro capovolge tutto: regole, codici, schemi. Resta l’impazienza di nuove ricerche che solo la morte avrebbe spento». (cfr. Introduzione di Fausto Malcovati, p. XIII – a Konstantin S. Stanislavskij, Il Lavoro sul Personaggio).[/footnote] Una prima cosa che possiamo dire è che, sin dai primi nostri tentativi, avevamo ben chiaro che non si puntava a una compagnia teatrale di «attori professionisti» basata sul mero desiderio di ricercare talenti per puntare a un lavoro di qualità per il quale, necessariamente, bisogna selezionare e trovare i migliori.

Sin dall’inizio due erano le leve su cui volevamo basare il nostro lavoro:

  • l’amore per il teatro, fatto anche di appassionate frequentazioni, da corsisti, di molti percorsi formativi/esperienziali;

  • la volontà di fare un teatro il più possibile inclusivo, dove nessuno sarebbe stato disincentivato dal partecipare, per scarsa attitudine presunta o verificata, e dove l’esperienza proposta non sarebbe stata necessariamente volta «a un risultato – lo spettacolo – finale», bensì al percorso fatto insieme dal gruppo, nel quale ognuno avrebbe potuto sperimentare e sperimentarsi esclusivamente per un proprio ben-essere.[footnote]Nella nostra esperienza non ci è mai capitato di rifiutare l’inserimento di qualcuno che desiderasse sperimentarsi nel gruppo teatrale. Ci è capitato, però, di avere avuto alcuni inserimenti che non sono riusciti, nel senso che le persone interessate decidevano liberamente di porre fine all’esperienza, mentre altre l’hanno seguita con soddisfazione per alcuni anni, per poi abbandonarla. È interessante, invece, ragionare sulle possibili motivazioni che hanno spinto un gruppo di dieci persone a non abbandonare sino a oggi il gruppo del teatro, facendone parte sin dalla sua nascita. Le ragioni di questo impegno, che ogni anno si rinnova, crediamo risiedano in una vera e propria passione per il teatro che si è affermata nei ragazzi e nel desiderio di continuare a far vivere un gruppo che è anche occasione di importanti relazioni amicali: potremmo dire che per queste persone è bello fare «il gioco del teatro», ma è bello soprattutto poterlo fare bene con persone con le quali si sono create anche importanti relazioni amicali. A tal proposito, è utile ricordare come dietro questo originale gruppo di teatro ci sia un’Associazione che rappresenta un contenitore più ampio che, anche attraverso l’uso di una bellissima sede, permette alle persone di vivere, oltre a quelle del teatro, molte altre occasioni culturali, sociali e di semplice svago nel piacere di stare insieme. Questa cosa è importante da ricordare per capire come si arriva a costruire nel tempo un gruppo teatrale così coeso e capace di realizzare progetti impegnativi e complessi come avviene oggi.[/footnote]

Abbiamo cercato, quindi, di utilizzare le nostre competenze – davvero poco strutturate – per proporre percorsi teatrali dove era evidente e predominante l’aspetto collettivo sul talento e sul contributo individuale, se non in termini di apporto al gruppo. Tutti i nostri spettacoli, infatti, contengono una enorme carica di energia che emerge dai momenti collettivi e dove il gruppo rappresenta per ognuno dei partecipanti la forza, la sicurezza, il sostegno per fare qualcosa che da soli faremmo fatica a fare o che, addirittura, potremmo non riuscire a fare. Ovviamente, per ottenere un risultato apprezzabile, soprattutto dai ragazzi partecipanti ai laboratori, è sempre stato necessario un continuo lavoro di cucitura e di ricerca di equilibri che continuamente si spostavano, anche per i percorsi di crescita individuale che ognuno stava compiendo.

