Test Book

Esperienze e progetti / Experiences and projects

Aspettando il vento. Sul teatro come agente dirompente
Waiting for the wind. About theather as a disruptive agent

Marina Mazzolani


Autore per la corrispondenza

Marina Mazzolani
Indirizzo e-mail: extravagantis.teatrointegrato@gmail.com
rganizzatrice di eventi culturali e scrittrice di poesie, inizia a occuparsi di teatro nel 1977. Nel 2008 è tra i fondatori dell’Associazione ExtraVagantis, per la quale attualmente cura la direzione artistica di alcuni progetti. Associazione ExtraVagantis, Via Zaccherini, 15, 40026 Imola (BO).



Sommario

L’esperienza teatrale nata nel 2001 come laboratorio integrato, tra attori disabili e normodotati, che ha dato vita nel 2008 all’Associazione ExtraVagantis, gruppo interessato ai temi delle diversità, ha sempre avuto una particolare attenzione per la questione delle categorie sociali: gran parte del lavoro è stato dedicato ad approfondire come esse possano alimentare pregiudizi, stereotipi, stigmi e, da strumenti di conoscenza e di attraversamento della complessità del reale, possano divenire muri che dividono le persone e causa di emarginazione. Nell’ultima produzione cui ExtraVagantis ha partecipato, Minotauri, realizzata in collaborazione con la Rete dei Teatri Solidali della Città metropolitana di Bologna, la grande eterogeneità del gruppo dei propri attori ha reso evidente l’esigenza di dare valore alle differenze ma anche di cercare le similitudini, stabilendo legami che definiscano nuove appartenenze, rendendo inutile l’utilizzo di categorie avulse dal lavoro teatrale, dallo scambio tra i corpi e le voci delle diversissime persone coinvolte nella creazione collettiva. Nella comunità del teatro si rispecchia la comunità più vasta: nei suoi scenari si rappresenta il presente, ma soprattutto si sperimenta il futuro.

Parole chiave

Categorie, stereotipi, pregiudizi, teatro sociale, ExtraVagantis, concetto di normalità


Abstract

The theatrical experience that was born in 2001 as an integrated laboratory, between disabled and non-disabled actors, which created the ExtraVagantis Association, a group interested in the themes of diversity, has always had a special focus on the issue of social categories: much of the work has been devoted to exploring how they can spur prejudices, stereotypes, stigmas and, from tools of knowledge to cross the complexity of reality, they can become walls that divide people and cause marginalization. In Minotauri, the last production to which ExtraVagantis participated, in cooperation with the Solidarity Theater Network of the Bologna Metropolitan City, the great heterogeneity of the group of its actors has pointed out that it is important to give value to the differences but also to look for similarities, establishing ties that define new memberships, making useless the use of categories separated from theatrical work, from the exchange between bodies and voices of the very different people involved in collective creation. The theatre community reflects the wider community: in its scenarios the present is represented but above all, the future is experimented.

Keywords

Categories, stereotypes, prejudices, social theatre, ExtraVagantis, concept of normality


Premessa… o prologo…

Chiedere a un teatrante di parlare del proprio lavoro come se fosse un docente di storia del teatro o un critico teatrale può risultare improprio, oltre che bizzarro. La cosa, inoltre, non ci avvicinerebbe né alla comprensione del lavoro teatrale, né a qualche verità in merito, poiché esse, come si sa, non si catturano con questi strumenti. Tra l’altro, si potrebbero correre rischi d’innesco di dialoghi curiosi e non ci si potrebbe sorprendere se qualcuno, tra i teatranti, rispondesse ammettendo una grande difficoltà.

«Perché hai fatto questo?» «Non so… ne ho sentito la necessità…»

«Cos’hai voluto dimostrare?» «Nulla, non è stata un’esigenza di dimostrazione che mi ha motivato…»

«Chi e quali sono i tuoi riferimenti?» «Ero seduto al parco e ho visto uno straccione, chiaramente un barbone che gridava, rivolto ai passanti, con tutta la forza che aveva in gola: Popolo, bue!... Popolo!! Bue!!!... Popolo, bue!!!... Se dovessi citare una fonte per questo nuovo spettacolo, dovrei dire che è stata quell’uomo. Quell’uomo sconosciuto ha innescato la scrittura del testo e poi mi ha guidato nella regia per fornire indicazioni ai miei attori…»

Chi si stupirebbe di una dichiarazione simile?

E, soprattutto, questa risposta così ineffabile, quasi eterea, significherebbe che la creazione artistica di quel regista, come la sua dichiarazione, non sono sostenute da un solido impianto teorico?

Metteremmo in dubbio che un solido impianto teorico stia alla base della Commedia, o meglio Comedìa, detta poi Divina dal Boccaccio? Naturalmente no. Però sono altri che devono trovare i riferimenti in Dante. Dante ha compiuto l’impresa, creato l’opera. Perché chiedergli di spiegarcela, di farne la parafrasi?

Ma non lo metteremmo in dubbio non soltanto perché l’opera poetica di Dante è colossale e poi perché trabocca di conoscenze, o anche perché, poetando, espone proprie posizioni e dibatte e confuta e dialoga con altre posizioni o teorie. Attenzione a questo passaggio: non lo metteremmo in dubbio anche per poesie di sei versi ad argomento bucolico o per uno schizzo di ritratto, semplicemente perché non ce lo chiederemmo. Questa domanda, rivolta all’autore, sarebbe impropria, quindi non la formuleremmo, e non cercheremmo questa risposta.

L’espressione artistica trova solidità in altro, non soltanto nei riferimenti teorici e non certamente soltanto in quelli che il suo autore riesce a dichiarare con precisione da analista. Gli artisti, tra cui i teatranti, hanno (molte volte, almeno) alle spalle e nel cuore, impresso nella mente come nello stomaco, un solido bagaglio teorico. Ma chi potrebbe stupirsi se, parlando di se stessi, non fossero in grado di citare autori e specialmente testi?

