Vol. 1, n. 2, ottobre 2024

Adolescenti e psicopatologia

I percorsi residenziali in Comunità Terapeutica Protetta come opportunità relazionale trasformativa

Anna Dal Ben1 e Maria Barba2

Sommario

Gli adolescenti che soffrono di psicopatologia rappresentano una sfida crescente e complessa per la società contemporanea, come evidenziato dalle stime dell’Unicef (2024) che indicano come 11,2 milioni di bambini e giovani sotto i 19 anni nell’UE, pari al 13%, soffrano di problemi di salute mentale. Questo dato genera una pressione significativa sui servizi sociali e sanitari, che devono rispondere in maniera integrata a esigenze sempre più complesse di carattere preventivo, protettivo, diagnostico e terapeutico. Attraverso una ricerca qualitativa con finalità esplorative condotta in una struttura residenziale terapeutica protetta, sono state raccolti i vissuti di alcuni adolescenti con psicopatologia in merito al loro percorso residenziale e alla malattia, nonché le esperienze soggettive dei genitori, profondamente intrecciate a quelle dei figli. Le interviste semi-strutturate hanno permesso di comprendere l’importanza di un approccio multidimensionale e soprattutto relazionale nel trattamento del disturbo mentale. La residenzialità rappresenta una potenziale occasione trasformativa, poiché permette di lavorare su più livelli: il benessere psichico dell’adolescente, le dinamiche familiari e il miglioramento dell’ambiente sociale di riferimento, in termini di relazioni con i pari e con i professionisti. È tuttavia fondamentale sviluppare progetti a lungo termine che includano percorsi di transizione verso l’autonomia per questi giovani, soprattutto considerando la prossimità al compimento della maggiore età.

Parole chiave

Adolescenti, disturbo mentale, residenzialità, servizi sociali, relazioni trasformative.

Adolescents and Psychopathology

Residential Care in Protected Therapeutic Communities as a Transformative Relational Opportunity

Anna Dal Ben3 and Maria Barba4

Abstract

Adolescents grappling with psychopathology pose an increasingly complex and pressing challenge for contemporary society. Recent estimates by UNICEF (2024) reveal that 11.2 million children and young people under the age of 19 in the EU — equivalent to 13% — experience mental health issues. These estimates place significant pressure on social and healthcare systems, which must address increasingly complex needs in prevention, protection, diagnosis, and therapy through integrated approaches. This exploratory qualitative study, conducted within a protected therapeutic residential facility, investigates the lived experiences of adolescents with psychopathology alongside those of their parents, whose emotional landscapes are profoundly interwoven with the management of their children’s conditions. Semi-structured interviews underscored the critical importance of adopting a multidimensional and relational framework for mental health care. Residential treatment emerges as a potentially transformative avenue, enabling interventions across multiple dimensions: enhancing the psychological well-being of adolescents, reconstructing familial dynamics, and fostering improvements in the broader social environment, particularly in peer and professional relationships. However, the findings emphasize the necessity of long-term initiatives that incorporate transitional pathways toward autonomy for these young individuals, particularly as they approach adulthood.

Keywords

Adolescents, mental disorder, residential care, social services, transformative relationships.

Introduzione5

Nella società contemporanea, i disturbi mentali rappresentano una parte significativa del carico di malattia tra i giovani di tutte le fasce di età (Patel et al., 2007): le indagini epidemiologiche indicano una netta accentuazione dei disturbi del neurosviluppo e della psicopatologia in età adolescenziale. L’UNICEF (2024) nella sua più recente rilevazione, ha stimato che oltre 11 milioni di bambini e giovani di età pari o inferiore a 19 anni (13%) nell’UE soffrano di problematiche connesse alla salute mentale, dove i tassi aumentano con l’età: circa il 2% dei bambini sotto i 5 anni e circa il 19% dei giovani tra i 15 e i 19 anni. Il suicidio è la seconda causa di morte più comune (dopo gli incidenti stradali) tra i giovani di età compresa tra 15 e 19 anni nell’UE, rappresentando circa un decesso su sei. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2023), inserisce il disagio mentale fra le principali cause di morte tra gli adolescenti: depressione e ansia rappresentano il 40% dei disturbi diagnosticati.

Per quanto riguarda il contesto europeo, nell’arco di tempo compreso fra il 1990 e il 2019, i disturbi mentali degli adolescenti sono aumentati del 32% (Armocida et al., 2022): si tratta però di un dato parziale considerando che le rilevazioni reperibili non sono sistematizzate. Altri studi, hanno riscontrato che l’esordio del primo disturbo mentale avviene in un terzo degli individui prima dei 14 anni, in quasi metà entro i 18 anni e quasi due terzi prima dei 25 anni. Eppure, solo tra il 20-40% dei disturbi degli adolescenti vengono diagnosticati dai servizi sanitari e solo il 25% riceve un trattamento adeguato (Akseer et al., 2020).

Anche in Italia, sebbene i dati risultino fortemente frammentari e insufficienti a fronte dell’assenza di strumenti di rilevazione nazionali, l’adolescenza caratterizzata da disturbi psichiatrici sembra essere sempre più presente (Benzoni, 2019): l’ultima indagine dell’OMS su suolo italiano (2020), indica come il 16,6% dei ragazzi e delle ragazze fra i 10 e i 19 anni soffrano di problemi legati alla salute mentale, circa 956.000 in totale, senza considerare la quota sommersa. Ritiro sociale, violenza filioparentale, dipendenze da internet, cutting, si affiancano ai più noti disturbi depressivi, psicotici o del comportamento alimentare che già caratterizzavano il panorama adolescenziale (Aldi, 2021).