L’obiettivo che volevamo raggiungere era quello di far capire a ogni ragazzo che, anche se la vita a volte può spaventare ed è normale avere paura delle difficoltà, avere la consapevolezza di non essere soli, anzi, di avere delle persone amiche con le quali condividere queste paure e cercare di vincere le difficoltà ci rende più sicuri e ci permette di andare avanti.[footnote]Il giocare con il teatro è stato anche un modo per sviluppare «il coraggio di fidarsi degli altri», soprattutto all’inizio, quando una persona si avvicina alla nostra realtà. Per molti ragazzi questo coraggio è difficile da tirare fuori, e il teatro, con le attività che implica soprattutto nei lavori corali, permette di sviluppare anche queste capacità. La coesione del gruppo amicale è il risultato di un lungo lavoro che l’esperienza del teatro ha costruito, ma è anche l’opportunità che viene offerta alla persona che inizia il percorso.[/footnote] Lo spettacolo teatrale, quindi, come grande metafora della vita: costruire uno spettacolo, come cercare e mettere insieme i pezzi di una vita ricca e piena di amicizia e, nel corso del suo farsi, incontrare persone che possono aiutarti e che ti accompagnano. A questo punto, può apparire quasi banale affermare che per noi la ricerca teatrale è stata solo uno strumento per mettere insieme persone e provare a farle crescere. La scelta del teatro quale strumento non è mai stata banale o del tutto casuale, poiché sin da subito abbiamo cercato di «fare teatro» nel senso più alto e nobile del termine. E ci piacerebbe essere considerati una «vera compagnia teatrale», che gioca con il teatro – perché nel fare le cose che facciamo noi bisogna trovarne divertimento e godimento per l’anima – ma che lo prende sul serio, e nel farlo, studia, si applica e cerca di ottenere il massimo da ogni partecipante. Ecco, ma che cosa è questo massimo? Ogni persona che si è avvicinata al nostro collettivo, e che ha fatto con esso un percorso più o meno lungo, ha rappresentato, e rappresenta per noi, un immenso dono e il nostro problema più grande è sempre relativo a come manifestarle la nostra gratitudine per questo dono, nel contempo unico e irripetibile. Ci si pone, cioè, il problema più difficile: come accoglierla e come farla sentire – in un tempo ragionevole – «come se fosse sempre stata nel gruppo».

È chiaro – ma forse non lo abbiamo esplicitato del tutto – che le scelte di fondo erano fortemente orientate all’idea di dare vita a un’esperienza massimamente inclusiva e che voleva essere al servizio soprattutto di persone che vivevano una condizione di svantaggio sociale dovuta a fragilità personale dalle cause più diverse (cfr. Canevaro, 1999). Noi pensavamo – e lo pensiamo ancora, dopo tanti anni di osservazione e di esperienza – che, per il nostro teatro, queste fragilità avrebbero rappresentato una forza, una risorsa creativa ed artistica che, lungi dall’essere il «nostro biglietto da visita» (il teatro fatto dai – o per – disabili), avrebbero rappresentato la possibilità di sperimentare una poetica, una drammaturgia impastata con sensibilità che il mestiere di attore o di regista non conosce o non dà (cfr. Enzo Toma e l’antro alchemico, in Gaspari e Sandri, Inclusione e diversità, pp. 144-146). Di questa impegnativa affermazione siamo del tutto convinti. Infatti, le esperienze sinora sviluppate con i nostri «singolari teatranti» sono state una sua continua conferma. La naturalezza e la bellezza di cui essi sono portatori fanno sì che il lavoro con gli altri, fatto di parola, ma non solo di essa, sia un vero incontro che il rituale del teatro rinnova continuamente. In questo contesto, la «necessaria ripetizione», alla ricerca della perfezione/precisione in vista della messa in scena, lungi dall’essere un noioso lavoro sempre più routinario, ci ricorda il piacere provato dal bambino nell’ascoltare sempre la stessa favola, senza stancarsi mai: ogni volta, come se fosse la prima volta.

