Vol. 1, n. 2, ottobre 2024
Praticare l’approccio anti-oppressivo nel lavoro sociale con le persone con disabilità
Maria Turati1
Sommario
Il presente saggio intende sviluppare una riflessione sulla pratica dell’approccio anti-oppressivo nei servizi per le persone con disabilità. A partire dai concetti fondamentali dell’approccio e dalle ricerche, si evidenzia come si manifestano le forme di oppressione nell’esperienza di vita delle persone con disabilità in termini di effetti negativi sulle relazioni sociali e sulle relazioni interpersonali. In particolare, la riflessione si sviluppa sulle possibili ripercussioni dell’oppressione all’interno delle relazioni di aiuto, connotate da una situazione di disparità di potere, per promuovere una pratica riflessiva volta a costruire relazioni più eque e processi decisionali condivisi. Inoltre, si esplorano le implicazioni operative dell’approccio in particolare nella fase di assessment e progettazione, per delineare come gli strumenti possono sostenere l’azione anti-oppressiva degli operatori. Il saggio si conclude con una riflessione sul possibile ruolo degli operatori nel ridurre l’impatto dell’oppressione nell’esperienza di vita delle persone con disabilità a partire dalla costruzione di progetti di aiuto e sostegno in ottica partecipativa e allargata alle comunità e ai territori.
Parole chiave
Lavoro sociale anti-oppressivo, persone con disabilità, discriminazione, partecipazione, assessment.
Anti-oppressive practice in social work with people with disabilities
Maria Turati2
Abstract
This paper aims to develop a reflection on the application of the anti-oppressive approach in services for people with disabilities. Starting from the basic concepts of the approach and research, it highlights how forms of oppression manifest themselves in the lived experience of people with disabilities in terms of negative effects on social and interpersonal relationships. In particular, it develops a reflection on the possible impact of oppression within helping relationships characterised by a situation of power inequality, in order to promote reflexive practice aimed at building fairer relationships and shared decision-making processes. It also explores the practical implications of the approach, particularly in doing assessment and planning, to show how tools can support anti-oppressive action by practitioners. The paper concludes with a reflection on the possible role of practitioners in reducing the impact of oppression in the lived experience of people with disabilities, starting from the construction of care and support interventions from a participatory, community and territorial perspective.
Keywords
Anti-oppressive social work, people with disabilities, discrimination, participation, assessment.
Introduzione
L’approccio anti-oppressivo al lavoro sociale è attualmente l’orientamento più diffuso sul piano internazionale nell’ambito del lavoro sociale e costituisce un riferimento fondamentale per i social workers a livello internazionale (Raineri, 2022). L’approccio propone una lettura dei problemi sociali di cui gli operatori si occupano focalizzata sulle dinamiche di potere sia all’interno che all’esterno del processo di aiuto. Le idee su cui l’approccio si fonda, che si proverà a illustrare in sintesi, si declinano in orientamenti metodologici, comportamenti e azioni che sostengono la costruzione di strumenti e pratiche dei servizi, tenendo conto di come le dinamiche di potere impattano sull’esperienza delle persone, sia nel contesto di vita che nelle relazioni di aiuto. I rapporti di potere e le forme di oppressione che derivano dall’esercizio del potere stesso costituiscono il punto centrale dell’approccio (Tedam, 2021).
L’approccio anti-oppressivo fa parte degli approcci critici di social work, che mettono in discussione i modelli di intervento tradizionali poiché li considerano fondati sull’individualizzazione dei problemi tipica del modello medico e psicologico, da cui, dal punto di vista disciplinare, deriva il social work e dai quali ha ereditato alcune logiche di fondo (Healy, 2015). Gli autori (Adams et al., 2009; Healy, 2015; Thompson, 2020) ritengono che molti modelli di intervento sociale, pur avendo l’idea di «leggere» i problemi sociali considerando il contesto di vita dei singoli, guardando ad esempio all’ambito delle relazioni familiari o alla rete informale, trascurino l’impatto delle strutture sociali sui problemi delle persone.
L’analisi delle situazioni e dei problemi che esclude gli effetti delle dinamiche sociali sull’esperienza dei singoli dà luogo a prospettive riduzioniste sia sul piano della valutazione che sul piano degli interventi: questo aspetto è rilevante perché il significato che gli operatori attribuiscono alla realtà che osservano ha conseguenze concrete su come si propongono di intervenire sulla stessa. Il lavoro sociale non è infatti una professione speculativa, ma trasformativa: dal momento che l’operatore ambisce a modificare in una certa misura le situazioni di vita che incontra (nel senso di un miglioramento, per quanto possibile), il modo in cui interpreta ciò che osserva contribuisce a definire come si propone di cambiarlo ed è perciò rilevante soffermarsi su questo aspetto.
