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Editoriale / Editorial

Editoriale


Alessandro Tolomelli

Ricercatore e Professore aggregato dal 2010 all’Università di Bologna, svolge le sue ricerche nell’ambito della Pedagogia generale e sociale. Gli interessi di ricerca sono rivolti in particolare all’epistemologia delle professioni educative, alle teorie e modelli dell’Empowerment, al Teatro dell’Oppresso, alla dispersione scolastica, ai metodi di promozione della partecipazione attiva, alessandro.tolomelli@unibo.it

Francesco Cappa

Ricercatore presso il Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione «Riccardo Massa», francesco.cappa@unimib.it


Autore per la corrispondenza

Alessandro Tolomelli
Indirizzo e-mail: alessandro.tolomelli@unibo.it
Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Via Filippo Re, 6, 40126, Bologna



Esiste teatro che non sia interculturale?

Oggi, gli aggettivi interculturale, multiculturale, transculturale, intraculturale sono così presenti in ogni tipo di contesto educativo e sociale, da generare il sospetto che l’ordine del discorso vigente tenti di continuo di neutralizzarne il potenziale conoscitivo e sovversivo.

La riflessione che investe le relazioni tra culture diverse o i tratti interni a una stessa cultura è sempre a rischio si ritrovarsi ingabbiata, anche a dispetto delle buone intenzioni, tra la retorica e l’ideologia.

Sono molti i libri che cercano di sceverare le questioni pressanti che questo discorso pone alla società, alle comunità, ai gruppi, ai singoli. Le definizioni servono, ma a volte per comprendere Berlino bisogna vivere a Mosca, come scriveva quasi cent’anni fa Walter Benjamin (1983). Per questo crediamo si possa iniziare dalla domanda posta poco fa: esiste teatro che non sia sempre interculturale? E, quindi, provare a chiedersi non solo come il teatro possa essere inteso come strumento per l’inclusione e, per estensione, per generare azioni e progetti che potremmo definire interculturali, ma anche in che senso e in quali modi il teatro possa farci qualificare un fenomeno o un’esperienza come interculturale.

Anni fa Marco Aime scriveva: «A incontrarsi o a scontrarsi non sono culture, ma persone. Se pensate come un dato assoluto, le culture divengono un recinto invalicabile, che alimenta nuove forme di razzismo. Ogni identità è fatta di memoria e oblio. Più che nel passato, va cercata nel suo costante divenire» (Aime, 2004, p. 51). Il teatro nasce come un’esperienza di «valicamento», tra divino e umano, tra fisico e immateriale, tra memoria e oblio, appunto, non per fissare le identità, ma per rappresentarle come divenire. Il teatro è strutturalmente e atavicamente una zona franca.

Il senso stesso dell’esperienza dell’attore è affrancarsi - sostiene Eugenio Barba nel suo primo libro, La corsa dei contari (1981) - ma in un senso molto concreto: sociale ed economico. «Soltanto in futuro qualcuno potrà decifrare quale era il significato, quali tracce hanno lasciato la zone franche dell’attore, che ha scelto l’esercizio di un lavoro che scompare con lui» (Barba,1981, p. 34). Quanto risuonano vicine queste parole riferite all’attore alle condizioni franche dei protagonisti assoluti, reali e immaginari allo stesso tempo, della questione interculturale odierna: i migranti.

«Non so quale significato abbiamo, nella nostra epoca e nella nostra società, i miei compagni ed io. Siamo forse noi a stabilire che significato abbiamo o avremo?» (Barba, 1981, p. 34), parole queste che potrebbero essere facilmente presenti in una delle migliaia di interviste o di narrazioni che le esperienze «interculturali» generano nella trama della realtà vicina o lontana che viviamo.