Noi crediamo di essere riusciti, almeno in gran parte, in questo lavoro di continuo «impasto» di tanti ingredienti. I lavori realizzati – che non sono pochi – testimoniano di una lunga ricerca i cui risultati, questi sì, non appaiono sempre coerenti con le intenzioni: abbiamo sempre cercato di dare il massimo, ma questo massimo dipendeva dalle situazioni contingenti e tutte le volte partivamo da una situazione che non era mai identica a quella precedente. In questo senso, la nostra ricerca si è avvalsa anche di amicizie e competenze che ci hanno permesso di sperimentare sempre nuove esplorazioni e contaminazioni. Possiamo affermare di aver goduto di incontri che ci hanno permesso di crescere, di «giocare» e divertire, sperimentando percorsi per noi inediti.[footnote]Come esempio di queste particolari esperienze, possiamo ricordare il nostro primo laboratorio estivo (2012) dedicato al mimo, con lo scopo di far lavorare i ragazzi soprattutto con l’espressività corporea, rinunciando alla voce e alla parola. Furono utilizzati anche molti materiali video per far conoscere alcuni grandi maestri e per proporre degli esercizi che sono diventati dei classici del genere. Spesso, nei nostri laboratori ritorniamo su questo tipo di tecnica teatrale, poiché i ragazzi amano misurarsi e giocare con essa. Nel nostro repertorio c’è anche un intero spettacolo dedicato al mimo. Altri momenti importanti di confronto del gruppo con altre esperienze si sono avuti con il canto e la musica. Il lavoro fatto con cantanti e musicisti ha permesso ai ragazzi di sperimentarsi nella possibilità che l’uso della propria voce permetteva, se opportunamente stimolata. Sia il canto che la musica dal vivo sono quasi sempre presenti nei nostri spettacoli. Anche con il teatrodanza, l’incontro è stato folgorante e da alcuni anni essa è parte integrante dei nostri spettacoli, soprattutto nelle scene maggiormente corali (cfr. quanto si dice nel presente saggio nel paragrafo «Il racconto di un’esperienza di lavoro», pp. 7 e 8.[/footnote] Alcune sperimentazioni sono rimaste quale nostro patrimonio e ci capita spesso di utilizzare queste nuove consapevolezze che ci aiutano, inoltre, nelle scelte in merito al lavoro da svolgere in modo che sia il più adeguato possibile alle persone che in quel momento formano il gruppo.[footnote]Soprattutto nei laboratori estivi, della durata di una decina di giorni, riusciamo a dedicare del tempo a specifici approfondimenti esperienziali. Nel tempo, in queste occasioni, sono stati affrontati: il linguaggio del mimo, il teatro comico e clownesco, la poesia, la narrazione e la teatralizzazione delle fiabe, la musica nel teatro, l’uso della voce. Inoltre, non sono trascurate la costruzione di scenografie e di costumi.[/footnote]

Accoglienza

Torniamo al «massimo che ognuno di noi è chiamato a dare», partendo dall’accoglienza. Per poter accogliere la persona nuova che si avvicina a noi, solitamente non vogliamo avviarne la conoscenza con informazioni che potrebbero rivelarsi pregiudizievoli e preconcette. Se c’è qualcosa da sapere per non fare, in buona fede, degli errori, ovviamente è giusto essere messi a parte di alcuni «segreti» riguardanti la persona, ma si deve sempre trattare del minimo necessario. Altrimenti, non vogliamo rovinarci la parte più bella di una nuova amicizia; quella fase della scoperta, della conoscenza dell’altro: la sua personalità, i suoi interessi, i pezzi della sua vita che piano piano affiorano, i desideri, le cose delle quali si è alla ricerca.