L’approccio anti-oppressivo rimette al centro il principio di giustizia sociale (Dominelli, 2015; Thompson, 2020; Tedam, 2021), storicamente tra i valori fondanti del social work, ma non sempre declinato come guida dell’azione professionale negli approcci teorici e nei modelli di intervento. Le riflessioni sull’applicazione nella pratica di principi come il rispetto per le persone, la centralità e l’unicità della persona, il rispetto dell’autodeterminazione sono più sviluppate in quanto considerate funzionali alla costruzione di relazioni di fiducia interpersonali nei processi di aiuto (Raineri, 2022). Pur rimanendo questi principi fondamentali per il lavoro sociale, nell’approccio anti-oppressivo la pratica professionale è ri-collocata dentro una dimensione sociale e collettiva che non riguarda solo le persone che accedono ai servizi e gli operatori: il compito delle istituzioni e, quindi, delle organizzazioni e dei servizi consiste nel garantire che tutti i cittadini possano effettivamente godere delle stesse opportunità e degli stessi diritti, come esito a interventi e «aggiustamenti» volti a contrastare le forme di disuguaglianza esistenti (Bigby e Frawley, 2010). Nel compito di implementare questi interventi e aggiustamenti vediamo concretamente impegnati gli operatori; nel fronteggiare, cioè, questioni di giustizia sociale. L’approccio anti-oppressivo illumina i problemi di giustizia e ingiustizia sottesi alle situazioni delle persone e delle famiglie, riconducibili a questioni di potere: la legittimità della disparità di potere tra gruppi sociali e tra individui che hanno posizionamenti differenti diviene oggetto di discussione e possibile ridefinizione, al posto che essere considerata un elemento di contesto non modificabile.
Nell’area della disabilità, questa idea di pratica del lavoro sociale finalizzata a garantire una maggiore giustizia sociale si può connettere al tema dell’inclusione. L’inclusione sociale è un processo relazionale che non può essere considerato e realizzato in modo unidirezionale: lavorare per l’inclusione vuol dire sostenere un processo che tocca più soggetti, che considera l’intenzionalità della persona con disabilità fortemente intrecciata al livello esteriore di partecipazione inteso come avere relazioni sociali, incontri conviviali e senso di appartenenza (Bigby et al., 2018). Da un lato, c’è la collettività (le istituzioni, la società civile, ecc.) che promuove il miglioramento delle opportunità di ciascuno di partecipare (processo di inclusione); dall’altro, c’è l’individuo che si muove in direzione della collettività (partecipazione come espressione dell’intenzionalità). La distanza tra questi due poli della relazione dipende, in sostanza, dalla capacità/possibilità di entrambi di raggiungere la propria finalità di includere, da una parte, e di partecipare, dall’altra. Il grado di inclusione, che, adottando la definizione proposta da Simplican e colleghi (2015), comprende il livello di partecipazione alla vita comunitaria, è rappresentato da questa distanza e influenzato sia dalle dinamiche che interessano i due poli singolarmente, sia dalla relazione tra essi.
Guardando le persone con disabilità come cittadini, da un punto di vista normativo/istituzionale le vediamo già come titolari di eguali diritti (UN, 2006); nella loro esperienza, però, sono vulnerate nella quotidianità da discriminazione, esclusione e marginalizzazione sia nei processi sociali in senso lato, che nei processi che riguardano direttamente la loro vita (World Bank e WHO, 2011). Se l’inclusione delle persone con disabilità è un diritto dato e allo stesso tempo sistematicamente violato, si rileva un problema di giustizia sociale che può divenire oggetto di lavoro per gli operatori sociali.
Le forme di oppressione nei confronti delle persone con disabilità
Per comprendere meglio cosa possano concretamente fare gli operatori per affrontare questioni di questo tipo, che sembrano rimanere su un livello «macro», è utile partire dalla nozione di oppressione. Questo concetto è considerato fondamentale nell’approccio perché l’oppressione è considerata alla radice dei problemi sperimentati dalle persone che accedono al sistema dei servizi (Raineri, 2022).
Per quanto riguarda le persone con disabilità, l’oppressione è parte della loro storia, intesa sia nella sua accezione collettiva, cioè la storia delle persone con disabilità come gruppo sociale (Oliver e Barnes, 2012), così come nell’accezione della storia di vita: la discriminazione è presente in una certa misura nell’esperienza di ciascuna persona con disabilità in quanto la condizione di disabilità è elemento identitario fondante per sé e per gli altri (Schianchi, 2021). L’oppressione si traduce e si manifesta nella mancanza o nella riduzione dell’accesso a beni, risorse, opportunità (Raineri, 2022); nell’incontrare ostacoli aggiuntivi, dovuti specificatamente alla condizione di disabilità — e che sono quindi di natura discriminatoria — a realizzare un proprio progetto di autorealizzazione. In altre parole, potremmo dire che l’oppressione riduce il margine di esercizio della libertà di scelta e della possibilità di autodeterminarsi. L’oppressione è però rilevabile solo nel momento in cui si considera il contesto allargato i cui i problemi e le difficoltà dei singoli si collocano: se si considerano solo l’individuo e il suo «funzionamento sociale», inteso come una proprietà del singolo stesso, fermando lo sguardo alle relazioni più strette, è difficile cogliere l’impatto delle questioni strutturali sull’esperienza di vita dei singoli (Thompson, 2020). L’operatore che non riesce a leggere e vedere questa dimensione rischia di agire in modo poco consapevole, non considerando che alcune delle condizioni che determinano le situazioni di vita delle persone derivano da dinamiche sociali più ampie.
