© Edizioni Centro Studi Erickson, Trento, 2023 — Psicoterapia Cognitiva e Comportamentale

Vol. 29, n. 3, ottobre 2023

TEORIA

Una nuova realtà virtuale per una nuova terapia di esposizione

Pionieristiche considerazioni

Emiliano Toso1, Marco Vicentini2, Elio Carlo3 e Massimo Agnoletti4

Sommario

Negli ultimi due decenni i progressi raggiunti nelle aree di apprendimento ed estinzione della paura hanno portato alla formulazione di un nuovo modello concettuale alla base della terapia di esposizione, secondo il quale l’estinzione della paura (che ne rappresenta l’applicazione clinica) avverrebbe mediante la creazione di una nuova memoria inibitoria e non mediante il processo di abituazione. Questo ha portato allo sviluppo di specifici cambiamenti nella procedura, i quali stanno dimostrando di poter massimizzare la terapia espositiva, particolarmente nei termini di un minore ritorno della paura. Sino a oggi, il nuovo «modus operandi» della terapia è stato studiato facendo esporre i pazienti direttamente a ciò che temono, ossia in vivo. Gli ambienti di Realtà Virtuale (VR) si prestano ad attuare il potenziale di apprendimento espositivo inibitorio, con protocolli ancora da implementare nella loro completezza. Per tale obiettivo occorre ripensare l’attuale tecnologia progettata per agevolare l’abituazione, in modo da ottenere uno strumento capace di favorire il processo di apprendimento inibitorio anche tramite il meccanismo del Flow. Nel presente lavoro si riflette su queste novità e vengono proposte necessarie modifiche del software e dell’hardware per una innovativa psicoterapia con la realtà virtuale.

Parole chiave

Realtà Virtuale, Terapia di Esposizione, Estinzione della paura, Apprendimento Inibitorio, Flow.

THEORY

A New Virtual Reality for a New Kind of Exposure Therapy

Pioneering Considerations

Emiliano Toso5, Marco Vicentini6, Elio Carlo7 and Massimo Agnoletti8

Abstract

In the last two decades, progress in the areas of learning and fear extinction have led to the formulation of a new conceptual model, based on exposure therapy, according to which the extinction of fear (which represents its clinical application) would occur through the creation of a new inhibiting memory rather than through the habituation process. This has led to the development of specific changes in the procedure, which aim to maximise exposure therapy, particularly in terms of diminished fear return. To date, the new «modus operandi» of therapy is being applied to patients by exposing them directly to what they fear, in other words, «in vivo». Virtual Reality environments (VR) are excellent for implementing the potential of inhibitory expository learning, although they are in need of a fully implemented protocol. To this purpose, we are rethinking current technology, modelled towards the process of habituation, in favour of a tool capable of facilitating the learning process through inhibitory learning, and even using the Flow mechanism. This paper makes some considerations on these innovations and proposes the hardware and software changes needed to shape innovative virtual reality psychotherapy.

Keywords

Virtual reality, Exposure therapy, Extinction of fear, Inhibitory learning, Flow.

Introduzione

Numerose ricerche hanno dimostrato l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale (Virtual Reality -VR) nel trattamento di diversi disturbi d’ansia (Rothbaum et al., 2000; Maltby et al., 2002; Krijn et al., 2007; Costa et al., 2008; Vincelli et al., 2007). La VR, in realtà, non consiste in una vera e propria terapia ma rappresenta uno strumento tecnologico in grado di favorire quella che viene definita «terapia di esposizione». Il trattamento espositivo, ossia il ripetuto confronto con stimoli di per sé innocui ma percepiti dal paziente come minacciosi e fonti di ansia, viene abitualmente applicato in vivo, cioè attraverso il contatto diretto con lo stimolo temuto oppure in immaginazione. Pur essendo entrambi efficaci, questi due metodi presentano però dei limiti che possono precludere un’adeguata esecuzione della terapia. L’esposizione immaginativa, ad esempio, risulta difficile per quei pazienti che hanno scarse abilità nel creare immagini mentali. Non tutte le persone, infatti, riescono a provare ansia immaginando situazioni o stimoli temuti. L’esposizione in vivo, invece, presenta altre limitazioni. Certi pazienti, ad esempio, possono essere restii a esporsi veramente agli stimoli fonte di intensa paura (in particolar modo nelle prime fasi della terapia). Inoltre, alcune esposizioni in vivo risultano difficilmente praticabili con un’adeguata frequenza, come nel caso, ad esempio, della paura di volare o degli agenti atmosferici. L’utilizzo della realtà virtuale, nel trattamento dei disturbi d’ansia, permette di superare egregiamente molte di queste barriere. L’ambiente virtuale, infatti, risulta uno strumento utile in quanto consente di gestire molti aspetti dello stimolo temuto e fornisce, inoltre, un accesso facile a situazioni difficili da organizzare nel mondo reale come, ad esempio, parlare in pubblico, avvicinarsi ad animali, viaggiare in aereo, guidare in mezzo al traffico, affrontare le altezze.