A tal proposito, l’esperienza che ognuno di noi ha potuto sicuramente sviluppare occupandosi di fragilità, disagio e disabilità ci può far dire che la «diagnosi», se a volte può aiutare a non commettere errori, altre volte (e sicuramente in un lavoro come il nostro) può servire solo ad abbassare le aspettative e a frustrare anzitempo i risultati di un lavoro che, nel nostro caso, vuol essere solo di complicità e accompagnamento verso una gratificante crescita personale (Canevaro, 1999, p. 45). La leva principale, la più importante, per fare un buon lavoro nell’interesse di noi tutti, ma soprattutto delle persone che decidono liberamente di lavorare con noi, ci sentiremmo di affermare, è quella di regalarci del tempo, tanto tempo, anzi, un tempo che non si dà limiti di tempo, né iniziali, né finali. Questo è il dono più grande che possiamo fare agli altri. Dal punto di vista metodologico noi, quindi, non abbiamo mai detto: «facciamo un laboratorio teatrale che consta di 34 (o 18 o 26) incontri, di 3 (o 2 o 4) ore ciascuno, da ottobre a maggio, nei giorni di … e a giugno si farà uno spettacolo finale (il sempre presente e quasi obbligatorio saggio finale, che serve quasi a sostenere che gli eventuali costi siano stati ben giustificati) e che il tema del laboratorio sarà …». No, non lo abbiamo mai neppure pensato perché, nel nostro prenderci e regalarci tempo, tutto ciò appartiene alla casualità.[footnote]In questo caso, per «casualità» intendiamo un approccio tramite il quale si costruisce saper tramite ciò che capita e non è programmato e previsto. Una sorta di serendipità o di «attendere l’inatteso» come direbbe Morin (2001).[/footnote] che i nostri incontri, normalmente cadenzati settimanalmente, determineranno. Ad un certo momento, prima o poi, dalle discussioni emerge qualche idea che potrebbe essere l’oggetto di una nostra ricerca teatrale.

Normalmente, si prova e si gioca su diverse ipotesi – ma nulla va perso e tutto rimane nella nostra capiente dispensa e potrà tornare utile –, poi, attraverso un percorso di discussioni nel gruppo, si inizia ad avvicinarsi sempre più ad un’idea concreta, un tema che riscuota l’approvazione di tutti. Si arriva così ad affinare un’ipotesi possibile e la nostra concentrazione si rivolge sempre più a un tema e a come possa essere trasformato in una rappresentazione teatrale. Questo momento è sempre molto magico e di esso i ragazzi portano una viva nostalgia, perché tutti sono chiamati a mettersi in gioco e a immaginare «il gioco del teatro possibile su quella idea» che stiamo scegliendo. Ovviamente, in questa discussione collettiva c’è sempre una nostra regia,[footnote]Una nostra regia c’è sempre, e non solo nelle discussioni per scegliere il tema che sarà oggetto del laboratorio. Se dovessimo fare un preciso riferimento ad una specifica tecnica di regia alla quale cerchiamo di ispirarci, esso potrebbe essere il lavoro di Eugenio Barba (cfr. La canoa di carta, pp. 132-136).[/footnote] allo scopo di convogliare su tematiche che possano comunque rappresentare nei contenuti un momento di riflessione e arricchimento delle persone, siano essi gli «attori» o il «pubblico» al quale poi ci si rivolgerà successivamente con la messa in scena. E, ovviamente, la cosa più importante non è mai il risultato finale. Questo va perseguito, ma arriverà in maniera naturale, nel rispetto del contesto e con le «congiunzioni astrali»[footnote]Con questa espressione abbiamo in mente soprattutto i tanti momenti di difficoltà e anche incomprensioni che naturalmente accompagnano la vita di ogni gruppo sociale. Noi cerchiamo di garantire al gruppo una continua attenzione ai «conflitti», latenti ed espliciti e cerchiamo di trasmettere a tutti componenti del gruppo la serenità e la forza necessarie per gestire queste situazioni di difficoltà. Non sempre si riesce a superare nel miglior modo possibile i momenti di criticità; anzi, a volte le cose sono andate decisamente male, ma, complessivamente, siamo riusciti, sinora, ad andare avanti superando non poche difficoltà, e non piccole, talvolta anche legate alle relazioni tra le persone. Una dinamica che non consideriamo positiva, e che si è qualche volta manifestata all’interno del gruppo, è rappresentata dalla creazione di piccoli sottogruppi che costruiscono relazioni privilegiate tra alcune persone del collettivo. In ciò non ci sarebbe nulla di negativo, se non che, talvolta, questi piccoli gruppi potrebbero rischiare di emarginare altri soggetti, contraddicendo così la coralità del lavoro collettivo che cerchiamo di portare avanti e che ha come sua regola principe quella di »non lasciare indietro nessuna persona, escludendola dal lavoro complessivo».[/footnote] possibili in un determinato momento. Sinora, ha quasi sempre funzionato e i risultati non sono mai stati al di sotto delle aspettative, se pure anticipate da momenti di sana tensione e ansia da prestazione. Ma anche in questo caso il gruppo è presente e solidale, e pronto «a tendere la mano con il suo abbraccio amichevole e rassicurante».