L’incremento degli accessi in pronto soccorso, delle domande di valutazione ai servizi di neuropsichiatria infantile, dei ricoveri e dei collocamenti in comunità residenziali terapeutiche (Ancona et al., 2019), delineano un quadro di nuove e più complesse emergenze per l’età evolutiva: i servizi di salute mentale dell’infanzia e dell’età adulta si trovano di fronte a crescenti necessità di natura preventiva ma anche diagnostica e terapeutica, mentre i servizi sociali vedono aumentare le esigenze protettive in un contesto di scarsità di risorse e di difficoltà nel coinvolgimento delle famiglie di origine dei minori.

A questo, è necessario aggiungere lo stigma sociale ancora fortemente presente in relazione ai disturbi mentali, legato a un’errata conoscenza e percezione della malattia (Njaka et al., 2023). Gli effetti discriminatori provocati dallo stigma, impediscono a una quota significativa di adolescenti di rivolgersi ai servizi: il rifiuto, l’incomprensione e l’esclusione associati all’idea del disturbo mentale, sono più penalizzanti della malattia stessa (Autorità Garante dell’infanzia e Adolescenza, 2017).

Per comprendere questo fenomeno e fornire risposte globali che garantiscano ai minori percorsi integrati di trattamento, sostegno e tutela è necessario adottare una visione ecologica che permetta di agire su più livelli: sebbene molti studi evidenzino una base biologica all’origine del disturbo mentale, è conclamato come i fattori legati ai vissuti individuali (esperienze avverse infantili, uso di sostanze, background migratorio) (Anda et al., 2006), all’ambiente sociale (luogo di vita, presenza o meno di reti) (Goodman et al., 2023), nonché al contesto istituzionale (politiche di welfare, quadro normativo, fruibilità e accesso ai servizi), abbiano un peso superiore in termini protettivi o di rischio (Sheikh et al., 2016).

In Italia, le ricerche che si occupano di adolescenza e salute mentale sono prettamente di stampo medico e psicologico (p.e. Rogora e Bizzarri, 2020; Bottesi, 2023; Pastore e Grippo, 2023): residuali sono gli studi di servizio sociale, soprattutto in relazione al vissuto dei soggetti coinvolti all’interno di questi percorsi. Tuttavia, questi soggetti non sono solo destinatari passivi degli interventi, ma veri e propri esperti per esperienza, in grado di offrire una prospettiva unica sulle sfide, le dinamiche e le risorse coinvolte nel percorso di cura. Dare voce a queste esperienze significa non solo valorizzare i loro vissuti, ma anche fornire elementi fondamentali per progettare interventi più mirati e rispondenti alle reali necessità. Studi recenti (Barber et al., 2021; Jensen e Kenny, 2022) evidenziano come l’inclusione attiva dei giovani e delle loro famiglie nei processi di ricerca e progettazione dei servizi possa aumentare significativamente l’efficacia degli interventi e migliorare la compliance terapeutica. In particolare, includere le narrazioni di chi vive direttamente il disagio psichico o ne affronta le conseguenze in ambito familiare, consente di costruire un sapere condiviso che arricchisce il lavoro di professionisti e ricercatori, promuovendo un approccio multidimensionale e relazionale più efficace (May et al., 2020). Questo studio si propone proprio di mettere al centro le voci degli adolescenti e dei loro genitori, spesso trascurate, ma indispensabili per comprendere l’impatto e le potenzialità degli interventi residenziali.

Fattori di rischio e protezione per lo sviluppo della psicopatologia in adolescenza

Molti studi evidenziano come individuare precocemente situazioni di disturbo psicopatologico permetta di modificarne sensibilmente il corso (Das et al., 2016; Véronneau e Dishion, 2010), soprattutto nella fase dell’adolescenza dove i processi neuronali sono particolarmente attivi. Pertanto, i fattori di rischio e di protezione giocano un ruolo fondamentale, poiché interagiscono vicendevolmente in modo dinamico e possono contribuire a costruire, a partire da condizioni simili, traiettorie di sviluppo differenti (Molinengo et al., 2005).

