Vol. 1, n. 2, ottobre 2024

Lo spirito del «volontariato esperienziale» nella lezione di Vladimir Hudolin

Vladimir Hudolin come Maestro del cambiamento umano1

Fabio Folgheraiter2

Sommario

L’articolo è un saggio teorico, in cui viene presentata una riflessione in merito all’Approccio ecologico-sociale e alle sue connessioni con il volontariato. Il saggio si sofferma sulla figura di Vladimir Hudolin e sui concetti di ecologia sociale e spiritualità antropologica, da lui introdotti nell’ambito della cura dei problemi alcol correlati. L’autore sottolinea come, secondo Hudolin, ogni cambiamento nello stile di vita costituisca, in ultima istanza, un cambiamento spirituale, che si riverbera profondamente nella vita delle persone e di coloro che le circondano. I volontari che hanno sperimentato personalmente un cambiamento nello stile di vita sono in grado di mettere a disposizione un’autentica esperienza e di introdurre mutualità e reciprocità nei percorsi di aiuto. Lasciare spazio agli esperti per esperienza può portare profonde innovazioni nel sistema di welfare.

Parole chiave

Approccio ecologico sociale, spiritualità antropologica, Vladimir Hudolin, volontariato, esperti per esperienza.

The meaning of «experiential volunteering» in Vladimir Hudolin’s lesson

Vladimir Hudolin as a Master of Human Change3

Fabio Folgheraiter4

Abstract

The article is a theoretical essay reflecting on the Social Ecological Approach and its links to volunteer work in the field of Alcology. The essay focuses on the figure of Vladimir Hudolin and the concepts of social ecology and anthropological spirituality that he introduced in the context of treating alcohol-related problems. The author emphasises how, according to Hudolin, any change in lifestyle is ultimately a spiritual change that has a profound effect on the lives of people and those around them. Volunteers who have personally experienced a lifestyle change can provide authentic experiences and introduce mutuality and reciprocity into the pathways of help. Profound innovations in the welfare system can be brought about by the active presence of experienced experts.

Keywords

Social Ecological Approach, Anthropological spirituality, Vladimir Hudolin, Volunteering, Experts by experience.

Introduzione

L’articolo presenta una riflessione sull’approccio ecologico-sociale e sulle sue connessioni con il volontariato nell’ambito dell’alcologia, a partire dalla figura di Vladimir Hudolin e dai suoi insegnamenti. Preme sottolineare che Hudolin non ha mai voluto essere uno studioso puro, un teorico, uno che amava particolarmente scrivere e spiegare le cose in astratto, è stato piuttosto un grande animatore di movimenti sociali, un «illuminato», un Maestro che ci ha mostrato la strada con l’esempio.

Il professor Hudolin era uno psichiatra croato, direttore della Clinica universitaria di Zagabria, formatosi alle idee della Psichiatria sociale di Maxwell Jones (1952), di cui era stato tirocinante e allievo al Maudsley Hospital di Londra. Hudolin si interessò subito alla cura dell’alcolismo, studiando in particolare il metodo dei Dodici passi degli Alcolisti Anonimi (AA). In terra jugoslava, Hudolin sperimentò delle varianti di AA che lo portarono a fissare un suo metodo per la terapia di gruppo, che prevedeva un tipo di gruppo mutuale che lui chiamò CAT (Club degli Alcolisti in Trattamento; poi Club Alcologici Territoriali).

In realtà, fin dall’inizio della sua sperimentazione in Italia, il Club fu pensato come un gruppo per le famiglie con problemi alcol-correlati. Mentre gli AA tendevano (sulla base di ragionamenti molto sofisticati) a dividere i soggetti interessati alla «terapia» in categorie separate (utenti/famigliari/figli minori), Hudolin ipotizzò invece che sempre, nel gruppo, dovesse essere presente idealmente, fin dove possibile, l’intera famiglia, o almeno due suoi rappresentanti significativi, oppure al limite qualche suo delegato (il cosiddetto «familiare sostitutivo»).

Un’altra geniale intuizione di Hudolin fu quella di mostrare il valore della relazione tra i CAT e i Servizi sociosanitari, o meglio tra le famiglie e gli operatori professionisti i quali, in volontariato puro, si inserivano nei CAT non per fare i terapeuti, ma come servitori (per imparare l’umanità assorbendola nei gruppi). Hudolin fu un grande fautore e promotore del «lavoro di rete». Ma la forza dell’insegnamento di Hudolin non si riduce solo agli aspetti metodologici, pur importanti. Egli ci ha dato delle direttrici fondamentali anche sul piano epistemologico. Ci ha aiutati a cogliere i punti salienti — o i nodi critici — che accomunano tutte le discipline che studiano il cambiamento esistenziale, come la psichiatria, la psicologia, il social work, il counseling, la politica sociale.

Tanti aspetti del pensiero di Hudolin sono così profondi da aver poi disseminato/fecondato tutto il mondo del welfare, a 360 gradi. Hudolin era conosciuto a livello internazionale come uno specialista in alcologia (di problemi alcol-correlati, Hudolin e Jauk, 1991) ma oggi a posteriori lo vediamo in effetti come un esperto di ecologia sociale (o ecologia umana).