Oggi il funzionamento della terapia espositiva sta iniziando ad essere concettualizzato in maniera diversa rispetto al passato e questo sta comportando tutta una serie di modifiche (anche radicali) della tecnica, sia in vivo che in immaginazione. Negli ultimi due decenni, infatti, le ipotesi prevalenti dell’abituazione all’ansia e della disconferma delle convinzioni ansiogene, come principali fattori terapeutici, sono state via via messe in discussione e sostituite da quello che viene definito «apprendimento inibitorio». Secondo tale recente modello, l’efficacia dell’esposizione sarebbe dovuta alla formazione di nuove memorie antagoniste capaci di competere e inibire quelle eccitatorie di paura (Toso, 2021). L’apprendimento inibitorio sarebbe il risultato di marcati errori di predizione i quali, per essere ottenuti, necessitano di elevate aspettative di minaccia e relative esperienze di disconferma. Dunque, per massimizzare la terapia di esposizione, ovvero favorire la formazione di un nuovo apprendimento inibitorio, occorrono esposizioni capaci di creare forti errori di predizione, contrastare il processo di abituazione e favorire, intense e ripetute esperienze d’ansia. Tutto questo vale per l’esposizione in vivo, per l’esposizione in immaginazione ma anche per quella eseguita nella realtà virtuale. A partire da tali premesse, nel presente lavoro, dopo aver introdotto la realtà virtuale e descritto il modello di apprendimento inibitorio, verranno proposte alcune necessarie modifiche del software e dell’hardware per una innovativa VR. Occorre, dunque, pensare a una tecnologia che permetta al paziente di: (1) affrontare virtualmente stimoli temuti mantenendo elevata l’aspettativa di minaccia; (2) mantenere il focus attentivo sullo stimolo minaccioso; (3) modificare i contesti di esposizione; (4) rinforzare l’apprendimento. Solo tramite ripetute e intense esposizioni di questo tipo, al termine della terapia, lo stimolo minaccioso non farà più paura e i risultati saranno mantenuti nel tempo.

La Realtà virtuale come strumento per l’implementazione della terapia di esposizione

Quando nel 1989 Lanier coniò il termine Virtual Reality, indicando qualsiasi strumento capace di proporre ai nostri organi l’esperienza sensoriale con un mondo che non sia quello fisico reale, probabilmente pensava solo a una terminologia più agevole della espressione Human Machine Interface for TelePresence ideata negli anni 1980 dalla NASA per l’addestramento dei piloti aereospaziali, e non aveva consapevolezza di come la VR sarebbe divenuta l’interfaccia base per il nascente mondo dei videogiochi, di internet, della formazione e degli interventi a distanza in pressoché ogni ambito.

La VR è oggi definita da Riva (2016) come uno strumento che permette una forma specifica di comunicazione e di presenza. È un ambiente complesso, definito da un’interfaccia grafica immersiva che permette di sperimentare l’esperienza di essere fisicamente presente in un mondo virtuale, al punto da poter interagire con esso, con sensazioni, emozioni e valutazioni tipiche della quotidiana interazione con il mondo.

Fin dagli albori dei dispositivi (hardware) e degli ambienti (software) di realtà virtuale è sempre stata ben chiara la possibilità di offrire uno strumento per svolgere un compito a distanza, «come se» si fosse in presenza, con tutti i benefici e i vantaggi di poter operare in un ambiente più sicuro, accessibile e controllato. Questi strumenti potevano non solo far interagire con un mondo simulato, ma arricchirlo con un sistema di rinforzatori sia connessi con una valutazione del compito eseguito che con indici psicofisiologici individuali (Sterman, 1990).

Sul finire dello scorso millennio gli ambienti VR sono stati introdotti come strumento psicoterapeutico nel trattamento di specifici disturbi psicologici, dapprima in ambito di ricerca e poi in contesti clinici afferenti ai differenti servizi sanitari nazionali (Botella & Quero, 2004). Una ricerca sulla banca dati EBSCO nella collezione «APA PsycInfo» con la parola chiave «virtual reality» riporta 1 articolo fino al 1990, 63 al 1995, 469 al 2000, 1.524 al 2005, 3.292 al 2010 e oltre 10.945 al 2022. Allo stato dell’arte, l’utilizzo della VR in psicoterapia è definito come uno «strumento» capace di mediare tra lo studio del terapeuta e il mondo reale (Vincelli & Riva, 2007; Levac & Galvin, 2013). La VR non è in se stessa una nuova psicoterapia, ma rappresenta uno strumento che può essere implementato in un intervento clinico per far fare esperienza diretta di un «evento» (oggettuale, ambientale o relazionale). Esso permette di accedere a eventi non accessibili o difficilmente accessibili (per funzionalità, costi, replicabilità) con la sicurezza di un setting psicologico, dove essere accompagnati a esperienze progressive.

Posti a confronto con i tradizionali protocolli terapeutici, gli ambienti VR mostrano numerosi vantaggi. In primis offrono un ambiente protetto per il paziente, dove è possibile avere ripetute e controllate esperienze della situazione che attiva il disagio. Vi sono già in letteratura evidenze circa l’efficacia di questa tecnologia nel trattare differenti disturbi psicologici (Hilty et al., 2020; Kim & Kim, 2020). Differenti review e meta-analisi hanno considerato gli studi condotti su fobie specifiche, tra le quali, in particolare, la paura di volare, l’agorafobia, la paura di guidare, la claustrofobia, la paura dei ragni. Ulteriori studi sono stati pubblicati relativi all’uso della VR come strumento per la psicoterapia basata sull’esposizione per il trattamento del disturbo da ansia sociale, disturbo post-traumatico da stress, disturbo da panico con o senza agorafobia. È stata posta particolare attenzione al trattamento dei disturbi d’ansia (Horigome et al., 2020; Oing & Prescott, 2018), del PTSD (Rizzo & Shilling, 2018; Maples-Keller et al., 2017), delle dipendenze comportamentali (Segawa et al., 2020), dei disturbi del comportamento alimentare (Clus, 2018). Questi studi mostrano con evidenze cliniche e riscontri quantitativi che la psicoterapia basata sull’esposizione in ambiente VR sia uno strumento efficace per il trattamento dei molteplici disturbi d’ansia (Wiederhold & Wiederhold, 2006; Horigome, 2020).

