Vol. 1, n. 1, luglio 2024

La relazione con l’Altro sofferente

Analisi degli atteggiamenti degli operatori sociali riguardo al Rispetto per le persone anziane1

Fabio Folgheraiter2 e Maria Luisa Raineri3

Sommario

L’invecchiamento della popolazione, le crescenti necessità assistenziali degli anziani, le carenze nelle politiche sociali italiane a riguardo e, da ultimo, le difficoltà legate alla pandemia hanno evidenziato la discrasia tra le dichiarazioni sul rispetto della dignità delle persone anziane, soprattutto se in condizioni di fragilità, e l’ageism dilagante, che si manifesta a livello strutturale, culturale e anche negli atteggiamenti individuali di molti operatori socio-sanitari.

Il contributo si colloca in questa cornice e mette a fuoco tre differenti posture, o modi di sentire il dovuto rispetto per la sofferenza esistenziale, che possono connotare la relazione tra operatori socio-sanitari e persone anziane: (a) il sentimento efficientista (di stampo neo-liberista) secondo cui rispetto e ammirazione «scattano» principalmente verso chi riesce a invecchiare attivamente, «mantenendosi giovane» nonostante l’età; (b) il sentimento «della presa in carico» (di stampo welfarista) per il quale l’anziano è sentito degno di rispetto per obbligo deontologico, nonostante sia così malato o deteriorato da essere socialmente un «peso»; (c) il sentimento di reciprocità matura (di stampo relazionale), secondo cui proprio la condizione di sofferenza rende l’anziano fragile degno di essere onorato dai professionisti dell’umano, che lo accostano in spirito di apprendimento sapienziale. Da queste tre posture emergono differenti relazioni di cura, di cui si propone un’analisi secondo il paradigma relazionale.

La base empirica del saggio è costituita da una analisi secondaria di dati qualitativi raccolti tramite 44 interviste semi-strutturate realizzate durante il periodo pandemico (agosto-ottobre 2020) all’interno di sette RSA dell’Emilia-Romagna con i coordinatori di struttura, gli operatori, i familiari, gli anziani ospiti.

Parole chiave

Anziani, rispetto, relazione di cura, reciprocità, lavoro sociale.

The relationship with the Suffering Other

Analysis of social workers’ attitudes towards respect for older people4

Fabio Folgheraiter5 and Maria Luisa Raineri6

Abstract

The ageing of the population, the growing need for care among the elderly, the shortcomings of Italian social policies in this respect and, more recently, the difficulties posed by the pandemic, have highlighted the discrepancy between claims to respect the dignity of older people, especially those in a frail state, and the rampant ageism that manifests itself at a structural and cultural level, and even in the individual attitudes of many social and health workers.

Within this framework, the paper focuses on three different ways in which social and health workers feel respect for the existential suffering of the elderly: (a) the efficiencyist (neoliberal) sentiment, according to which respect and admiration are «triggered» primarily towards those who are actively ageing, who «keep themselves young» despite their age; (b) the «caring» (welfarist) sentiment, according to which the elderly person is felt to be worthy of respect because of a deontological obligation, despite being so ill or so debilitated as to be a social «burden»; (c) the sense of a mature reciprocity (relational), according to which the very condition of suffering makes the frail elderly person worthy of being honoured by human professionals who approach him or her in a spirit of sapiential learning. Different care relationships emerge from these three attitudes, the analysis of which is proposed according to the relational paradigm.

A secondary analysis of qualitative data collected through 44 semi-structured interviews with services’ managers, care workers, family members and elderly in seven Residential Care Homes during the pandemic period (August-October 2020) constitutes the empirical basis of the paper.

Keywords

Elders, respect, caring relationship, reciprocity, social work.

Introduzione

Il principio del rispetto della persona, a maggior ragione in condizioni di fragilità, è un cardine storico dei codici deontologici delle professioni di aiuto.7 Analogo principio è richiamato in vari modi nella normativa e nei documenti di indirizzo delle politiche sociali, a partire dall’art. 3 della Costituzione.

Tuttavia, come spesso avviene per le dichiarazioni di principio, mentre è facile essere d’accordo in teoria, è difficile mantenersi davvero coerenti quando la questione investe la nostra quotidianità e tocca gli equilibri degli interessi in gioco. E quanto più il principio in questione è considerato come incontrovertibile, tanto più gli aggiustamenti e le deformazioni che inevitabilmente lo piegano per adattarlo a esigenze altre restano sottotraccia. Soprattutto per gli addetti ai lavori, che siano policy makers, dirigenti di servizi o operatori impegnati sul campo, riconoscersi come «poco rispettosi» può essere imbarazzante ed essere avvertito come destabilizzante della propria identità pubblica o professionale. Per questo, nel mondo dei servizi alla persona, le dinamiche di pregiudizio e discriminazione sono spesso sottili e inconsapevoli, ma non per questo meno potenti nei loro effetti (Strier and Binyamin, 2014).

L’ageism (Butler, 1969; WHO 2021) ne è un esempio significativo. L’invecchiamento della popolazione e le crescenti necessità assistenziali e sanitarie degli anziani costringono a trovare strategie urgenti per concretizzare quel declamato rispetto su cui sembrerebbero tutti d’accordo. Tuttavia, l’Organizzazione Mondiale della Sanità segnala con preoccupazione che:

Ageism against older people is pervasive globally. It manifests itself in all key institutions in society. For example, in health and social care, where health care is sometimes rationed based on age; in the workplace during recruitment, employment and processes of retirement and dismissal; and in the media, where older people are often underrepresented. Globally, at least one in two people hold ageist attitudes towards older adults. Across the countries in the European Social Survey, one in three older people has experienced ageism. Thus, ageism affects billions of people globally (WHO, 2021, p. 37).

In questa cornice di ageismo tanto diffuso quanto poco tematizzato, questo contributo intende contribuire alla riflessione concentrandosi soprattutto sul livello di campo del social work, e in particolare sul tema del rispetto della persona nella relazione tra caregiver professionali e persone anziane sofferenti. La tesi che discuteremo è che alcuni modi di concepire il rispetto per la persona anziana, che pure non sembrano in contraddizione con i principi etici del lavoro sociale, presentano dei lati d’ombra che — se non considerati con consapevolezza e senso critico — impediscono di sviluppare una relazione di cura denotata da un rispetto profondo, un rispetto che non venga meno anche quando l’aggravarsi del declino sembrerebbe trasformare la persona in un mero corpo da accudire.

Tre differenti posture riguardo al rispetto

Dai nostri costanti contatti con gli operatori sociali e con le organizzazioni in cui lavorano, abbiamo maturato l’impressione che nel mondo dei servizi alla persona sia possibile percepire, sotto le parole, tre differenti sentimenti, cioè tre modi o tre presupposti, di «sentire» la vecchiaia e le cure.

È importante premettere che tutti e tre questi modi di sentire sono, nelle intenzioni, orientati a contrasto dell’ageismo e propongono infatti delle basi a cui ancorare il rispetto per la terza età. Ciascun orientamento ha — come vedremo — una sua plausibile sensatezza e quindi non possiamo considerarlo esclusivamente «giusto» o «sbagliato». Tuttavia

c’è rispetto e rispetto. C’è un rispetto di superfice, che luccica al di fuori. E c’è un rispetto profondo, radicale. Rispettare e rispettare — potremmo dire parafrasando Kierkegaard — non sono la stessa cosa. Le due istanze, foneticamente identiche, in pratica possono bisticciare tra loro sul piano semantico/emozionale: quando, ad esempio, un benefattore accosta con superiorità un povero per fargli «la carità» in superfice comunica rispetto, mentre in fondo… non tanto (Folgheraiter, 2022; corsivi dell’autore).