In letteratura si fa riferimento a diverse e multiple forme di oppressione (Tedam, 2021; Raineri, 2022): l’oppressione interpersonale, l’oppressione internalizzata, l’oppressione ideologica e l’oppressione istituzionale.
L’oppressione interpersonale si colloca, appunto, nella relazione interpersonale. Questa forma di oppressione si concretizza ad esempio nell’utilizzo improprio del potere o del controllo. Le persone con disabilità ne fanno esperienza fuori dai servizi, nelle loro relazioni quotidiane, ma anche all’interno dei servizi, quando altri soggetti prendono decisioni per loro su questioni di qualsiasi natura, più o meno quotidiane o significative, senza interpellarle. È possibile collocare in questa chiave di lettura anche le conseguenze del mandato di custodia a cui rispondono tanti servizi e organizzazioni per le persone con disabilità (Oliver e Barnes, 2012; Zorzi, 2016): il confine tra cura e custodia, tra aiuto e controllo è labile in queste forme organizzate, poiché di fatto rispondono all’esigenza di occuparsi delle persone con disabilità in vece dei loro caregivers familiari. Nonostante all’interno dei singoli servizi e organizzazioni le attività siano improntate a favorire il benessere delle persone con disabilità, di fatto la finalità di controllo e custodia è ancora presente nella logica di fondo su cui sono costruiti i servizi diurni e residenziali e legittima la loro esistenza in assenza di alternative realmente inclusive (Merlo e Tarantino, 2018). Questo mandato si traduce in una forma di oppressione interpersonale poiché legittima gli operatori a «validare» le scelte delle persone con disabilità prima di darvi seguito (Marchisio, 2019), ma anche perché sostiene l’idea per la quale le persone con disabilità debbano essere controllate dal momento che non sono in grado di adempiere ai compiti di vita in ragione di una loro condizione di inferiorità (Schianchi, 2021): questo controllo può venire meno solo laddove siano loro stesse a dimostrare di essere degne di fiducia e rispetto. L’esercizio del potere in contrasto con la volontà delle persone con disabilità è connesso anche alle forme di protezione giuridica: la legittimazione di un’azione contraria alla volontà delle persone non è data solo dal mandato dell’amministrazione di sostegno, che andrebbe invece esercitato nel rispetto dell’intenzionalità della persona con disabilità. In ogni caso, anche laddove sia strettamente necessario agire contro la volontà, non possiamo ignorare che la perdita del controllo sulla propria vita ha un effetto fortemente negativo, disabilitante, sulle persone (Illich et al., 1977): è quindi necessario considerare attentamente questa conseguenza tra gli effetti delle decisioni che vengono prese per valutarne il peso. L’oppressione interpersonale si concretizza anche nell’utilizzo di un linguaggio discriminatorio: ancora oggi la diffusione dell’espressione «persone con disabilità» proposta dalla Convenzione ONU non è così larga, ma soprattutto non è garantita l’accessibilità delle parole, scritte e pronunciate, alle persone che hanno una disabilità intellettiva, in generale come nello specifico nei servizi, e questo rappresenta una significativa forma di discriminazione.
L’oppressione internalizzata consiste nell’introiettare, da parte delle persone oppresse, il disvalore a loro attribuito, le etichette negative come parte della propria identità (Raineri, 2022). Le persone con disabilità sono soggette a una svalutazione dovuta al considerare la loro condizione «inferiore» rispetto a quella delle persone che non hanno una disabilità (Schianchi, 2021). La continua esposizione a messaggi svalutanti comporta che loro stesse si convincano di essere in una condizione «sbagliata» e di costituire un problema (Parker e Crabtree, 2018). Il senso di inferiorità introiettato può sostenere, inoltre, la convinzione di non avere credibilità agli occhi di chi detiene un potere nei loro confronti (ad esempio, i genitori o gli operatori) e/o che non ci sia la possibilità di essere capiti dall’altro. L’oppressione internalizzata diminuisce il senso di autoefficacia, alimentando sentimenti di impotenza, con conseguenti ricadute negative sulla motivazione a investire impegno e risorse personali in percorsi di cambiamento della propria situazione di vita volti all’autorealizzazione.
