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“La periferia non è Charlie”: note di un’antropologa sui fatti di Parigi

Federica Tarabusi

Ricercatrice in discipline demo-etnoantropologiche (M-DEA/01) presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli studi di Bologna


Abstract

Questo breve saggio nasce dall’insoddisfazione di molti scienziati sociali e antropologi di fronte alle letture prevalenti nel dibattito pubblico legate ai tragici fatti di Parigi. Senza nessuna pretesa di trattare un fenomeno sociale così complesso in modo esaustivo, ci limiteremo in questa sede a mettere sotto osservazione critica alcune delle retoriche prevalenti nello spazio pubblico e a spostare lo sguardo verso le discriminazioni quotidiane che si strutturano nelle periferie francesi (le banlieues), da cui provengono i giovani attentatori, in un contesto storico in cui le società europee hanno costruito e normalizzato l’alterità come minaccia politica all’unità della nazione e le culture come realtà reificati e differenti in modo incommensurabile. Nel fare questo, ci riferiremo alle riflessioni elaborate da chi è restato più ai margini di questo dibattito, come quelle degli antropologi e scienziati sociali, che dopo gli episodi di Parigi hanno espresso sulla stampa e sul web le loro diverse prospettive.



Introduzione

Come evidenziato da vari studiosi, gli eventi di Parigi hanno contribuito a riattivare un repertorio di luoghi comuni già sentiti dopo l'11 settembre sulle identità religiose e culturali, intese come entità essenzializzate e statiche, e sull’Islam, percepito come realtà monolitica e astorica (Dei, 2015).

Il dibattito pubblico che ha fatto seguito ai tragici eventi si colloca in un contesto storico segnato dalla decolonizzazione e dal postcolonialismo, dominato da reazioni negative alla diversità e al multiculturalismo, meglio conosciute come «backlash» (Grillo, 2002; Vertovec, Wessendorf, 2009) e da specifici assunti relativi alla nazione e alla cultura e in cui le società riceventi, di fronte all’evento migratorio, hanno costruito la cultura come «realtà politica» e la migrazione come minaccia all’integrità della nazione (Stolcke, 1995).

Per quanto scontati nel discorso pubblico, questi assunti non appartengono al solo linguaggio politico della destra, ma traggono al contrario la loro forza proprio dalla capacità di penetrare il senso comune, attraverso immaginari, discorsi, esperienze, simboli che li rendono oggetti incontestabili e inviolabili, riuscendo a inglobare una vasta gamma di posizioni in cui gli individui possono facilmente riconoscersi (Tarabusi, 2010).

Negli ultimi episodi di Parigi la retorica dei diritti e della libertà di stampa ha, per esempio, giocato un ruolo rilevante nel normalizzare questi discorsi, riuscendo a mobilitare migliaia di persone che, agitando le bandiere di Je suis Charlie, hanno enfatizzato l’unità nazionale contro un nemico comune. Se è vero che la risposta dell’opinione pubblica ha dato l’impressione di «un livello di curiosità per i fatti accaduti persino superiore a quello che ci si può attendere oggi da una coscienza politica anestetizzata, spesso ipocrita o complice» (Beneduce, 2015), essere “dalla parte di Charlie” ha prodotto come primo effetto la ritrovata unità nazionale attorno al sentimento e valori repubblicani (Amselle, 2015), come la laicità e la libertà di espressione, testimoniata dalle numerose manifestazioni di vicinanza e solidarietà in una società attraversata da conflitti e separatismi. 

Per quanto animata da molteplici e contrastanti posizioni, la risposta dei media e dei politici ai fatti drammatici di Parigi sembra essersi perlopiù costruita intorno a due macro-discorsi: da un lato, dietro alla retorica della libertà di espressione abbiamo visto riecheggiare con forza la celebre immagine del politologo Samuel Huntington sullo scontro fra due civiltà, "Occidente" e "Islam", percepite come categorie essenzializzate e indifferenziate; dall’altro lato, come reazione ai sostenitori di Charlie, si è invece consolidato un altro discorso, altrettanto ideologico, che ha collocato sul versante opposto l’origine del problema nel “cattivo” Occidente, intendendo gli eventi del 7 gennaio come ennesima prova della malevolenza dell'imperialismo occidentale (Dei, 2015).