La VR permette di superare alcuni degli ostacoli della terapia cognitiva e comportamentale (CBT) standard, soprattutto nelle forme basate sull’esposizione in immaginazione (Hackmann & Bennet-Levy Holmes, 2014), permettendo esperienze altrimenti impossibili, se non in modo immaginifico (come recarsi a un aeroporto e salire su di un aereo, trovare una platea che ascolta, controllare l’esposizione allo stimolo temuto). La realtà virtuale mette il paziente nella condizione di diventare un attivo partecipante del mondo virtuale ricreato dallo psicoterapeuta. Il senso di presenza che vi si avverte, pur nella consapevolezza della simulazione, può ricreare atmosfere e far riprovare emozioni molto più vivide di quanto potrebbe avvenire con il ricorso al semplice ricordo o alla sola immaginazione (Galeazzi & Di Milo, 2011). La verosimiglianza dell’ambiente virtuale si pone tra lo studio dello psicoterapeuta (con il più elevato livello di protezione) e l’ambiente esterno (dove il rischio è massimo). Nell’ambiente simulato è possibile riprodurre e sperimentare situazioni particolarmente problematiche e minacciose per l’utente sotto il diretto controllo del terapeuta, che può intervenire in qualunque momento, modificando o sospendendo le caratteristiche dell’ambiente. Grazie quindi alla possibilità di programmare l’ambiente e variarne le caratteristiche si può realizzare un graduale processo di esposizione agli stimoli minacciosi e ansiogeni (Toso, 2008).

Negli ambienti VR si realizza una speciale forma di role-playing: al soggetto, che non ha ancora trovato una modalità di interazione adeguata con l’ambiente, viene offerta la possibilità di apprendere e sperimentare nuove strategie di fronteggiamento. La persona è messa in condizione di sperimentare che l’idea che ha di sé e del mondo non è qualcosa di assoluto ma un’interpretazione esperienziale che può essere modificata. L’utente così accompagnato si confronterà con le situazioni temute e imparerà a gestirle in modo graduale, secondo un programma di esposizione e rielaborazione concordato. L’ambiente virtuale diventa così la base sicura dalla quale partire per esplorare, provare sentimenti, immaginare, rivivere sensazioni e pensieri presenti o passati. Nel 1999 Riva propose il concetto di Experiential Cognitive Therapy (ECT), ovvero un’integrazione ai protocolli standard nei quali vengono proposte modalità di presenza intermedie tra l’esposizione in-vivo e quella immaginativa o puramente verbale. La VR è un medium comunicativo in grado di generare esperienza e favorire la costruzione di conoscenza: il movimento corporeo che interagisce con l’ambiente costruisce nuovi scenari comunicativi, sviluppando il senso soggettivo di esperienza. A livello cognitivo ed emotivo, l’utente passa dal ruolo di osservatore di un’esperienza (come succede guardando un filmato o osservando l’immagine connessa con un ricordo) a quello di protagonista della stessa esperienza; egli non è più solo un passivo ricettore di informazioni, ma ha la possibilità, agendo, di creare la propria esperienza. La VR permette di conoscere il mondo mediante un apprendimento di tipo percettivo-motorio più naturale per l’essere umano, rispetto all’apprendimento di tipo simbolico-ricostruttivo mediato dalla scrittura o dalla tastiera di un computer (La Rosa & Onofri, 2017).

L’apprendimento esperienziale è caratterizzato da una ripetizione ciclica di percezione e azione, dove l’utente osserva i fenomeni, interviene con la propria azione, osserva gli effetti della propria azione in un ciclo anche infinito basato sulla curiosità e sull’apprendimento per prove ed errori. In un ambiente VR la componente percettiva (visiva, uditiva e aptica) interagisce con il mondo circostante: è possibile conoscere gli oggetti e imparare a utilizzarli attraverso l’esperienza diretta e in tempo reale delle reazioni alle proprie azioni. Questo modello postula che la conoscenza acquisita negli ambienti VR sia essenzialmente prodotta da un fare esperienza (Wann & Mon-Williams, 1996). Il mondo simulato, riconosciuto tale da chi lo sperimenta, diventa fonte di conoscenza nel momento in cui l’utente interagisce con esso non come un oggetto esterno, la cui conoscenza avviene mediante un processo rappresentazionale, ma come un ambiente con cui l’individuo interagisce attraverso un processo percettivo-motorio, che è alla base della conoscenza che abbiamo di esso. In questa prospettiva un ambiente simulato diventa semplicemente uno dei tanti mondi possibili da cui apprendere interagendo con esso (Morganti & Riva, 2006). La conoscenza degli oggetti e dello spazio, ma anche delle relazioni e delle emozioni altrui, avviene in modo pragmatico, cioè attraverso processi di simulazione interattiva (Galeazzi & Di Milo, 2011).