Cosa vuol dire ecologia sociale (o ecologia umana)

Quando parliamo di ecologia sociale, non parliamo ovviamente qui solo dell’ecologia comunemente intesa, o della sostenibilità ambientale o verde. In una cornice sociosanitaria, noi parliamo di una sostenibilità sociologica, di una ecologia dell’umanità: l’auspicio che gli esseri umani sappiano ricreare nelle loro relazioni un ambiente emozionale che non intossichi o non inquini l’essenza dell’umano: la fiducia, la speranza, la cura, l’ascolto e il dialogo, il senso di giustizia, di pace, di solidarietà, eccetera.

La convinzione più potente di Hudolin era infatti che fuoriuscire dai problemi umani (esistenziali) è possibile, rigorosamente, solo facendolo assieme, solo — per così dire — tenendosi per mano. Quando lo stare assieme è umanamente salubre, ci consente di fare assieme cose belle e buone, e perciò di sentirci degni di noi stessi e della nostra vita, e crea intorno a noi una sorta di «cuscinetto» protettivo (buffering effect). Ci sentiamo un poco riparati rispetto ai rischi maggiori della vita e, qualora cadessimo comunque poi in qualche buca, lo stare assieme ci aiuta a tirarci fuori meglio dai problemi comuni.

In questa sua intuizione, Hudolin riecheggiava qualcosa non solo del già citato Maxwell Jones e di Franco Basaglia (1968), ma anche di don Milani. Probabilmente Hudolin non aveva mai incontrato, né letto, don Milani e probabilmente non era neppure a conoscenza del suo celeberrimo slogan (I care) così come della sua famosissima citazione, quella del sortirne assieme.5 Il priore di Barbiana morì giovanissimo nel 1967, a quarantaquattro anni, qualche decennio prima che Hudolin si traferisse in Italia e imparasse l’italiano. Ma don Milani, Hudolin senz’altro ce l’aveva «dentro». Sono arrivati per strade diverse — forse per affinità elettiva — a intuire la stessa cosa. Entrambi ebbero ben chiaro che cosa fosse il «senso del sociale». Il «senso del sociale» si potrebbe definire la consapevolezza inconscia (il Paradigma) che per avere una terapia autentica dobbiamo ricreare uno «spirito di comunità» e dunque, specularmente, la consapevolezza che ogniqualvolta ricreiamo un’autentica comunità umana, di fatto ricreiamo le condizioni per una vera dinamica terapeutica.

L’idea del sociale fu un’intuizione fenomenale del dopoguerra (prima e dopo il Sessantotto) che era vivissima in entrambi i Maestri di cui parliamo. Hudolin pensava: per un’efficace terapia delle dipendenze è necessario prendere le cose — per così dire — alla larga: cioè, prenderle relazionalmente (socialmente) invece che individualmente. Se prendiamo un qualsiasi Ego, di qualsiasi tipo esso sia, e ci fissiamo su di lui/lei, per vedere quanto sia bravo/a, siamo fuori strada. Se, ad esempio, concentrassimo l’attenzione su un terapeuta e pensassimo che è lui/lei, in quanto esperto, che solo governa il gioco terapeutico, saremmo fuori strada. Oppure, se credessimo che debba essere l’utente o il paziente come individuo «in sofferenza» che può salvarsi da solo, in virtù delle sue forze e della sua volontà (che pure sono risorse fondamentali, in senso rogersiano) saremo ancora fuori strada. Infine, se pensassimo che debbano essere i parenti o i figli o gli amici (cioè le famose reti sociali) che possono fare da sole dei miracoli a favore del loro caro (del paziente) inconsapevole, di nuovo saremmo fuori strada.

Il miracolo — diceva Hudolin — scaturisce, se scaturisce, sempre e solo dalla buona volontà di tutti gli interessati a volere il reciproco bene: parliamo cioè del bene di tutto un «sociale». Il sociale infatti — avrebbe poi detto Pierpaolo Donati che ha ulteriormente illuminato queste prospettive — altro non è se non una policentrica fabbrica di bene comune, o di capitale sociale (Donati, 1991).

Durante le sue leggendarie Settimane di sensibilizzazione, rivolte a professionisti, utenti e familiari, Hudolin trasmetteva concretamente questi concetti: quando qualche ingenuo specialista enfatizzava i propri poteri tecnico-scientifici, Hudolin non perdeva occasione di bacchettarlo un poco ruvidamente (anche se con una certa eleganza, con una certa umanità, e con molto umorismo). Quando qualche utente enfatizzava la sua capacità di «smettere quando voleva», Hudolin simpaticamente lo bacchettava e gli ricordava quante volte non era riuscito a smettere, quando lui avrebbe voluto. Quando i familiari si atteggiavano a mere vittime della situazione creata dal loro congiunto, Hudolin ricordava loro che nelle famiglie le mille sfaccettature delle cose sono spesso collegate, e non capitano per caso.