Per quanto riguarda i fattori di rischio, uno dei principali elementi è legato al contesto familiare entro cui varie disfunzioni possono contribuire a influenzare negativamente la salute mentale dei minori (Lindert et al., 2014; Norman et al., 2012): conflitti, separazioni, divorzi, violenza domestica e instabilità familiare; abuso fisico, emotivo e sessuale, sia diretto che indiretto; mancanza di un adeguato supporto genitoriale; abuso di sostanze e disturbi psichiatrici. I figli di genitori affetti da disturbi mentali hanno il 40% di possibilità in più di sviluppare un episodio di depressione maggiore entro i 20 anni, oltre che essere più esposti a problemi generali di comportamento, difficoltà relazionali e d’attaccamento (Thorup et al., 2018). Accanto ai fattori familiari, e strettamente correlati ad essi, vi sono i fattori socioeconomici come la povertà, che può essere associata a stress finanziario e disuguaglianze nell’accesso alle cure e/o ai servizi, con il rischio di andare a sviluppare un ambiente instabile. I bambini e gli adolescenti socioeconomicamente svantaggiati hanno da due a tre volte più probabilità di sviluppare problemi di salute mentale, anche a fronte della più elevata possibilità di drop-out scolastico e di accesso al circuito penale a fronte di reati commessi (Reiss, 2013). Un altro fattore di rischio è legato alle esperienze traumatiche infantili: l’adolescenza è il periodo dello sviluppo con il più alto rischio di esposizione a eventi potenzialmente traumatici (PTE), tra cui violenza interpersonale, incidenti, lesioni, lutti. In seguito all’esposizione a PTE, può svilupparsi un disturbo da stress post-traumatico, associato a un aumento del rischio di depressione, ansia, comportamenti autolesivi o suicidari, disturbi alimentari e problemi di regolazione emotiva (Berking e Whitley, 2014). Tra i fattori di rischio è importante comprendere anche il bullismo: questo può avere serie conseguenze di natura emotiva e psicologica, come ad esempio bassa autostima e isolamento sociale (Kim et al., 2006). In relazione a questo, è importante nominare lo stress scolastico: le pressioni legate alle prestazioni e alle aspettative familiari e personali, nonché la complessità dell’ambiente scolastico possono contribuire allo sviluppo di ansia e depressione (Rice, Riglin e Thapar, 2019). Ancora, l’abuso di sostanze comporta impatti biochimici e psicologici sul cervello in fase di sviluppo, disturbando i normali processi neurologici e aumentando il rischio di depressione, ansia e comportamenti paranoidi o psicosi (Giedd, 2004). Altro elemento significativo è il pregresso adottivo, specialmente se si parla di adozioni internazionali (Pace e Muzi, 2017). La prevalenza di disturbi psichiatrici, l’inserimento in comunità terapeutica ed il ricovero ospedaliero degli adottati sono significativamente superiori a quelli della popolazione generale: ciò può essere spiegato dal fatto che gli adolescenti con un passato di adozione internazionale spesso hanno sperimentano cure mediche prenatali e perinatali inadeguate, separazione materna, deprivazione psicologica, servizi sanitari insufficienti, abbandono, abusi e malnutrizione (Gunnar, Bruce e Grotevant, 2000). Infine, è importante considerare l’identità di genere. Si osservano tassi più elevati di problemi di salute mentale tra le minoranze sessuali (Wilson e Cariola, 2020): rispetto ai coetanei cisgender, gli adolescenti LGBTQ+ che hanno messo in discussione il proprio orientamento sessuale e la propria identità di genere, hanno più probabilità di presentare ideazioni suicidarie e comportamenti autoaggressivi. Tuttavia, le ricerche hanno mostrato l’importanza anche dei fattori genetici (endogeni) — e non solo quelli ambientali (esogeni) — i cui effetti possono modificarsi reciprocamente in modo complesso (Anttila et al., 2018): disturbi come anoressia, disturbo bipolare, ADHD, schizofrenia e disturbo ossessivo compulsivo presentano diverse sovrapposizioni genetiche, che portano un individuo ad essere più predisposto di altri a questa tipologia di vulnerabilità, soprattutto se connessa ad altre fragilità ambientali.

Oltre ai fattori di rischio, è imprescindibile considerare i fattori di protezione, cioè quelle condizioni individuali e ambientali che hanno la possibilità di neutralizzare, bilanciare o permettere il superamento di un rischio. Il supporto familiare e adeguate competenze genitoriali risultano essere tra i più importanti fattori protettivi, dal momento che una relazione positiva con i membri della famiglia può influenzare le dinamiche di attaccamento, l’autostima, la resilienza e la capacità di far fronte allo stress (Magson at al., 2021). Più in generale, godere di un capitale sociale ben sviluppato può aiutare gli adolescenti ad affrontare le avversità, perché consente l’incremento di competenze che aiutano a gestire le emozioni, a costruire relazioni positive e a far fronte alle sfide quotidiane (Hagquist e Starrin, 2018). Un ambiente scolastico inclusivo, dove gli studenti si sentono accettati e incoraggiati a esprimersi, può contribuire a ridurre il rischio di problemi come l’ansia, la depressione e l’isolamento sociale (Weare e Nind, 2011). Un ulteriore fattore protettivo è il supporto dei pari: le relazioni positive con i coetanei possono contribuire a fornire un senso di appartenenza, sostegno emotivo e opportunità di apprendimento che contribuiscono significativamente alle capacità di adattamento e, conseguentemente, al benessere psicologico (Rueger, Malecki e Demaray, 2010). Anche la partecipazione ad attività extracurricolari (hobby, sport, impegno civico) offre opportunità per lo sviluppo di abilità sociali, l’espressione creativa, il senso di realizzazione e il coinvolgimento, generando benessere (Fredrick e Eccles, 2006). Infine, fondamentale è la possibilità di avere facile accesso ai servizi per la salute mentale: ricevere supporto professionale può aiutare a prevenire, trattare o gestire eventuali difficoltà momentanee o esordi psicopatologici (Merikangas et al., 2010).

La ricerca

Obiettivi e metodologia

Lo studio esplorativo, di natura qualitativa, ha avuto come obiettivo principale quello di comprendere la percezione della malattia e il vissuto di adolescenti con disagio mentale residenti all’interno di una Comunità Terapeutica Riabilitativa Protetta (CTRP), collocata nel nordest italiano. Per raggiungere tale obiettivo, la partecipazione alla ricerca è stata proposta ai ragazzi residenti e ai loro genitori: come emerso dalla letteratura, infatti, le famiglie di origine giocano un ruolo fondamentale in termini di rischio o protezione nello sviluppo e nel trattamento della psicopatologia.