Nonostante il potenziale innovativo tecnologico e la relativa disponibilità di ambienti e strumenti altamente flessibili, gli attuali protocolli di intervento psicoterapeutici (Riva & Bottella, 2001; Rizzo & Bouchard, 2019) rimangono però concettualmente ancorati al meccanismo pavloviano di condizionamento ed estinzione delle paure, che rappresenta il più diffuso modello di riferimento per la comprensione e il trattamento dei disturbi d’ansia (Craske et al., 2018). I due principi psicoterapeutici su cui si basano pressoché tutti gli interventi sono ancora quelli della «Desensibilizzazione Sistematica» (DS, Lazarus et al., 1957; Wolpe, 1961) e della «Esposizione con Prevenzione della Risposta» (ERP, Rowa et al., 2007). Pur nascendo con due finalità psicopatologiche differenti — il trattamento delle fobie e il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo — questi due modelli di intervento si integrano di fatto in quella che è la «progressiva esposizione allo stimolo fobico/ossessivo con prevenzione del comportamento disadattivo/compulsivo» (Andrews et al., 2003). È questa la tecnica più consolidata nel tempo e più utilizzata nell’ambito della psicoterapia comportamentale finalizzata a riportare stimoli che provocano molta ansia, ma di per sé innocui, a un livello di tollerabilità «neutra» tramite una riduzione dello stato di attivazione psicofisiologica. L’approccio tradizionale consiste infatti nell’aiutare il paziente ad affrontare gradualmente la situazione o gli oggetti temuti, a partire da livelli di esposizione a bassa e media intensità, da incrementare con il procedere delle sedute. L’esposizione ha l’obiettivo di associare (o condizionare) una risposta antagonista all’ansia, come ad esempio il rilassamento muscolare o la respirazione diaframmatica, in presenza degli stimoli ansiogeni, in modo da indebolire il legame tra la reazione d’ansia e gli stimoli ansiogeni stessi. Psicoterapeuta e paziente compilano una lista degli stimoli ansiogeni, ponendo nelle prime posizioni quelli che procurano maggiore disagio e nelle ultime quelli più innocui. Lo psicoterapeuta costruisce con il paziente una gerarchia degli stimoli critici che sono alla base del disturbo in esame, e pianifica un programma di esposizione con il fine classico di arrivare a una desensibilizzazione dello stimolo temuto, in modo che questi ritorni ad essere uno stimolo neutro. La ricerca ha mostrato come la migliore sinergia tra offerta tecnologia e intervento clinico si possa incontrare nei modelli di intervento che prevedono una qualsivoglia forma di attivazione esperienziale emotiva dell’individuo, tutelandolo in un setting relazionale terapeutico. Tale esposizione nel modello CBT classico (ma anche in tecniche più recenti come l’EMDR) viene effettuata in immaginazione, con evidenti limiti connessi sia alle capacità immaginative del paziente, che con la possibilità di condividere e sintonizzarsi sulla stessa scena nella relazione paziente-psicoterapeuta.

Si comprende così come gli ambienti VR siano al momento sfruttati solo marginalmente nel loro potenziale esperienziale: si accolgono e si valorizzano i benefici del poter far esperienza condivisa di stimoli critici, arrivando a una esposizione allo specifico evento temuto, mantenendo sia il focus dell’attenzione sull’evento stesso, che la possibilità di monitorare e condividere l’esperienza da parte dello psicoterapeuta. Allo stesso tempo il modello di intervento rimane concettualmente ancorato primariamente a una sorta di «riduzione del danno», la riduzione della componente fobico/ansiosa/compulsiva, senza esplorare appieno il potenziale del sistema dei rinforzatori che possono essere offerti al paziente e neppure il contesto delle precondizioni (ambientali, fisiologiche, personologiche) che possono massimizzare l’apprendimento, non andando a promuovere esperienze di flusso tali da attivare esperienze di creatività.