Senza nessuna pretesa di esaustività, in questo breve saggio ci limiteremo a mettere sotto osservazione critica queste visioni ideologiche che declinano in modo pericoloso i temi della diversità culturale e religiosa e contribuiscono a rinforzare e normalizzare l’ordine sociale dei confini (Fassin, 2011), per dare maggiore spazio a quelle analisi di antropologi e scienziati sociali che sono rimaste ai margini del dibattito pubblico.1 Dati gli obiettivi del presente saggio, si precisa che il materiale bibliografico utilizzato deriverà non solo da pubblicazioni scientifiche in senso stretto, ma anche (e soprattutto) da un’analisi del discorso mediatico e dalle riflessioni tratte dai commenti di antropologi, lettere, articoli e monografici, interviste a studiosi apparsi in seguito al 7 gennaio nei diversi quotidiani, social network, nei portali di antropologia, siti di associazione.

Guardare alle vicende parigine da un’angolatura diversa da quella che ha prevalso nell’opinione pubblica può aiutarci a cogliere nelle società europee quelle strategie discorsive che, spesso in maniera occulta e implicita, hanno contribuito a costruire l’alterità come minaccia politica all’unità della nazione e le culture come realtà reificate e differenti in modo incommensurabile (Riccio, 2006; Grillo e Pratt, 2006; Vertovec, 2011).

 

Trappole di senso comune

Quasi 20 anni fa nell’opera Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale Samuel Huntington si esprimeva sul futuro geopolitico del pianeta, assumendo che «la fonte di conflitto fondamentale nel nuovo mondo in cui viviamo non sarà sostanzialmente né ideologica né economica. Le grandi divisioni dell'umanità e la fonte di conflitto principale saranno legate alla cultura. Gli Stati nazionali rimarranno gli attori principali nel contesto mondiale, ma i conflitti più importanti avranno luogo tra nazioni e gruppi di diverse civiltà» (1996).

Per quanto queste idee abbiano goduto di una vasta risonanza nel discorso mediatico e istituzionale, questa ipotesi è stata guardata con molta cautela da molti scienziati sociali e antropologi, generalmente sospettosi verso gli assunti di senso comune che riducono la realtà sociale a facili binarismi (amici/nemici; buoni/cattivi) e tesi piuttosto a disvelare le strategie politiche e discorsive messe in atto per semplificarla, manipolarla, neutralizzarla.

Guardando alle vicende parigine, per esempio, non possiamo trascurare quelle assunzioni che si sono largamente sedimentate nella produzione sociale dell’Alterità in seno alle società europee occidentali e nella loro storica capacità di servirsene per addomesticarla, disciplinarla, esorcizzarla.

Il fatto che l’Islam sia stato bersaglio dei più profondi etnocentrismi ha infatti origini lontane, situate nei rapporti coloniali tra Europa e Oriente, e nei molteplici dispositivi che sono stati messi in atto per costruire immagini degli “Altri orientali” come diversi, esotici, minacciosi, pericolosi (Said, 1978), escludendo le loro stesse voci e autorappresentazioni. Le pagine in cui Said denuncia questa esclusione risuonano quasi paradossali oggi, quando la retorica sulla libertà di stampa è proceduta di pari passo con la costruzione di pregiudizi che hanno profondamente silenziato, messo a tacere, tolto libertà di parola ai gruppi più vulnerabili e stigmatizzati. Alla luce degli eventi contemporanei possiamo inoltre notare come specifici discorsi orientalisti siano stati riattivati e rideclinati di fronte a contemporanei eventi globali, contribuendo a (con)fondere le identità/diversità religiose con altri fenomeni, legati all’integralismo, al terrorismo, alle azioni di organizzazioni politiche-militari.

Come sottolineato da diversi quotidiani e riviste, tra cui l’Espresso,2 sarebbe tuttavia poco utile e fuorviante confondere le posizioni di chi oggi cita Charlie Hebdo come simbolo della libertà di espressione e chi invece utilizza lo stesso settimanale per la crociata ideologica contro i musulmani. Vero è che, a fronte di una diffusa e crescente Islamofobia, anche coloro che enunciano lo spirito della democrazia, attraverso cliché e slogan che enfatizzano il diritto di espressione e della satira, rischiano indirettamente di rinforzare l’ipocrisia di quegli stessi governi che sono stati chiamati a difendere i valori della democrazia, del diritto, della libertà di stampa.