Si è scelto di utilizzare lo strumento dell’intervista semi-strutturata poiché permette di mantenere un grado di strutturazione intermedio, attraverso il quale i contenuti risultano definiti ma l’esecuzione può variare in base alle risposte fornite dai partecipanti e alle specifiche situazioni, allo scopo di ottenere fatti accurati e testimonianze autentiche (Bichi, 2002). La traccia dell’intervista è stata diversificata sulla base del target di riferimento (minori e adulti), mantenendo 4 macro aree tematiche relative a: la patologia; i percorsi di cura; le relazioni tra i soggetti coinvolti; i vissuti emotivi.6 L’elaborazione dei dati è avvenuta tramite un’analisi tematica delle interviste per far emergere le categorie di contenuto maggiormente significative (Silverman, 2013). La gestione etica dei dati è stata un aspetto centrale di questa ricerca, considerando la delicatezza dei temi affrontati e la vulnerabilità dei partecipanti coinvolti. Prima dell’inizio dello studio, i professionisti operanti nella struttura hanno condiviso le finalità del progetto con i ragazzi e le loro famiglie, chiedendo una adesione su base libera e volontaria. È stato ottenuto il consenso informato scritto da parte di tutti i partecipanti (i genitori hanno dato il consenso per i figli minorenni), in conformità con le normative sulla protezione dei dati personali. Particolare attenzione è stata posta all’anonimato dei partecipanti per garantirne la privacy. Durante le interviste, è stata assicurata la libertà di interrompere la partecipazione in qualsiasi momento senza conseguenze. Infine, per mitigare eventuali effetti psicologici negativi, è stata rimandata ai partecipanti la possibilità di chiedere successivamente supporto ai professionisti operanti nella struttura (due psicoterapeuti, due psichiatri, educatori e un’assistente sociale). Questo approccio ha assicurato che la ricerca fosse condotta nel pieno rispetto della dignità e dei diritti dei soggetti coinvolti.

Limitazioni

Nonostante i risultati offrano spunti di riflessione significativi poiché intercettano una fascia di soggetti notoriamente difficile da raggiungere che spesso si trova ai margini del sistema di cura tradizionale e delle narrative sociali rendendone complesso il coinvolgimento diretto, la ricerca presenta alcuni limiti. In primo luogo, il numero circoscritto di soggetti coinvolti e la loro appartenenza a una singola comunità terapeutica, quindi a un contesto geografico e culturale specifico. In secondo luogo, il coinvolgimento emotivo degli adolescenti e la loro specifica condizione, potrebbe aver influenzato il contenuto delle risposte, che rimane comunque connesso alla loro individuale percezione. Lo stesso potrebbe valere per i genitori, soprattutto in termini di desiderabilità sociale.

Descrizione del contesto e dei partecipanti

La CTRP è una realtà residenziale a dimensione familiare che offre un trattamento globale, psicoterapeutico, psicofarmacologico, relazionale e sociale per minori con disturbi psichiatrici. Le caratteristiche distintive della comunità terapeutica protetta rispetto ad altri metodi di cura includono la distanza dal contesto familiare, la sicurezza e prevedibilità dell’ambiente, l’alleanza terapeutica con il paziente e il servizio inviante, la compliance psicofarmacologica e l’importanza dell’umorismo come fattore di resilienza (Whittaker, Del Valle e Holmes, 2015). L’obiettivo di queste specifiche realtà è quello di produrre una perturbazione nelle aspettative relazionali del minore, disconfermando percezioni negative del sé e promuovendo aspettative positive attraverso relazioni affidabili (Fonagy et al., 2002).

Nello specifico, la CTRP in oggetto è di tipo misto quindi prevede l’ingresso di adolescenti di entrambi i sessi, in numero complessivo non superiore a 10, di età compresa tra i 14 e i 17 anni (con la maggiore età, infatti, i residenti devono essere dirottati verso servizi per adulti).

Nel momento in cui il progetto di ricerca ha avuto luogo, risiedevano all’interno della comunità sei ragazze e due ragazzi, con un’età media di 16,5 anni: attraverso l’analisi delle cartelle psico-sociali è stato possibile ricostruire alcuni elementi delle loro storie di vita. Sei ragazzi sono nati in Italia, mentre due all’estero, in Paesi dell’Est Europa. Per quanto riguarda l’esordio della patologia, i servizi di Neuropsichiatria infantile nella totalità dei casi conoscevano già i minori da qualche anno, prima che questi entrassero in comunità: emergono primariamente accessi ai servizi a causa di agiti anticonservativi o importanti atti di autolesionismo, significative deflessioni del tono dell’umore o rilevanti difficoltà familiari che hanno visto coinvolti altri servizi (dipendenze, consultorio familiare, centro di salute mentale). Emerge infatti una generale complessità all’interno dei nuclei di origine: vengono descritte situazioni caratterizzate da violenza, alta conflittualità genitoriale, uso di sostanze e disturbi psichiatrici di un genitore. Tuttavia, solo in un caso è presente un Decreto del Tribunale per i Minorenni che definisce l’affidamento del minore al servizio sociale con una limitazione della responsabilità genitoriale.

In merito alla diagnosi psichiatrica, è sempre presente una comorbilità, con diagnosi orientate alla psicosi, disturbi dell’attenzione e dell’apprendimento, disturbo borderline di personalità, disturbi depressivi. Tutti i ragazzi assumono terapia farmacologica a frequenza giornaliera, primariamente: antipsicotici, neurolettici, litio, antidepressivi e benzodiazepine. Due residenti presentano rispettivamente invalidità al 100%, indennità di accompagnamento e invalidità relativa alla legge 104/1992. La partecipazione alla ricerca ha coinvolto sei di questi adolescenti e cinque genitori, 3 madri e 2 padri.

I vissuti dei protagonisti coinvolti nei processi di cura: adolescenti e famiglie di origine

L’importanza della diagnosi e l’ingresso in comunità

Il momento in cui i ragazzi hanno ricevuto la prima diagnosi appare come turning points all’interno delle loro biografie (Gilligan, 2009): questo evento sancisce il riconoscimento del disturbo mentale e la possibilità di iniziare percorsi di trattamento. Il percorso diagnostico viene descritto dai genitori come un cammino molto lungo, sottolineando che il malessere dei figli ha spesso avuto origine diversi anni prima, già durante la scuola primaria o secondaria di primo grado. In merito all’emergere della patologia, i genitori sembrano interrogarsi sulle cause scatenanti, identificando nella maggioranza dei casi eventi esterni, quali: il bullismo, il lockdown e in generale la pandemia da Covid-19, il contesto scolastico e, solo in ultimo, la conflittualità familiare.