Come tutte le nostre convinzioni e i nostri modi di sentire, anche i modi di intendere il rispetto hanno delle radici fondamentalmente culturali che si intrecciano poi, nell’esperienza di ciascuno, con le dinamiche psichiche individuali. Di conseguenza non deve stupire — e gli operatori non dovrebbero sentirsi in colpa per questo — che siano delle posture prevalentemente implicite e inconsapevoli, per lo meno fintantoché non venga esercitato riguardo a esse un coraggioso esercizio di riflessività. La cultura della società in cui siamo immersi influenza i nostri modi di essere come la corrente di un fiume in cui stiamo nuotando ci porta verso valle: senza uno sforzo consapevole per contrastare la corrente, non riusciremo a evitare di farci trascinare, anche se superficialmente ci sembra di essere impegnati a dirigere il nostro procedere (Thompson, 2021).

Entro una prima concezione, che indicheremo come «efficientista», i professionisti assumono una posizione di contrasto all’ageismo seguendo questa idea:

Noi operatori non siamo d’accordo nel dire che gli anziani siano umanamente degli scarti perché, anche se nel nostro lavoro vediamo soprattutto anziani in condizioni molto compromesse, è pur vero che c’è anche un numero crescente di persone anziane in salute, che sono attive, impegnate, si informano, viaggiano, sono indispensabili nella cura dei nipotini, fanno volontariato. Vivono ancora molto bene e dispongono di valide risorse (umane e materiali/economiche) come e più dei giovani.

Un secondo modo di sentire degli operatori difende gli anziani, e li rispetta, sulla base di un’idea di maggior respiro, che tiene assieme deontologia professionale e riconoscimento giuridico dei diritti della persona. La etichetteremo come diritto alla «presa in carico» e si può esprimere così:

Tutti gli anziani sono esseri umani a pieno titolo, e vanno trattati come tali, anche quelli così malati o così gravemente deteriorati da essere oggettivamente un peso: un peso che, comunque, è pur sempre un essere umano e quindi ha diritto di essere preso in carico.

Un terzo tipo di rispetto, che chiameremo «orientato alla reciprocità», emerge da una sensibilità raramente concettualizzata nei discorsi degli operatori e non facile da esplicitare a parole, e tuttavia rintracciabile a livello di atteggiamento profondo, di disposizione emotiva verso l’Altro sofferente. È una sorta di «coloritura» nel modo di rapportarsi e nel rappresentare il proprio «utente» e la relazione con lui (o lei). Volendo metterla in parole, la si potrebbe sintetizzare nel ragionamento seguente:

Proprio in quanto tu, utente anziano, sei debilitato e confuso, tanto più è evidente che sei umano. Proprio in quanto tu sei ora fragile e sofferente, tu appari, alla mia sensibilità di operatore, qualche grado più avanti di me, esistenzialmente parlando. Il tuo modo di vivere la sofferenza, quale che sia, è un prezioso insegnamento grazie al quale posso migliorarmi nella mia umanità.

Per avviare una ricognizione preliminare riguardo alla base empirica di queste tre «posture», è stata condotta un’analisi secondaria dei dati qualitativi raccolti per un’altra finalità (analizzare l’esperienza della pandemia all’interno delle Residenze Sanitarie Assistenziali) tramite 44 interviste semi-strutturate realizzate tra agosto e ottobre 2020, all’interno di sette strutture residenziali per anziani dell’Emilia-Romagna con i coordinatori di struttura, gli operatori, i familiari, gli anziani ospiti (Corradini, 2021; si rinvia a tale pubblicazione per i dettagli sul contesto, sugli intervistati e sulle modalità di rilevazione). Benché ci interessi, qui, indagare soprattutto gli atteggiamenti degli operatori, abbiamo scelto di analizzare tutte le interviste, anche quelle con i familiari e con gli stessi anziani, sulla base dell’idea che gli atteggiamenti dei primi non sono indipendenti da quelli dei loro interlocutori: li influenzano e ne sono largamente influenzati.

I risultati di tale analisi sono stati messi in dialogo con una (prima) esplorazione delle implicazioni teorico-analitiche che ci è sembrato possibile trarre dalle idee alla base dei tre diversi modi di sentire il rispetto, esaminandoli attraverso l’analisi relazionale (Donati, 2013) e alla luce dell’etica professionale. I prossimi paragrafi daranno conto dell’analisi dei dati e degli esiti di queste due linee di approfondimento.

Il sentimento efficientista (di orientamento neo-liberista)

Com’è noto, le discriminazioni si nutrono di stereotipi negativi, basati su pregiudizi che fanno di ogni erba un fascio. L’ageismo non fa eccezione e quindi, nel delineare il fenomeno per contrastarlo, è importante focalizzare i cliché culturalmente radicati che rappresentano gli anziani come inevitabilmente deboli, malati, poco lucidi, ingenui o capricciosi (come i bambini), soli, poveri. In una parola: di poco valore. Questi stereotipi negativi influenzano i comportamenti individuali e le scelte collettive, che si traducono in condizioni strutturali di svantaggio, di trattamento iniquo o perfino oppressivo. Al contempo, comportamenti individuali e svantaggi strutturali confermano e rafforzano gli stereotipi, in un circuito negativo difficile da disinnescare (Thompson, 2021). Da questo punto di vista, tenere in primo piano una diversa rappresentazione degli anziani, corroborata con dati sulle sempre maggiori potenzialità di «invecchiamento attivo» (Bramanti, Meda e Rossi, 2016; Boccacin e Bramanti, 2014), è utile per smontare i pregiudizi. In effetti, è indubbio che tanti anziani mantengono a lungo — vuoi per fortuna genetica, vuoi per merito, vuoi grazie al Welfare — una certa vitalità tipica dei giovani, con tutto quel che di «desiderabile» oggettivamente ne consegue.

D’altra parte, come tutti i pregiudizi, anche quelli legati all’ageismo hanno una qualche base nell’osservazione empirica: i progressi sanitari e assistenziali che aiutano molti anziani a «mantenersi giovani» contribuiscono anche a prolungare la vita in mesi o anni segnati dal progressivo decadimento, dalla non autosufficienza, dalla sofferenza (Filippi, 2020; Fosti et al., 2024). Come ben sanno, ovviamente, gli operatori, gli anziani «non più attivi» sono molti: tutti i loro utenti, chi più chi meno, appartengono più a tale categoria.

Dunque, se da un lato ricordare che non tutti i vecchi sono un peso può servire a ridimensionare gli stereotipi, dall’altro bisogna chiedersi: è questa una argomentazione adeguata su cui fondare il rispetto verso le persone anziane? Prima di discuterne, vediamo qualche esempio.

Qualche esempio: ti/mi rispetto perché sei/sono ancora in gamba, nonostante l’età

Gli anziani valgono perché se sono (ancora) autonomi

Anche nelle interviste che abbiamo analizzato sono rintracciabili molti riferimenti all’autonomia come valore prioritario. L’idea sottesa sta nel pensiero che si è apprezzabili e degni di rispetto soprattutto perché si è ancora «in gamba», nonostante l’età. Sono prima di tutto gli stessi anziani a parlare in questo senso, collegando la soddisfazione riguardo alla propria vita al sapersela ancora cavare da soli. Ad esempio, questa signora ha spiegato, con un sorriso, che preferirebbe morire velocemente, piuttosto che restare costretta a letto:

Sono abbastanza contenta, per avere cento anni… e… mi faccio tutto da sola: mi lavo, mi metto il pannolone, mi faccio il mio letto… Mi dice [l’operatrice]: te lo facciamo noi! No, lo faccio io! E così, insomma… mi faccio tutto da sola. Comunque, dico sempre: arrivata a questo punto, mai stata a letto un giorno, perciò io sono contenta! Perché la mia paura è sempre di andare a finire in un letto, quello lì per me è tremendo. Dico sempre: un bel colpino… Gesù mi ha accontentato con tante cose… speriamo che m’accontenti anche con questa! (Anziana A., 100 anni)