A tutti, Hudolin ricordava che ogni vera terapia è un «sistema», appunto un «ambiente sociale» (un’ecologia umana) che a un certo punto prende coscienza e si ribella — per così dire. Si ribella e reagisce contro la degradazione comune, e per l’appunto si muove «per sortirne assieme». Nelle relazioni risiede la reale (realistica) possibilità di un qualche apprezzabile miglioramento comune. Alcuni avrebbero potuto così pensare che le relazioni potessero essere la soluzione completa del problema, una guarigione letterale e definitiva: tuttavia, Hudolin invitava a «non esagerare».

Ogni bramosia di soluzioni definitive è uno sconquasso irrispettoso della vita — ci lasciava intendere Hudolin.6 La bramosia di demolire i problemi umani e di volerli estirpare dalla Terra; la bramosia di scacciarli dall’animo degli altri, come fa l’esorcista con un indemoniato, è una superbia (una hubris, dicevano gli antichi greci), una presunzione imbarazzante dei terapeuti, che avrebbero dovuto imparare a moderare. I problemi non sono solo male, essi anche ci insegnano e ci spronano. Il paradigma tecnicistico possiede una forza ambivalente, in parte prodigiosa e in parte mostruosa, di per sé poco compatibile con l’umano. Hudolin raccomandava di imparare a tenere le dovute distanze da essa, e non lasciarci avvinghiare dal suo fascino.

Hudolin, come gli Alcolisti Anonimi, raccomandava di mirare umilmente solo al proprio miglioramento umano possibile. Raccomandava a tutti (utente, familiare, cittadino, professionista) di «unirsi» per «fare il meglio assieme», e godere dei progressi fatti, nella speranza di poterne poi fare altri ancora.

L’idea di «fare progressi per migliorare umanamente» porta a considerare la grande questione della spiritualità antropologica.

Cos’è la spiritualità antropologica

L’espressione «spiritualità antropologica» potrebbe forse dar l’impressione — al tempo di oggi — di evocare la rimasticatura di qualche religione consolidata, o forse la rimasticatura di qualche spiritualità esoterica. Ma non è così. Hudolin chiamava «antropologica» una spiritualità basica, «umanistica» perché primariamente orientata all’uomo e solo in seconda istanza poi, eventualmente, orientata al divino; una spiritualità che può essere coltivata indipendentemente dal credo religioso di ciascuno (e anche dal credo assente, o «nullo», di chi ci tiene a definirsi ateo).

La spiritualità antropologica è una «aspirazione a elevarsi» che ha a che fare con la capacità umana (forse unica tra gli esseri viventi) di poter in parte plasmare il proprio Spirito, e di indirizzarlo verso il bene. È una tensione morale all’‘aver cura’, di sé stessi e degli altri. Di nuovo incrociamo qui don Milani: potremmo senz’altro dire che la «spiritualità antropologica» hudoliniana, è quasi un sinonimo della famosa care di don Lorenzo. La care è una tensione che ci aiuta a stare «alti», che ci aiuta a contrastare, potremmo dire, quella tendenza apparentemente irresistibile del nostro Spirito ad affossarsi dentro le necessità e le esigenze del nostro corpo, della nostra biologia costitutiva. Il corpo tende sempre ad assecondare le richieste prevaricanti delle sue carni. Per dirla in termini schietti, il corpo tende a lasciarsi guidare dalle latenti tendenze animalesche che pur sempre ci caratterizzano come uomini (non per niente siamo tutti classificati da Linneo come appartenenti al regno animale).

Non possiamo del resto pretendere di essere noi stessi (cioè di essere degli esseri umani) senza ritrovarci invischiati nei meccanismi biologici, altrimenti saremmo dei robot. I ruotismi e le pulsioni e i piaceri che sono alla base della vita di ogni organismo vivente complesso sprigionano sempre le loro forze e le loro logiche inevitabili, le quali pretendono di imporsi su di noi.

La spiritualità invece è una «forza vettoriale» — direbbero i professori di fisica — che si contrappone a tale deriva. È desiderio/spinta a trascendere la nostra mera funzionalità organica, a elevarci sopra il macchinismo dei nostri organi, a forzare in parte i nostri impulsi interiori. La spiritualità è quella tensione che ci porta a intravvedere il bene connaturato alle fatiche e alle responsabilità, a vedere la luce del «senso» illuminare il nostro Essere e la nostra dignità. È una tensione che ci rende orgogliosi di essere umani, invece che appunto macchine o robot, o semplici bestie.

Il filosofo Vito Mancuso a questo proposito dice:

Credo alla luce che è in me laddove splende nella mia anima ciò che non è costretto dallo spazio e risuona ciò che non è incalzato dal tempo. Quella luce ci permette di superare noi stessi e liberarci dall’oscurità dell’Ego, da quella bestia che certamente fa parte della condizione umana ma non è né l’origine da cui veniamo, né il fine verso cui andremo.7

Il codice della «spiritualità» in campo «terapeutico»

Cerchiamo di capire ora che cosa vuol dire tutto questo discorso astratto se lo impiantiamo nel campo alcologico.

Hudolin trasmetteva l’idea che una vera terapia alcologica è sempre un fatto spirituale, più che un fatto tecnico/deterministico. Nel campo dei problemi alcol-correlati (ma più in generale di tutte le dipendenze mentali) è possibile trovare esemplificato magnificamente questo suo generale principio.