L’oppressione ideologica si bassa sulla contrapposizione tra gruppi sociali, tra i quali tendenzialmente uno è culturalmente dominante (Healy, 2015). È questo gruppo a definire i significati in relazione a cosa sia giusto, come sia bene vivere, cosa sia adeguato in termini di esercizio dei ruoli sociali (essere un adulto, essere una donna/un uomo, ecc.). Di contro, i gruppi «minoritari» sono oggetto di dinamiche di esclusione e marginalizzazione che poggiano sia su processi di etichettamento sia su disuguaglianze in termini materiali (economica, politica, ecc.). Le persone con disabilità sono oggetto di svalutazione, come si è detto poco sopra, e a questa svalutazione sono legate due rappresentazioni in particolare cui vengono frequentemente associate: il malato e il bambino (Lepri, 2020). Entrambe sono rappresentazioni che le vedono impossibilitate a esercitare un ruolo adulto e, pertanto, sono escluse dall’accesso alle opportunità che l’essere adulti comporta secondo il significato più ampiamente condiviso: vivere da soli, lavorare, essere economicamente indipendenti, costruirsi una nuova situazione familiare. La forma di oppressione ideologica più forte nei confronti delle persone con disabilità consiste, in sintesi, nell’idea che in relazione semplicemente alla loro condizione di salute, al fatto che il loro «funzionamento» non è ordinario, non siano in grado di prendere decisioni o di esprimere intenzionalità sensate. La discriminazione su cui poggia questa forma di oppressione sostiene ideologicamente — cioè a priori — l’esclusione della loro voce dai contesti e dai processi decisionali, nello spazio pubblico, così come nello spazio privato.
Infine, l’oppressione istituzionale si traduce nel non tenere conto della condizione di svantaggio di alcuni soggetti. Si esprime cioè attraverso azioni o omissioni che colpiscono in particolare un determinato gruppo di persone che diventa quindi, più di altri — questo l’elemento discriminatorio e di ingiustizia — oggetto di controllo o, comunque, subisce in particolare gli effetti negativi dalle scelte che vengono compiute a livello politico o organizzativo (Tedam, 2021; Raineri, 2022). Un esempio di effetto dell’oppressione istituzionale è la prevedibilità dei percorsi di vita delle persone con disabilità (Marchisio, 2019). Essa è dovuta in larga misura alla standardizzazione dei servizi pensati per loro: in sostanza, sono le esperienze di vita che vengono piegate, adattate alle esigenze organizzative. Questo avviene nella quotidianità, ad esempio quando le persone devono adattarsi agli orari per azioni quotidiane come fare la doccia, mangiare, guadare la televisione, etc. senza avere accesso libero agli spazi e alle risorse dei luoghi che abitano oppure quando sono tenute a partecipare alle attività proposte nei servizi diurni anche se non sono interessate. Lo stesso accade nei momenti di svolta (ad esempio, quando il caregiver viene a mancare): anziché poter ricorrere a una riorganizzazione della vita che è stata pensata sulla base delle loro esigenze, le possibilità per le persone con disabilità sono poche e predeterminate (Zorzi, 2016). A fronte di queste considerazioni, è possibile affermare che il loro margine di esercizio della libertà è quindi fortemente ridotto.
Discriminazione, oppressione e ostacoli ai processi di autodeterminazione: l’esperienza delle persone con disabilità intellettiva
Praticare l’approccio anti-oppressivo significa, innanzitutto, essere consapevoli delle dinamiche di oppressione derivanti dalla discriminazione: un certo gruppo sociale, in questo caso le persone con disabilità, considerato deviante/diverso dal pensiero dominante, è oggetto di etichettamento, come abbiamo visto, in ragione di una caratteristica identitaria. Le persone oggetto di discriminazione si trovano ad affrontare ostacoli specifici derivanti dalla marginalizzazione nei propri percorsi di autorealizzazione: l’oppressione ha quindi un effetto concreto sulle opportunità delle persone con disabilità di avere il controllo sulla propria vita ed esprimere comportamenti autodeterminati.
Senza la pretesa di essere esaustivi, è possibile nominare alcuni elementi che, secondo le ricerche (Zorzi, 2016; Marchisio, 2019; Lepri, 2020; Stancliffe, 2020; Shrogen, 2020) sono piuttosto trasversali all’esperienza delle persone con disabilità, specialmente se intellettiva, e costituiscono un ostacolo ai processi di autodeterminazione:
- ostacoli istituzionali: sono ostacoli che di fatto non consentono alle persone l’accesso a servizi e interventi che potrebbero rappresentare per loro opportunità di crescita e sviluppo personale dovuti all’organizzazione del sistema dei servizi. Ad esempio, la definizione strutturata a priori dei target di riferimento degli interventi/dei benefici, che sottende un posizionamento «predittivo» iniziale nei confronti di ciò che una persona con disabilità potrà/non potrà fare che limita la progettazione dei percorsi di aiuto; oppure, l’utilizzo del criterio di gravità nei requisiti di accesso che restringe in partenza (e in larga misura per quanto riguarda i sostegni pubblici, specialmente economici) le opportunità date alle persone che non lo soddisfano;
- l’esperienza quotidiana e prolungata di relazioni asimmetriche (Lepri, 2020) nelle quali le persone con disabilità sono soggette a modalità di relazione infantilizzanti, dovuta ai pregiudizi e alle rappresentazioni culturali di cui si è parlato. Queste modalità di relazione sono un ostacolo poiché riducono lo spazio di autonomia non solo di azione, ma anche di pensiero: impattano, cioè, negativamente sulla possibilità di sviluppare un pensiero indipendente, presupposto necessario per l’esercizio della libertà di scelta;
- la restrizione di opportunità e alternative di scelta già nella prima fase della vita adulta, che diminuisce di fatto le possibilità di autorealizzazione. Diversamente da quanto succede per gli altri giovani adulti, la chiusura del percorso scolastico rappresenta un momento critico nel percorso di vita dei giovani adulti con disabilità, dove di frequente più sono alti i bisogni di sostegno e più sono carenti le risorse disponibili (sia materiali che psicologiche, di rete sociale, della famiglia, pubbliche), più si restringono i percorsi possibili nel sistema dei servizi;
- infine, le barriere connesse all’accessibilità, sia in senso fisico che relazionale: ad esempio le barriere comunicative date dalla loro condizione (ad esempio, persone che non comunicano o comunicano a fatica attraverso il canale verbale), ma anche dalla mancata diffusione di un linguaggio accessibile nei vari contesti sociali sia sul piano scritto che verbale.