Un’altra intervistata, pur apparentemente presente a se stessa, sembrava percepire il presentarsi come una persona autonoma così importante per la sua identità, da volerlo ribadire all’intervistatore nonostante non gli fosse stato chiesto esplicitamente e non corrispondesse alle sue effettive condizioni:

Quando vado a letto faccio i miei lavori che ho da fare, mi arrangio io, ecco… mi vesto… in maniera che… faccio meglio… [Nota dell’intervistatore: entra un’operatrice e, in un breve scambio, mi dice senza farsi sentire che la signora viene aiutata per tutto] (Anziana B., 87 anni)

Un altro segnale di quanto valore venga attribuito all’autonomia è la riluttanza di alcuni nel farsi accudire («mia mamma è sempre stata un po’… come dire… ritrosa nel far sì che altri si occupassero di lei», figlio F, 60 anni) e la volontà degli anziani ricoverati in struttura di essere d’aiuto, nonostante i limiti legati alla propria condizione. Anche l’operatrice socio-sanitaria si ritrova in questa prospettiva e la apprezza:

C’è l’ospite che dopo pranzo ci spazza per terra, chi può ci aiuta volentieri… anche perché ci sono queste anziane che hanno lavorato per tutta la vita, magari in campagna… quindi fa loro piacere intervenire anche nel nostro lavoro e aiutarci… è difficile servirle, ecco, vogliono sempre aiutare, e va benissimo. (Operatrice socio-sanitaria E., 40 anni, 8 anni di servizio)

Non tutti gli anziani sono fragili, o così fragili come si potrebbe pensare

In linea con tale apprezzamento, perfino in un ambiente come le Residenze Sanitarie Assistenziali, in cui di ospiti «giovanili» ovviamente se ne vedono ben pochi, abbiamo rilevato tracce dell’idea per cui gli anziani sono tanto più degni di ammirazione quanto più riescono a resistere al decadimento senile. Ad esempio:

Alla fine, le persone anziane sono sì fragili, ma ci sono anche quelle che sembrava che morissero [per il Covid], e adesso… potano gli ulivi nel giardino. È capitato anche che una mia operatrice ha preso il Covid, e l’ha preso anche la sua mamma: alla mamma è passato in pochissimo tempo, mentre l’operatrice poveretta ci ha messo due mesi e passa per superarlo… (Responsabile attività assistenziali G., 58 anni, 30 anni di servizio)

C’è anche un famigliare che sembra radicalmente allineato con il sentimento efficientista. Un passaggio dell’intervista a questa persona è un esempio interessante di quale possa essere il lato in ombra della valorizzazione dell’autonomia: quando l’autonomia non c’è più, l’unica utilità che possono avere i vecchi consiste nell’essere dei «consumatori di assistenza» e, quindi, una fonte di reddito per gli operatori stipendiati per assisterli.

Ma le persone anziane sono [effettivamente] un peso per la società… È così: non producono, hanno dei costi… i miei figli mi dicono: quando io avrò la tua età, non avrò mica la tua pensione… capisce? Si comincia da lì… È vero che finché sei in salute forse puoi aiutare il nipotino… qualcuno va davanti alla scuola a fermare le macchine così i bimbi attraversano, non so… fanno i volontari, ma non lo fanno tutti: quando sei messo come mia mamma, che sei alla casa di riposo… Però: attenzione! Se non ci fossero le case riposo, le persone che lavorano lì cosa andrebbero a fare? (Figlio D., 69 anni)

Spunti di analisi relazionale

Il valore dell’autonomia e della salute è tanto radicato e diffuso, per lo meno nel contesto della cultura occidentale, che lo troviamo richiamato dovunque, dalle espressioni di senso comune («la salute prima di tutto!»), ai codici deontologici — ad esempio:

L’assistente sociale […] impegna la propria competenza per promuovere […] l’autonomia della persona;8 […] ne valorizza autonomia, soggettività e capacità di assunzione di responsabilità.9

fino ai principi generali della Legge quadro sull’assistenza:

La Repubblica […] previene, elimina o riduce le condizioni di disabilità, di bisogno e di disagio individuale e familiare, derivanti da inadeguatezza di reddito, difficoltà sociali e condizioni di non autonomia.10

L’atteggiamento per cui gli anziani vanno rispettati in quanto non tutti sono meno vitali dei giovani lo ritroviamo a fondamento dell’etica liberista, secondo la quale il valore civico primario è, appunto, il possesso di un’adeguata qualità/vitalità per produrre, divertirsi e consumare. Il bene massimo della persona sta nell’essere autonoma, cioè nell’essere capace di provvedere a se stessa e nell’avere uno stato di salute che le consenta di riuscirci. Specularmente, la condizione di non autosufficienza va prevenuta e, se possibile, risolta.

Il presupposto statistico («tanti anziani oggi sono ancora agili, sani e intraprendenti») ci chiede di abbandonare l’irragionevole pregiudizio anagrafico («tutte le persone, superati i settant’anni, diventano un peso») per sostituirlo con un criterio più inclusivo («tutti gli anziani, fossero anche centenari, sono da ritenersi una risorsa finché stanno bene e sono lucidi»). In virtù di tali considerazioni, il motivo ultimo per rispettare e perfino ammirare una persona anziana sarebbe la sua gagliardia, la capacità di mantenere l’auspicabile condizione dell’invecchiamento attivo. Per fortuna — si dice — non tutti i vecchi sono… vecchi. Seguendo questa logica, un vecchio sarebbe da rispettare e da ammirare perché …assomiglia a un giovane! E gli altri? Cosa pensare di chi comincia ad avere bisogno dell’aiuto di un caregiver? A maggior ragione: cosa dire dei vecchi «estremi», gravemente non-autosufficienti, cronicamente dipendenti, confusi, definitivamente incapaci di muoversi e di parlare, che vegetano a letto in attesa di lasciarci? Ponendo come criterio valoriale lo splendore della gioventù, siamo spinti a riformulare come semplicemente penosa la decadenza. Gli anziani gravemente compromessi non li vediamo più come persone bensì, al limite, come corpi: marchingegni biologici sopravvissuti a sé stessi, come nella terribile definizione per cui la demenza senile è «una morte che lascia indietro il corpo» (cit. in Kitwood, 1997)

Non si vogliono qui mettere in questione il valore della salute e dell’autonomia individuale: sono in effetti beni preziosissimi, architravi della vita, che abbiamo tutti il dovere di preservare, ma non sono i più alti. Più in alto della salute e dell’autonomia c’è, perlappunto, la vita. La maggioranza delle persone, del resto, vive senza essere perfettamente «sana», qualsiasi cosa il termine significhi, e sicuramente nessuno vive in una condizione di assoluta autonomia individuale. Piuttosto, nella prospettiva del lavoro sociale è l’interdipendenza a caratterizzare la nostra condizione umana (Folgheraiter, 2011).

E comunque: mai tanto in alto dovrebbero stare salute e autonomia da indurci a screditare l’altra loro faccia, vale a dire la dipendenza, la malattia, la degenerazione e la morte. L’ammirazione per gli anziani «sani» e «attivi» è una faccia della medaglia che non c’è ragione di criticare, a condizione che questa ammirazione non ci porti a disprezzare il suo contrario. Il principio secondo cui va promossa l’autonomia del nostro utente anziano è senza dubbio condivisibile, ma non è una base abbastanza salda sui cui fondare il rispetto nei suoi confronti.

Le componenti della relazione di cura orientata all’efficientismo, secondo lo schema AGIL

Per esplorare ulteriormente le implicazioni di questa argomentazione, proviamo a identificare con un esercizio analitico le componenti della relazione di cura tra operatori sociali e anziani che potrebbe emergere da un orientamento esclusivamente efficientista — dando ovviamente per scontato che, nel concreto fluire delle relazioni, i modi di vivere il rispetto siano poi sempre intrecciati in peculiari configurazioni contingenti, diverse da una relazione a un’altra e nello scorrere del tempo.