Sono venuta a sapere che X era quello preso di mira dalle maestre perché era vivace. In terza elementare è cambiato perché è diventato chiuso. Faceva scena muta se lo interrogavi, un bambino a cui continuavi magari a chiedere «cosa c’è» e non rispondeva, sembrava quasi non gliene importasse ma dopo queste continue richieste scoppiava in rabbia, scoppiava in maniera non controllata.

Il percorso di X è cominciato dalle medie con il classico comportamento di bullismo tra compagni e poi purtroppo poi c›è stato il lockdown, quei famosi due anni che hanno completamente isolato X da tutto il contesto che aveva prima e quindi, secondo me, ha maturato tutto il problema che stiamo affrontando adesso.

La visione degli adolescenti rispecchia in parte quanto raccontato dai genitori in merito al periodo di difficoltà che ha preceduto l’ingresso in comunità, tuttavia l’elemento accomunante le diverse narrazioni, è legato alla difficoltà di rapporto con i genitori, distinto per alcuni da una totale apatia, per altri da evasione dal contesto familiare o da relazioni altamente conflittuali. Il rapporto con la scuola è connotato da difficoltà e da poca costanza, un ambiente in cui non riuscivano a integrarsi appieno. I ragazzi descrivono la propria vita precedente, come una «vita brutta», caratterizzata da solitudine, malessere e poca integrazione sociale.

Prima non facevo niente in casa perché stavo troppo male per fare qualsiasi cosa, però uscivo tanto per cercare di scappare dalla situazione familiare in cui vivevo.

Nell’ultimo periodo prima di entrare in comunità sono stato chiuso in casa per tre mesi però prima stavo fuori tutti i giorni, non avevo regole, non avevo la cognizione del tempo, vivevo giorno per giorno, quello che era, era.

I miei si incazzavano sempre, mio padre voleva giocare con me ma io non volevo giocare con lui, oppure giocavo e gli facevo male. Poi mia mamma si arrabbiava spesso con me e io mi nascondevo sotto la tavola e mio padre doveva venire a prendermi. A me questa cosa non piaceva perché mi veniva poi da picchiarlo. Poi andavo a scuola, alla scuola media ma non mi piaceva perché c’era un bullo nella mia classe e i miei compagni mi odiavano.

Il momento dell’entrata in comunità ha rappresentato per i genitori una sorta di spartiacque, che divide un «prima» e un «dopo» caratterizzato da significativi cambiamenti. Vivere con un figlio con psicopatologia può infatti comportare difficoltà che, a lungo andare, portano gli stessi caregiver a venire schiacciati dal peso della malattia. La comunità, oltre ad essere un ambiente terapeutico potenzialmente curativo per l’adolescente, offre sollievo alla famiglia di origine, dopo periodi di grande frustrazione, paura e spesso «colpevolizzazione» rispetto alla situazione vissuta dal figlio/a. La parola «serenità» riecheggia nella narrazione degli intervistati.

Allora diciamo che pian piano stiamo ricreando un po’ di serenità, perché ultimamente quando X era a casa c’erano tante discussioni con X che cercava proprio lo scontro nel confronto con noi e i fratelli.

Indubbiamente è cambiato qualcosa perché ci manca, andiamo a mangiare fuori e si sente che manca, c’è il buco anche nella vita quotidiana. Rispetto a quando eravamo in ospedale, è cambiato che abbiamo ripreso una vita abbastanza normale. Io avevo perso il lavoro per cui sono potuta andare alla ricerca di lavoro perché appunto è in comunità. Un po’ di preoccupazione c’è sempre però, c’è un po’ di serenità in più, sapendo che è in un posto sicuro e giusto.

Prima di entrarci, gli adolescenti non avevano un’idea ben chiara di cosa fosse una comunità, raccontando di un immaginario esclusivamente negativo, legato agli stereotipi sulle persone affette da disturbi mentali: «un manicomio», «un posto per matti». Tale visione appare cambiata a seguito dell’inserimento e dell’esperienza vissuta.

No, avevo tanti pregiudizi, in realtà pensavo fosse un posto per matti e per persone diverse da me. E invece arrivando qua ho scoperto che sono persone molto a simili a me.

Allora io non avevo idea che fosse un contesto così familiare, pensavo, anche dai film o da storie che non raccontano neanche la realtà dei fatti o comunque esperienze personali che estremizzano, pensavo fosse un luogo molto più rigido in cui avrei fatto fatica a integrarmi. Invece non è stato così, sì è stato difficile cambiare completamente routine da un giorno all’altro, però con l’aiuto dei ragazzi e degli operatori mi sono integrata praticamente subito e quindi non ho risentito tanto dello scambio casa-comunità.

Gli intervistati ritengono di essere in comunità per ragioni correlabili alle personali condizioni di salute e a difficoltà familiari e descrivono la propria situazione e il proprio malessere con alta consapevolezza, anche rispetto a cosa non funzionasse nel contesto d’origine; alcuni di loro parlano dell’ingresso in comunità come un intervento fortemente voluto e richiesto.

Partendo dal fatto che ho scelto io di venire in comunità, perché da quando avevo 12 anni a questa parte ho sviluppato un po’ di difficoltà legate al contesto familiare e a fenomeni esterni che mi hanno condizionato negativamente. La situazione era insostenibile, continuavo a farmi male, a fare accessi al pronto soccorso dove mi facevano flebo di En, non ero tranquilla a casa anche per i disturbi alimentari perché avevo momenti altalenanti in cui tipo mangiavo e vomitavo, digiunavo e mi abbuffavo, e la mia permanenza a casa era diventata tanto difficile.