Quando si dice che ci si trova di fronte a una dipendenza pesante, ci si prefigura sempre una sequenza logica di questo genere: primo, che il veleno che chiamiamo «la sostanza» (l’alcool nel nostro caso) inquina abbondantemente il nostro ambiente e la nostra cultura (si pensi, ad esempio, a quanti fiumi di alcool vengono imbottigliati e venduti dalla nostra industria agro-alimentare ogni anno); secondo, che tale veleno si infiltra subdolamente — dato che esso ci piace! — nel nostro cervello e lo intossica; terzo, che il cervello così conciato mette poi sotto scacco e disinnesca la nostra Mente; e quarto, che in tal modo, senza la mente che ci guida, la luce del nostro Spirito progressivamente si spegne.

Nella dipendenza, il nostro cervello preferisce di gran lunga il nostro piacere rispetto alla nostra libertà. In ogni grave stato di dipendenza, per definizione, viene soppressa appunto la libertà della nostra Mente di essere creativa, cioè capace di generare cose inaspettate, e pure meravigliose.

Tra le meraviglie più grandi della nostra libertà noi possiamo mettere quella di inventare modi sempre nuovi di sentirci utili agli altri. Nelle dipendenze, è l’altruismo infatti che si sterilizza. Si pensa quasi solo per sé stessi, per il proprio irrefrenabile bisogno di «quella cosa lì» che è la sostanza. Il cervello innesta quasi un pilota automatico, va fuori dal nostro controllo. Si inabissa a presunto servizio dell’organismo, e dunque di sé medesimo. Che cos’è infatti un cervello? Altro non è se non un ammasso gelatinoso di cellule neurali e di sinapsi — dunque un pugnetto di materia biologica, un organo centrale che funziona magnificamente ma meccanicisticamente, come l’hardware di computer. Il cervello è puro corpo. La Mente invece è puro spirito.

In uno stato di dipendenza profonda, il cervello poi, progressivamente, si adatta a funzionare in qualche modo facendo perno attorno alla sostanza. Quando a un certo punto la solita dose di alcool viene a mancare, la materia cerebrale si sente spiazzata e dunque inizia a «strepitare» e a imporre una sofferenza indicibile a tutto l’organismo (mandandolo, tecnicamente, in astinenza). Il cervello obnubila la Mente ordinandole di dismettere ogni attività pensante per porre in cima a tutte le sue priorità (l’ultimate concern, Archer, 2006), quella di andare a reperire a tutti i costi la dose solita, così da tacitare quella sofferenza insostenibile al momento.

Se noi siamo alcolisti, dunque, sentiamo che il nostro organismo prevarica lo spirito e tendenzialmente lo umilia e quasi lo azzera. Questo è vero ma, fortunatamente, mai del tutto! Un barlume di umanità rimane sempre fino a quando l’uomo… è vivo. Un fondo di speranza (la speranza in una sorta di metaforica «resurrezione») è del resto sempre presente — per definizione — in ogni essere vivente, e a maggior ragione in noi umani.

In breve, in ogni terapia efficace avviene proprio questo, quando scatta il processo di recovery: la mente degli interessati, a un certo punto, sente che è arrivato il momento di rimettersi al comando della propria esistenza. Sente di poter imporsi lei, questa volta, al proprio cervello. Sente di poter desiderare/progettare un sostanziale cambiamento di stile di vita.

A ben pensarci, ogni «cambiamento di stile di vita» (che è lo slogan famoso nel metodo ecologico sociale) corrisponde, in tutto e per tutto, a un cambiamento spirituale. A quel punto, infatti, noi incominciamo a intravvedere che lo spirito torna a fare lo Spirito! L’uomo umiliato e confuso dal chimismo implacabile dell’alcool, ecco che vuole riprendere il progressivo controllo di sé stesso. Si impone il fermo proposito di tornare a muoversi da uomo libero.

Stoppare deliberatamente l’ossessione del bere è il primo passo quindi della spiritualità antropologica. Ma ve ne sono altri, in quanto l’idea della spiritualità antropologica si proietta su orizzonti più alti. Il cambiamento di stile di vita — diceva Hudolin — è poca cosa in fondo se rimane finalizzato — quel cambiamento — alla mera sobrietà, ad essere infine capaci di smettere di bere. Dopo essere riusciti a rinunciare a intossicarci e a degradarci con le sostanze (dopo il sentirsi sanitariamente guariti dall’ossessione), la domanda che ci si deve porre è: che cosa ne facciamo, in positivo, della nostra riacquistata libertà?

Uno stile di vita adeguatamente umano (cioè moralmente orientato) comprenderebbe anche la capacità del nostro Spirito di apprezzare appieno sé stesso, cioè di apprezzare il nostro valore di esseri umani. Stiamo parlando in concreto della nostra capacità di contemplare: a) il senso alto e prezioso della nostra vita; b) la fragilità e la miracolosa resilienza della nostra salute; c) il valore dei nostri legami e delle nostre relazioni; d) il valore e la dignità di tutte le forme di vita e del Creato intero che ci consentono di vivere, e ci consentono di sentirci responsabili e orgogliosi di tutto ciò.