Seguiamo (figura 1) lo schema AGIL (Donati, 2013) partendo dal sistema di valori (L) nel quale, in questo caso, sono in primo piano efficienza, salute, produttività, autonomia individuale. Nel contesto delle relazioni di aiuto e delle politiche assistenziali, questo orizzonte valoriale si collega a un ventaglio di obiettivi (G) riassumibili con l’etichetta di «invecchiamento attivo»: si punta a fare in modo che l’anziano mantenga il più possibile una vita simile, per forza fisica e mentale, a quella degli adulti o perfino dei giovani. I mezzi (A) per realizzare questi obiettivi consistono nei programmi di prevenzione e di attivazione che costituiscono, appunto, le politiche per l’active ageing.11 Le norme di comportamento (I) che regolano l’interazione consistono principalmente nell’idea che le persone anziane abbiano il dovere di preservarsi sane e autonome il più possibile, seguendo diligentemente le indicazioni degli esperti per «mantenersi giovani», in modo da non diventare un peso per il prossimo e per la società (ancor prima che per se stessi…). Specularmente, gli esperti sono chiamati a dare tali indicazioni.

In sintesi, un senso del rispetto verso gli anziani di tipo efficientista appare problematicamente connesso a una relazione di cura di tipo «esclusivamente» preventivo: operatori e anziani pensano che l’ideale sarebbe prevenire non tanto la vecchiaia in sé (il tempo non possiamo fermarlo), ma rallentarne gli effetti (prevenzione secondaria) e ridurre le conseguenze negative collaterali (prevenzione terziaria) anche riparando, ove possibile, le disfunzioni che si presentano man mano. Se questo non è possibile, non resta che rimpiangere la salute perduta.

Figura 1

Le componenti della relazione di cura orientata all’efficientismo.

Il sentimento «della presa in carico» (di orientamento welfarista)

Il secondo modo di concepire il rispetto verso le persone anziane è probabilmente quello più radicato nella cultura dei servizi sociali e sanitari. I professionisti orientati in questo senso non considerano meno degno di rispetto, quasi fosse un essere umano di seconda scelta, un proprio assistito solo perché non è più efficiente e in salute: accanto al dovere di promuovere l’autonomia delle persone, questi operatori hanno altrettanto presente il principio per cui nessuna persona va trattata come uno scarto, neppure nel caso in cui sia difficile contestare il fatto che, effettivamente, «lo sia». L’espressione gergale della «presa in carico» ben esprime questo atteggiamento: «Tu sei irriducibilmente divenuto un peso per tutta la società, ma noi operatori non ci rifiuteremo mai di fare il nostro mestiere, che è quello di… portarti in spalla».

In sostituzione del precedente criterio efficientista, si adottano qui due linee-guida decisamente meno semplicistiche, l’una deontologica («il nostro dovere morale di professionisti dell’aiuto ci impone di non disprezzare la debolezza dei nostri utenti») e l’altra giuridica («per quanto certi nostri assistiti siano civicamente ormai spenti, essi restano pienamente titolari di diritti»).

Qualche esempio: ti rispetto perché ne hai il diritto, nonostante il decadimento

La presa in carico è un dovere, a prescindere dalle condizioni della persona

L’idea che rispettare e accudire gli anziani fragili e sofferenti sia doveroso, nonostante si tratti di un «dare» a senso unico, ritorna quasi unanimemente all’interno nelle interviste che abbiamo analizzato.

Come ci si poteva attendere, gli operatori si richiamano soprattutto al dovere inteso come obbligo professionale, che non viene meno pur nella consapevolezza che è una sorta di impegno «a perdere», perché non c’è alcun futuro davanti. Ad esempio:

Noi facciamo parte del… terzo tempo della loro vita. Parliamoci chiaro… non c’è altro dopo: noi però abbiamo il dovere di dargli qualità. (Coordinatrice D., 42 anni, 10 anni di servizio)

Che vita vogliamo offrire a questi anziani? Cioè: li vogliamo relegare a ultima ruota del carro?… Il mio lavoro è quello di trattare queste persone non in base all’età o all’aspettativa di vita, ma in base a quello che ancora possono vivere: facciamoglielo vivere nel migliore modo possibile. (Operatrice responsabile attività assistenziali C., 43 anni, 7 anni di servizio)

Con un nonno con un deficit pesante, come una demenza in fase avanzata, è più complicato… Ma alla fine vanno trattati sempre nello stesso modo, secondo me, devono essere trattati sempre bene, per farli stare bene per quello che consente la loro patologia. Come dire… nel nostro lavoro il farli stare bene deve essere sempre al primo posto, per come la penso io. (Operatrice socio-sanitaria 2D., 44 anni, in servizio da 1)

Sulla stessa linea stanno anche varie affermazioni dei familiari degli anziani, con la variante del riferimento a un più ampio dovere morale. Anche in queste affermazioni, comunque, sottendono l’idea che la condizione di decadimento legata all’avanzare dell’età non ha alcun valore intrinseco: le motivazioni a prendersene cura con rispetto sono affidate al nostro senso di civiltà e di umana pietà.

Le persone deboli, che quindi hanno bisogno di un surplus di attenzioni, sarebbero un problema? E allora cosa facciamo? Ripristiniamo la Rupe Tarpea e le eliminiamo?… (figlio F., 60 anni)

Nuora di una ospite: Se uno è vecchio e messo male… lo facciamo morire? n po’ di umanità!

Marito della stessa ospite: Io credo che ci siano delle persone anziane, là, che non hanno parenti, che sono sempre da sole… dove le mettiamo: sotto un ponte? (marito D., 82 anni)

A rafforzare l’idea che sarebbe normale attendersi che, con l’avanzare del decadimento, la qualità «umana» degli anziani venga progressivamente meno troviamo alcune affermazioni in cui gli intervistati segnalano il contrario quasi fosse un’eccezione. Ad esempio:

Io… voglio molto, molto bene a mia mamma, al di là del fatto che abbia 91 anni… (Figlia B., 65 anni)

Sai, loro vedono, sentono, non è che sono morti: sono vivi, possono anche non parlare, ma sentono l’atmosfera… (Operatrice socio-sanitaria 2B., 58 anni, in servizio da 12)

La presa in carico è un dovere, per ricambiare ciò che gli anziani hanno fatto: la reciprocazione ex post

Una variante dell’atteggiamento della presa in carico sta nel motivarla (e nel motivare il rispetto per gli anziani) con il dovere di ricambiare il contributo che hanno dato durante la loro vita precedente. Troviamo qui una forma di reciprocazione a posteriori, una sorta di scambio simbolico (Rossi, 1989; Bramanti 2001; Donati, 2007) per il quale ci prendiamo cura di loro per riconoscenza verso quello che hanno fatto un tempo. Un tempo, appunto: ancora una volta non c’è attribuzione di valore, e quindi rispetto, per il qui e ora della persona. La riconoscenza è senz’altro un sentimento molto apprezzabile, ma non mette in discussione l’idea che l’anziano gravemente compromesso conta per quello che è stato, non quello che è.