Chi non capirebbe lo scarto tra la pratica dell’arte ed eventuali fonti teoriche? E se, tra l’altro, per la sua pratica un artista preferisse terreni mai attraversati da nessuno o raramente attraversati, in cerca di possibilità tutte da creare, quali riferimenti teorici potrebbe citare o confutare? I proverbi? Tipo magari La fortuna aiuta gli audaci?

Nello specifico teatrale: si può dibattere un Metodo, specie se lo si inventa e lo si promuove; si può quindi analizzarlo con gli strumenti della critica, ma raramente si affronta una regia avendo in mente riflessioni altrui che indirizzino il lavoro (fonti, riferimenti), o da confermare o da contestare.

Difficilmente poi si ha l’esigenza di aggiungere conclusioni teoriche alla compiutezza dell’esperienza artistica, che, in sé, contiene teoria e prassi, ogni possibile ispirazione (razionale e irrazionale, emotiva e non), trasformate nella materia insondabile di una musica, un dipinto, una scultura, una poesia, un romanzo, un testo teatrale, una messinscena… In forme, nuove e meno nuove. Qualcosa che prima non c’era, ovvero una creazione. Quindi qualcosa che scaturisce dalla capacità di captare ogni cosa dell’umano e farne materia per la creazione artistica, e che, proprio perché deriva da un’azione così misteriosa, così multipla, così irradiata e irradiante, come il captare, ha in sé il presente, il passato e il futuro.

Non vi stupirete allora se, accogliendo l’invito dei curatori di questa rivista e scrivendo di un’ennesima creazione, non ho prodotto quasi note e se ho fatto diretto riferimento a un libro soltanto, uno degli ultimi che hanno contato per me. Prima della lettura di questo libro ci sono quarant’anni di ricerca artistica, alimentata da spunti teorici, la maggior parte dei quali non saprei/vorrei citarvi, tantomeno con precisione, ma soprattutto alimentata da quella curiosità e da quell’interesse per ogni espressione umana che Konstantin Sergeievich Stanislavskij raccomandava a chi volesse diventare/essere attore.

Racconterò di seguito alcune cose del mio lavoro teatrale, in particolare della piccola creazione più recente alla quale ho avuto modo di applicarmi. La scrittura del mio articolo sconfina da alcune delle modalità proprie di una rivista scientifica. Del resto, come cercherò di dimostrare, è proprio una certa tendenza al superamento di limiti e confini, uno dei leitmotiv della mia ricerca teatrale.

Necessità delle categorie sociali?

Dotarsi di categorie sembra una necessità. Dovendo leggere e interpretare il mondo fuori di noi, gli altri esseri, umani e non, il loro aspetto, i loro comportamenti, dovendo attraversare la realtà e gli elementi di cui è composta, abbiamo bisogno di strumenti di orientamento. Uno strumento formidabile è la semplificazione della realtà e la sua scomposizione tramite categorie.

Restringendo il campo alla nostra specie, se della realtà degli esseri umani avessimo presente, sempre e soltanto, esclusivamente la sua irriducibile riproposizione di differenze, anche minime, molto probabilmente ne saremmo disorientati. Molto probabilmente ci apparirebbero inquietanti perfino la certezza dell’impossibilità, anche tendendo all’infinito o all’eternità, di fare combaciare perfettamente due individui e la consapevolezza che ognuno di noi è unico, che non sono mai esistite né esisteranno mai due persone con caratteristiche genetiche perfettamente sovrapponibili (in natura, almeno).

Se la percezione della realtà coincidesse con l’evidenza dell’entità delle differenze riscontrabili, di ogni piccola o grande cosa, animata o inanimata, da ogni altra cosa, ne saremmo spaventati, ne saremmo destabilizzati, nel senso che non potremmo dare stabilità alla nostra visione: non un punto di aggancio per la comprensione della visione stessa, ma come uno scivolamento continuo da un pixel all’altro o da temporanee e fugaci aggregazioni di pixel, in composizioni di immagini del tutto relative e perciò immediatamente evanescenti.

Pare quindi che le categorie ci aiutino a fissarci, ovvero a comprendere, poiché, arrestando lo scivolamento, bloccano l’impossibilità di comprendere. Abbiamo bisogno di rendere l’ambiente controllabile, abbiamo bisogno di significati.

Questo vale anche per le persone e tra le persone: poter suddividere le persone in categorie sociali ci permette di spiegarne i comportamenti. Anche gli stereotipi hanno a che fare con le categorie e sono motivati da qualche necessità, così come i pregiudizi. Cercando sensi e significati applichiamo stereotipi e categorie, formuliamo pregiudizi, attribuiamo similitudini livellanti che tengono in pochissimo conto – o addirittura in sospetto – le reali caratteristiche delle persone e definiscono più simili tra loro di quanto lo siano in realtà tutte le persone inserite in una categoria. Da un pregiudizio molto negativo si arriva molto presto alla discriminazione.

Attiviamo categorie e stereotipi in modo automatico, senza averne consapevolezza. Ma anche se l’avessimo e se il dubbio e la volontà critica si insinuassero in noi, avremmo a che fare con il nostro contesto sociale, che ha per le sue dinamiche il passo tendenzialmente lento e conservatore della Storia, al quale risulterebbe molto più facile confermare uno stereotipo che smentirlo. Fatti salvi i salti improvvisi, le cesure, che, compresi nell’illusorio andamento lineare della Storia, non forniscono informazioni credibili sulle consuetudini, sui comportamenti abitudinari collettivi, sulle appartenenze involontarie conformi, sulla cosiddetta normalità.

Il percorso di ExtraVagantis, gruppo teatrale nato nel 2008 da un’esperienza avviata nel 2001, si può sintetizzare in queste righe, ricorrenti nei nostri materiali di presentazione:

C’erano dei confini, dei limiti, degli steccati, delle siepi, dei muri alti.

Erano dentro e fuori di noi.

Abbiamo voluto uscirne e, con diversa fatica, abbiamo iniziato il viaggio.