Trattando di questi aspetti, è importante sapere anche che, negli studi sul tema, quando si affrontano le questioni legate alle discriminazioni si fa riferimento alla necessità di un approccio intersezionale (Tedam, 2021; Tarantino et al., 2021): la situazione di ogni persona con disabilità, già caratterizzata dalle discriminazioni e le oppressioni connesse a questa condizione, potrebbe intrecciarsi con altri livelli di oppressione connessi ad altre condizioni individuali colpite da pregiudizi e discriminazioni, come essere stranieri, essere donne, essere in povertà, e via dicendo. Nel considerare la situazione, bisogna quindi tenere a mente anche l’intreccio di queste componenti: nell’esperienza delle persone, le barriere possono quindi moltiplicarsi, con effetti amplificati in termini di oppressione intesa come restrizione delle opportunità di autorealizzarsi.
Infine, è importante sottolineare che barriere e forme di oppressione si alimentano vicendevolmente: le varie forme di oppressione sono legate tra loro e si manifestano simultaneamente nell’esperienza delle persone (Thompson, 2020), rinforzando le dinamiche di esclusione e marginalizzazione.
Operatori sociali e non-oppressione: processi decisionali partecipati e riflessività
La questione dell’oppressione riguarda gli operatori poiché, nello svolgere il proprio compito di aiuto, essi esercitano un potere: come agenti di potere gli operatori sono esposti a divenire agenti di oppressione e l’approccio anti-oppressivo invita gli operatori sociali sostanzialmente a riflettere su questo aspetto per capire, da un lato, come non tradurre anche il loro potere in azioni oppressive, dall’altro, come questo potere può essere usato positivamente, cioè con la finalità di contrastare attivamente l’oppressione stessa (Raineri, 2022).
Nel riconoscere il potere degli operatori sociali possiamo vedere che essere «oppressori» significa ad esempio utilizzare le proprie competenze e il proprio ruolo per screditare, più o meno intenzionalmente, il punto di vista di altri interlocutori (ad esempio, di altre persone la cui opinione è significativa per la persona con disabilità o quello delle persone con disabilità stesse); oppure, sfruttare l’asimmetria informativa, cioè quella condizione per cui gli operatori hanno informazioni che i loro interlocutori non sempre possiedono a loro vantaggio, mancando di trasparenza; o, ancora, approfittare del fatto che rappresentano un punto di riferimento per i loro interlocutori per orientarne l’azione o l’opinione dando luogo, di fatto, a una manipolazione. Come sottolinea Thompson (2020), non importa quali siano le intenzioni alla base dell’agire degli operatori, che solitamente sono «buone» intenzioni — aiutare, fare il bene dell’altro: l’esito è che l’azione professionale non è coerente con i principi di giustizia sociale e rispetto dell’autodeterminazione nel momento in cui ostacola l’autonomia di pensiero o di azione dell’altro, riducendo le sue alternative o influenzando indebitamente il processo decisionale che riguarda la sua situazione di vita. Massimizzare la trasparenza dei processi decisionali è quindi una prima indicazione operativa fondamentale che è possibile dedurre dall’approccio.
L’approccio anti-oppressivo si declina, poi, nella costruzione di processi di collaborazione partecipativi (Raineri, 2022). Per definire un processo come tale è necessario guardare alla distribuzione di potere decisionale nelle relazioni tra i soggetti coinvolti: se il potere non è condiviso, diffuso, non è possibile parlare di partecipazione autentica (Folgheraiter, 2011). Riconoscere la differenza di posizione di potere data dal ruolo e sapere che, in partenza, vi è una disparità che innanzitutto va compresa, contestualizzata e poi appianata permette di focalizzare la centralità della costruzione della relazione stessa di aiuto: è necessario che gli operatori lavorino innanzitutto sui presupposti relazionali che costituiscono un assetto adeguato a collaborare in ottica partecipativa. Si tratta prima di creare le condizioni affinché questo possa accadere — ovvero una situazione relazionale in cui tutti si sentano considerati, rispettati, capaci, legittimati e, anzi, chiamati a contribuire; poi di stabilire i contenuti dell’aiuto (cosa facciamo, perché lo facciamo, ecc.) (Turati, 2024).