Abbiamo trovato molti esempi di questo modo di porsi sia nelle interviste agli operatori, sia in quelle ai familiari. Com’è ovvio, le parole di questi ultimi, soprattutto se figli o nipoti, si riferiscono spesso a una riconoscenza «situata», specificamente legata al passato della relazione con il proprio caro:

Lei [la mamma] si sentiva in colpa e le abbiamo spiegato varie volte: «Mamma, quando eravamo piccoli tu dedicavi tempo — il tuo tempo — a noi. Adesso che sei tu che hai bisogno, siamo noi che ti rendiamo il tempo che tu ci hai dedicato, e lo facciamo volentieri. (Figlio D., 69 anni)

Quando ero una bambina mia nonna mi portava all’asilo, mi guardava giocare proprio lì, in questo stesso giardino, e adesso … mi sento di ricambiare io, venendo qui … (Nipote B, 38 anni)

Gli operatori invece parlano in maniera più generica del contributo che questi anziani hanno (probabilmente) apportato ad altri, o alla società generalmente intesa, durante la loro vita precedente:

Se tu ci sei, è perché questa nonna ha messo al mondo tuo papà o tua mamma, che ti hanno dato la vita. Allora, se questa nonna ha fatto tanti sacrifici per il tuo papà o per tua mamma che ti hanno dato la vita, perché non puoi anche tu fare un po’ di sacrificio per lei? Che poi… questi anziani sono alla fine vita, non è che tu gli devi fare questo [li devi accudire] in eterno… (Operatrice socio-sanitaria 2B., 58 anni, da 12 in servizio)

È nel ciclo della vita: nel senso che, prima di essere anziani, sono stati giovani e hanno accudito qualcuno altro, quindi… (Coordinatrice A., 39 anni)

La presa in carico in carico è un dovere, perché «comunque un giorno toccherà anche a noi»: la reciprocazione ex ante

Una terza variante del rispetto dovuto nonostante il decadimento è speculare a quella appena descritta: consideriamo — oggi — la presa in carico come un dovere, per affermare un principio che toccherà la nostra vita futura, quando anche noi operatori o caregiver familiari diventeremo a nostra volta dei vecchi fragili e inutili. Si tratta di una forma di reciprocazione «anticipata», un po’ come si volesse simbolicamente accumulare dei crediti per quando toccherà a noi. Vediamo qualche esempio di questo atteggiamento, peraltro ben noto data la sua diffusione nel senso comune.

Le persone invecchiano! Io mi dico sempre questa cosa: quando toccherà a me, spero di avere di fianco a me qualcuno che… mi salvaguarderà […] Rendere queste persone un problema… per me no, è sbagliato! (Figlio F., 60 anni)

Che cosa vuol mai dire che l’anziano grava sul giovane? Questo giovane si spera che diventerà anziano e anche lui graverà su un altro… cioè, è una catena: si nasce bambini, si diventa adulti, si diventa anziani… (Operatrice socio-sanitaria 2D., 44 anni, in servizio da 1)

Il fatto di sentirsi sollevati dal fatto che il Covid ammazza gli anziani… l’ho trovata una cosa orribile. Lo diventeremo anche noi anziani — forse! (Coordinatrice B., 41 anni, in servizio da 10)

Va osservato che la consapevolezza di potermi trovarmi, un giorno, nei panni del mio utente o del mio anziano familiare di oggi non è né facile né scontata: c’è un’intrinseca difficoltà emotiva nel guardare in faccia la sofferenza che potrebbe attenderci e la morte che sicuramente arriverà, e questa difficoltà è rafforzata dalla cultura efficientista che, come si è accennato, ci porta a considerare ancor più drammatica la perdita dell’autonomia e della salute e tende a rimuovere l’idea della morte (Ariès, 1978). D’altra parte, riuscire a immaginarsi vecchi e bisognosi è una premessa importante per il rispetto della regola aurea dell’etica universale («non fare agli altri ciò che non vorresti che fosse fatto a te»), su cui anche il Lavoro sociale trova un basilare fondamento (Folgheraiter, 2012): l’immediato e profondo rispetto che un operatore o un caregiver familiare facilmente attribuiscono a sé medesimi, lo potrebbero trasferire, per simmetria, alle persone fragili cui si prendono cura. Dunque, gli atteggiamenti guidati dalla reciprocazione «ex ante» vanno sicuramente apprezzati. Tuttavia, per come sono espressi nelle parole dei nostri intervistati (e nel senso comune) anch’essi hanno un lato d’ombra: non mettono in discussione che, giunti a un certo punto, sia gli anziani che oggi assistiamo, sia anche noi in un futuro incerto, saremo effettivamente degli scarti senza alcun valore, anche se — si spera — potremo arrivare dignitosamente alla fine della vita grazie alla benevolenza dei nostri caregiver e del sistema di welfare.

Spunti di analisi relazionale

La posizione secondo cui gli anziani fragili hanno diritto a essere rispettati nonostante il loro decadimento, doverosamente rafforzativa dell’ovvio, è a fondamento dell’etica del welfare state e di ogni dettato costituzionale: il diritto alla cura e al rispetto deve essere assicurato a tutti d’autorità, indistintamente, agli anziani non autosufficienti così come ad ogni altra forma di «devianza» biologica o comportamentale. Si tratta di un fondamento imprescindibile anche per le professioni di aiuto, che al di fuori di questo orizzonte etico e politico non avrebbero forse neppure ragione di esistere.

Tuttavia, il valore indiscutibile di questa prospettiva non significa che essa sia la migliore in assoluto su cui ancorare il rispetto verso l’Altro sofferente. Si potrebbe infatti trarre da essa la seguente scivolosa deduzione: che i vecchi non vanno rispettati intrinsecamente, cioè «in sé», per il valore che possiedono qui e ora. Vanno considerati degni di rispetto per quello «che sono stati», ossia per quello che hanno fatto nella loro precedente vita attiva: la sola che, agli occhi degli operatori e forse anche dei caregiver famigliari, conservi oggi un valore.

Il corollario logico di tale ragionamento, altrettanto scivoloso, è che il dovuto rispetto per questi vecchi, tanto annebbiati e confusi da essere diventati quasi ex-umani, non può che scaturire da una dedizione «a senso unico» sancita dal sistema di welfare e incarnata dagli operatori dell’assistenza. Un po’ come se si pensasse: nella nostra epoca, questi poveri scarti sono fortunati a trovare noi professionisti dell’aiuto, che siamo bravi e civili e non lesiniamo loro nessun diritto, nonostante la loro condizione ormai irreversibilmente decaduta.

Una teoria dei diritti — corretta e doverosa nelle sue formulazioni astratte — non sempre porta a esprimere un rispetto profondo nel momento in cui la si «personalizza», cioè la si «applica» a questo o quella persona in particolare. Pensando: «Anche se ora sei a tutti gli effetti un peso, puoi contare su di me», affermiamo in astratto una doverosa intenzione che però rischiamo di contraddire in pratica, poiché implementare una intenzione così espressa significa inevitabilmente porsi su un piano di superiorità: è solo per la nostra bontà, umanità o senso civico che ci occupiamo di questo specifico Alter che qui e ora abbiamo di fronte, dato che qui e ora egli non ha più alcun valore. Così, un fondo di benevolo disprezzo sorregge le nostre stesse parole apprezzanti e i nostri stessi gesti accudenti. Sottolineando la debolezza del nostro interlocutore, la consolidiamo «socialmente». Finiamo per ringraziare il Signore di non averci (ancora) fatti diventare come lui, diventando inconsapevolmente farisaici.

Le componenti della relazione di cura orientata alla presa in carico, secondo lo schema AGIL

Le componenti della relazione di cura improntata alla presa in carico (figura 2) comprendono, dunque, un sistema valoriale (L) incentrato sul diritto all’assistenza e sul valore civico insito nel trattare con umanità e rispetto anche i più deboli — con eventuali derive nell’assistenzialismo e nel buonismo; gli scopi situati (G) che si perseguono per tradurre in pratica tali valori consistono, appunto, nel prendere in carico, ossia nel puntare a sostenere chi non è in grado di sostenersi da solo, sostituendosi a lui nel molto (o nel tutto) che non riesce più a fare. I mezzi (A) per realizzare la presa in carico sono le prestazioni di assistenza alla persona: l’assistenza domiciliare, gli alloggi protetti, le residenze sanitarie assistenziali e tutte le variegate forme di accudimento sociale e sanitario che vengono erogate in tali contesti, a cui possiamo aggiungere anche le indennità monetarie, come l’accompagnamento, fondamentale per pagare le badanti, o gli assegni di cura, utili a sostenere l’impegno dei caregiver familiari. Le aspettative di comportamento (I) che regolano questo tipo di relazione di cura sono incentrate sull’idea che l’anziano non autosufficiente debba affidarsi e lasciarsi accudire, mentre gli operatori e i caregiver familiari si assumono il dovere di assisterlo.