Da un punto di vista strettamente artistico e drammaturgico, in ogni nostro spettacolo viene sempre dedicata una parte importante ad alcune scene dove il momento corale ha la sua centralità: ognuno di noi si lega con un filo immaginario a tutti gli altri e ciò che facciamo dipende da quello che fanno gli altri: rispetto dei tempi, giochi di sguardi, attese di gesti, di parole che ci rendono complici e suggeritori. E insieme facciamo un gesto, leviamo la voce, incediamo in un cammino concreto e immaginario. E in quel momento il gruppo diventa un nucleo solo. Certo, lavorare in questa maniera, oltre a essere estremamente gratificante, è anche molto faticoso. Ma la fatica è ben ripagata e misurabile quotidianamente nei tanti momenti di amicizia, aiuto, rispetto e solidarietà che siamo stati sinora in grado di donarci.

È probabile che queste brevi note possano strappare una smorfia di disapprovazione da parte di qualcuno. «Non è possibile ipotizzare un lavoro con queste caratteristiche»; «chi ce l’ha il tempo per fare un lavoro così lungo e complesso?»; «se si dovessero pagare gli operatori, ci vorrebbero tantissimi soldi»; «una cosa così, rischia di non avere inizio e di non avere fine», e altre possibili obiezioni di pari natura. La nostra scelta, che rivendichiamo, di non avere una metodologia specifica a cui rifarsi pedissequamente, né di perseguire un modello «produttivistico» che pesi costi e benefici e sia finalizzato al garantire determinati e misurabili risultati, è motivata da un tipo di progetto i cui risultati esulano da qualsiasi logica di «mercato», anche nel senso buono del termine. Noi abbiamo tempo, o meglio, abbiamo deciso di fare in modo di avere tempo[footnote]A tal proposito, e nel tentativo di essere più chiari, ricordiamo la poesia Ti auguro Tempo della poetessa tedesca Elli Michler: Non ti auguro un dono qualsiasi, / ti auguro soltanto quello che i più non hanno. / Ti auguro tempo, per divertirti e per ridere; / se lo impiegherai bene, potrai ricavarne qualcosa. / Ti auguro tempo, per il tuo fare e il tuo pensare, / non solo per te stesso, ma anche per donarlo agli altri. / Ti auguro tempo, non per affrettarti a correre, / ma tempo per essere contento. / Ti auguro tempo, non soltanto per trascorrerlo, / ti auguro tempo perché te ne resti: / tempo per stupirti e tempo per fidarti / e non soltanto per guardarlo sull’orologio. / Ti auguro tempo per toccare le stelle / e tempo per crescere, per maturare. / Ti auguro tempo per sperare nuovamente e per amore / Non ha più senso rimandare. / Ti auguro tempo per trovare te stesso, / per vivere ogni tuo giorno, ogni tua ora come un dono. / Ti auguro tempo anche per perdonare. / Ti auguro di avere tempo, / tempo per la vita.[/footnote] – nel tempo in cui tutti sembrano non avere più tempo, non solo per gli altri, ma forse anche per se stessi – per donarcelo, rallentando il ritmo dei fotogrammi di un film che ci vede protagonisti e che mai nessuno vedrà, almeno nel suo tentativo di montaggio. E questo tempo, per nostra precisa scelta, non costa e non deve costare nulla. Facciamo, infatti, della gratuità una caratteristica non negoziabile del nostro stare e lavorare insieme. Infine, pensiamo che solo l’attenzione per l’altro e l’affetto e che ci lega nelle relazioni possano regalarci l’indispensabile disciplina per costruire uno spettacolo teatrale. Perché, alla fine, il nostro «gioco del teatro» produce quasi sempre uno spettacolo che – al di là della qualità proposta e raggiunta – ha, e deve avere sempre, una sua coerenza tecnica che richiede una grande capacità di essere responsabili e solidali verso gli altri. Passare dall’individuale al collettivo è impresa assai difficile, ma val la pena provarci e, quando ci si riesce, si crea una magia di cui rimane il desiderio e la nostalgia. Ma, in questo caso, la cosa da fare è rimettersi al lavoro e immaginare un altro spettacolo. Per noi è stato così, anzi è così, da 16 anni.