Per fare questo, gli autori indicano come aspetto centrale della pratica anti-oppressiva, la riflessività (Folgheraiter, 2011; Thompson, 2016). Riflessività significa agire nella pratica quotidiana con consapevolezza, senza automatismi; significa capacità di interrogarsi e di riconoscere la condizione dell’altro; esercitare il proprio potere a favore dell’altro, del cambiamento che desidera per sé stesso e non del cambiamento auspicato solo dagli operatori, per non contribuire a un’esperienza di oppressione in cui il controllo è, ancora una volta, in mano ad altri. È importante ricordare, infatti, che le persone con disabilità spesso sperimentano una condizione di non-potere a più livelli (Parker e Crabtree, 2018; Oliver e Barnes, 2012; Lepri, 2020) : non solo internamente ai servizi, per ruolo e situazione, ma anche nella società, in quanto soggette a dinamiche di esclusione, come si è detto, e marginalizzazione che danno loro poche possibilità di scelta; ma anche nelle loro relazioni interpersonali, familiari, lavorative o in altri contesti quotidiani, dove non sono considerate «alla pari» dei loro interlocutori. Per non agire in modo oppressivo gli operatori devono essere, appunto, riflessivi. Si tratta di un posizionamento difficile, ma necessario, che comporta stare dentro e fuori dal processo di aiuto (Folgheraiter, 2011): esserne parte, ma anche esserne in qualche modo fuori, poterlo osservare nel suo svolgersi per permetterne uno sviluppo etico e realmente trasformativo. Adottare un atteggiamento riflessivo per gli operatori significa riconoscersi come portatori anche di istanze proprie nei processi, che potrebbero dare luogo alla scelta di intraprendere azioni più favorevoli per gli operatori stessi non privilegiando l’interesse delle persone (ad esempio, scegliere azioni/interventi che comportino meno rischi per gli operatori o minor dispendio di tempo/risorse, ecc.). Essere riflessivi permette agli operatori di riconoscere che possono aver agito in modo oppressivo in determinate circostanze e offre quindi anche l’opportunità di «rimediare», evitando che le conseguenze negative delle scelte compiute si protraggano nel tempo a causa della mancanza di consapevolezza.
La pratica anti-oppressiva per orientare gli strumenti di assessment e progettazione
Il coinvolgimento delle persone nei processi decisionali comporta, nell’ambito dei percorsi di aiuto, la partecipazione a tutte le attività attraverso le quali l’aiuto stesso viene pensato e, successivamente, realizzato. In questo paragrafo si propone una riflessione operativa sulle fasi di valutazione iniziale e progettazione, con la consapevolezza della particolare significatività di questo tema nell’ambito dei servizi per la disabilità in relazione alla riforma normativa in corso sul progetto di vita, auspicando di fornire elementi utili per lo sviluppo di pratiche orientate da un punto di vista metodologico che sostengano l’implementazione della riforma stessa nelle organizzazioni.
Guardando quindi agli strumenti di assessment e progettazione, potremmo chiederci: come ci possono essere di ostacolo o di aiuto nel tenere alta l’attenzione metodologica sulle questioni che l’approccio anti-oppressivo ci pone?
Gli strumenti, come i modelli di progetto di vita, di PEI, le schede di rilevazione dei bisogni o delle autonomie e simili, sono utili per gli operatori se sono metodologicamente orientati. Diversamente, utilizzati in modo acritico, poco consapevole degli scopi a cui rispondono (che spesso sono di altra natura: amministrativi, rendicontativi, di verifica dei requisiti di accesso, ecc.), possono portare a adottare atteggiamenti oppressivi. Possono infatti disincentivare gli operatori nel mettere in pratica la riflessività: se gli operatori usano strumenti per essere sostenuti nei processi di valutazione e progettazione ed essi non sono costruiti sulla base del metodo, ma su altre priorità, scopi e criteri, il modo in cui gli operatori esercitano la pratica può rispecchiare quelle priorità e quei criteri che poco hanno a che fare con i bisogni, i desideri, i problemi e le priorità delle persone; in generale, se gli strumenti non sono costruiti sulle finalità dell’aiuto secondo un dato approccio, possono portare gli operatori fuori strada e le persone potrebbero fare esperienza di quello che comunemente è vissuto come un atteggiamento «burocratico» degli operatori. D’altra parte, se gli strumenti propongono nelle loro voci, nelle loro parti, azioni e operazioni metodologicamente sensate, sostengono l’operatore nel compierle. Riflettendo sulla costruzione di strumenti di assessment e progettazione secondo l’approccio anti-oppressivo, è possibile evidenziare alcune implicazioni operative.