In sintesi, un senso del rispetto verso gli anziani basato sul diritto appare connesso a una relazione di cura di tipo assistenziale/palliativo: il rispetto è dovuto anche quando le condizioni individuali sono così decadute che ormai non si può più prevenire o riparare alcunché. Non resta che sostituirsi alla persona compromessa, per rispondere fin dove possibile ai suoi bisogni primari e a quante altre necessità riesca a esprimere, in attesa che la vita finisca. In una relazione di cura così intesa non è contemplata alcuna reciprocità diretta: i ruoli di chi aiuta e di chi viene aiutato sono dicotomici, dato che — si assume — l’anziano gravemente non autosufficiente non può avere più nulla da dare: nel suo qui e ora, non vale più nulla.

Figura 2

Le componenti della relazione di cura orientata alla presa in carico.

Il sentimento di reciprocità matura (di orientamento relazionale)

La terza postura consiste nell’accostarsi al dolore e al decadimento della persona accogliendo anche e soprattutto l’umanità intrinseca a tale sofferenza. Nonostante certi anziani abbiano le sembianze di uno scarto, essi sono avvertiti dall’operatore come umani, e pienamente, proprio in virtù delle loro menomazioni e limitazioni, che li rendono esempi di vita, tanto che la relazione con loro può migliorare l’operatore in umanità e professionalità.

Il rispetto inteso in senso relazionale ingloba il «buono» del secondo e al contempo lo ripulisce dal lato d’ombra di cui si è detto, in quanto presuppone, pur in un rapporto professionale, una tendenziale parità umana nella relazione tra l’operatore e la persona assistita, che va oltre l’obbligo professionale e l’obbedienza a imposizioni normative esterne. È su tale parità che si fonda un più profondo rispetto per l’Altro sofferente. In una siffatta relazione di cura, l’operatore si sente sullo stesso piano della persona che assiste anzitutto (a) nel senso che entrambi condividono la condizione umana, e con essa l’eventualità di «vivere» — nel senso di sperimentare consapevolmente — la sofferenza e la malattia. Ma sono sullo stesso piano anche perché (b) ciascuno apporta un valore all’altro. L’operatore non è lì, nella relazione, soltanto per «dare» (dare accudimento fisico, compassione, vicinanza emotiva e così via), come dovrebbe essere ovvio, ma ha anche qualcosa da ricevere, in termini di umanità: il modo in cui l’Altro sofferente vive il decadimento e il dolore — qualsiasi sia questo modo — costituisce, nel qui e ora, una preziosa lezione di vita, oltre che una lezione professionale. Nella vicinanza all’Altro sofferente, in una relazione rispettosa e affettuosa, l’operatore può «ricevere il dono» di un’esperienza vicaria di condizioni che probabilmente non ha mai vissuto, e potrebbe forse non vivere mai.

In questo quadro, dunque, il rispetto si fonda sul valore intrinseco, nel qui e ora, dell’Altro sofferente. Ovviamente, non si intende qui romanticizzare il «bello» di essere malati o disabili o confusi. Potendo scegliere, giustamente nessuno vorrebbe esserlo, e resta inteso che attivarsi in questo senso è senz’altro doveroso, fin dove non si oltrepassino i controversi confini dell’accanimento terapeutico. La riflessione che si intende proporre è un’altra: chi vive la penosa condizione del decadimento senile, proprio per il fatto che si trova ad attraversare una condizione estrema, ma pur sempre connaturata all’umano, può assumere un valore inestimabile agli occhi di chi gli è accanto.

Per provare a esplicitare cosa ciò concretamente significhi, possiamo immaginare che un operatore connesso a un tale sentimento, mentre lavora, sia guidato da una saggia voce interiore che lo aiuta a lasciar trasparire implicitamente verso il proprio assistito qualche frammento di un messaggio così formulabile:

  • Proprio in quanto tu ora ti senti umiliato come uno scarto, proprio perciò ai miei occhi hai valore.
  • Quanto più stai esperendo un dolore o un abbrutimento che io ancora non provo, tanto più sei per me, e potenzialmente per tutta la società, un maestro di umanità.
  • Io mi onoro di poterti assistere come professionista e ti ringrazio per la tua generosità nell’accogliermi così come sono. Anche quando le angosce ti esasperano e vivi le mie cure come un disturbo, tu volente o nolente mi accogli. Grazie per permettermi di starti a fianco e di osservare la tua esistenza: così imparerò (Folgheraiter, 2022; corsivi dell’autore).

Il rispetto inteso in questo modo è lontano dal senso comune e dagli espliciti culturali che ci sono consueti, e risulta quindi difficile da esprimere compiutamente a parole. Piuttosto, lo si intuisce nell’atteggiamento di quegli operatori (e anche di quei caregiver familiari) solari, armoniosi, complessivamente contenti di sé e del proprio lavoro, che testimoniano il potere radioso di una vita maggiormente compresa già nel tempo in cui essa in genere appare agli altri esseri umani, per mancanza di ogni seria esperienza, come una scontata routine quotidiana.

Qualche esempio: ti rispetto perché la tua umanità mi è maestra

Come ci si poteva aspettare, nelle interviste non abbiamo trovato ragionamenti articolati di questo tenore. Tuttavia, tracce di un tale sentire sono rilevabili in alcuni passaggi che lasciano intendere un apprendimento, o un migliorarsi di chi assiste, grazie a chi viene assistito.

Ad esempio, questi intervistati fanno capire che la relazione con gli anziani dà loro un esempio di coraggio nell’affrontare le difficoltà:

[Affrontare la pandemia] è stato veramente difficile, ma loro [gli anziani ospiti della struttura] ci hanno dato una grande forza… la forza di andare avanti sempre… sono stati proprio loro a darci la forza di andare sempre avanti in questo momento difficile, di emergenza, di difficoltà. (Operatore responsabile attività assistenziali F., 38 anni, in servizio da 4)

È gente che, per quanto siano messi male, non muoiono mai: perché sono di un’altra tempra, sia fisica che mentale… [la mamma] ha uno spirito di accettazione del destino, una resistenza… (Figlio D., 69 anni)

Devo dire che gli ospiti sono stati bravissimi e ci hanno insegnato tantissimo, perché… cos’è venuto fuori tutta questa cosa? Si sono ricordati subito della guerra e del dopoguerra, adesso si sentono nel dopoguerra… (Coordinatrice D., 42 anni, in servizio da 10)

Altri dicono di aver imparato, stando in relazione con i loro utenti («c’è sempre da imparare in questo ambiente, in questo mondo difficile: non adatto a tutti, però bello»; operatrice socio-sanitaria 2D., 44 anni, in servizio da 1) e facendo esperienza diretta che la sofferenza e la morte fanno parte della vita («Ho dovuto imparare anche questo… non tutti possono essere salvati»; operatrice socio-sanitaria E., 40 anni, in servizio da 8)

Altri ancora fanno riferimento alla qualità affettiva che la relazione con gli anziani — anche quelli molto compromessi — aggiunge alla vita degli operatori e a quella dei propri cari, e che si coglie ancora di più quando qualcuno muore inaspettatamente, come è drammaticamente accaduto durante la pandemia:

La cosa più difficile è stata vedere gli ospiti morire così, perché io sono qui da cinque anni e quindi un legame lo crei… ti ritrovavi improvvisamente così… con un amico in meno (operatore socio-sanitario F., 31 anni, in servizio da 5)

Ognuno di loro ti dà qualcosa, dalla centenaria che conoscevo da vent’anni, alla persona con disturbo cognitivo che è venuta a mancare, e forse era l’ultima persona di cui mi sarei aspettata di sentire la mancanza… ma sono state perdite pesanti, tutt’ora ogni tanto mi riguardo le loro foto perché le conservo con me… (Operatrice responsabile attività assistenziali E., 48 anni, in servizio da 10)