A questo proposito, una seria e lunga frequentazione dei CAT esprime spiritualità perché ci aiuta appunto sempre a guardare la nostra vita, più che solo alla nostra salute, e a considerarla preziosa e prioritaria certo per noi stessi, ma anche per gli altri a noi vicini.

Pascal (2000) paragonava gli esseri umani a delle «canne pensanti». Siamo esseri fragili, sbattuti qua e là dalle difficoltà («miserabili» era il termine usato da Pascal) ma miracolosamente riflessivi, pensanti appunto. Siamo esseri dotati di uno Spirito capace di farci intuire, come detto, il valore di noi stessi, dei nostri affetti, della nostra famiglia/comunità e delle nostre relazioni allargate (del nostro sociale). E pure siamo dotati di una Mente capace in ultimo, pur con grande sforzo e grande disciplina, anche di intuire il valore dell’umiltà e della necessaria nostra subordinazione a principi superiori al nostro Ego, o alle capricciose tirannie della nostra biologia.8

Rimane poi ovviamente un altro step ancora. Per chi crede religiosamente, la spiritualità antropologica ci richiama a una sensibilità capace anche di prefigurare — o di non escludere — un senso trascendente per la nostra esistenza umana su questa Terra, nella speranza di essere amati e attenzionati da un Essere superiore, e forse destinati a qualcosa di misteriosamente più alto rispetto al semplice morire.

Tutto questa capacità di auto direzionamento e di auto-riflessione è l’«umano», di cui spesso si parla. Tutta questa capacità è la nostra medicina, il nostro star bene.

La riflessione ora si concentra sul tema delle competenze esperienziali.

Che cosa è una competenza «esperienziale»

Per capire questo tema, possiamo farci aiutare addirittura da Collodi e dalla sua meravigliosa favola di Pinocchio. La favola mostra una metafora impressionante di un tipico percorso di dipendenza, che qui è stato evocato. Prima una lenta degradazione, fino a un imbarazzante «imbestiamento» del burattino, poi la lenta conquista di una resurrezione. Si deve questa chiave di lettura della favola al cardinale Giacomo Biffi, che a suo tempo ha proposto un’illuminante, e anche molto divertente, rivisitazione della favola di Pinocchio in chiave teologica.9

Pinocchio era un burattino di legno e desiderava tanto, ma tanto — così diceva — diventare umano. Ma i suoi istinti «lignei», e anche gli istinti dei suoi amici in carne e ossa, lo portavano sempre a cedere alle gratificazioni immediate. Il fine primario della sua vita, come sappiamo, era il divertimento e il dire bugie per evitare le proprie responsabilità. Fu così che, quando infine con il suo amico Lucignolo si trasferì a dimorare nel Paese dei balocchi, un poco alla volta, impercettibilmente, irreversibilmente, sentì che stava diventando nientemeno che un asino. Alla fine, fu certo di esserlo davvero. Aveva tutto di un asino vero: la coda, gli orecchi lunghi, il pelo, le quattro zampe, gli zoccoli. Si disperò dapprima, e più si disperava più comprendeva che cosa volesse dire procedere all’incontrario rispetto al diventare umani, come avrebbe tanto desiderato. Capì dal di dentro, con tutto sé stesso, che cosa fosse — per così dire — un imbarazzante processo di imbestiamento. Lo capì drammaticamente, dato che una bestia egli a quel punto lo era davvero! Si impegnò perciò e sopportò le necessarie fatiche di un proprio recovery, prima per ritornare ad essere un semplice burattino di legno e poi, alla fine di un ulteriore travaglio, per esaudire il suo desiderio più grande e divenire un vero bambino umano.10

La fiaba di Pinocchio ci rende chiaro che cosa significa il termine «esperienziale». Una competenza si dice esperienziale quando essa deriva non dalla teoria ma, per l’appunto, come indica il termine, dall’averne fatto esperienza. Un sapere esperienziale non è un sapere acquisito sui libri, e neppure, semplicemente, un sapere ricavato da un’osservazione distaccata di ciò che ci succede attorno.

Continuando a utilizzare la favola come una metafora, è possibile portare qualche esempio: quando la Fata esortava Pinocchio a studiare dicendogli: «studia, Pinocchio, perché altrimenti diventerai un asino», Pinocchio non la stava ad ascoltare e non la capiva. Pensava che quello che diceva la buona Fata fosse «teoria», fossero esortazioni moralistiche inventate e campate in aria. Analogamente, quando un marito ludopatico sente la moglie che gli dice «smetti di giocare alle macchinette, perché altrimenti rovinerai la nostra famiglia», il marito capisce quella teoria, ma al contempo non la capisce affatto. Anzi: quella «teoria» della moglie lui la nega, dicendosi: «figurarsi se io rovino la mia famiglia, con tutto quello che ho fatto e che sto facendo per essa!». Oppure, quando una figlia piangendo guarda negli occhi il papà dicendogli: «smetti di bere per favore perché altrimenti ti perdiamo», scatta lo stesso schema: la «teoria» della figlia è forse vera, ma in astratto. Il papà è sicuro che quella disgrazia a lui non capiterà mai.