Il valore di essere una Compagnia

Nella nostra specifica esperienza artistica, ha acquistato da subito una sua importanza l’essere, o il voler diventare, una Compagnia teatrale, cioè una piccola comunità che vuol ritrovarsi attorno a fare teatro. Il modello a cui ci sarebbe piaciuto ispirarci sarebbe stata l’antica compagnia girovaga della Commedia dell’Arte italiana, di quell’esperienza, cioè, che abbatteva ogni barriera tra teatro e vita, se non nella proposta drammaturgica, sicuramente nelle fatiche quotidiane e nella necessità di essere un collettivo.

Ripensando a tutto il tempo trascorso insieme dalle persone che formano il nostro collettivo, effettivamente si scopre una condivisione così larga che non può essere considerata solo artistica. L’essere parte di una compagnia, per ognuno di noi vuol dire anche condividere i destini di una proposta teatrale complessiva che offre molteplici opportunità. A noi, ad esempio, piace anche giocare con lo scambio dei ruoli. Nei nostri spettacoli, capita che ci si scambi le parti, e non solo per inevitabili questioni legate agli inconvenienti e alle possibili indisponibilità individuali. Ci piace immaginarci come un organismo che, pur nell’affannosa respirazione, vive della presenza e del contributo di tanti e, dopo molti anni di costante lavoro comune, il gruppo ha raggiunto un’intesa e una maturità artistica tale da potersi permettere di affrontare sfide importanti, rafforzando con ciò quanto soleva spesso affermare Bertrand Russell: «Gli innocenti non sapevano che la cosa era impossibile, dunque la fecero».

A volte ci capita di dover definire meglio la natura del nostro teatro e della nostra Compagnia. I termini più usati generalmente sono «sociale», «solidale», «comunitario», e nella nostra esperienza sono presenti tutte le caratteristiche da essi evocati. Quello che sappiamo è che sicuramente facciamo teatro, che per farlo abbiamo creato un gruppo che ha una vita non occasionale (come per i laboratori che nascono e finiscono nell’arco di una stagione), ma stabile (per quel che vale questa parola per le esperienze umane), e che per sua scelta è ampiamente inclusiva, aperta, cioè, ad accogliere quanti manifestano il desiderio di conoscerci e di lavorare con noi.

Il racconto di un’esperienza di lavoro: « … e il naufragar m’è dolce in questo mare» (2014/2015)