Quello che mi hanno detto i clinici è che avevo una situazione familiare molto difficile e quindi se non avessi avuto questa difficoltà familiare, sarei potuta anche andare avanti con i miei problemi, ma comunque sarei potuta andare avanti. Invece così da sola non ce l’ho fatta, riuscivo a fare affidamento solo sull’autolesionismo, sul pensare al suicidio e a queste cose per sentirmi anche viva e sentirmi meglio.

Vivere in una comunità: l’importanza di sviluppare circuiti relazionali

La comunità si caratterizza per essere un contesto ad alto impatto relazionale: l’obiettivo terapeutico si raggiunge primariamente attraverso le relazioni che si instaurano tra residenti, professionisti, familiari. Queste relazioni spesso hanno il potere di influenzarsi reciprocamente, favorendo o meno un clima di cambiamento positivo. Il rapporto tra gli adolescenti e i genitori viene descritto in modi molto diversi da quando non vivono più insieme: il vissuto complessivo è di miglioramento, con una percezione di cambiamento anche da parte dell’adulto, e una volontà di mettersi in gioco da entrambe le parti.

Il rapporto con la mamma è sempre stato molto bello, ma da quando sono entrata, essendo che lei ha delle difficoltà simili alle mie, si è messa in gioco, pure lei ha fatto psicoterapia, anche con supporto farmacologico, quindi da quando sono entrata non ha fatto altro che migliorare, con lei mi trovo molto bene. Con il papà invece non ho un bel rapporto perché non è molto presente, viene e se ne va, sparisce dal nulla e poi ritorna.

Mia mamma finalmente riesci a capirmi, da quando sono qua, è molto più comprensiva e riusciamo a parlare veramente. Con mio padre c’era un rapporto molto strano perché essendo che ho avuto una storia, un passato molto brutto con lui, adesso sto cercando un po’ di mettere insieme i pezzi per cercare di costruire un buon rapporto.

Di fondamentale importanza risultano essere le relazioni tra pari: l’amicizia diviene quasi una componente salvifica all’interno del vissuto di malattia. La possibilità di sentirsi accettati anche a fronte della malattia senza venire giudicati, il fatto di vivere con persone che sperimentano simili condizioni di salute e situazioni di disagio familiare, consente loro di normalizzare la propria condizione e non percepirsi come «sbagliati, matti, malati». Per quanto riguarda invece la visione del rapporto con gli operatori, emerge la difficoltà nel creare una relazione di fiducia immediata, riscontrando poi alcune incompatibilità caratteriali che si riescono però a superare riconoscendo l’importanza che tutti i professionisti hanno nel percorso di cambiamento.

Io lo reputo molto bello perché, logico con chi più e con altri meno, ma in linea di massima bene perché mi sento come se fossi libera di mostrare tutti i lati più buffi di me, quelli più addolorati perché so che possono capirmi provando loro stessi in primis un forte dolore.

Con certi operatori mi sono trovata meglio, con altri un po’ meno ma in linea di massima sono tutti molto disponibili e soprattutto con certi, per esempio la mia tutor ho creato un rapporto molto stretto, molto caloroso e ha rappresentato davvero un punto di riferimento per me, quando non potevo sentire spesso la mia mamma.

L’analisi delle narrazioni ha permesso di identificare alcuni punti di forza della vita residenziale e alcune criticità. Il tema della «comprensione» da parte del gruppo è dirimente ed evidenzia come nel contesto esterno la patologia non fosse riconosciuta o, diventasse un elemento stigmatizzante. Il senso di comunità rappresenta uno degli elementi di terapeuticità, perché vivere a stretto contatto con persone dalle problematiche simili contribuisce al miglioramento del benessere. Inoltre, il rapporto quotidiano con gli operatori è cruciale, poiché essi fungono da punti di riferimento indispensabili per il supporto emotivo e lo sviluppo personale dei giovani. Tale interazione favorisce la creazione di un ambiente sicuro e affidabile, essenziale per promuovere la crescita e il benessere complessivo dei residenti.

Mi piace […] è un contesto molto familiare e di conseguenza ti senti parte di qualcosa, non senti che il rapporto con gli operatori vada così perché professionalmente deve andare in quel modo, ma perché gliene frega veramente qualcosa di te e nell’aiutarti. Senti che, con qualcuno più qualcuno meno, senti che a loro interessa il tuo bene e hanno piacere nell’aiutarti, fare due parole e scambiare delle idee. Poi mi piace che interagisci con ragazzi che hanno le tue stesse problematiche, o comunque che riescono in parte a capirti nonostante il dolore sia soggettivo, e questo ti fa sentire un po’ meno solo in un contesto del genere, perché siamo tutti lontani dalla nostra famiglia. Possono anche a lungo termine diventare un grande punto di riferimento, com’è successo anche a me.

Il gruppo, l’amicizia e la sincerità, perché sono quelle con la quale mi sento adesso, cioè in gruppo ci sono adesso ma prima non ci stavo, sincerità perché per stare in gruppo bisogna essere sinceri e amicizia perché crea lavoro, gruppo.

Quello che mi piace della comunità è che ci sono terapeuti che ti ascoltano e ti aiutano parecchio, è vero che devi lavorarci anche tu però loro ti danno una mano anche nel futuro, robe così, con i tuoi genitori. Poi mi piace che i ragazzi ti aiutano appena arrivi, ti sopportano, non ti fanno sentire a disagio. E poi i gruppi terapeutici sono molto divertenti.

Per quanto riguarda invece gli aspetti della comunità meno apprezzati vi sono principalmente le regole, l’uso limitato del telefono e le mansioni che tutti i residenti devono svolgere (cucinare; preparare e sparecchiare la tavola; pulire le proprie camere e gli spazi comuni).