Oltre…

Se ne deduce una palese insofferenza per le categorie, non perché se ne disconosca una qualche utilità, ma proprio per la tendenza sociale a farne degli ambiti chiusi e omologanti. Tutto il lavoro teatrale di ExtraVagantis, e prima ancora dell’esperienza teatrale avviata dall’Associazione di famiglie con persone disabili, La Giostra, con sede a Imola, di cui l’Associazione ExtraVagantis è una prosecuzione, è un lavoro sui limiti, sui confini, per renderne evidente la relatività, la labilità, la strumentalità, per scongiurarne l’utilizzo a fini livellanti, fino a disconoscere la meravigliosa (fonte di meraviglia) irripetibilità di ogni essere umano e, di conseguenza, il valore delle differenze, oltre che delle similitudini.

Dei muri che dividono le persone

Edgar Morin1 scrive: «Bisogna riconoscere gli altri come differenti da noi e nello stesso tempo simili a noi. Se si vedono gli altri unicamente come differenti, non si può comprenderli, e se li si vede soltanto come simili, non si può comprendere ciò che fa la loro originalità e la loro differenza» (2016, pp. 101-102). L’Associazione ExtraVagantis nasce esprimendo la volontà di assumere i temi delle diversità come suggestioni, spunti, ambiti per la ricerca teatrale.

La prima distinzione che abbiamo dovuto affrontare dal 2001, ovvero fin dall’inizio del percorso che ha portato alla nascita di ExtraVagantis, dichiarata per anni come tratto distintivo dell’esperienza in tutti i materiali di presentazione della stessa, dai programmi di sala degli spettacoli fino ai moduli dei progetti per la Comunità Europea, è stata quella insita nella definizione di integrata: si trattava di un’attività teatrale tra persone disabili e normodotate. Per volontà dell’Associazione promotrice, La Giostra, entrambe le categorie (disabili e normodotate), avrebbero dovuto contare il 50% del totale dei partecipanti, determinando una condizione di parità o di pari opportunità. Questa volontà fu la base della collaborazione con la Compagnia Teatrale della Luna Crescente, che accettò di guidare l’esperienza proprio perché si poneva come integrata, ovvero disomogenea, sempre se la guardiamo dal punto di vista delle categorie a cui ho fatto riferimento. Si figurava un ambito di ricerca teatrale aperto, che avrebbe incluso (e quindi messo in gioco) le visioni e le attese dei partecipanti normodotati, tutti studenti delle scuole secondarie di secondo grado e precisamente di un Istituto (Cassiano da Imola) che formava i futuri operatori di base del settore socio-sanitario.

Da alcuni di questi studenti, nel corso delle conversazioni di verifica a conclusione del primo anno di laboratorio, in seguito al debutto del primo spettacolo realizzato, è emersa, e con stupore, l’acquisizione di una nuova consapevolezza: l’assunto che in materia teatrale si potesse trovare corrispondenza con la disabilità attribuita nel vissuto generico si è rivelato in tutta la sua arbitrarietà. Lo stupore che ha accompagnato questa evidenza, man mano che le parole che la narravano venivano pronunciate per la prima volta, era corrispondente allo spessore del pre-giudizio iniziale. Anche sulla consapevolezza di questa equivalenza (stupore all’interno del gruppo e grande stupore del pubblico = grande lavoro teatrale ma anche grande pregiudizio sulle dis-abilità degli attori, in quanto dis-abili nella vita) si è aperto il confronto: il gruppo si è trovato pronto a condividerla, e con speciale convinzione, poiché, come qualcuno ha detto, è stata acquisita tramite l’esperienza diretta, quindi tramite un reale processo di conoscenza.

I ragazzi hanno riconosciuto la propria attitudine inizialmente pregiudiziale cogliendone una sorta di rispecchiamento nell’apprezzamento del pubblico, che essi avevano giudicato eccessivo. L’impressione di un’esagerata manifestazione di gradimento da parte del pubblico era diffusa e gli attori, tutti, hanno condiviso il sospetto duplice di una componente pietistica e di una componente di sorpresa/incredulità nello sguardo degli spettatori: entrambe queste componenti avrebbero indicato una sottovalutazione iniziale delle capacità del gruppo. La sottovalutazione iniziale delle capacità del gruppo poteva essere giustificata dalla risaputa condizione di non professionalità (registi e collaboratori a parte), ma, com’era accaduto proprio agli stessi ragazzi all’inizio dell’esperienza, non si poteva escludere un’attitudine pregiudiziale sottovalutante nei confronti in particolare degli attori disabili.

Questo primo percorso tentava legami tra persone che normalmente non si sarebbero incontrate e che invece avevano finito per incontrarsi, in seguito alla decisione congiunta di una scuola e di un’associazione di attivare un laboratorio: così adolescenti del tutto ignari di chi potesse essere un soggetto con Sindrome di Down o con disturbi dello spettro autistico o che ci potesse essere differenza fra una persona con sindrome di Down e l’altra e di cosa mai avrebbero potuto combinare in teatro, inseguendo chissà quale immaginario che li portava chissà perché a credere che fare teatro di pomeriggio sarebbe stata una buona idea, avevano finito col sedersi, la prima volta, in un silenzio denso di molte cose, davanti a un numero pari di persone disabili, ugualmente curiose e silenziose. Di questo primo anno di laboratorio così naïf, si potrebbe dire (e per questo così vero e così indicativo, nei suoi accadimenti e nei suoi frutti), la catena di dubbi innescati da quel primo confronto iniziale ha rappresentato uno dei risultati maggiori, così gravido di spunti, di indicazioni, di suggestioni, che ha orientato la ricerca teatrale del gruppo nei quindici anni successivi.

Se era possibile, ammesso e considerato normale definire le persone segnalando in primo luogo le loro non-abilità, e se questa modalità di catalogazione portava ad includere alcune persone in una categoria che di loro segnalava pubblicamente/socialmente che non avrebbero saputo fare quanto e come i normodotati, allora in ambito teatrale si sarebbe dovuto trovare un modo per rivedere le segnalazioni e quindi le categorie. Durante il laboratorio e anche nella messinscena, infatti, le stesse persone giudicate disabili nella vita, diventavano abili, più che abili, molto abili e addirittura più abili di.