Come sostiene Beneduce, infatti: «Abbiamo visto questi governi al fianco di dittatori, offrire loro un lasciapassare, difendere interessi vergognosi, o alimentare il terrore vendendo armi a quei talebani che oggi chiamiamo terroristi, fanatici, barbari. Li abbiamo sorpresi indifferenti davanti ai massacri di civili (come a Sabra e Chatila). E abbiamo visto i loro eserciti regolari torturare e irrorare di napalm o di fosforo bianco altri innocenti, e persino ridere di fronte a prigionieri inermi. Li abbiamo trovati su altri fronti, impegnati a liberare il Mali minacciato dall'avanzata dei gruppi islamisti (e i loro soldati perdere la vita in questa guerra), per poi impedire all'esercito maliano, inspiegabilmente, di riprenderne possesso di Kidal, la città dove si erano raccolti leader dei gruppi armati che solo alcuni mesi prima avevano lanciato la loro offensiva contro Bamako» (2015).

Anche per queste ragioni di fronte alle vicende parigine si è fatta largo una visione che, in contrasto alle tesi dei sostenitori di Charlie, ha interpretato gli eventi come prodotto di un profondo risentimento coltivato fra le fasce marginali della popolazione nelle società europee occidentali.

Allo slogan Je suis Charlie si sono per esempio contrapposte le voci dei movimenti sociali, dei gruppi di estrema sinistra, degli intellettuali di ispirazione neo-marxista che, sebbene fondate su posizioni non sempre unanimi, hanno denunciato il capitalismo europeo e l’islamofobia che avrebbe legittimato le aggressioni imperialiste contro i paesi islamici. Diversamente dagli assunti impliciti nelle tesi di Huntington in questo caso l’accento è stato posto più su fattori economici e sulle disparità sociali che non sulle diversità culturali e religiose.

Prendiamo, a titolo esemplificativo, alcuni stralci apparsi nel blog di Noi saremo tutti il 19 gennaio 2015 come reazione ai tragici fatti parigini: «Con un’ipocrita carica liberale, l’imperialismo nord-atlantico ha reso egemonica una potente Weltanschauung che, articolandosi anche nella retorica della globalizzazione, non è che la maschera di un progetto imperialista. Osservando la dinamica di scontro tra civiltà che l’imperialismo nord-atlantico ha innescato e cavalca, è importante non farsi sfuggire le significative differenze tra le forme culturali, e quindi politiche, che l’Islam assume.  […] I movimenti islamisti non sono una maledizione o un prodotto “naturale” del tempo, ma una conseguenza delle frizioni e delle tensioni provocate dall’espansionismo atlantico: come conseguenza di questo, grandi settori delle società islamiche percepiscono qualsiasi tentativo di modernizzazione e di progresso come una “occidentalizzazione” o una “americanizzazione” imposta ai danni della loro cultura. Come tutte le altre, anche le società islamiche sono il prodotto di un movimento dialettico tra i processi storici che avvengono al loro esterno e quelli che avvengono al loro interno. Se non possiamo comprendere il sorgere dei movimenti islamisti senza pensare alla colonizzazione e alle forme attuali dell’imperialismo, nemmeno possiamo non tener conto del reflusso politico che ha seguito il fallimento del movimento Terzomondista in questi paesi» (dal blog di Noi Saremo Tutto,3 19/01/2015)

Pur ponendosi in contrasto con il discorso orientalista prevalente, questa postura ideologica sembra lasciarci ancora una volta intrappolati in semplificati binarismi (amici/nemici; noi/loro) che, affidandosi a un contrastante “Occidentalismo” (Buruma e Margalit, 2004) assumono in maniera altrettanto reificata le società occidentali come espressione di degrado morale e materialismo e si mostrano poco utili a spiegare le pratiche che producono le “differenze” a partire dalle interazioni concrete che si sviluppano fra individui e gruppi negli specifici contesti multiculturali (Baumann, 1996).

Rispetto a queste visioni normative che hanno collocato l’origine dei problemi in un astratto imperialismo occidentale, da un lato, o nei paesi islamici attraverso l’evocazione di un “altrove” reificato e stigmatizzato, dall’altro lato, ci proponiamo ora di seguire quelle riflessioni che hanno contribuito a riorientare il nostro sguardo verso la quotidianità delle metropoli e delle periferie da cui provengono i fratelli Kouachi, i giovani accusati di avere commesso i tragici attentati che hanno sconvolto la Francia.