- Considerare i diversi fattori. Una lettura multifattoriale e contestuale della situazione delle persone è alla base di ogni formazione «sociale»: si guarda, per natura delle professioni di aiuto sociali, alla relazione individuo-ambiente. Questa è una nozione ampiamente condivisa e ribadita, soprattutto nell’ambito della disabilità per come oggi è definita in tutti i documenti, a partire da quelli normativi, di riferimento. Tuttavia, gli strumenti di assessment sono spesso descrittivi del «funzionamento» individuale e raccolgono informazioni legate all’ambiente in senso stretto (relazioni familiari, servizi attivati). Manca la capacità di considerare realmente lo svantaggio sociale includendo gli elementi contestuali in senso più allargato che impattano sulla condizione delle persone (ad esempio, assenza di contesti territoriali accoglienti, presenza di barriere architettoniche sul territorio, elementi sulla condizione economica, quali l’esclusione da benefici…).
- Prevedere obiettivi di cambiamento legati al contesto. La conseguenza dell’assenza di contestualizzazione dei problemi è che nella progettazione ci si prefiggono obiettivi legati tendenzialmente al cambiamento della persona. Difficilmente nei progetti individualizzati si declinano obiettivi che lavorino anche sulla modifica dell’ambiente. Con modifica dell’ambiente si intende anche dei servizi e delle organizzazioni, che spesso non sono adattabili alle esigenze delle persone: come si è già sottolineato, lo sforzo di adattamento è quasi sempre, o prevalentemente, unidirezionale (le persone si adattano ai contesti o ne rimangono esclusi se non riescono a farlo in misura sufficiente). Questo si verifica anche laddove nell’assessment si sia fatto uno sforzo di contestualizzazione: all’atto di progettare azioni, è difficile tenere alta l’attenzione sulla modifica di altri aspetti della situazione di vita, ad esempio delle relazioni familiari e sociali o del contesto territoriale e sociale. Questa considerazione può essere declinata in relazione all’obiettivo di favorire processi di autodeterminazione: la possibilità di esprimere un comportamento autodeterminato dipende sia dalle capacità individuali, ma anche dai sostegni che le persone hanno a disposizione e dalle opportunità (Wehmeyer e Garner, 2003). Ciò significa che per sostenere questo esito, possiamo lavorare sulle capacità, tanto quanto sull’aumento dei sostegni disponibili che delle opportunità.
- Connettere le attività e gli interventi al senso del progetto stesso in termini di autorealizzazione per le persone con disabilità. Le attività, infatti, sono spesso confuse o sovrapposte agli obiettivi: far fare l’attività diventa l’obiettivo stesso (ad esempio, far fare un tirocinio o un corso); si perde di vista a cosa serva quell’attività in relazione al percorso della persona, quale è la cornice di senso entro la quale si colloca; in che misura le decisioni che vengono prese appartengono alle persone e corrispondono ai loro desideri (questo dovrebbe essere il senso del progetto stesso).
- Ridefinire il potenziamento delle capacità individuali come processo emancipatorio. Se da un lato è necessario prevedere azioni sul contesto per contrastare l’oppressione «esterna», è possibile lavorare anche sulla dimensione dell’oppressione internalizzata. Potenziare le capacità nella logica anti-oppressiva può significare potenziare la capacità delle persone con disabilità di percepirsi, di costruirsi un’opinione, di operare nei processi decisionali (che vuol dire: avere delle opzioni, conoscerle, valutare le conseguenze, immaginare gli scenari, percepire cosa è sensato per sé, ecc.). Questo costituisce un nodo fondamentale per la ridefinizione delle relazioni di aiuto in termini più paritari: senza questa attivazione, è impossibile parlare di partecipazione ai processi decisionali, di empowerment e, quindi, anche di maggiore equità e giustizia sociale nell’aiuto. Il supporto ai processi decisionali è un obiettivo centrale e prioritario nell’attività di accompagnamento delle persone con disabilità più che aumentare le loro competenze o capacità di fare. Nella costruzione di strumenti, ciò significa integrare sempre il loro utilizzo con l’ascolto e il dialogo, ma anche prevedere nei modelli spazi dedicati alla voce delle persone con disabilità dove emerga chiaramente la loro prospettiva. Inoltre, potenziare le capacità vuol dire anche lavorare sulla possibilità per le persone con disabilità di percepirsi come un gruppo di interesse su un territorio, che può unire le forze per far fronte comune a problemi comuni. In questo senso, ci sono esperienze, anche se rare, di costituzione di gruppi di persone con disabilità che rappresentano sé stesse nelle organizzazioni, ma anche nei tavoli con gli enti locali o con le istituzioni. Anche l’utilizzo dell’auto mutuo aiuto tra persone con disabilità e del peer support è ancora poco strutturato: si realizza informalmente e senza una precisa finalità magari all’interno dei servizi stessi, ma difficilmente diventa un’attività strutturata e decodificata.