Ogni ospite ha quella figura sua, che cerca… non so, quell’operatore… non vede l’ora che arrivi in turno, … è una cosa bellissima. (Operatore responsabile attività assistenziali F., 38 anni, in servizio da 4)

Ho visto, e veramente non me l’aspettavo, delle persone anziane che sono state più brave di tutti noi a dare quel valore aggiunto [alle videochiamate durante il lock-down]… non lo posso neanche spiegare, perché veramente… va vissuto. (Coordinatrice D., 42 anni, in servizio da 10)

Il valore affettivo della relazione qui e ora è sentito anche dai familiari, anche e proprio quando la situazione del proprio caro è molto grave:

Non mi avevano dato speranze, e invece [la mamma] era ancora lì, io me la sono voluta godere fino all’ultimo al cento per cento, proprio, sì: ogni secondo. (Figlia 1G., 49 anni)

Non sa più che sono sua figlia, ma quando mi vede sono qualcuno con cui lei …insomma… riesce a dialogare. Dialogare per modo di dire …nel senso che lei fa fatica a dire le parole, però mi sorride. E quindi io sono molto contenta di questo sorriso. (Figlia E., 60 anni)

Un aspetto specifico con cui si declina la reciprocità consiste nelle esperienze di mutuo aiuto testimoniate da alcuni degli anziani ricoverati nelle strutture residenziali. Per apprezzarne la portata, va tenuto presente che si tratta di persone con gravi limitazioni nella salute e nell’autonomia personale, e un qualche decadimento cognitivo.

Anziano: Tutti insieme ci siamo aiutati [durante il lock-down]. Tutti, anche fra gli ospiti. Anche tra gli ospiti, giochiamo a carte, ci divertiamo, ridiamo a dire stupidaggini. Abbiamo creato un bel gruppetto, dai. Che ci aiutiamo tra di noi, se lui ha bisogno io posso aiutarlo moralmente, lei uguale e io uguale…

Anziana: Tocca avere pazienza con tutti.

Anziano: Vai lì a vedere come stanno…

Anziana: E fai un sorriso a tutti. (Gruppo di anziani, tra gli 85 e i 74 anni)

Cosa mi ha aiutato? Ah beh… la mia amica compagna di stanza … ogni tanto diciamo una stupidata e si ride… e siamo sopravvissute. (Anziana 5G., 85 anni)

Queste persone esprimono apprezzamento e rispetto reciproco per come ciascuno di loro è adesso, e qualcuno onora anche la relazione con chi non riesce più a essere presente a se stesso nemmeno in piccola parte, come questa anziana ospite che parla della sorella, sofferente per una demenza in fase avanzata e anche lei residente nella stessa struttura:

Come posso dire… ci facciamo compagnia, nel senso che io ho un riferimento qui, un riferimento famigliare, e lei ha una presenza… solo una presenza, perché poi io posso fare poco per lei, quasi nulla… (Anziana 1A., 85 anni)

Un ultimo brano di intervista è interessante perché lascia intuire, per contrasto, l’importanza di una relazione di reciprocità. L’operatore socio-sanitario sta parlando di come è cambiata la sua esperienza professionale quotidiana durante la pandemia, quando l’enorme e improvviso carico di lavoro l’ha portato a trattare i suoi utenti come corpi cui fare manutenzione:

Non eravamo operatori, eravamo dei muletti. «C’è da fare questo e questo»: non ci si chiedeva nemmeno il perché, eri lì in mezzo e lo facevi. [E ancora oggi] non è più quello che facevo prima… li alzi, li sposti, li fai mangiare… ma non c’è quel contatto … adesso sono, come dire… sono soli. Chiusi in se stessi … Adesso qualche volta mi ritrovo a essere una macchina, non mi sento più quello di prima. Ci sono momenti in cui mi dico «cosa sto facendo?»… mi sto anche chiedendo se è giusto continuare così, o se è più giusto trovare un’altra strada, perché mi ritrovo a non essere più un aiuto. (Operatore socio-sanitario F., 31 anni, in servizio da 5)

Spunti di analisi relazionale

Il terzo modo di sentire il rispetto si fonda sull’esperienza viva del principio di reciprocità: il presupposto per tributare una dignità profonda alla persona fragile o abbruttita dal decadimento consiste nel percepire che proprio per la sua condizione ci può essere d’insegnamento. Nelle situazioni «estreme», quando le tecniche socio-sanitarie e il senso comune direbbero che non c’è più niente da fare, l’aiuto e l‘assistenza non possono che invertire, per così dire, la loro polarità: non possiamo più «dare», nello stretto senso del termine. Possiamo dare solo aprendoci alla recezione, ossia ricevendo. Scrive Donati:

La dignità dell’anziano non sta in ciò che ha fatto, per quanto grande sia stato il suo contributo alla società, Né consiste in quello che può fare sul piano di cose utili, come aiutare nipoti e pronipoti. Sta in ciò che l’anziano è nella sua umanità, che è donata nelle sue relazioni, le più semplici, anche quando è confinato in una carrozzina o soffre per una grave malattia. Anche quando è solo una presenza silente. Perché anche in queste situazioni, ciò che l’anziano può dare è la richiesta di una relazione umana che rende umano chi se ne prende cura. La qualità delle cure date dal caregiver è un atto di reciprocità verso questa dignità dell’anziano. (Donati, 2022, p. 329-330)

Possiamo «trasmettere» rispetto al nostro interlocutore solo consentendogli di poter dare lui insegnamenti a noi. Tali insegnamenti possono riguardare la professionalità dell’operatore, dato che quella relazione di cura, se accostata con una adeguata riflessività, è una preziosa fonte di apprendimento esperienziale per poter meglio apprendere a lavorare vicino alla morte.

Inoltre, una relazione di cura improntata alla reciprocità offre un valore pregiato sul piano esistenziale: l’esperienza vicaria della sofferenza getta nuova luce sulla vita, può sollecitare l’operatore — fin già da adesso, che è ancora integro nella sua autonoma — a sentire la salute e la forza come doni precari, e perciò preziosi, tutt’altro che dovuti.

Nel momento in cui questo atteggiamento fosse autenticamente introiettato dagli operatori e dai caregiver e progressivamente trasmesso nelle reti delle relazioni significative, allora potremmo forse immaginare che l’insegnamento derivato dall’esperienza della sofferenza e della morte apporti anche dei vantaggi sociali. Chi svolge una professione di aiuto avendo avuto delega di accompagnare le persone alla morte, in sostituzione di noi cittadini e consumatori indaffarati, può riportare comunque alla nostra attenzione una testimonianza di ciò che esse avrebbero potuto «dirci», se solo ce ne fosse stata l’occasione.

Il principio di reciprocità ha fondamentali implicazioni per tutte le relazioni. Limitandoci all’ambito del Lavoro sociale e delle relazioni di aiuto, lo troviamo al centro dell’etica della care (Sevenhuijsen, 2003; Barnes e Brannelly, 2015), secondo la quale se l’assistenza non coglie il valore umano intrinseco della sofferenza, e tratta l’Altro come un corpo, non è cura; è alla base del Relational Social Work (Folgheraiter, 2021), che insegna all’operatore a mettersi in relazione ad ogni interlocutore vedendo sempre in esso un valore; è la chiave di volta degli approcci anti-oppressivi del Social work contemporaneo (Krumer-Nevo, 2020; Fook, 2016), che denunciano e contrastano lo schiacciamento dei diritti e la contrazione di potere delle persone ai margini della società.