Nel laboratorio teatrale poteva quindi accadere che il tracciato dei confini si spostasse, che emergessero nuove appartenenze: le possibilità delle persone, sperimentate direttamente, con il massimo coinvolgimento emotivo e con i movimenti interni che questo comporta, determinavano vicinanze e lontananze. Ma le possibilità non erano viste, né conosciute, né indagate una volta per tutte, di conseguenza non era possibile nemmeno fissare le distanze: si era in cammino e in questo percorso le sicurezze come le insicurezze, i successi come gli insuccessi, si misuravano con diversi metri e soprattutto con punti di vista relativi, sempre in relazione a qualche obiettivo o a qualche meta o a qualche compito. I compiti non risultavano mai facili soltanto per qualcuno e sempre difficili soltanto per qualcun altro: soprattutto non erano i dis-abili a non avere abilità quando si trattava di frequentare un piano immaginario o lo scomodissimo ambito del surreale, pur così affascinante.

Imparate sul campo, e con sorpresa, queste e altre simili prime lezioni, il gruppo, composto negli anni sempre da un minimo di venti persone, cui si aggiungevano tecnici, musicisti e altre figure professionali (truccatori, scenografi, costumisti, ecc.) ha accettato di buon grado di indirizzare il lavoro teatrale verso proposte che potessero costituire una sorta di sfida.

A poco a poco il laboratorio teatrale è stato il luogo in cui sono cadute le barriere. Le prime sfide sono state quindi lanciate e giocate all’interno del gruppo e del lavoro teatrale. Come sempre accade l’occasione del laboratorio si è trasformata in una ricerca di libertà, che ha riguardato i singoli partecipanti ma anche il gruppo. Quest’ultimo andava costruendo la propria identità su un bagaglio di vissuto comune, costituito anche dalla consapevolezza delle conquiste nella direzione del superamento di blocchi individuali, ricercando oltre modalità espressive stereotipate nel lavoro dell’attore. In questa ricerca, di grande stimolo e di grande rilievo sono state proprio le proposte di quelle persone che più naturalmente proponevano gesti e toni e immaginari molto distanti dall’artificio, ancora una volta quelle persone appartenenti, nella vita, alla categoria dei dis-abili.

Ma le sfide più faticose sostenute durante il cammino sono state quelle di carattere culturale nei confronti di Servizi e Istituzioni. L’avvalersi di competenze professionali per la produzione di spettacoli e per la conduzione di laboratori e di attività di formazione è stata una scelta che ha caratterizzato la ricerca fin dall’inizio, per meglio determinare un livello di alta qualità delle esperienze e dei suoi risultati, interni ed esterni, che non li rendesse figli di un dio minore rispetto al panorama più generale delle opportunità teatrali. Questa scelta è stata in primo luogo conseguente alla consapevolezza della sottovalutazione che in genere subiscono le attività teatrali che coinvolgono persone disabili: la ricerca di qualità diventa un imperativo etico, sociale e politico al tempo stesso.

Un esempio indicativo di sfida culturale lanciata sul nostro territorio è stato il lungo rapporto con l’Assessorato alla Cultura del Comune di Imola, che ha portato all’allestimento di vari spettacoli con caratteristiche tali da poter esser inseriti nel cartellone della stagione primaria del Teatro Comunale: pur non riuscendo mai a centrare questo obiettivo primario, le nostre produzioni sono state incluse nel tempo tra gli spettacoli fuori abbonamento o nelle rassegne secondarie (teatro contemporaneo, di ricerca o altrimenti detto), a volte incontrando una parte del pubblico degli abbonati. Queste occasioni d’incontro hanno reso evidente come il nostro lavoro fosse apprezzato, facendoci quindi supporre quale successo avrebbe potuto avere la possibilità di presentare le nostre produzioni al pubblico normale degli abbonati, se i gestori/decisori avessero osato cogliere questa sfida. Anche che si dovesse entrare in una sorta di sfida, che si fosse con evidenza costretti a giocare questo piano, è stato un altro argomento di riflessione, per noi.

La nostra esperienza, infatti, è stata continuamente in dialogo con altre realizzate in diverse regioni italiane e presentata in occasioni di approfondimento quali rassegne e convegni dedicati al teatro sociale o teatro delle diversità:2 non è mancata, quindi, la consapevolezza di quali siano state le risposte dei decisori in altri territori, sia nell’ambito della Cultura, sia nell’ambito Socio-Sanitario, così di come si siano diversificate le politiche regionali e le aperture a livello universitario sull’argomento della formazione degli operatori del teatro sociale e di un titolo accademico conseguente.

Siamo ora e siamo sempre stati ben consapevoli di quanto lavoro sia stato svolto, proprio e in particolare in Italia, nell’ambito della sperimentazione teatrale come ricerca di espressione, di comunicazione, di socializzazione, specialmente in situazioni di disagio, personale o collettivo. È abbastanza triste (e del tutto immotivato) che, dopo tanto lavoro, comprensivo di ogni genere di verifica, con il supporto, il conforto di tanta letteratura (tesi universitarie comprese), che dimostra la necessità e le valenze del teatro, specie in situazioni di difficoltà, ci si trovi ancora a dover lanciare delle sfide. Le potenzialità così come i risultati di questo lungo e articolato lavoro si dovrebbero dare per ampiamente sondati e si dovrebbe trovare il modo (i modi) per offrire l’opportunità e la continuità di percorsi teatrali per e con le persone, in laboratorio, nei molteplici ambiti e contesti ben indicati, tra l’altro, anche da censimenti delle esperienze, a livello nazionale. Indico in questa sede come esempio il «Primo censimento nazionale di gruppi e compagnie che svolgono attività con soggetti svantaggiati/disagiati», attuato nel 2003.3