Le teorie — le cose che in linea logica possono capitare — si capiscono molto meglio quando esse si inverano dentro di noi, quando le viviamo.

Capiamo meglio quando ci succede davvero ciò che ci viene teorizzato, o ciò che ci viene minacciato. Quando facciamo un’esperienza vera, diretta e profonda, ad esempio, di una dipendenza, o di una malattia, o di un distacco, o di un fallimento, o dell’allontanamento di un figlio da parte dell’Autorità giudiziaria, eccetera, allora tocchiamo con mano la cosa da capire. Ed è così che davvero la capiamo — ci dice Papa Francesco (2015).

L’alcolismo, ad esempio, noi lo possiamo conoscere perfettamente in un verso, ma per nulla magari in un altro. Poniamo che noi ci fossimo appena specializzati in alcologia. In tal caso, conosceremmo tutto dell’alcolismo sul versante teorico, oggettivamente. Ma se non avessimo per caso mai bevuto, soggettivamente, dell’alcool e dei suoi effetti, ne sapremmo in realtà poco più di nulla. Solo qualora noi esperti paradossalmente diventassimo (per nostra disgrazia) dei bevitori allegri, o degli alcolisti incalliti, solo allora quella nozione andremmo a conoscerla a tutto tondo. Se così fosse, vedremmo l’altra faccia, la faccia oscura, di quelle teorie che pensavamo fossero tutto ciò che si potesse conoscere. Verremmo finalmente a conoscere davvero ciò che l’alcolismo «è» nella sua interezza. Lo sapremmo non solo per aver studiato astrattamente i poteri dell’alcool, ma anche per averne sentito tutti i suoi effetti, senza filtri, nel profondo delle nostre viscere. Saremmo «sapienti di alcolismo pratico», come il famoso personaggio della Leggenda del santo bevitore di Joseph Roth (1939).

Abbiamo detto che l’esperienza ci porta a conoscere la patologia. Ma lo stesso, fortunatamente, possiamo dire della fuoriuscita da essa. L’esperienza ci consente pure di conoscere profondamente anche l’altra faccia dell’alcolismo, la sua faccia in chiaro, cioè il famoso «recovery». Chiunque si trovi nella fortunata condizione di essere sulla strada di una riabilitazione, o di essersi già riabilitato, potrà senz’altro andare orgoglioso di conoscere il processo di recovery in ogni suo recondito anfratto, avendolo egli sperimentato e dominato personalmente, passo dopo passo. Pur non avendolo mai studiato, egli «lo sa».

Ogni recovery è sempre un iter lungo e tormentato, fortemente a rischio di ricaduta, ma strutturalmente aperto alla speranza, e alla gioia delle piccole conquiste e dei piccoli passi che ci portano in avanti, ad intravvedere sprazzi di luce sempre più consistenti. Un punto importante a questo proposito è il seguente: il recovery è, come sappiamo, un processo che si consegue assieme. L’esperienza del recovery è quindi condivisa. Mentre l’esperienza dell’alcolismo è individuale (è dell’alcolista), l’esperienza del «venirne fuori» è un bene — una competenza — che qualifica e rende competenti tante persone: l’interessato, i familiari, i parenti, gli amici, i colleghi di lavoro, i volontari delle associazioni, i professionisti dei servizi, i servitori-insegnanti e gli amici nei CAT, eccetera.

Alla fine di un lungo faticare per superare la dipendenza, tanti possono qualificarsi come esperti per esperienza. Quindi, tanti cittadini, avendo cooperato e lavorato assieme, alla fine sentono che possono parlare autorevolmente dell’alcool. Possono farlo perché sanno ciò che dicono. Tanti cittadini coinvolti nelle reti di aiuto hanno la fortuna di contribuire ad aumentare il capitale sociale — il capitale complessivo di competenze umanistiche necessarie a una buona vita — del territorio in cui vivono (Putnam, 1993).

Nel nostro recovery, sperimentiamo di nuovo a un certo punto la vita libera, e la salute, sperimentiamo di nuovo la soddisfazione morale di esserci riusciti, e la dignità di tornare a lavorare e a divertirsi dentro le coordinate di un miglioramento psico-sociale. Ecco perciò che noi, dopo questa totale immersione nell’esperienza del «toglierci da un legaccio», in un certo senso perciò di «guarire», abbiamo il privilegio di conoscere meglio noi stessi. Abbiamo il privilegio di poterci presentare agli altri con il giusto orgoglio per quello che siamo al momento, e che eravamo al tempo; orgogliosi del cambiamento interiore che siamo riusciti a realizzare e della dignità che ci siamo riconquistati. Nessuno scrittore di romanzi o di saggi scientifici potrebbe mai, pur con il massimo di buona volontà, descrivere verbalmente tali forti emozioni così da farcele gustare a tal punto da farcele imparare direttamente sulla carta. Solo la via esperienziale può innescare apprendimenti così profondi, come la genuina gioia di essere semplicemente noi stessi, dopo averla così a lungo persa.

Lo spirito del «volontariato esperienziale»: verso il Quarto settore del Welfare

La distinzione tra conoscenza per esperienza e conoscenza per scienza (o per erudizione/informazione), ci porta a comprendere meglio la differenza tra volontariato tradizionale e «volontariato esperienziale».