 

Politiche securitarie nello spazio post-coloniale: le banlieue non sono lontane

Dopo il 7 gennaio 2015, il primo ministro Manuel Valls ha voluto tracciare un parallelismo tra quello che è accaduto alla redazione della testata di Charlie Hebdo e le rivolte che nel 2005 hanno travolto le periferie francesi per circa tre settimane, con un bilancio di oltre diecimila macchine bruciate, decine di edifici pubblici dati alle fiamme e centinaia di poliziotti feriti (Internazionale, 1086, 23 gennaio 2015).

Allora Valls era il sindaco socialista di Evry (cittadina della Île-de-France che conta 50000 abitanti) ed era ai ferri corti con il suo partito proprio per questioni legate alle politiche di integrazione e alla sicurezza. Se al tempo era rimasto molto scosso dal livello di violenza raggiunto nei centri della Île-de-France e nella città che amministrava, a 10 anni di distanza il primo ministro ha precisato che gli attacchi terroristici di Parigi hanno contribuito a riportare alla luce i segni dei disordini del 2005 e la grave disparità che ha sempre caratterizzato tali “ghetti”  (come lui stessi li ha definiti).

Del resto questo episodio richiama alla mente altri tragici eventi in Gran Bretagna - come il caso dei riot di Londra del 2011, gli attentati che hanno colpito i treni della metropolitana nel luglio 2005 o i piani terroristici sventati nel 2006 – che, in maniera parallela agli eventi francesi, hanno avuto come protagonisti giovani britannici di origine araba o asiatica.

Eventi che, come da tempo sostengono vari studiosi del tema, ci invitano a cogliere nelle nuove generazioni di migranti un luogo privilegiato per discutere delle trasformazioni sociali che stanno attraversando le società europee (Ambrosini e Molina, 2004). La loro presenza ha infatti posto in Europa interrogativi profondi, sollevato dilemmi politici e etici che non si erano mai manifestati prima e portato al centro della scena pubblica rivendicazioni e esigenze che non erano mai state poste in discussione. Ricordiamo, per esempio, come le richieste per il culto collettivo e pubblico nei luoghi di lavoro, le rivendicazioni di varia natura nelle scuole e la crescente visibilità dell’Islam abbiano sfidato in Francia i valori repubblicani e i significati e i contorni della laicità dello Stato e dello spazio pubblico (Frisina, 2007).

Viene alla mente quel trauma nazionale francese, ancora evidentemente non superato, che fu l’affaire du foulard dell’89 e il lungo dibattito pubblico seguìto all’espulsione dalla scuola di Creil (Oise) di Fatima, Leila e Samira, tre ragazze musulmane che indossavano il velo. Di fronte a questo episodio come studiosi non solo siamo rimasti insoddisfatti dagli etnocentrismi che guardano alle donne musulmane come vittime silenti, “bisognose di essere salvate” (Abu Lughod, 2011) e dai luoghi comuni proiettati sulla “pratica del velo” (che sappiamo essere un’istituzione complessa che si declina nell’esperienza delle donne in una molteplicità di modi e significati), ma ci siamo mostrati (forse però non a sufficienza) anche preoccupati del rancore xenofobo che si è alimentato nei confronti della popolazione islamica francese. Un senso di ostilità, unito a provocazioni islamofobiche, occultato dal discorso della laicità dello Stato, che ha avuto la sua consacrazione nella Charte de la laïcité à l’école, manifesto affitto all’inizio dell’anno scolastico nel 2013 in tutte le scuole pubbliche del paese su indicazione del ministro francese dell’educazione, Vincent Peillon. Questa carta, pur volendo rappresentare sul piano simbolico una delle massime espressioni di questo discorso teso a definire i limiti della/e religione/i nell’ambito scolastico per l’opinione pubblica, è stata infatti in gran parte percepita dalle minoranze musulmane come un atto di ostilità nei propri confronti.

In questo contesto di crescente reazione alle diversità nelle metropoli europee (Grillo, 2005), le parole del primo ministro Manuel Valls, che riferiscono di una vera e propria “apartheid” territoriale, sociale, etnica nel paese, risuonano scomode e fastidiose ai sostenitori di Charlie. Ci riportano infatti alle rivolte che nel 2005 hanno travolto drammaticamente le periferie francesi, quando molti giovani di origine immigrata hanno denunciato le diseguaglianze sociali e gridato, a fianco dei coetanei autoctoni, una rabbia generazionale che non può essere meramente ricondotta al solo discorso dell’identità religiosa.