Da DDT a Minotauri

Il tema delle categorie sociali non come strumenti provvisori di indagine o di conoscenza, ma come prigioni, omologanti, come induttori di stigmi, è stato quindi più volte incontrato e sondato. Nel 2008, di fronte alla difficoltà da parte dell’Associazione La Giostra di continuare a sostenere l’attività (annualmente un laboratorio, l’allestimento di un nuovo spettacolo e, a volte, la presentazione in altri territori dello spettacolo), si è deciso di assumere la sfida di dare vita a una nuova Associazione. Il gruppo condivideva la maturità di un’esperienza che aveva all’attivo due tesi universitarie interamente dedicate ad analizzarne filosofie e metodologie e un’altra tesi a questo dedicata in parte, discusse nel Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna. La nuova Associazione avrebbe indirizzato il proprio lavoro artistico e culturale sui temi delle diversità (quindi il tema della disabilità non si proponeva più come tema privilegiato) e dei muri, fuori e dentro di noi, che dividono le persone. Il tema del confine è diventato centrale, così come la necessità di sperimentare continue aperture. Il percorso teatrale si è alimentato di una sperimentazione continua, sui modi della comunicazione, sui luoghi della messinscena, sulle forme della stessa. Sono nate performance per ambienti, luoghi, contesti molto diversi, sono nate idee di laboratorio come occasioni di incontro ma anche come opportunità di promuovere il teatro e i linguaggi artistici nella formazione delle persone.

Siamo convinti che il contemporaneo si caratterizzi, al contrario, per la promozione della riduzione delle opportunità di pratica delle arti nella formazione delle persone e che quindi sostenga, in questo ambito, lo sviluppo di una progressiva povertà. Nonostante quello di usufruire di opportunità artistiche rientri tra i diritti fondamentali degli esseri umani, un numero sempre più grande di persone si allontana da questo genere di possibilità. A determinare questa situazione sono varie cause, sulle quali non mi addentro in questa sede, ma mi preme rilevare che, se già è preoccupante che diminuiscano le possibilità di essere fruitori di creazioni d’arte, risulta particolarmente grave che non si abbia opportunità di accostarsi direttamente ai linguaggi artistici, di praticare direttamente l’arte e, tra le arti, il teatro. Inoltre, all’interno di questa eventuale opportunità di partecipare direttamente a un’esperienza teatrale, specie nelle scuole, dovremmo e potremmo dover cogliere l’ulteriore differenza tra l’offerta di seguire un laboratorio, non necessariamente finalizzato a un incontro con il pubblico, e quella di essere coinvolti nell’allestimento di uno spettacolo. Anche sulle forme dell’incontro con il pubblico, poi, tanto si è sperimentato e tanto si potrebbe sperimentare. Ma in uno scenario di riduzione di possibilità non c’è da stupirsi che prendano piede le proposte meno impegnative, facilmente riproducibili. Con rammarico assistiamo a una tendenza alla standardizzazione delle attività, un incremento di proposte pre-confezionate, indipendenti dal gruppo di persone (di attori) che partecipano, e questo è il contrario esatto delle valenze del teatro che andiamo promuovendo in questo articolo e con il nostro lavoro.

Noi siamo decisamente convinti, inoltre, che la pratica teatrale possa influire sulla capacità di lettura di se stessi e del mondo, incrementando le capacità di analisi, di critica, di progettazione di scenari alternativi, tramite il riconoscimento e l’allenamento delle capacità creative. Per questo ci terremmo a promuovere il teatro in laboratorio e comunque la pratica diretta del teatro come opportunità diffusa.4

La convinzione che il contemporaneo si caratterizzi per la promozione della riduzione delle opportunità di pratica delle arti nella formazione delle persone e che invece la pratica teatrale possa contribuire a incrementare le capacità di analisi, di critica, ci ha sostenuto nella scelta di renderci disponibili a far parte di reti, a livello locale e nazionale. Abbiamo inventato un festival, che ha assunto inizialmente la doppia denominazione: DDT – Diversi Teatri delle Diversità/Diversi Dirompenti Teatri, per arrivare a mantenere solo la seconda. Anche questa decisione costituisce lo sbocco di un’elaborazione, scaturita da lunghe riflessioni sulla divisione (limite, confine, steccato) interna all’ambiente teatrale che indubbiamente considera figlio di un dio minore il teatro cosiddetto sociale e ne emargina in contenitori speciali, appositi, appropriati, sia le esperienze sia i risultati delle stesse (a parte qualche raro caso salito agli onori delle cronache e che quindi faremmo presto a citare, per via della rarità). Così l’acronimo DDT ha voluto definitivamente significare Diversi Dirompenti Teatri: si è inteso mettere l’accento sia sulle rilevanti componenti di innovazione, di sperimentazione, della ricerca di ExtraVagantis, che il festival progetta e organizza, sia su quelle del festival stesso, distogliendo l’attenzione dalla definizione di un teatro delle diversità, per non rischiare di riprodurre la riserva del Teatro Diverso.

Nell’identità di DDT, quindi, è insita la sperimentazione. Nel tempo questa sperimentazione, nelle forme, nei modi, nel rapporto con i luoghi e con il pubblico, nel coinvolgimento del territorio, si è rivolta esclusivamente al teatro oppure ha determinato occasioni di scambio e interazione tra le arti. Da due anni a questa parte il festival si è fatto sede di produzione di un’idea insolita, rara, realizzata dalla Rete dei Teatri Solidali della Città metropolitana di BolognaSette paia di scarpe ho consumate… nel 2016 e Minotauri nel 2017 sono state le produzioni che hanno visto in scena in un unico allestimento rispettivamente tredici e dodici gruppi aderenti alla Rete, in una proposta di spettacolo per pubblico itinerante, costruito per stazioni. Anche nel 2017, come nel 2016, si sono previste una replica a Bologna e una prosecuzione del progetto per l’anno successivo. Minotauri, infatti, è stato pensato per gli spazi dismessi delle ex istituzioni psichiatriche della Regione, a cominciare dall’ex Ospedale Psichiatrico Osservanza di Imola e dall’ex Ospedale Psichiatrico Roncati di Bologna.

