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Voltaire è impegnativo!

Andrea Canevaro



Molte volte Voltaire viene citato a proposito dell’intolleranza. Giusto. Voltaire assunse a imperativo la tolleranza e la ricerca della verità. “Disapprovo quel che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”. “Io combatto la tua idea, che è diversa dalla mia, ma sono pronto a battermi fino al prezzo della mia vita perché tu, la tua idea, possa esprimerla liberamente”. Più o meno, queste frasi vengono riprese con buone intenzioni, che è bene sottoporre a verifica.

Nel periodo che ci è dato vivere, e che ci sembra carico di tragicità e incertezze, è frequente il richiamo a Voltaire. Sembra però che rifarsi al grande intellettuale francese possa essere ambiguo. E possa contenere l’implicito vanto di essere in quella cultura, o in quella civiltà che può appunto vantare nel suo patrimonio Voltaire. Quasi a dire: noi, al contrario di voi, siamo per la tolleranza. E in questo modo affermare una superiorità.

Si dirà che, di fronte a uccisioni e crudeltà orribili, è difficile non sentirsi in qualche modo superiori. Anche chi di Voltaire non aveva mai sentito neanche il nome, anche chi sentisse per la prima volta l’espressione “secolo dei lumi”, di fronte a massacri e crudeltà rivendica l’appartenenza a una civiltà superiore. E sente con fastidio chi commenta ricordando che questa civiltà superiore è corrotta, avida, pronta a far soldi fornendo armi a chiunque, jadisti compresi, eccetera. Questi commenti sembrano svianti e fuori luogo, confrontati con la crudeltà di fatti che oltretutto colpiscono individui innocenti, e solo colpevoli di una appartenenza.

È una delle conseguenze delle provocazioni, in queste circostanze elevate all’ennesima potenza: fare reagire con azioni simili a quelle della provocazione. Chi ha compiti di governo sembra che debba immediatamente reagire con forza e anche violenza alla violenza che è esplosa. E che ha il potere perverso di fare apparire ogni altra cosa, dalla riflessione al porgere l’altra guancia, dalla ricerca di dialogo alle logiche dei distinguo, come dichiarazioni di impotenza e di resa. Così potrà sembrare questa riflessione. Assumiamo questo rischio e soffermiamoci sull’appartenenza.

Si può assumere l’appartenenza imbrogliando il gioco. Ovvero utilizzandola per noi in un modo. Ma per gli altri, per loro, nel modo contrario. La nostra appartenenza ci rende tutti, ma proprio tutti, partecipi del livello culturale – della civiltà – che rappresenta Voltaire. O Manzoni. O Cervantes. O altri grandi. Gli altri, loro, sono tutti, ma proprio tutti, nell’appartenenza degli assassini e dell’orrore. È vero che imbrogliamo il gioco, che bariamo. Ma consideriamo giusto l’imbroglio perché imposto dall’emergenza. Che esige misure eccezionali. E fa apparire chi non sta al gioco, imbrogliato, come un traditore e un venduto al nemico. È il rischio che corriamo sviluppando questa riflessione. I titoli urlano di nuovi attacchi al cuore dell’Europa, e noi ci permettiamo di usare toni sommessi per cercare di riflettere?!

L’appartenenza al mondo di Voltaire può essere affermata facendo sì che chi ha commesso crimini orribili sia ricercato, punito secondo le leggi, senza criminalizzare tutti, ma proprio tutti, coloro che appartengono a quella cultura. Distinguendo, anche nei riti civili, le azioni giudiziarie da quelle che osiamo chiamare politiche. Quindi non facendo coincidere le due azioni. Ribadiamo: tenendole ben distinte. Diciamo di più, anche a costo di crearci antipatie da ogni parte: non facendo sconti a nessuno. Le azioni giudiziarie possono rivolgersi anche a chi, nel nostro terreno di appartenenza, abbia violato regole della convivenza civile, con rappresentazioni blasfeme e infamanti. Ci sembra troppo? Crediamo in questo modo di fare il gioco del nemico intollerante e crudele?

Voltaire è impegnativo. Prendiamo tre parole dal vocabolario di Amos Oz (da un’intervista di Carlo Brambilla a "La Repubblica" del 26 maggio 2007): “Fanatismo: il fanatismo è un punto esclamativo. Il fanatico ha le risposte ancora prima di fare le domande. Nello stesso tempo il fanatico è un grande altruista, perché è interessato all’altra persona più che a se stesso. Vuole salvarti l’anima e cambiarti la mente. Lo fa per il tuo bene. E se non ti può salvare ti ammazza. Sempre per il tuo bene.

Antidoto al fanatismo: l’umorismo. Non ho mai visto un fanatico con uno spiccato senso dell’umorismo. Se potessi mettere il senso dell’umorismo in capsule e far sì che l’intera popolazione possa assumere queste pillole, mi qualificherei per il premio Nobel per la medicina invece che in quello per la letteratura.