Il futuro esiste: tra autonomia e immaginazione

L’obiettivo dei percorsi di cura e sostegno è quello di avviare un processo di cambiamento che permetta all’adolescente di vivere al di fuori della comunità, sviluppando un’autonomia in linea con le proprie caratteristiche e sperimentando relazioni positive all’interno del contesto sociale. Gli adolescenti immaginano che una volta terminato il percorso residenziale, saranno in grado di avere: una maggiore autonomia nella gestione della malattia, individuando alternative che a casa non erano riusciti a riscontrare; una maggiore capacità di risolvere i problemi; dedicare il proprio tempo a qualcosa che li faccia star bene; maggiore comunicazione quando c’è qualcosa che li fa stare male; una routine quotidiana e una migliore capacità organizzativa; una più alta competenza nel prendersi cura di sé e del proprio ambiente di vita, anche in termini concreti (pulire, cucinare, lavare).

Una delle mie problematiche più grandi era quella di comunicare, cosa che ho imparato a fare in comunità, di conseguenza, penso che uno dei miei punti di forza ora sia il fatto che, quando sto male riesco a dire «ok c’è qualcosa che non va» e riesco a chiedere aiuto. Poi anche l’investire sulle mie qualità, perché ne ho. […] Una routine più, non autoritaria, ma schematizzata per organizzarmi meglio le giornate e non ritrovarmi nel contesto confusionario in cui vivevo prima.

Io ogni giorno penso ai cambiamenti di una volta rispetto ad oggi, per esempio io magari non mi lavavo proprio, non avevo voglia e roba così, adesso invece almeno una doccia me la faccio. Poi anche riesco a parlare con calma, tranquillamente mentre un tempo vi avrei urlato dietro.

In una prospettiva di futuro più a lungo termine, è stato chiesto ai ragazzi come si immaginano nella vita adulta. Le risposte sono tra le più disparate, si passa dal voler fare l’attrice, la scenografa, la fioraia o l’artista. Colpisce sicuramente il fatto che, nonostante le difficoltà in cui si trovano, vedono sé stessi in modo molto preciso nel futuro, riuscendo a immaginarsi concretamente con traiettorie che prevedono l’inserimento lavorativo e la costruzione di relazione affettive.

Allora se dovessi vedermi in un contesto futuro io spero, ma un po’ ne sono convinta, di vedermi all’università, con una casetta, la patente per portare in giro mia nonna e mia mamma ovunque, con un bel lavoretto, avendo sconfitto un po’ questa cosa dell’ansia sociale, quindi con amici, così.

Magari con una famiglia, un lavoro. Intanto inizierei a fare il muratore come primo lavoro. Poi magari man mano vado avanti, mi pago anche gli studi e tutto, mi prendo un diploma per avere un lavoro un po’ più sostanzioso.

I genitori invece auspicano ai propri figli di uscire da questo momento di difficoltà imparando a riconoscere e chiedere aiuto anche dopo la comunità, affrontando le difficoltà che incontreranno, sperimentando una vita positiva.

Penso che riuscirà a venirne fuori anche rafforzata. Penso che però questo sarà il suo punto debole, che se lo porta per tutta la vita, per cui dovrà imparare a riconoscere quando chiedere aiuto prima che succeda qualcosa. Quello che spero, insomma, è che capisca come funziona e capisca come fare per star meglio e poi, una volta che ha capito come funziona, le servirà per affrontare anche le altre difficoltà che sicuramente ci saranno nella vita.

Non lo so, io ogni tanto fantastico e me lo immagino con una famiglia, quindi capaci di costruire e dare l’amore che non ha ricevuto.

E vorrei vederla serena e vorrei rivederla sorridere. Ecco, quello sì, sorridere.

Discussione

La maggior parte degli adolescenti intervistati proviene da contesti familiari problematici, caratterizzati da conflitti, separazioni e dalla presenza di disturbi mentali parte dei genitori. La diagnosi costituisce un punto di svolta cruciale che permette il riconoscimento del disturbo e l’avvio di interventi terapeutici mirati, che risultano particolarmente efficaci se messi in atto precocemente quando la neuroplasticità è ancora elevata. I genitori descrivono il processo diagnostico come lungo e complesso, spesso antecedente di molti anni rispetto alla manifestazione del malessere, già osservabile durante la scuola primaria, faticando a riconoscere nelle dinamiche familiari degli elementi di rischio per i figli. I ragazzi, dal canto loro, riportano esperienze di isolamento, solitudine e difficoltà di integrazione, vedendo invece nella relazione con i genitori elementi di importante difficoltà. L’ingresso in comunità è percepito da entrambe le parti come un momento di cambiamento trasformativo. Per i genitori, rappresenta una fonte di sollievo e l’inizio di un ritrovato equilibrio familiare; i minori, invece, trovano nella comunità un ambiente sicuro e di supporto, che facilita l’avvio di un percorso di maggiore consapevolezza di sé e della malattia. La vita in comunità è caratterizzata da un forte impatto relazionale: fondamentali risultano le interazioni tra pari in cui emerge l’importanza dell’accettazione reciproca e del «sentirsi compresi», cosa che invece non avveniva al di fuori dell’ambiente protetto, ancora altamente stigmatizzante. Anche le relazioni con i professionisti, che diventano adulti di riferimento per quello specifico periodo, appaiono generative e utili per sviluppare nuove competenze sociali e personali. Vivere in comunità è comunque complesso, a fronte della presenza di regole stringenti e della consapevolezza che rappresenti solo una parte del percorso verso la guarigione. Interessante è lo sguardo al futuro degli adolescenti: immaginano di poter raggiungere una maggiore autonomia nella gestione della loro condizione, di migliorare la loro capacità di risolvere problemi e aspirano a una vita autonoma in cui possano applicare le competenze acquisite, come la gestione delle emozioni e l’organizzazione della quotidianità. I genitori, dal loro canto, auspicano che i loro figli possano uscire da questo periodo di difficoltà con una maggiore capacità di chiedere aiuto e affrontare le sfide in modo positivo. Complessivamente, è pertanto possibile affermare che l’esperienza residenziale venga percepita come funzionale dai soggetti coinvolti, in termini di miglioramento della capacità di relazionarsi con gli altri, della qualità della vita in generale e di una maggiore stabilità e consapevolezza rispetto alla patologia.