L’Associazione ExtraVagantis ha assunto la funzione di accompagnamento del pubblico in entrambe le produzioni per le quali ha aperto un laboratorio che consentisse la partecipazione di persone eventualmente interessate esterne all’Associazione. Lo scorso anno il percorso di creazione del proprio contributo allo spettacolo Sette paia di scarpe ho consumate… ha incontrato un bando del Comune di Imola per attività che coinvolgessero i richiedenti asilo presenti nel territorio. In seguito a quell’esperienza, sicuramente positiva, anche nel 2017, in modo del tutto spontaneo, il rapporto con i ragazzi richiedenti asilo è continuato, in collaborazione con la Coop. Sociale Camelot. Hanno agito da promotori di questa possibilità alcuni richiedenti asilo che, avendo tra l’altro nel frattempo acquisito una buona padronanza della lingua italiana, si sono fatti tramite per gli altri ragazzi e hanno accompagnato l’esperienza assumendo anche il ruolo di interpreti, di facilitatori, di trasmettitori delle modalità teatrali acquisite nel percorso dell’anno passato.

Molteplici e multiformi corpi per Minotauri

Il gruppo di ExtraVagantis, quindi, per la preparazione del proprio contributo a Minotauri, si è ritrovato piuttosto disomogeneo, composto da un’umanità varia, con diverse età, diversi vissuti, diverse provenienze e diverse lingue. L’esperienza di quest’anno ci ha regalato l’opportunità di sperimentare un teatro che potesse accogliere queste differenze all’interno di una volontà di comunicazione condivisa dal gruppo.

«Bisogna distinguere e, nello stesso tempo, legare. È il paradigma della complessità» (Morin, 2016, p. 112).

Si ritorna quindi a quanto espresso all’inizio di questo scritto. Il gruppo che si è formato in occasione dello studio e della creazione del contributo di ExtraVagantis alla nuova produzione della Rete dei Teatri Solidali della Città metropolitana di BolognaMinotauri, è un gruppo di persone scomponibile in diverse categorie sociali: ci sono richiedenti asilo, persone disabili, giovani, anziani, lavoratori occupati e pensionati, ecc., ma seguire la strada della scomposizione delle categorie non aiuterebbe la comprensione dell’esperienza, anzi, forse alimenterebbe pregiudizi che ne sminuirebbero le valenze, il valore. Per la conoscenza dell’esperienza risulterebbe più utile riconoscere le diversità e contemporaneamente cercare i legami. Immediatamente dovremmo nominare l’interesse comune, il teatro, e subito dopo la narrazione del percorso teatrale dovrebbe riuscire ad approfondire e dare ragione, costantemente, della complessità dell’esperienza, mai riducibile, nei fatti e certamente anche nelle intenzioni dei conduttori e dei partecipanti. La scomposizione in categorie, in questo caso, risulta in effetti utile alla valorizzazione dell’esperienza se immediatamente la si associa ad alcune considerazioni:

  • che tutte queste categorie si ritrovano in un unico ambito di lavoro comune;

  • che il lavoro comune è un lavoro di carattere culturale e più specificatamente artistico;

  • che questa occasione di ritrovo ha qualcosa di estremo, ovvero è particolarmente rara;

  • che la possibilità di questo incontro e dello scambio conseguente è opportunità di cambiamento, per i partecipanti e per il pubblico.

È insito nell’esperienza del laboratorio teatrale un dato di promiscuità notevole: si stimola e si favorisce non soltanto l’espressione di sé, ma l’espressione di sé tramite – e assieme a – l’espressione degli altri. Il gruppo sedimenta un proprio vissuto, fatto di sperimentazioni – spesso conquiste – di contatti, di scambi, di mescolanze, tra cui quella dei corpi, con la loro consistenza, i loro umori, i loro odori. L’esperienza di laboratorio è un’esperienza concretamente fisica, in cui lo scambio tra corpi molto diversi può diventare un viaggio profondo e complesso, che innesca diversi movimenti. Si passa dalle sensazioni alle emozioni per arrivare ai pensieri. E può capitare che i pensieri al termine del viaggio siano diversi da quelli dell’inizio del viaggio.

Il tema del corpo, anzi, dei corpi, si è posto per così dire da solo al centro di questa ultima, particolarmente significativa esperienza, poiché erano in primo luogo i corpi che rivelavano le differenze. Lo facevano a occhio. E nei corpi, diversissimi, che costituivano questo gruppo, risiedevano in primis le ragioni di un’emarginazione sociale. In primis significa, in questo caso, senza bisogno di pronunciare parola alcuna, prima ancora di parlare e magari, parlando, rivelare, ulteriori differenze/difficoltà. È il caso dei nostri attori con sindrome di Down: sta nel corpo, nella forma dei loro occhi, in primo luogo, la ragione di una presa di distanza della maggior parte delle persone che incontrano, a cominciare dalla frattura dovuta all’imbarazzo. È il caso dei nostri attori con la pelle nera, ma potrebbe essere il caso anche dei nostri attori evidentemente anziani, dotati, in quanto anziani, di un corpo che immediatamente denuncia qualche limite, qualche difficoltà. Nel percorso orientato verso la costruzione di legami, quello del lavoro sul e con il corpo emergeva come inizio: avrebbero dovuto essere in primo luogo quei corpi a entrare in dialogo. Le differenze erano evidenti, ma lo era anche la prima similitudine: la trasversale problematicità della relazione con l’esterno, che da quei corpi derivava.