Da qui è possibile tentare anche qualche sommaria deduzione in tema di politica sociale.

Tutto il cosiddetto Terzo settore è caratterizzato dal fatto di essere animato dal volontariato. Nel Terzo settore sono volontari tanti operatori sul campo e sono volontari tanti presidenti e consiglieri di amministrazione che fanno funzionare le cooperative, o le associazioni pro-sociali, o le fondazioni, o i movimenti sociali, o tanti progetti finalizzati a risolvere problemi sociali dei nostri territori.

Il Terzo settore è idealmente pensabile come finalizzato alla raccolta delle forze benefiche della società civile per risolvere i problemi che affliggono le parti fragili/deboli/malate di quella nostra stessa società. Non è questa un’idea sbagliata, tutt’altro. Corrisponde al paradigma autentico del Terzo settore, che è quello della generosità e del dono (del dono agli altri del nostro tempo, della nostra forza, della nostra fortuna, ecc.).

Sorge tuttavia una domanda: con quale sapienza/conoscenza (ovvero con quale «teoria») noi, come volontari, ci presentiamo, in genere davanti ai problemi degli altri? Siamo perlopiù sicuri di mostrarci — e quindi di «essere» — dei cittadini generosi, animati da buona volontà, da tempo libero, da buoni sentimenti, certi di sapere che nel nostro territorio ci sono persone che soffrono o gruppi che stanno male, che non sono fortunati come noi, noi che evidentemente non abbiamo quelle disgrazie. Ci presentiamo, se possibile, armati di conoscenze oggettive e/o indirette circa i problemi degli altri (magari persino scientifiche, acquisite con corsi di sensibilizzazione, o di aggiornamento). Queste sono tutte conoscenze utili e benemerite, ma occorre distinguere.

Le conoscenze oggettive, per un volontario, sono dotazioni necessarie e sufficienti (cioè efficaci di per sé) solo se il problema da affrontare è di ordine funzionale, cioè concreto e «materiale». Se si tratta, ad esempio, di distribuire pacchi viveri, o indumenti, se si tratta di fare compagnia agli anziani soli, o di trasportare i malati in ospedale, o di offrire una consulenza medica o legale a qualcuno che non se la può pagare, eccetera. Questo è il classico volontariato benevolente di Terzo settore, quello tradizionale, quello che tutti hanno in mente quando si usa quel termine.

Diverso è invece il caso di volontari che si ritrovano impegnati per cambiare lo stile di vita di persone che sono i padroni di quella loro vita, per cambiare cioè il senso della vita di persone che sono «altri da loro» — parafrasando Lévinas (1998, p.66).

La responsabilità del volontario in questo caso diviene più delicata rispetto a quando egli voglia semplicemente donare qualcosa a qualcuno: se una persona ha bisogno di un po’ di soldi per pagare la bolletta della luce, è un conto. Si può fare senza tanti problemi: è possibile fare l’elemosina a un povero anche se il donatore non fosse mai stato povero, persino anzi se fosse sempre vissuto nella bambagia. Se invece la persona che viene assistita avesse bisogno prima di tutto di non essere trattato da povero; oppure se avesse bisogno di capire come poter modificare sé stesso per riuscire finalmente a trovare/conservare un posto di lavoro e non aver più bisogno di sussidi; oppure se avesse bisogno di capire come poter modificare sé stesso per riuscire finalmente a smettere di indebitarsi con le scommesse. In tutti questi casi, ben altra sarebbe la posta in gioco.

Qualora si pretendesse di reindirizzare la moralità degli altri, come volontari (ma pure come professionisti), sarebbe necessario, di fronte a questi «altri», dimostrare di essere stati già in grado di reindirizzare la propria moralità, o di essere seriamente intenzionati a farlo. Occorre poter esibire la vita come pegno, come garanzia di estrema serietà. A chi si offre di aiutare per far diventare qualcun’altro diverso da quello che al momento egli è, sarebbe auspicabile che possa esibire una competenza «intera», che si regge almeno in parte su entrambi i saperi di cui abbiamo parlato.

Sentire che abbiamo rielaborato, vivendole, delle profonde competenze in merito, concrete prima che teoriche, ci dovrebbe far sperare di non essere velleitari, o troppo presuntuosi, quando presumiamo di essere in grado di fare del bene agli altri. Quegli «altri» noi li possiamo sentire più vicini a noi, e disposti a una maggiore dose di umiltà e rispetto.

Come esperti per esperienza possiamo stare abbastanza tranquilli riguardo allo stile del nostro essere volontari negli aiuti «umanistici». Ogni aiuto che eroghiamo agli altri è lo stesso aiuto che eroghiamo (o abbiamo già erogato) a noi stessi. E viceversa: ogni aiuto che offriamo a noi stessi è lo stesso che offriamo agli altri. Noi e gli altri siamo la stessa sostanza, la stessa «entità». Quando un CAT è efficace — lasciava intendere Hudolin — è sempre perché al suo interno le relazioni si conformano a questi principi.