Il modello di apprendimento inibitorio

Verso la fine degli anni ’90 numerosi studiosi dell’estinzione della paura sono giunti al consenso generale che l’efficacia della terapia di esposizione (che ne rappresenta l’applicazione clinica) non dipenderebbe dall’abituazione e nemmeno dalla «ristrutturazione del set cognitivo» relativo alla minaccia. Entrambi i processi sarebbero, in un qualche modo coinvolti, ma non rappresenterebbero i meccanismi responsabili degli effetti della terapia. A tali conclusioni si è giunti principalmente grazie all’interesse verso uno specifico suo punto debole, ingenuamente tralasciato negli anni precedenti e riguardante prevalentemente il frequente ritorno della paura (Craske & Mystkowsk, 2006). Ragionando in termini di apprendimento associativo, quando si verifica il ritorno della paura, succede che il paziente ha recuperato l’associazione originale tra stimolo condizionato (SC) e stimolo incondizionato (SI) e la paura ritorna a un livello superiore a quello dimostrato alla fine dell’estinzione. Il ritorno della paura è stato osservato a seguito del trattamento di fobie specifiche (Salkovskis & Mills, 1994), disturbo ossessivo-compulsivo (Likierman & Rachman, 1980), agorafobia e ansia da prestazione (Craske & Rachman, 1987). Tale «crepa», nella terapia di esposizione, è stata ingenuamente poco considerata sino a pochi anni fa quando, intelligentemente, un certo numero di studiosi si è dedicato seriamente a essa aprendo, così, nuove strade nella comprensione dei meccanismi di funzionamento della terapia e favorendo anche innovative procedure per massimizzarla. Tra questi studiosi spicca innanzitutto la figura di Michelle Craske (2014) la quale, proprio sul ritorno della paura ha fondato gran parte dei suoi studi e ricerche; cercando di capire se effettivamente fosse la riduzione della paura (durante e/o alla fine della terapia) il principio attivo dell’esposizione, vennero eseguiti vari studi che dimostrarono, inaspettatamente, la non predittività dell’abituazione sui risultati ai follow-up (Plendl & Wotjak, 2010; Prenoveau et al., 2013; Rescorla, 2006). In altre parole, l’esame della letteratura sull’abituazione, come predittore dell’esito della terapia al follow-up, suggerisce che la quantità con cui tale emozione diminuisce non prevede in modo significativo la sua riduzione nel corso dei controlli (Craske et al., 2008; Baker et al., 2010; Culver et al., 2012; Kircanski et al., 2012; Meuret et al., 2012). Altri interessanti studi, inoltre, dimostrano che, al contrario, si possono ottenere risultati positivi al follow-up anche in assenza di abituazione durante la terapia espositiva (Rachman et al., 1986; Rowe & Craske, 1998; Tsao & Craske, 2000) e, ancora, ulteriori indagini hanno dimostrato che il tentativo di potenziare l’abituazione durante il trattamento (prolungandolo oltre la riduzione dell’ansia raggiunta), non dimostra alcun effetto nell’ostacolare il ritorno della paura ai controlli successivi. Anzi, sorprendentemente, in uno studio condotto da Rachman et al. (1987), i partecipanti la cui esposizione è continuata fino a completa eliminazione (100% rispetto ai valori basali), ha riportato in media un ritorno della paura significativamente maggiore nei confronti di quei pazienti la cui esposizione è stata interrotta (al raggiungimento del 50% rispetto ai valori base). Risultati simili sono stati ottenuti anche in una recente estensione delle prove di overlearning da parte di Farchione (2002). Anche in questo caso, dopo che tutti i partecipanti aracnofobici avevano raggiunto una significativa riduzione dell’ansia, solo il gruppo sperimentale è stato sottoposto a un prolungamento dell’esposizione ai ragni e paradossalmente ha ottenuto un maggior ritorno della paura al re-test. Sulla base di tutte queste osservazioni, dunque, negli ultimi anni si è giunti a riconsiderare la centralità terapeutica dell’abituazione e a porsi la seguente domanda: se non è l’abituazione, qual è il vero meccanismo sottostante la terapia di esposizione? Tutte queste osservazioni hanno portato la Craske e i suoi collaboratori a concludere, innanzitutto, che la memoria originaria di paura rimarrebbe indelebile conservando tutta la sua forza espressiva anche dopo la terapia espositiva e, in secondo luogo, che l’abituazione non ne rappresenta il meccanismo terapeutico primario. Essa, infatti, determinerebbe solo effetti temporanei, ritenuti erroneamente dai terapeuti indicativi di un apprendimento a lungo termine. Gli stessi risultati e conclusioni derivano anche dalla sperimentazione animale (Vervliet et al., 2013). Numerosi studi sui ratti effettuati negli ultimi due decenni, infatti, rilevano come la paura condizionata tenda a tornare facilmente dopo l’estinzione, sia in termini di «recupero spontaneo» (gli effetti dell’estinzione tendono a dissolversi con il tempo), di «riconoscimento» (l’esposizione al contesto in cui si è verificato il condizionamento è sufficiente a rilanciare l’associazione SC – SI), di «reintegrazione» (la riesposizione allo SI può invertire gli effetti dell’estinzione) e inversione indotta dallo «stress» (esperienze stressanti o dolorose, completamente estranee all’apprendimento di minaccia originario, possono annullare gli effetti dell’estinzione e ripristinare le risposte di paura). Sulla base di tutte queste osservazioni, relative al recupero di minacce estinte, Bouton (1993) propone che dopo un processo di estinzione lo SC possieda due significati (Figura 1): il suo significato eccitatorio originale (SC – SI) e un significato inibitorio aggiuntivo (SC – no SI) e pertanto, anche se la paura diminuisce attraverso le esposizioni allo SC, in assenza di SI, la memoria eccitatoria originaria rimarrebbe intatta e libera di esprimersi quando appunto le condizioni ne favoriscono il recupero. In altre parole, dunque, grazie al processo di estinzione, lo SC diventerebbe ambiguo per l’organismo in quanto verrebbe ad assumere due significati contrari e rivali. Al termine dell’estinzione uno dei due tenderebbe a prevalere sull’altro, facilitando o meno il ritorno della paura. Grazie all’aggiunta di queste osservazioni e considerazioni di laboratorio sugli animali, si è venuta a sviluppare l’idea clinica (Craske et al., 2014) che il meccanismo terapeutico centrale della terapia di esposizione sia quello di creare nuove associazioni inibitorie e non quello di cancellare quelle eccitatorie.

Figura 1

Ambiguità dello stimolo condizionato (SC) conseguente all’estinzione (Toso, 2021, 2023).