In quasi tutti i contributi nel monografico che abbiamo curato, letteralmente o appena traslata, troverete l’espressione: «il teatro come luogo d’incontro». Pensiero portante, enunciato inamovibile di ogni discorso che cerchi di intrecciare teatro e intercultura. La questione che abbiamo cercato di privilegiare, anche e non solo nella scelta dei contributi e nell’equilibrio fra le scritture, i registri, gli stili, nasce però dalla domanda immediata che quella frase fa sorgere, specie da una prospettiva pedagogica: quale incontro?

Cosa determina o tradisce la qualità specificamente educativa di questo incontro che teatro e intercultura possono a volte allestire? Quali sono i tratti di un teatro inclusivo e, ancor più, di un teatro che persegue l’obiettivo dell’inclusione/inclusività attivando processi educativi? Con queste domande abbiamo costruito questa proposta editoriale e speriamo possano essere buone spie per interrogare i testi qui raccolti, sia quelli teorici sia quelli più vicini a esperienze sul campo.

Che cosa può essere, dalla nostra speciale doppia prospettiva, l’incontro?

Ne La cultura dell’educazione (1996), il manifesto del «culturalismo psicopedagogico», Jerome Bruner fornisce un’indicazione interessante per poter affrontare questa domanda: «La cultura […] modella anche la mente dei singoli individui. La sua espressione individuale è legata al fare significato, all’attribuzione di significati alle cose in situazioni diverse e in occasioni concrete. Fare significato implica situare gli incontri con il mondo nel loro contesto culturale appropriato, al fine di sapere “di che cosa si tratta in definitiva”. Benché i significati siano nella mente, hanno origine e rilevanza nella cultura in cui sono stati creati. È questa collocazione culturale dei significati che ne garantisce la negoziabilità e, in ultima analisi, la comunicabilità» (Bruner, 1997, p. 17).

In molti dei contributi qui offerti s’insiste sulla forza comunicativa del teatro, ma crediamo che tale comunicazione debba essere compresa e attuata, nella concretezza delle situazioni, tenendo ben presente il discorso proposto da Bruner, per realizzare un teatro come buona prassi di bisogni inclusivi.

Il teatro che abbiamo cercato di descrivere non è un luogo di auspici, di manifestazioni d’interesse, di richieste d’asilo, di aiuto assistenziale, di esilio, di slogan o di denuncia. Piuttosto abbiamo provato a indicare alcune pratiche e alcuni pensieri che intercettassero quell’istanza di valicamento della quale parlavamo poc’anzi. Il teatro presenta sempre un attraversamento di confini, è strutturalmente uno sconfinamento dentro la tessitura della vita quotidiana: è una soglia extra-ordinaria.

La sua natura di soglia indica specificamente l’elemento essenziale dell’esperienza interculturale. Il teatro non è mai un luogo auspicabile, nemmeno forse quando il teatro vuole essere ideologicamente pedagogico. Il teatro è un luogo del Mit-sein, il luogo proprio dove può darsi l’essere-in-comune, dove l’eventualità della comunità diventa attualità. In questo senso il teatro è sempre attuale.

Tale attualità è tutt’uno con la pratica teatrale. La soglia che il teatro presenta e rappresenta nella vita diffusa è sempre una soglia da praticare. Riscontriamo in questo un’analogia strutturale fra il teatro e la pedagogia interculturale, verso una pedagogia della reciprocità.

Parafrasando Rimbaud, il teatro è un altrove, ma un altrove tutto da praticare, come i testi di questo monografico cercano di mostrare. Un altrove che a volte può trasformare le nostre personali e collettive stagioni all’inferno in poesia e azione trasformatrice. 

Bibliografia

Aime M. (2004), Eccessi di culture, Torino, Einaudi.

Barba E. (1981), La corsa dei contrari. Antropologia teatrale, Milano, Feltrinelli.

Benjamin W. (1983), Diario moscovita, Torino, Einaudi.

Bruner J. (1996), The Culture of Education, Boston, Harvard University Press.


© 2017 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2421-2946. Educazione interculturale.
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