Esprimersi con il corpo in un’improvvisazione significa fare ricorso, con modi in gran parte inconsapevoli, al proprio bagaglio gestuale, che inevitabilmente attinge a una capacità di comunicazione acquisita per esperienza diretta e per condivisione di un contesto culturale, dei suoi codici, dei suoi linguaggi. Nell’espressione di se stessi è insita la comunicazione di una o più appartenenze culturali: quello che mostriamo agli altri siamo noi nella nostra pluralità, comprensiva degli ambienti socio-culturali che ci hanno attraversato mentre li attraversavamo, mentre ne partecipavamo, razionalmente e, soprattutto, emotivamente e affettivamente. Il corpo conserva diverse memorie, indipendentemente dalla consapevolezza che ne abbiamo. E queste memorie spesso emergono all’improvviso, scattando come pupazzi a molla fuori dai cassetti in cui non sapevamo fossero riposte, azionate da un odore, un tono di voce, un gusto… Il racconto di tutti quei corpi così diversi, portatori di abitudini così diverse e provenienti da luoghi così diversi, è stato un racconto pieno di suoni, colori, odori, senza nessun bisogno di parole.

La necessità di parola, e quella conseguente di traduzione, ha riguardato soprattutto i dialoghi di confronto sui contenuti, non l’utilizzo della parola nelle azioni teatrali. Abbiamo dovuto, infatti, metterci d’accordo, dopo aver lavorato al noi, su cosa volevamo comunicare a loro, il pubblico. Vorrei puntualizzare che in questo caso non si può parlare di categorie separate tra noi e loro, ma, anzi, di due parti inseparabili di un tutto che altrimenti si dissolverebbe, poiché non c’è teatro senza pubblico, essendo il teatro arte che necessita, per determinarsi, di uno scambio dal vivo tra almeno due persone, una che attua e una che assiste (più o meno coinvolta).

Con la Rete dei Teatri Solidali avevamo pattuito che ogni compagnia si sarebbe ispirata a una suggestione attinta al mito del Minotauro, per elaborare il proprio contributo. La prima ricerca, all’interno del nostro gruppo, è stata quindi quella di cercare nuove similitudini, cioè quali, tra le suggestioni che avremmo potuto trovare nel mito, più risuonavano. Abbiamo immediatamente scoperto che anche le suggestioni scelte, ad esempio quella del labirinto, poi quella del mostro, aprivano molte diverse direzioni di ricerca e inoltre che ognuna di queste direzioni si schiudeva a varianti innestate da minime variazioni, che però condizionavano la comunicazione, la trasmissione di significati e contenuti.

Certamente la composizione del gruppo di attori ha influito sulla scelta delle direzioni, sulle interpretazioni che più ci hanno convinto di labirinto, di mostro, sulle rappresentazioni che abbiamo voluto darne, sul rapporto che abbiamo voluto determinare con il pubblico.

Alla base di ogni costruzione ci sono state comunque due scelte: non utilizzare la parola come strumento e veicolo principale della comunicazione e lavorare alla realizzazione di quadri d’insieme, privilegiando il lavoro sul gruppo rispetto a quello più specifico sulle singole persone.

Alle considerazioni già esposte, che hanno collocato il lavoro sul corpo all’inizio del percorso di reciproca conoscenza, aggiungo un’altra valutazione che ha motivato la scelta di proseguire continuando a favorire questo lavoro.

La scarsa, praticamente nulla, conoscenza della lingua italiana, può essere definita una non abilità, una situazione di disabilità. Indubbiamente un lavoro sulla parola, in un tempo limitato, in un gruppo eterogeneo anche per esperienza teatrale, avrebbe potuto causare inciampi e turbative all’atmosfera, anche (ma non solo) per la necessità di almeno tre traduzioni diverse. In un laboratorio teatrale è importante la qualità del tempo ma anche la quantità: molto è possibile, direi quasi tutto, ma occorre farlo nei tempi giusti, senza forzature. Soprattutto occorre essere previdenti all’inizio del viaggio e, in caso di problemi sulla strada principale, bisogna aver contemplato una riserva per il tempo più tortuoso delle strade secondarie e di quelle ancora da immaginare, che bisogna aver tempo per immaginare. La valutazione del tempo a disposizione ci ha portato a non voler considerare il tema della differenza linguistica, per via delle insite difficoltà che avremmo rischiato di non poter affrontare. Non abbiamo quindi fatto entrare in gioco, ovvero nel lavoro teatrale, questo argomento, scegliendo, per il gruppo, che non dovesse essere la parola lo strumento privilegiato di espressione. Abbiamo invece sicuramente valorizzato la possibilità di esprimersi e di entrare in relazione tramite il corpo, voce compresa ma utilizzata come suono, non articolata in parole.

Piccola sintesi di un piccolo viaggio

All’inizio del viaggio per Minotauri c’è stato il silenzio denso di molti anni fa e quel sedersi separati che spesso si ritrova all’inizio dei nostri piccoli viaggi teatrali. Tra i sorrisi, si è esposta, in silenzio, tutta quella diversità dei corpi. Ragazzi dal Pakistan, dal Bangladesh, dal Mali, dalla Nigeria, seduti a lato di una mescolanza di autoctoni così indecifrabile!

Cos’hanno pensato, come prima cosa, i nostri attori con la pelle nera, dei nostri attori con sindrome di Down? E quali saranno stati i primi pensieri in direzione contraria? Quale lungo, lungo viaggio, ci ha portato a ritrovarci qui? Sopporteremmo la vertigine di rivederlo tutto? E cosa avremmo potuto fare, assieme, se non trovare un’azione che dicesse di noi? E qual era, questo noi?

Dovendo lavorare sulle suggestioni contenute nel mito del Minotauro, ne abbiamo quindi scelte alcune. Il lavoro teatrale su queste suggestioni, prima fra tutte quella del labirinto, e seconda quella del mostro, ci ha consegnato gli elementi per definire il gruppo e quindi quel noi che andavamo cercando. Di conseguenza abbiamo saputo cosa dire e per dirlo abbiamo utilizzato la grande diversità dei nostri corpi.

E cosa dire di noi, se non l’esigenza di un volo oltre ogni barriera, categorie sociali comprese? Non c’è più stupore, nell’accingerci assieme a interpretare l’idea del labirinto come un non poter uscire da condizionamenti, da direzioni imposte. Non c’è più stupore nell’aver sentito come giusta l’idea di un aquilone umano – al debutto di pelle nera –, che, pur legato, tenta il volo verso il cielo: c’è una comune consapevolezza, che viene da destini diversi e da diversissimi vissuti, di cosa possa essere, nel suo centro più profondo, l’idea di libertà, e, quindi, di come possiamo rappresentarla, assieme.