Alcuni anni fa, dopo avere discusso a lungo tra di noi su quale autore «classico» rappresentare (era questa l’esperienza che volevamo fare), tra Pirandello e Leopardi, scegliemmo di lavorare sul secondo, anche se un po’ tutti eravamo spaventati dalla complessità dell’opera leopardiana e dalla nostra stessa capacità di trovare una proposta e una chiave di lettura funzionale a un’originale rappresentazione futura. Ma per fugare queste paure e questi dubbi non ci restava – come al solito – che immergerci nello studio e nel lavoro. Partimmo dai ricordi scolastici di ognuno di noi e fu quasi un disastro: scoprimmo che la scuola non ci aveva fatto amare Leopardi e non ne aveva lasciato in noi un buon ricordo. Ma vincendo, quindi, non pochi pregiudizi, scoprimmo quasi subito un Leopardi ben diverso da quello che si era depositato nelle nostre esperienze di scuola. Inoltre, il tema che ci sembrò sempre più chiaramente importante, e per noi di interesse, fu la relazione tra l’uomo, con la sua immensa genialità letteraria e filosofica, e le malattie che condizionarono la qualità della sua breve vita. Decidemmo di provare a mettere in scena l’uomo Leopardi che si racconta attraverso le lettere scritte a familiari, amici e interlocutori vari, e non solo, quindi, attraverso i risultati del suo lavoro letterario e filosofico. Piano piano ci siamo avvicinati all’universo leopardiano, fino a far sì che dalle paure iniziali si passasse a un totale innamoramento, tanto che Giacomo finiva con il diventare un caro amico con cui condividere un lavoro artistico.

Per costruire lo spettacolo, creandone prima le premesse «spirituali», sono stati necessari più di 40 incontri tenuti nell’arco di dieci mesi. Inoltre, è stato realizzato anche un breve, quanto intenso e importantissimo, soggiorno di tutto il gruppo a Recanati, dove fummo anche ospiti di Casa Leopardi, avendo la possibilità di incontrare alcuni esperti di cose leopardiane. I laboratori attivati per lo spettacolo furono diversi: per la scrittura dei testi, per i costumi, le scenografie e uno specifico di teatrodanza per alcune scene collettive in esso presenti. I laboratori di teatrodanza sono stati costruiti pensando ai componenti del gruppo in modo da personalizzare quanto più gli esercizi proposti in base alle esigenze di ciascun partecipante, in modo che ognuno trovasse la propria personale dimensione espressiva del Sé attraverso l’utilizzo del proprio corpo in una danza che fluisse liberamente in un movimento spontaneo, dando a chi si sperimenta il tempo di cui ha bisogno per esprimersi.

L’obiettivo è stato quello di stimolare l’ascolto attivo degli altri, nel percepire se stessi attraverso il proprio corpo e con esso interagire con il gruppo. Si arrivava così a uno scambio attraverso movimenti del corpo, utilizzando anche il contatto fisico (attingendo alle tecniche del contact improvisation), che ha permesso di abbattere alcune barriere di comunicazione che comunemente emergono con la parola. Arrivando alla costruzione di scene attraverso l’approccio del teatrodanza, i ragazzi hanno potuto sperimentare una forma di comunicazione non verbale, che, in qualche caso di disabilità legata proprio a difficoltà di comunicare attraverso la parola, ha dato modo di esplorare nuove possibilità per esprimere se stessi e i propri bisogni attraverso il movimento. Altra conseguenza è lo stato di benessere che è stato percepito e raccontato sia durante i laboratori che nello spettacolo, ciò a testimonianza del fatto che quando si impara a usare le molteplici possibilità di esprimersi mediante i movimenti del corpo, che frequentemente nella vita quotidiana di molti è trascurato e quasi dimenticato, nell’azione teatrale si arriva ad esaltarne il senso di gratificazione che ne procura, arrivando anche a una maggiore padronanza del movimento sulla scena e nella vita.

Noi pensiamo che questo lavoro, forse più di altri, sia servito ad accrescere l’autostima di ognuno di noi e a rafforzare il valore e la complicità del gruppo e nel gruppo, che fa certamente teatro, ma è anche, e soprattutto, un gruppo amicale. Esserci occupati di Leopardi ci ha lasciato un grande e nitido messaggio: anche di fronte a difficoltà immense – e la sua vita è stata davvero paradigmatica, in tal senso – la vita è qualcosa da amare e che val la pena percorrere con coraggio, fiducia e curiosità.