A questo proposito alcuni professori francesi hanno voluto fornire, dopo il 7 gennaio, una bella testimonianza di responsabilità, ricordando ai propri connazionali che quei “cattivi musulmani” che hanno sconvolto il paese e capaci di un simile atto criminale sono anche i “loro studenti”. Non basta agitare le bandiere di Je suis Charlie appellandosi alla libertà di espressione per difendere la democrazia, ma è necessario prendere sul serio, e sentirsi parte di, quell’oppressione quotidiana che i giovani delle banlieues denunciano: “Noi siamo dalla parte di Charlie, ma siamo anche i genitori di questi ragazzi”, hanno ricordato alcuni insegnanti di Seine-Saint-Denis, la periferia di Parigi di cui sentiamo parlare solo quando la disperazione si traduce in rivolte, brucia le automobili e danneggia brutalmente edifici. Sostituendo le grida del dolore e della rabbia a un sentimento di vergogna, questi professori ci aiutano a cogliere nelle periferie e nelle nuove generazioni un’opportunità significativa per collaudare la democrazia di uno Stato e smascherare ciò che è abitualmente votato a rimanere nell’ombra nella costituzione e nel funzionamento dell’ordine sociale (Sayad, 2002).

Ne riportiamo a seguito un estratto:

«Siamo professori del Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di “Charlie Hebdo” ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo. Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, o molto ovviamente al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché avremmo i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. […]  Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. […] Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, eccetera: noi siamo responsabili di questa situazione. Quelli di “Charlie Hebdo” erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna […]. Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio».

A fronte di un dibattito dominato dall’evocazione astratta dei valori repubblicani, queste parole ci riportano alle forme concrete di sfruttamento materiale, ai diritti negati dalle leggi, alla precarietà sociale, alla sofferenza incorporata nell’esperienza quotidiana di genitori e figli di migranti (Farmer, 2006) in un contesto in cui il razzismo e le politiche securitarie hanno sempre più segnato lo spazio metropolitano europeo.

Viene alla mente quel volume di Miguel Benasayag e Angélique del Rey – Chasse aux enfants: L'effet miroir de l'expulsion des sans-papiers (2008) – che hanno riportato l’esperienza drammatica dell’espulsione dei sans papier e dei loro figli nel pieno di una delle tante campagne xenofobe che Sarkozy ha mascherato attraverso il discorso egemonico dell’insicurezza urbana. Gli autori narrano infatti l’esperienza di un gruppo di pedagogisti senza frontiere che erano intervenuti nei quartieri periferici delle grandi metropoli francesi per impedire che le forze dell’ordine bloccassero i bambini fuori della scuola e individuassero, anche attraverso i registri scolastici, i genitori che si trovavano in posizione di irregolarità, per poi espellerli seduta stante. Il terrore che si materializza nelle vite di queste famiglie, che si vedono braccate “a casa loro”, riesce a offrirci una seppure vaga idea del contesto di oppressione quotidiana (Farmer, 2006) che si genera in modo strutturale dietro alle politiche e retoriche securitarie (Fassin, 2013). Si avverte in questo libro l’intento di smascherare e rendere più espliciti i processi attraverso cui vengono costruiti quei dispositivi che riescono a operare una “micro-vaccinazione” nelle coscienze, educando i francesi a tollerare episodi sempre più gravi e a convincersi della necessità di difendersi da quella parte di cittadini “pericolosi” e “barbari”.

In questo scenario, il colonialismo si presenta come elemento costitutivo dell’attuale spazio materiale europeo (Mellino, 2015), delle gerarchie di cittadinanza, della segregazione di gruppi in quartieri, scuole, periferie, delle forme di controllo che lo stato e i suoi apparati esercitano sul territorio e sui corpi attraverso dispositivi securitari (Fassin, 2001; 2013).