Compromesso: il termine compromesso viene vissuto spesso dai giovani idealisti in senso negativo. Come se fosse qualcosa di disonesto, di vischioso. Nel mio vocabolario personale, invece, è un sinonimo di vita del mondo. Dove c’è vita ci dovrebbero essere dei compromessi. L’opposto del compromesso non è integrità e onestà, ma è fanatismo e morte. Credo nel compromesso a tutti i livelli, sociale, familiare, di coppia”.

Possiamo aggiungere che se il fanatico è un grande altruista, vuol dire che il fanatismo falsifica, e corrompe anche le parole che usiamo. Anche la parola tolleranza, che, magari in nome della cultura di Voltaire, ci autorizza ad usare ogni forma di intolleranza, ammessa come misura straordinaria di difesa di una civiltà che ha fra i suoi valori fondanti la tolleranza. Il pasticcio è completo. Ma la colpa non è mai nostra. È sempre loro.

«Ciascuno chiama barbarie ciò che non è nelle sue usanze» (De Montaigne, 2005, p. 272). Sono parole di Montaigne. Montaigne, ancora lui, ci dice che la parola è per una metà di chi la dice, e per l’altra metà di chi la ascolta. Ecco: Voltaire vuol dire assumere pienamente le indicazioni di Montaigne. E noi, se vogliamo prendere sul serio tutto questo, dobbiamo tener conto che le parole devono essere condivise, fra chi le dice e chi le ascolta. È un impegno fondamentale, e forse esige qualche cambiamento nelle nostre abitudini. Quante volte riteniamo che le parole siano verità perché chi le pronuncia possiede la verità? Quante volte ci fermiamo per capire se le parole dette sono completate dalle stesse parole ascoltate? L’ascolto deve essere coinvolgimento in una proposta di progetto di cui si deve avere responsabilità condivise. Nulla di più offensivo, si potrebbe dire, di un ascolto saccente, che sembra dire: “Non mi dici nulla di nuovo, quello che mi dici era già previsto nella mia conoscenza, sta già nelle cose che conoscevo per cui la tua presenza, genitore, per me è routine, nulla di originale!”. La nostra scelta pedagogica è fondata sul fatto che l’altro è il nostro riferimento. Questo significa qualcosa che va oltre la semplicità dell’espressione perché indica due elementi complementari: l’altro come riferimento significa che è la differenza che è contenuta nell’altro è il nostro riferimento. L’esprimere in questo modo l’alterità significa anche accogliere le differenze ma sapere che possono interrogarci e che la nostra impreparazione è a volte totale. Noi abbiamo bisogno di capire meglio l’altro; capire meglio il punto differente che contraddistingue questa alterità e per farlo abbiamo bisogno di riferirci ad una pedagogia della reciprocità in cui dall’altro possiamo imparare.

Non abbiamo quindi fiducia, e non dovremmo averne, in una pedagogia che ci fa sapienti di fronte a un altro ignorante. Nello stesso tempo possiamo essere sapienti e ignoranti – dovremmo essere così –, consapevoli di alcune conoscenze che abbiamo ma anche dei nostri limiti e della necessità di informarci sull’altro, interrogare, conoscere. E da chi possiamo conoscere se non dall’altro, che porta a sua volta un sapere? Riassumiamo in questa frase che va approfondita: laltro come riferimento.

I valori delle parole sono importanti. E sono pluralistici. Come abbiamo già notato, quando con ironia Amos Oz dice che il fanatico è un grande altruista, segnala che nel fanatismo le parole si ammalano, si corrompono, si falsano. Le parole amano il contesto semantico e storico. Qualcuno di noi può avere paura del buio. Ma non crediamo che quella paura porti a voler unicamente spazi illuminati. Superato il momento di panico, quel qualcuno considererà che la sua paura è nata da una zona buia. E che molti altri spazi bui sono amichevoli, o indifferenti. Le parole degli altri, anche degli islamici, sono come gli spazi per chi ha avuto paura di un certo spazio. Possono fare paura nell’immediato. Ma, riprendendo fiato, possono essere anche amici.

Abbiamo bisogno di prendere sul serio Voltaire. E capire che l’appartenenza è aperta. A chi? All’umanità nelle sue differenze. È l’appartenenza contenuta nella frase: “Disapprovo quel che dite, ma difenderò fino alla morte il vostro diritto di dirlo”.

 

Riferimenti bibliografici

Brambilla C. (2007) , Il dizionario di Amos Oz, «La Repubblica», 26 maggio 2007.

de Montaigne M. (2005), Saggi, Milano, Adelphi.

Voltaire (1994), Trattato sulla tolleranza, Roma, Editori Riuniti.



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