La foto riportata nella figura 2 è riferita alla scena conclusiva del primo atto dedicato all’infanzia, l’adolescenza, lo studio, la malattia, la famiglia, il rifiuto, la ricerca d’amore. Si vedeva il giovane Leopardi entrare in scena per essere rapidamente circondato da un gruppo di personaggi che, impedendogli di uscire dal cerchio, gli gridano: «Gobbus esto / Fammi un canestro / Fammelo cupo / Gobbo Fottuto». Il grido è sempre più forte e concitato, fino a concludersi con lo spezzamento del cerchio: tra due dei componenti del cerchio c’è quasi uno scambio di consegne con altri due personaggi che prendono in carico il giovane Leopardi, sempre più stanco, sconfitto e malfermo sulle gambe. I due personaggi iniziano a sorreggerlo, mentre una voce fuori campo racconta l’irrompere della malattia, della deformità e della depressione nella vita del giovane: i due personaggi, sostenendo Leopardi, ne sostengono la fragilità e la deformità fisica. La costruzione di questa scena ha richiesto un lungo lavoro che ha coinvolto molti ragazzi attraverso un uso del corpo e una gestualità che, nel dialogo con l’altro, hanno creato una relazione di fortissima complicità e fiducia. Quando andammo in scena, si creò una situazione di magia e, in un’atmosfera irripetibile dove tutto funzionava e la serenità era la vera regista, più di un ragazzo disse di essere sicuro della presenza con noi di Giacomo: un atto d’amore ricambiato.

 

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Fig. 2 Una scena dello spettacolo teatrale … E il naufragar m’è dolce in questo mare.

Conclusioni

Nel cercare di trarre delle conclusioni da questo racconto dell’esperienza del nostro modo di fare teatro sociale, possiamo affermare che si tratta di un’esperienza di successo, nel senso che essa ha rappresentato e ancora oggi rappresenta per un numero importante di persone un’opportunità per star bene insieme a un gruppo di amici e di poter crescere umanamente con loro attraverso il «gioco del teatro». Per ogni persona che fa parte del gruppo, quest’ultimo costituisce un solido punto di riferimento nel cammino della propria vita. Il teatro, da puro strumento e occasione per stare insieme, sperimentandosi nel contempo, è diventato qualcosa che appassiona e che ha i suoi linguaggi specifici ai quali tutti cercano di rapportarsi per farlo bene e con «competenza».

Nel nostro lavoro la separazione tra teatro e vita è assai poco marcata e, nel nostro fuggire, con le scelte artistiche che compiamo, dalla normalità della vita di tutti i giorni, non facciamo altro che riscoprirci quali teatranti un po’ sui generis. Nel nostro teatro, comunque, cerchiamo di essere, più che dei bravi attori, delle persone autentiche, che nella messa in scena mostrano se stesse e i propri sentimenti, pur nell’immedesimazione del momento con il personaggio o la situazione che si deve rappresentare. Per noi, questo lavoro rappresenta un salutare bagno di verità. Nei nostri lavori, spesso, ci capita di suscitare in noi stessi e nel pubblico emozioni forti, di grande coinvolgimento. Quando ciò accade vuol dire che, nel fare ognuno la propria parte, si è riusciti a mantenere l’energia e i sentimenti della prima volta, con un coinvolgimento emotivo completo. Pensiamo che questo risultato appartenga alle caratteristiche stesse del gruppo e non tanto alle tecniche apprese. È qualcosa che va oltre ed emoziona, e quando il teatro emoziona, sta abbattendo dei muri e sta lanciando ponti di dialogo tra le persone. In questi momenti, l’esperienza inclusiva del nostro teatro sembra espandersi e legarsi a tanti volti, come in un gioco di tessitura di reti di solidarietà e amicizia. L’augurio che facciamo a noi stessi è quello di trovare ancora a lungo le energie e la passione per continuare a sperimentare. Sappiamo di essere importanti per tante persone e per questo cercheremo di continuare nel nostro lavoro.

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