Le componenti della relazione di cura orientata alla reciprocità, secondo lo schema AGIL

La relazione di cura orientata alla reciprocità (figura 3) si fonda sul riconoscimento (L) dell’intrinseco valore umano delle esperienze di sofferenza, decadimento o marginalità e di chi ne è portatore. Tale orizzonte valoriale si collega alla finalità metodologico-professionale della co-costruzione dei processi di aiuto (G): se, da operatori sociali, sappiamo apprezzare coloro che siamo chiamati ad aiutare, sarebbe incoerente non mettere in primo piano il loro contributo nella definizione degli obiettivi da realizzare — qualsiasi esso possa essere. I mezzi (A) per realizzare questo coinvolgimento corrispondono alle tecniche della facilitazione/guida relazionale, che sono tutte accomunate dal «funzionareÉ solo a determinate condizioni (I), la più importante delle quali è l’attribuzione di una tendenziale parità di status fra chi aiuta e chi viene aiutato.

La caratteristica di reciprocità che emerge da questo tipo di relazione di cura consiste nel fatto che la relazione accresce in dignità umana entrambe le parti, sia l’operatore che assiste sia la persona sofferente che viene assistita.

Conclusioni

La trattazione ci ha condotto a focalizzare le caratteristiche idealtipiche di tre forme con cui il rispetto per l’altro sofferente vien inteso o solo più semplicemente vissuto. Le prime due, ancorate una al valore dell’efficienza e dell’autonomia individuale, l’altra al diritto alla presa in carico, presentano ciascuna un lato d’ombra per il quale, nel mentre asserisco di rispettare la persona, contemporaneamente mi ritrovo senza volerlo a svalutarla. La terza, basata sul principio di reciprocità, non nega le altre due, ma va oltre, evidenziando il valore in umanità da riconoscere alle persone fragili, meritevoli di essere onorate, nel qui e ora, proprio per la loro umana fragilità.

Figura 3

Le componenti della relazione di cura orientata alla reciprocità.

L’analisi esplorativa di un insieme di interviste rivolte a professionisti della cura, familiari e anziani ospiti in strutture residenziali sembra confermare la possibilità di rintracciare, nelle rappresentazioni espresse dal campione, tutti e tre le forme di rispetto, anche se la terza viene espressa meno esplicitamente, senza dubbio perché è assai meno radicata a livello socio-culturale.

Il rispetto verso l’altro si colloca per forza di logica entro una relazione, le cui componenti sono state esaminato utilizzando lo schema AGIL. L’analisi ha suggerito che tali componenti assumono una diversa declinazione, a seconda del modo in cui il rispetto viene inteso ed esperito.

I diversi tipi di relazione che emergono nei tre casi, essendo per l’appunto delle relazioni, presentano implicazioni rilevanti non solo per l’utente, ma anche per l’operatore. Questo punto, evidenziato dall’analisi relazionale, merita di essere messo in rilevo, dato che la maggior parte degli operatori, sulla scorta del senso comune, pensa probabilmente al rispetto degli utenti come un atteggiamento che è doveroso assumere nel preminente interesse degli utenti stessi. Al contrario: la dignità riconosciuta agli anziani è speculare alla dignità degli operatori. Il modo con cui gli operatori sentono il rispetto verso i loro utenti anziani si riverbera sul rispetto e la soddisfazione che gli operatori provano verso il proprio lavoro e, quindi, anche verso se stessi.

Se la relazione di cura è incentrata sulla prevenzione, e/o sulla riparazione intesa come prevenzione secondaria o terziaria, cosa accade quando le possibilità di prevenire e di riparare arrivano a zero (e naturalmente ci arrivano, prima o poi, dato che la vita eterna non è di questo mondo)? Se, nel sentire implicito degli operatori, la relazione di cura più «prestigiosa» e degna del suo nome è quella in cui si punta ad allontanare la sofferenza o risolverla, allora quando ciò non è più possibile ci sente degli operatori «di serie B», che si prendono cura di persone per cui, ahimè, «non c’è più niente da fare» — dato che, nella prospettiva efficientista, fare qualcosa di diverso dal prevenire o riparare è, per l’appunto, un… fare nulla, o meglio un fare di nessun valore. Si tratta di un sotteso enormemente diffuso nel mondo dei servizi sociali: dall’auto-percepirsi degli operatori stessi, alle preferenze di impego dei neodiplomati e neolaureati (Weiss et al, 2002), fino alle scelte politiche riguardo, ad esempio, al livello dei titoli di studio richiesti per lavorare con gli anziani, in confronto a quelli richiesti a chi lavora con l’infanzia.

Quando ci si riconosce in una relazione di cura incentrata sulla presa in carico, la convinta adesione ideale all’idea che l’assistenza sia un diritto, nonostante il declino della vecchiaia, può mettere al riparo dal considerarsi operatori meno bravi o meno importanti degli altri. Non protegge però dal rischio di burn-out (Bellotti e Madera, 2008; Benini e Magenti, 2021) legato a una relazione assistenziale concepita a senso unico, in cui l’operatore si vede solo chiamato a dare e dare, senza ricevere nulla in cambio sul piano umano — riceve lo stipendio, ovviamente, ma non basta a proteggere dall’esaurimento emotivo conseguenza del contatto continuo con sofferenze e abbruttimenti di cui non si riesce a cogliere il senso.

Una relazione di reciprocità, invece, chiama l’operatore ad andare alla ricerca del bene dell’Altro — nel nostro caso di quel bene superiore che è il rispetto della dignità umana — cercando di cogliere il potenziale di crescita derivante dal fatto che Alter sia messo in condizione di poter offrire qualcosa a sua volta. In altri termini, si tratta di perseguire il bene dell’altro, nella consapevolezza che non può essere realizzato se non accrescendo al tempo stesso il proprio bene.

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1 Dato il valore scientifico e il prestigio degli autori, l’articolo è stato selezionato per la pubblicazione direttamente dalla direzione scientifica e dagli editori, senza essere soggetto al processo di revisione.

2 Università Cattolica del Sacro Cuore – Dipartimento di Sociologia.

3 Università Cattolica del Sacro Cuore – Dipartimento di Sociologia.

4 Dato il valore scientifico e il prestigio degli autori, l’articolo è stato selezionato per la pubblicazione direttamente dalla direzione scientifica e dagli editori, senza essere soggetto al processo di revisione.

5 Università Cattolica del Sacro Cuore – Dipartimento di Sociologia.

6 Università Cattolica del Sacro Cuore – Dipartimento di Sociologia.

7 Ad esempio: «L’assistente sociale […] riconosce il valore, la dignità intrinseca e l’unicità di tutte le persone». («L’assistente sociale si adopera affinché l’azione professionale si realizzi in condizioni e in tempi idonei a garantire la dignità, la tutela e i diritti della persona» (art. 5 e art. 19, Codice Deontologico dell’Assistente Sociale, CNOAS, 2020). «L’Educatore Professionale… deve rispettare la personalità e la dignità dei propri utenti; l’Educatore professionale è tenuto a curare nell’esercizio delle proprie funzioni, la condizione che all’utente sia assicurato il rispetto della personalità e della dignità umana» (art. 1 e art. 4, Codice deontologico dell’Educatore professionale, ANEP, 2015). «Le categorie devono esercitare la propria professione con finalità legate al rispetto della persona umana…»; «Ogni singolo operatore deve collaborare… garantendo all’ammalato di vivere la sua degenza e precarietà di salute con serenità e dignità» (art. 1.5 e art. 6.4, Carta Etica dell’OSS, Federazione nazionale delle professioni sanitarie e sociosanitarie – MIGEP, 2022).

8 Art. 26 Codice deontologico dell’assistente sociale, CNOAS, 2020.

9 Art. 11 Codice deontologico dell’assistente sociale, CNOAS, 2020.

10 Art. 1, comma 1, L. 328/2000 Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali.

11 Per una larga rassegna di esempi: Lucatoni e Principi (2022), Politiche per l’invecchiamento attivo in Italia., Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per le politiche della famiglia.

Vol. 1, Issue 1, July 2024

Corrispondence: Fabio Folgheraiter — e-mail: fabio.folgheraiter@unicatt.it

 

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