Non è un caso che le vicende di Parigi abbiano incoraggiato diversi studiosi e antropologi ad accordare una lettura di quanto accaduto alla redazione di Charlie Hebdo con gli studi postcoloniali, sebbene a partire da posizioni diverse e non sempre unanimi.4

Da ricercatori che hanno lavorato sulle questioni del colonialismo, della migrazione, delle banlieue e degli spazi neo-coloniali non possiamo, infatti, guardare con indifferenza al fatto che i fratelli Kouachi fossero di origine algerina (Taliani, 2015) né sottrarci a un’analisi storica e politica delle relazioni che paesi come la Francia intrattengono i migranti musulmani e con le ex colonie. Non possiamo trascurare, per esempio, la politica anti-musulmana adottata da François Hollande in Mali (Amselle, 2015), né l’influenza economica e militare che il paese continua a esercitare in molti paesi africani e del Medio Oriente.

Risalendo alla conquista dell'Algeria nel 1830, poi alla guerra d'Algeria per l'indipendenza dalla Francia (1954-1962), Bowen, fra gli altri, ha ricostruito un complesso quadro geo-politico per comprendere quei meccanismi sociali che ci riportano agli anni 50-60, quando gli immigrati rappresentavano una forza-lavoro, incoraggiando poveri, operai non qualificati da Algeria e altri paesi del Nord Africa a maggioranza musulmana a lavorare nelle fabbriche, prima che molti di quei posti venissero a mancare.

Nei fatti accaduti in Francia riemerge cioè “qualcosa di oscuro dal passato di quest'Algeria insonne e martoriata” che come uno spettro si aggira e “continua a interpellare il presente”, suggerendoci che questi due paesi “non hanno cessato la loro guerra, fosse pure quella di un incubo” (Beneduce, 2015). Non a caso troviamo interessanti parallelismi tra il passato coloniale della Francia e le misure adottate dai governi in tempi recenti. Per esempio, i disordini del 2005 portarono il governo a proclamare lo stato di emergenza e ad adottare un dispositivo legislativo eccezionale creato nel 1955 e che era stato usato solo una volta, durante la guerra d’Algeria.

Le rivolte nelle periferie prima, gli attacchi alla redazione di Charlie Hebdo e al supermercato Hyper Cacher di Porte de Vincennes poi ci costringono dunque a fare i conti con l’eredità materiale e simbolica del colonialismo, portando alla luce le resistenze e domande di cittadinanza provenienti dai quartieri periferici delle grandi metropoli europee.

Sarebbe bene ricordarlo a coloro che appaiono delusi dalla scarsa partecipazione dei giovani delle banlieues alla manifestazione dell’11 gennaio a Parigi, nonostante abbiano espresso a più riprese solidarietà verso i familiari delle vittime. Ma si può chiedere a questi ragazzi di fingere scarsa indignazione verso le vignette pubblicate dalla nota testata? Di non sentirsi anche lontanamente accomunati a quei giovani di origine algerina che, prima di essere arruolati in Siria, hanno frequentato le loro stesse scuole, strade, strutture di accoglienza, colonie di vacanza? Possiamo chiedere loro di dimenticare le silenziose battaglie quotidiane che, certo più dei manifestanti scesi in piazza, sono abituati a combattere ogni giorno insieme ai loro genitori, costretti a insegnare ai propri figli a difendersi a “casa propria”?

Come ha dichiarato Laetitia Nonone,5 presidente dell’associazione Zonzon 93 a Villepinte, una ventina di chilometri a nordest di Parigi, i ragazzi delle banlieue condannano la violenza ma si trovano anche costretti a combatterla ogni giorno, quando non a normalizzarla e considerarla come un’esperienza quotidiana della loro vita sociale. E pensando agli attentatori aggiunge «Questi tre hanno scelto il radicalismo, ma non sono i soli. Ci sono ancora troppi ragazzi come loro, trascinati da finti fratelli che vengono a fare proselitismo nelle banlieues».