Infine, anche la ricerca sui meccanismi neurali sottostanti l’estinzione della paura ha dimostrato di supportare il modello inibitorio proposto (LeDoux, 2016) e permette di comprendere meglio i motivi del ritorno della paura. Innanzitutto, recenti scoperte nel campo della neurobiologia hanno dimostrato che non solo la memoria di paura, una volta appresa e consolidata, rimane indelebile nell’amigdala (LeDoux, 1999), ma anche che l’estinzione agisce creando una nuova memoria competitiva e inibitoria (memoria di estinzione) forgiandola in una nuova sede del cervello. Nello specifico la corteccia prefrontale ventromediale o PFCVM, durante l’esposizione ripetuta allo SC, modula il processo di estinzione inibendo l’espressione dell’amigdala e rafforzando al contempo le sinapsi di recente attivazione presenti sui neuroni nel circuito nervoso. I nuovi schemi di connessioni sinaptiche, tra i vari neuroni, diventano così la nuova memoria competitiva (Figura 2). Una seconda scoperta significativa, derivante dalle neuroscienze, riguarda l’azione dell’ippocampo all’interno del processo di estinzione (Maren, 2005; Ji & Maren, 2007; Maren & Fanselow, 1997; Sanders et al., 2003). Tale struttura nervosa agirebbe, infatti, come un fotografo, immortalando il contesto (esterno o interno all’organismo) dove avviene il nuovo apprendimento inibitorio e codificandolo su di esso (Bouton et al., 2006; Huff et al., 2011; Lonsdorf et al., 2014). In questo modo, solo ed esclusivamente per quello specifico ambito la nuova memoria inibitoria potrà essere recuperata e inibire quella di paura.

Figura 2

Esposizione e apprendimento inibitorio (Toso, 2021, 2023).

Strategie per massimizzare l’apprendimento inibitorio

Per massimizzare il processo di estinzione e combattere il ritorno della paura, la terapia di esposizione, basata sul modello di apprendimento inibitorio, si concentra sull’ottimizzazione della forza, della durata e della recuperabilità della associazione inibitoria (SC – no SÌ). A tal fine, grazie alla ricerca di base e alle neuroscienze, sono state proposte diverse strategie comportamentali che stanno dando vita a un nuovo modo di fare esposizione. Craske e numerosi suoi collaboratori, sono stati tra i «capofila» nel percorrere queste nuove vie di applicazione clinica, fornendo rivelazioni entusiasmanti sull’importanza di adottare un approccio centrato sull’apprendimento inibitorio (Toso et al., 2016). Ulteriori interventi comportamentali sono stati proposti anche da altri ricercatori, come ad esempio Robert Rescorla (2006) e il neurobiologo Joseph LeDoux (2016), fornendo solide basi sperimentali alla clinica dell’esposizione. I principali interventi pensati e verificati sono (Toso et al., 2021; Craske et al., 2018) descritti di seguito.

Etichettare le emozioni. Verbalizzare la paura provata durante l’esposizione (etichettandola appunto) sembra risultare utile nel modulare e ridurre la paura stessa favorendo il processo di estinzione e l’apprendimento di una nuova memoria inibitoria. Un certo numero di studi ha dimostrato che l’elaborazione linguistica a valenza negativa, in risposta a stimoli emotivi minacciosi, attiva una regione del cervello, ossia la corteccia prefrontale ventrolaterale, migliorando la regolazione dell’attività dell’amigdala da parte della corteccia prefrontale ventromediale (Torre & Liberman, 2018).

Strategie per violare al massimo le aspettative. Si tratta di una serie di interventi basati sulla premessa che il divario tra l’aspettativa di minaccia e il risultato del confronto con lo SC minaccioso è fondamentale per la formazione del nuovo apprendimento (Rescorla & Wagner 1972). Maggiore sarà l’errore di predizione, al termine di ogni esposizione, e migliore sarà la formazione della nuova memoria inibitoria. Al fine di violare al massimo le aspettative Rescorla (2006) ha proposto esercizi che permettono, mediante esposizione sequenziale e combinata a vari SC (predittivi lo stesso SI), un costante mantenimento delle aspettative da violare (strategia definita estinzione approfondita) oppure, sempre per lo stesso fine, esercizi di esposizione che prevedono casuali abbinamenti tra SC e SI (definita estinzione rinforzata occasionalmente). Tutte queste strategie, finalizzate a massimizzare l’errore di predizione, pur mantenendo elevato il livello d’ansia, hanno dimostrato di ridurre il successivo recupero della paura durante i test di verifica (Culver et al., 2015).

Rimuovere i segnali/comportamenti di sicurezza. Una terza strategia consiste in azioni mirate a eliminare comportamenti o segnali di sicurezza solitamente usati dal paziente durante l’esposizione. Tali fattori protettivi rappresentano un ostacolo alla terapia in quanto riducono l’aspettativa di minaccia mitigando la formazione della memoria inibitoria (Sloan & Telch, 2002). Comuni comportamenti o segnali di sicurezza per chi soffre di disturbi d’ ansia sono, ad esempio, certi comportamenti di controllo, la presenza di un’altra persona, il terapeuta, il telefono cellulare, i farmaci, bevande varie, ecc. Anche la stessa riduzione dell’ansia può rappresentare un segnale di sicurezza (Craske et al., 2018). Per le persone che temono le conseguenze derivanti dall’ansia infatti (ad esempio per chi soffre di disturbo di panico e teme di perdere il controllo), la sua riduzione potrebbe rappresentare un segnale di sicurezza in quanto riduce l’aspettativa temuta.