Aspettando il vento

C’è un unico momento, in cui presentiamo un piccolo testo, all’interno di Minotauri: è un brevissimo monologo. Il resto è sostanzialmente azione o sono frasi minime e parole, che si ripetono. Durante il breve monologo il gruppo si presenta come un fascio stretto e costretto di persone che, lentamente e assieme, riescono a liberarsi della costrizione – nastro rosso – che le lega. Si libereranno assieme e assieme – ma ognuno (naturalmente) a proprio modo – diranno la battuta finale: «Aspetto il vento…».

Ecco il piccolo monologo.

C’è un buio dentro di noi. C’è un posto, da qualche parte, fuori di noi, come un cupo luogo di memorie. Ci sono muri, da qualche parte, che stringono le persone, e con le persone i sogni. Da qualche parte io vedo muri. Muri nuovi di zecca o vecchi muri scrostati. Fatti di mattoni o di parole, non importa. Io vedo muri e inferriate e porte chiuse. Porte chiuse anche dentro di noi.

Io vedo.

Vedo occhi che non vedono.

Ascolto voci che non si sentono.

Io ho un sogno. Il mio sogno ha un corpo, ha cento corpi, ha mille corpi, un milione di corpi, l’universo intero di corpi. Il mio sogno si infrange contro i muri. Il suono di questo schianto è come un’eco. Vedo persone che sbattono e sbattono e sbattono e sbattono.

La terra intera mi sembra rinchiusa in cupo luogo di memorie.

Io mi sento il buio. Il buio dentro e fuori di me. Ogni cosa è notte…

[…]

Allora mi attrezzo, schiudo gli occhi alla luce che verrà. Apro le braccia al volo.

Aspetto il vento.

Aspetto il vento… aspetto il vento… aspetto il vento…

 

Il vento non può essere che quello di una rivoluzione, poiché abbiamo bisogno di un nuovo inizio. La nostra lunga frequentazione del margine, la mia personale, iniziata ancora prima dell’esperienza cui si fa qui riferimento, con attività teatrali con lungodegenti psichiatrici, dal 1986, dimostra che è ben viva la tendenza alla catalogazione degli esseri umani a scopo coercitivo, normalmente legata a esigenze di ordine e di controllo sociale basato sulla separatezza. Parallelamente esistono induzioni omologanti: sappiamo perfettamente che viviamo in un’epoca di globalizzazione che ha come ingredienti principali la diffusione in scala planetaria di vari tipi di modelli e di pratiche, che incidono e plasmano gruppi e individui, ne condizionano i desideri, i pensieri, i sogni. Sappiamo, ad esempio, che risulta difficile essere stra-vaganti (vaganti oltre) in un contesto che promuove la stravaganza come normalità e che quindi il conforme e il difforme rischiano di confondersi, come molte altre cose, ma sembra che stiamo ancora attraversando tutta questa confusione e tutte le questioni del contemporaneo, urgenti, tragiche, certamente disperanti, con l’illusione antica di una possibilità di semplificazione, meglio ancora se permanente.

Un esempio di tentativo di semplificazione è questo tracciare in continuazione linee, confini, steccati, muri, che definiscano un dentro e un fuori, un noi e un loro. La Storia ci dice che ne avremmo al massimo un sollievo temporaneo, pagato a duro prezzo: l’illusione di un ordine e niente di più. Ma ne avremmo in cambio molte vittime e grandi macerie.

Abbiamo invece bisogno di un nuovo inizio. Dovremmo metterci per strada con volontà di assumere la complessità, senza cercare di appiattirla o semplificarla, e dovremmo occuparci di dotarci di nuovi strumenti per attraversare il mondo e le relazioni tra gli esseri umani.

La nostra lunga frequentazione del margine, rifiutandoci di farne un confine, dimostra che il teatro può essere uno strumento formidabile per camminare nel presente sperimentando il futuro.

O per camminare nel futuro sperimentando il presente.



Note

1 E. Morin, 7 lezioni sul pensiero globale, Milano, Raffaello Cortina, 2016.
2 Il teatro sociale (delle diversità, di interazione sociale, o sociale e di comunità, a seconda delle diverse scuole di pensiero espresse in Italia negli ultimi trent’anni) è definibile come una pratica teatrale, con metodologie anche specifiche, in cui esperti di teatro operano con gruppi e comunità di cittadini – spesso svantaggiati, in condizione di disagio – e realizzano percorsi teatrali, performance e progetti con finalità culturali, civili, artistiche e di benessere psicosociale.
3 Il censimento, promosso dall’ETI (Ente Teatrale Italiano), la Cattedra di Teatro e Spettacolo della Facoltà di Sociologia dell’Università degli Studi di Urbino, l’Associazione culturale Nuove Catarsi, l’ENEA (Progetto Tecnologie per la Qualità della Vita) e la Compagnia teatrale integrata Diverse Abilità, è stato curato da Ivana Conte, Ilaria Fabbri, Bruna Felici, Vito Minoia, Claudio Paretti, Emilio Pozzi, Giorgio Testa, Stefano Viali e, stampato a Urbania (PU) per Arti Grafiche Stibu, contiene in Prefazione tre interessanti contributi all’analisi dei risultati, di Piergiorgio Giacché (Docente di Antropologia Teatrale all’Università di Perugia), Claudio Meldolesi (Presidente del Corso di Laurea in DAMS – Università di Bologna) e Daniele Seragnoli (Docente di Storia del Teatro all’Università di Ferrara).
4 Sono ad esempio direttamente frutto di queste tenaci convinzioni i nostri progetti di teatro epidemico degli ultimi anni, sperimentazioni avviate anche in rete con altri gruppi, con registi di altri territori, in altre regioni, sulle quali non mi soffermo ora.

DOI: 10.14605/EI1521706


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ISSN 2421-2946. Educazione interculturale.
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