Al tempo stesso dalla stampa e dai social network sono arrivate esplicite dissociazioni e condanne dell’atto criminale da parte delle associazioni musulmane. In Italia gli esponenti e membri delle organizzazioni islamiche hanno diffuso comunicati ed espresso indignazione verso quanto accaduto, come nel caso del Centro Islamico Culturale d'Italia che ha inviato un messaggio di cordoglio al Presidente della Repubblica Francese, François Hollande, per esprimere le proprie condoglianze e manifestare la loro vicinanza verso i familiari delle vittime, le forze dell’ordine, i parigini e tutto il popolo francese. Per alcuni giovani musulmani, che hanno scelto di scendere in piazza a fianco dei coetanei autoctoni, il caso di Charlie Hebdo è divenuto invece un’opportunità per diffondere spirito critico nello spazio pubblico e contrastare la tendenza comune a ricadere nelle categorizzazioni essenzialiste, riconducendo i comportamenti degli individui a categorie precostituite legate all’identità nazionale, religiosa, etnica. Alcuni giovani membri dell’associazione GMI (Giovani Musulmani d'Italia), come Yassine, si sono riuniti per esempio l’11 gennaio a Reggio Emilia non solo per protestare contro quanto accaduto ma anche per contrastare gli essenzialismi di senso comune relativi all’Islam che dominano nello spazio pubblico. Altri, come Najat e Latifa, nel corso di un’iniziativa promossa in Emilia-Romagna sul tema, hanno voluto ribadire come questo ed altri episodi abbiano rischiato di essere strumentalizzati dai media e dai politici attraverso fuorvianti messaggi di democrazia e libertà, andando ad aggravare il clima di ostilità e razzismo verso le minoranze islamiche e le percezioni discriminanti verso quei giovani che, come loro, si riconoscono e rappresentano come cittadini italiani e francesi.

Discutendo i fatti di Parigi, il sentimento religioso, l’integralismo islamico e le caricature di Maometto pubblicate dal giornale sono rimasti nei loro discorsi spesso sullo sfondo. A ragazzi come Najat, allontanata da uno stage perché indossava l’hijab, Adil, preoccupato che il padre, chimico in Marocco, possa perdere il lavoro di muratore a Parma, Ahmed, impossibilitato a partecipare a un concorso pubblico perché non in possesso della cittadinanza, è parso più rilevante parlare della loro vita da figli di immigrati in Italia, dove sono nati e cresciuti. Come i loro compagni autoctoni vestono alla moda, vivono intensamente amicizie e amori, si incontrano di sera ai giardinetti, amano l’hip pop e il rap almeno quanto detestano studiare italiano e latino.

Ma diversamente dai coetanei italiani, anche per molti di loro, forse, la periferia non è Charlie.

 

Bibliografia

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1 Dati gli obiettivi del presente saggio, si precisa che il materiale bibliografico utilizzato deriverà non solo da pubblicazioni scientifiche in senso stretto, ma anche (e soprattutto) da un’analisi del discorso mediatico e dalle riflessioni tratte dai commenti di antropologi, lettere, articoli e monografici, interviste a studiosi apparsi in seguito al 7 gennaio nei diversi quotidiani, social network, nei portali di antropologia, siti di associazione.
2 Il liberal razzismo all'italiana che difende l'informazione quando conviene, 13 gennaio 2015. http://tizian.blogautore.espresso.repubblica.it/2015/01/13/il-liberal-razzismo-allitaliana-che-difende-linformazione-quando-conviene/
3 Noi Saremo Tutto è una rete nazionale di collettivi politici, di differente composizione e storia, accomunati dalla volontà di riproporre un punto di vista comunista e riprendere il discorso marxista all’interno dei movimenti antagonisti e nelle lotte di classe che i suoi membri organizzano e a cui partecipano. Si veda: http://www.noisaremotutto.org/2015/01/19/charlie-hebdo-imperialismo-identita-rivoluzione/
4 Sebbene siano forse mancate occasioni strutturate di dialogo fra gli antropologi sul tema, il caso di Charlie Hebdo è stato in parte terreno di confronto anche fra gli addetti ai lavori. Alcuni antropologi hanno, per esempio, voluto tracciare i limiti di un’interpretazione postcoloniale degli eventi, sottolineando come la tendenza a collocare il problema “nelle colpe dell'Occidente e nel pensiero unico dell'imperialismo occidentale” possa rischiare di riprodurre semplificazioni e contrapposizioni (noi/loro) che non si discostano molto da quelle avanzate nel discorso mediatico e politico (Dei, 2015). Dall’altro lato, alcuni colleghi hanno ribadito come accordare agli eventi parigini tale prospettiva non significhi accogliere queste semplificate dicotomie (Taliani, 2015) quanto più cercare di accogliere gli importanti strumenti analitici ereditati dagli studi post-coloniali per fornire una lettura delle relazioni di potere meno improvvisata di quella che circola nel discorso comune (come nel caso di Beneduce e Fawzia Afzal Khan)
5 Si veda l’intervista pubblicata nell’Internazionale 1086, 23 gennaio 2015, La periferia non è Charlie.

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