Separare esposizione e interventi cognitivi. Al fine di massimizzare la formazione dell’apprendimento inibitorio viene consigliato di condurre esposizioni simili a quelle sperimentate con animali di laboratorio, limitando quindi gli interventi cognitivi (ossia riducendo il più possibile quegli scambi verbali volti a modificare le credenze sulla minaccia). Qualsiasi intervento cognitivo, volto a ridurre la pericolosità della minaccia, ostacolerebbe la formazione della memoria inibitoria. Tale intervento, secondo Craske et al. (2014), andrebbe eventualmente applicato successivamente all’esposizione, in un secondo momento, così da facilitare il consolidamento della memoria.

Variare lo stimolo. Strategia che prevede la mutevolezza dello stimolo durante l’esposizione (ad esempio variandone la forma o il colore) oppure la variabilità dell’approccio allo stimolo (ad esempio, avvicinandosi lentamente o velocemente oppure gradualmente o secondo una gerarchia disordinata). Si ritiene che la variabilità potenzi la formazione e il recupero dell’apprendimento inibitorio. La variabilità, infatti, suscita alti livelli di attivazione fisiologica e ansia soggettiva, ostacolando l’abituazione e mantenendo elevate l’attenzione e l’aspettativa di minaccia (Kircanski et al., 2012).

Variare i contesti. L’estinzione è fortemente dipendente dal contesto in cui avviene (spazio/ tempo) e questo limita gli effetti benefici della terapia espositiva. Il cambiamento del contesto, dopo completa estinzione, comporta, infatti, il ritorno della paura nei confronti dello stimolo temuto (Mystkowksi et al., 2002). Per ovviare a tale ostacolo l’esposizione dovrebbe essere svolta in ambienti diversi come, ad esempio, da soli o in compagnia, in studio del terapeuta o in luoghi sconosciuti, variando le ore del giorno o i giorni della settimana. Inoltre, tenendo conto che anche lo stato interno del paziente rappresenta un contesto, l’esposizione dovrebbe essere eseguita variandolo (ad es. stanco/riposato, affamato/sazio, poco ansioso/molto ansioso). L’esposizione, svolta in contesti multipli, ha mostrato di compensare il rinnovo del contesto in roditori (Gunther et al., 1998) e in studi clinici (Vansteenwegen et al., 2007).

Ridurre le attività. Dopo qualsiasi esperienza di apprendimento sarebbe opportuno ridurre al minimo le attività che possono disturbarne il consolidamento (Kande, 2012). Come per qualunque apprendimento, anche il consolidamento della memoria di estinzione, dipende dall’espressione di geni per la sintesi di proteine. Questo processo richiede tempo (da 5 a 6 ore) e qualsiasi attività che impegni il paziente in tale fase può ostacolarne il consolidamento (Ledoux, 2016). Il riposo, dopo l’esposizione, è pertanto consigliabile per favorire il consolidarsi della nuova memoria inibitoria.

Utilizzare il sonno. Diverse ricerche cliniche (Pace-Schott et al., 2018) e di laboratorio sui ratti (Fu et al., 2007) hanno dimostrato che un pisolino, immediatamente successivo alla terapia di esposizione, è capace di potenziarne gli effetti. Il sonno, infatti oltre che annullare le attività che potrebbero interferire con il consolidamento mnestico, dimostra di possedere una propria capacità intrinseca nel potenziarlo (Kleim et al., 2014; Pace-Schott et al., 2016).

Usare spunti per il recupero. È possibile facilitare il recupero di memorie inibitorie, apprese durante l’esposizione, utilizzando qualunque stimolo capace di rievocarle in quanto a esse associato. Gli spunti di recupero sono stimoli (ad esempio un braccialetto di gomma) presenti durante il training di esposizione e che possono essere usati come promemoria dell’apprendimento di estinzione, quando ci si espone in altri contesti (Dibbets & Maes, 2011). Questa strategia prevede che il paziente, nell’esporsi, porti con sé uno stimolo che gli faccia ricordare, in seguito, ciò che ha imparato.

Migliorare l’umore. Sebbene la risposta condizionata di paura diminuisca dopo l’esposizione, la valenza dello SC tende a rimanere negativa. La sgradevolezza acquisita nei confronti dello stimolo minaccioso, infatti, è un apprendimento più resistente all’estinzione rispetto alla risposta eccitatoria (Dirikx et al., 2004; Hermans et al., 2002). È stato dimostrato che maggiore è la valenza negativa dello SC, dopo la terapia espositiva, maggiore sarà la risposta di paura alla reintegrazione (Zbozinek et al., 2016). A tal proposito diversi studi suggeriscono che l’aumento dell’umore positivo durante la procedura porta a una valenza positiva dello SC e, quindi, a un minore ritorno della paura durante il recupero e il reintegro (Dour et al., 2016). Al fine di indurre umore positivo è stata dimostrata l’utilità di metodi (da eseguire poco prima di esporsi) come guardare un film umoristico (Gross & Levenson, 1995) e l’utilizzo di immagini positive (Holmes et al., 2006).

Focus attenzionale. Un aspetto chiave dell’approccio basato sulla violazione delle aspettative è quello di favorire l’attenzione tanto allo SC quanto al mancato verificarsi dello SI. Durante qualsiasi cambiamento associativo, infatti, la forza dell’apprendimento sarà diretta al segnale più saliente per cui all’interno di un approccio di apprendimento inibitorio alla terapia di esposizione, una maggior salienza dello SC e del non avverarsi di SI migliora l’apprendimento dell’estinzione (Pearce & Hall, 1980). Mantenere focalizzata l’attenzione sullo SC e sul non verificarsi dello SI temuto permette di aumentare l’aspettativa di minaccia, ma anche di incrementare la rilevanza della relazione tra SC e no SI.