Conclusioni

La comprensione e la valutazione degli esiti associati alla residenzialità per bambini e adolescenti è complessa per diverse ragioni. In primo luogo, il trattamento residenziale rappresenta il costo più elevato tra i servizi offerti in questa fascia di età, con significative variazioni tra le differenti strutture. Inoltre, in termini di politiche pubbliche, sussiste una controversia sul valore comparativo del trattamento residenziale rispetto alle alternative basate sulla domiciliarità (Castelli et al., 2016). Alcuni studi hanno però individuato fattori protettivi e predittivi di successo dei percorsi terapeutici residenziali, come la stabilità e i legami affettivi solidi, il supporto di figure professionali qualificate, la rielaborazione dei vissuti passati, l’acquisizione di abilità per la gestione autonoma della quotidianità e la pianificazione graduale dell’uscita dalla comunità (Smith, 2009; Greger et al., 2016). Tuttavia, nonostante i benefici rilevati, persistono alcune criticità. La durata della permanenza in comunità varia significativamente per ogni soggetto e, in alcuni casi, non sembra essere sufficiente per garantire un cambiamento stabile e duraturo. È invece fondamentale pensare al futuro dei giovani sviluppando progetti integrati che sostengano la transizione verso l’autonomia, garantendo un continuum tra l’esperienza residenziale e l’esterno (Pandolfi et al., 2020).

D’altra parte, è doveroso sottolineare come la voce dei ragazzi e delle loro famiglie, abbia permesso di comprendere l’importanza di sperimentare un percorso all’interno di un contesto che punta alla relazionalità oltre che alla componente terapeutica, dove i legami che si instaurano con i pari e i professionisti, diventano agenti trasformativi (Folgheraiter, 2011). Le relazioni instaurate tra adolescenti si distinguono per il loro potenziale, poiché favoriscono l’emergere di un clima di mutuo supporto, in cui i giovani non si sentono definiti dalla loro condizione patologica, ma valorizzati per le loro risorse personali. Questi legami non solo normalizzano il vissuto della malattia, ma permettono ai ragazzi di sperimentare modalità relazionali positive che contribuiscono al loro sviluppo psicosociale. Il ruolo dei professionisti si colloca anche nel mediare e facilitare queste relazioni, oltre che nel creare un ambiente sicuro in cui i giovani possano sviluppare nuove competenze interpersonali: gli operatori non si limitano quindi a svolgere un ruolo educativo e terapeutico, ma diventano figure di riferimento che modellano comportamenti relazionali sani, costruendo ponti tra il contesto protetto della comunità e le sfide del mondo esterno. Inoltre, la comunità permette di lavorare sulle relazioni familiari con una doppia prospettiva: da un lato, offre agli adolescenti un’occasione per riconoscere e rielaborare le difficoltà vissute con la propria famiglia; dall’altro, supporta i genitori nell’acquisizione di strumenti che possano aiutarli a rispondere ai bisogni emotivi e relazionali dei figli, in primis fra tutti l’accettazione della patologia. Questo intervento integrato contribuisce alla costruzione di relazioni genitore-figlio più funzionali, che rappresentano un elemento centrale per la stabilità e il benessere complessivo del giovane una volta concluso il percorso residenziale.

Concludendo, sarebbe opportuno promuovere una diversa visione dei percorsi residenziali poiché spesso sono percepiti socialmente come misura di ultima istanza per quelle situazioni emergenziali che non trovano risposta all’interno del proprio ambiente di vita. Questa narrativa riproduce una stigmatizzazione del disturbo mentale e della residenzialità e spesso trova conferma anche nell’operato dei servizi, che tendono a promuovere inizialmente interventi domiciliari, nell’ottica che i minori possano beneficiare di una stabilità affettiva e relazionale maggiore. Tuttavia, l’inserimento residenziale dovrebbe essere pensato e attuato anche come intervento primario, a fronte delle specifiche caratteristiche della storia di vita della persona: il contesto relazionale protetto permette di promuovere il senso di appartenenza e la valorizzazione dei legami, costituendo nuove reti e competenze sociali che potranno essere utili al soggetto anche quando rientrerà a domicilio.

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  1. 1 Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali.

  2. 2 Assistente sociale Specialista.

  3. 3 Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Scienze Politiche, Giuridiche e Studi Internazionali.

  4. 4 Assistente sociale Specialista.

  5. 5 Sebbene il lavoro sia frutto di un confronto reciproco tra le autrici, ad Anna Dal Ben si attribuisce la definizione della metodologia, degli strumenti del progetto di ricerca e la stesura del presente articolo e a Maria Barba la raccolta e analisi dei dati.

  6. 6 Per ragioni di spazio editoriale, il presente contributo si concentra su una selezione dei risultati emersi dallo studio, privilegiando quelli maggiormente rilevanti (nello specifico non verranno presentati i dati sugli aspetti emotivi). Il progetto di ricerca complessivo ha coinvolto anche i professionisti operanti nella struttura. Tali contenuti saranno oggetti di ulteriori trattazioni.

Vol. 1, Issue 2, October 2024

 

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