- Usare una comunicazione accessibile. L’ultima questione riguarda l’accessibilità degli strumenti. Per rispettare l’impegno alla trasparenza e al coinvolgimento nei processi richiesto dall’approccio anti-oppressivo, le persone con disabilità, specialmente se intellettiva, devono poter accedere ai contenuti degli strumenti stessi. Comunicare e scrivere in modo accessibile è quindi un altro aspetto prioritario. Per quanto riguarda i documenti scritti e gli strumenti, in particolare si può utilizzare il linguaggio easy to read facile da leggere.3 Accogliere la sfida del linguaggio facile è utile anche per gli operatori: semplificare la forma, ma non il contenuto ha un potere chiarificatore per tutti i soggetti coinvolti e può essere di grande aiuto per definire meglio obiettivi e azioni progettuali. Il linguaggio tecnico, infatti, può nascondere una certa confusione o poca chiarezza a livello di pensiero: espressioni come autonomie domestiche, attività di vita quotidiane, possono non essere così esplicative di quanto effettivamente, concretamente si vuole intendere. Esprimersi in linguaggio facile, sia nella forma scritta che verbale, permette agli operatori di spiegare prima a sé stessi, poi alle persone, cosa vedono, cosa propongono, cosa hanno capito, etc. e condividere in modo trasparente finalità, obiettivi e azioni dei progetti.
Conclusioni
Il ragionamento proposto si sintetizza in queste tappe: riconoscere le forme di oppressione, sperimentate e agite, dagli operatori e sul piano delle relazioni sociali, basate sulla discriminazione; riconoscere le barriere e gli ostacoli derivanti dalle forme di oppressione, che consistono sostanzialmente nell’esclusione e nella riduzione del margine di libertà di azione; riconoscere il potere degli operatori, in particolare, per lavorare sulla costruzione di assetti relazionali paritari, in cui tutti possano sentirsi parte del processo di aiuto e titolati a orientarne l’andamento per contrastare gli effetti dell’oppressione. L’apertura del processo di aiuto in ottica partecipativa permette di ottenere assessment e progetti più realistici, più coerenti, più sensati e, quindi, più utili ed efficaci per le persone stesse (Folgheraiter, 2011). La partecipazione ai processi permette, infatti, all’assessment e ai progetti di divenire rappresentazioni corali, condivise, articolate di quale sia la direzione del cambiamento auspicato verso cui tutti lavorano. Questa consapevolezza può sostenere anche la costruzione di strumenti e processi di assessment e progettazione metodologicamente ed eticamente orientati dall’approccio anti-oppressivo, che sostengano la pratica riflessiva degli operatori sociali.
L’approccio anti-oppressivo porta con sé una sollecitazione per gli operatori sociali a ridefinire confini e modalità delle relazioni di aiuto: per fare dell’esperienza di relazione di aiuto il primo strumento di cambiamento, è necessario lavorare per costruire relazioni più eque, in cui le persone possano sentirsi riconosciute alla pari e coinvolte a pieno titolo nella valutazione e nella progettazione. Inoltre, gli operatori possono promuovere il cambiamento degli strumenti e delle procedure affinché siano coerenti e utili nel processo e perché producano maggior beneficio per le persone anziché alimentare disuguaglianze, ingiustizie e contribuire all’esclusione dai processi decisionali.
D’altra parte, l’approccio invita gli operatori a lavorare anche fuori dai servizi, nelle e con le comunità. Se non è possibile cambiare le dinamiche strutturali di un contesto sociale allargato, è però possibile ragionare in termini di riduzione dell’impatto dell’oppressione sull’esperienza di vita delle persone, con riferimento alle barriere descritte in precedenza connesse alla restrizione delle possibilità. Partendo dalla consapevolezza che alcune persone hanno un margine di libertà di scelta molto ridotto, sono cioè in una condizione di oppressione, limitate nella loro possibilità di scegliere e di avere alternative, gli operatori si fanno promotori di un processo di accrescimento del potere anche attraverso l’aumento delle opportunità: acquisire potere e libertà di scelta vuol dire innanzitutto avere delle alternative entro cui muoversi. Se l’oppressione comprime il margine di libertà, l’azione anti-oppressiva spinge in direzione opposta, cercando di allargare questo margine. L’azione trasformativa della pratica professionale si allarga quindi non solo sulle singole situazioni, ma anche sui contesti di vita, che diventano «oggetto» necessario di lavoro per favorire percorsi di autorealizzazione delle persone con disabilità. L’inclusione è un processo bidirezionale: lavorare sulla capacità inclusiva di uno specifico contesto territoriale è una priorità tanto quanto lavorare sulle capacità delle persone (in termini emancipatori, come descritto in precedenza), per raggiungere il risultato.
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1 Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Centro di ricerca Relational Social Work.
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2 Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, Centro di ricerca Relational Social Work.
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3 Per approfondire si vedano le linee guida a cura di Anffass disponibili sul sito https://www.anffas.net/it/linguaggio-facile-da-leggere/linee-guida/ (consultato il 20/12/2024).
Vol. 1, Issue 2, October 2024