Per quanto detto sopra, si comprende che il volontariato che si qualifica come «esperienziale» sia altro rispetto a quello tradizionale, che pur è straordinariamente importante e benefico, e che non si vuole qui in nessun modo sminuire. Il volontariato esperienziale non è un volontariato migliore ma semplicemente diverso rispetto a quello tradizionale.

Il volontariato fondato sull’esperienza andrebbe chiaramente distinto da altre forme di attività benefica dentro il Welfare. Andrebbe forse enucleato entro un alveo a parte all’interno del grande comparto del Terzo settore. Accademicamente si comincia a definire tale alveo come Quarto settore del Welfare (Folgheraiter, 2016; 2017).

Il Quarto settore è un ideale nuovo comparto del Welfare caratterizzato in profondità dai valori e dai principi che qualificano i movimenti di auto-mutuo aiuto. Stiamo parlando di una piena mutualità, di una piena reciprocità, e pure di una piena sussidiarietà orizzontale, cioè di quella logica in cui entrambi i poli di una relazione di aiuto — chi aiuta e chi è aiutato — si pongono idealmente sullo stesso piano, pur mantenendo le loro specificità, e si sostengono reciprocamente.

Questo stile «umano» e «soffice» di intendere l’aiuto deriva da quei giganti del passato a cui dobbiamo moltissimo, come Hudolin, don Milani, Basaglia, Kitwood (1997), Rogers (1995), Illich (1977). Deriva però anche dai tanti operatori che in questi decenni hanno cercato seriamente di seguire e di perfezionare le alte suggestioni di quei Maestri con le loro tenaci e resilienti e belle esperienze sul campo, che hanno contribuito a contrastare l’inquietante deriva efficientistica che è ormai il principale impercettibile baco del nostro Welfare.

Bibliografia

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Basaglia F. (a cura di) (1968), L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, Torino, Einuadi.

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Donati P. (1991), Teoria relazionale della società, Milano, FrancoAngeli.

Folgheraiter F. (2016), Scritti scelti, Trento, Erickson.

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Hudolin V. e Jauk S. (1991) Manuale di alcologia, Trento, Erickson.

Illich I., Zola I.K., McKnight J., Caplan J. e Shaiken H. (1977), Disabling professions, London, Marion Boyars. Trad. it. Esperti di troppo. Il paradosso delle professioni disabilitanti, Trento, Erickson, 2021.

Lévinas, E. (1998), Umanesimo dell’altro uomo. 3ed., Genova, Il Melangolo,

Jones M. (a cura di) (1952), Social Psychiatry: A study of therapeutic communities, Tavistock Publications Limited.

Kitwood, T. (1997), Dementia Reconsidered: The person comes first, Buckingham, Open University Press. Trad. it. Riconsiderare la demenza. Trento, Erickson, 2015.

Milani L. e Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una professoressa, Firenze, LEF.

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Pascal B. (2000), Pensieri, Milano, Bompiani.

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Rogers C.R. (1995). On becoming a person: A therapist’s view of psychotherapy. Boston, MA, Houghton Mifflin Harcourt.

Roth J. (1939), Die Legende vom heiligen Trinker, Amsterdam, Allert de Lange.


  1. 1 L’articolo riprende una relazione preparata per il seminario di studio «I Club alcologici territoriali e di ecologia familiare promotori di pace e felicità», organizzata da APCAT del Trentino (20 aprile 2024).

  2. 2 Università Cattolica del Sacro Cuore, Dipartimento di Sociologia, Centro di ricerca Relational Social Work.

  3. 3 L’articolo riprende una relazione preparata per il seminario di studio «I Club alcologici territoriali e di ecologia familiare promotori di pace e felicità», organizzata da APCAT del Trentino (20 aprile 2024).

  4. 4 Università Cattolica del Sacro Cuore, Dipartimento di Sociologia, Centro di ricerca Relational Social Work.

  5. 5 Afferma Don Milani: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne assieme è la politica» (Milani e Scuola di Barbiana, 1967). Nel gergo sociosanitario, noi potremmo dire qui: «sortirne assieme è la vera terapia».

  6. 6 Non per nulla nei CAT — diceva Hudolin — tendenzialmente ci si può stare tutta la vita, anche dopo essere «guariti», perché i CAT non sono strutture sanitarie in senso stretto, ma esistenziali.

  7. 7 Cit. in Eugenio Scalfari, La verità, vi prego, sui confini dell’amore, «la Repubblica», 15.9.2013.

  8. 8 Tali principi sono ben presenti nella grande tradizione degli Alcolisti Anonimi (Bill, 1939).

  9. 9 Il cardinale Giacomo Biffi fu per quasi vent’anni (dal 1985 al 2004) Arcivescovo di Bologna, e scrisse, tra i tanti, il libro Contro Maestro Ciliegia, in cui interpretò l’avventura di Pinocchio come una parabola dell’esistenza umana. Il celebre burattino era, letteralmente, una «testa di legno», come spesso siamo anche noi umani.

  10. 10 L’espressione «bambino umano» è da intendersi qui non tanto come «fatto di carne», perché di carne Pinocchio lo era stato anche da asino.

Vol. 1, Issue 2, October 2024

 

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