Confronto tra protocollo di esposizione classica ed esposizione finalizzata all’apprendimento inibitorio

Come accennato nei precedenti paragrafi, gli ambienti VR sono impiegati da molti anni per il trattamento dei disturbi d’ansia e delle fobie all’interno di protocolli di esposizione, o più in generale, di terapie in cui le pratiche cognitivo comportamentali sono opportunamente combinate con la terapia espositiva. Il paradigma «classico» alla base di tali protocolli è ancora oggi riconducibile al già citato principio dell’abituazione, secondo cui il sistematico e graduale confronto con lo stimolo fobico e la conseguente, progressiva diminuzione dell’attivazione paurosa determinata dall’assenza dell’esito negativo originariamente connesso allo stesso stimolo determina, in accordo con il modello pavloviano del condizionamento classico, l’estinzione della paura (Pavlov, 1926; Myers et al., 2007).

Il frame teorico più largamente impiegato per spiegare, da un punto di vista neurocognitivo, i meccanismi di funzionamento e di efficacia dell’abituazione è l’Emotional Process Theory. Secondo tale approccio, eventuali informazioni correttive presentate assieme allo stimolo pauroso attivano il network cerebrale della paura e sono in grado di determinare, all’interno di quest’ultimo, una vera e propria «riscrittura mnestica», attraverso la modifica dell’associazione stimolo-paura primigenia. Nell’abituazione, è la diminuzione della paura conseguente alla non manifestazione dell’esito negativo atteso a fornire, per l’appunto, l’informazione correttiva che consente l’indebolimento e, in ultimo, la cancellazione del precedente legame fobogeno (Foa et al., 1986). La necessità di assicurare lo sviluppo della nuova informazione rende conto delle principali caratteristiche applicative della terapia espositiva basata sull’abituazione. Dato che l’obiettivo principale sarà, in questo caso, quello di realizzare la riduzione della paura in presenza dello stimolo fobico, il progetto terapeutico prevederà, di norma, una serie di manovre atte a favorire che tale riduzione avvenga con la maggior facilità possibile. In particolare:

  1. il fronteggiamento degli stimoli fobici avverrà secondo una progressione di intensità, in maniera da garantire che l’esposizione allo stimolo avvenga all’interno di una «zona prossimale», non eccessivamente avversiva in termini di aspettativa di minaccia, avendo il paziente già cancellato il legame associativo stimolo-paura per gli stimoli di intensità compresa tra 1 e i-1;
  2. l’esposizione sarà anticipata dall’attuazione di una serie di procedure di carattere cognitivo comportamentale, atte a favorire, durante il fronteggiamento, la riduzione e/o la cessazione dell’attivazione paurosa; questo è il motivo per cui, nell’abituazione, saranno positivamente considerate pratiche anticipate di desensibilizzazione sistematica, di rilassamento, di modificazione dei bias attentivi, di psicoeducazione e di ristrutturazione cognitiva.

Nelle terapie espositive basate sull’abituazione in ambienti VR (VRE), entrambe queste tipologie di manovre sono frequentemente adottate (Maples-Keller et al., 2017), similmente a quanto avviene nelle esposizioni in vivo basate sullo stesso paradigma. La letteratura scientifica mostra con chiarezza, comunque, come la terapia d’esposizione VRE per i disturbi d’ansia sia ancora oggi lontana da potersi considerare standardizzata non solo in relazione al numero di sedute e alle tipologie di trattamenti complementari o propedeutici offerti in combinazione con essa (come ad esempio, le già citate psicoeducazione e ristrutturazione cognitiva), ma anche in termini di variabili psichiche e comportamentali prese in considerazione, di test e questionari utilizzati per caratterizzare tali variabili, di procedure espositive effettivamente adottate e di tecnologie impiegate. Una recente revisione sull’uso della realtà virtuale nel trattamento del disturbo d’ansia sociale in pazienti con balbuzie (Chard et al., 2022), mostra, per fare un esempio:

  • come studi in cui la terapia espositiva è basata sull’abituazione si accompagnino a studi che sembrano integrare elementi più propriamente basati sull’apprendimento inibitorio o, addirittura, a studi nei quali la tecnica espositiva adottata non viene in alcun modo specificata;
  • come ambienti virtuali dotati di avatar, creati al computer, ma con software e hardware spesso differenti e con diverse potenzialità (in termini ricchezza di dettagli), di realismo, di capacità di indurre il senso di presenza, di interattività, di manipolabilità delle espressioni facciali degli avatar (caratteristica ovviamente importante nel caso dei disturbi di ansia sociale) si alternino ad ambienti ricostruiti con tecniche video («360° video»);
  • come accanto a ricerche nelle quali la realtà virtuale viene somministrata attraverso display montati sulla testa (HMD), collegati a computer, che utilizzano il tracciamento del movimento degli occhi e grafiche binoculare dotati di un ampio campo visivo, in grado di offrire un’esperienza con alto grado di presenza, ve ne siano altre in cui il sistema di restituzione è affidato a display direttamente collegati allo smartphone, in cui ciascun occhio visualizza un’immagine attraverso lo schermo del telefono e il giroscopio del telefono controlla il movimento della testa in relazione alla scena.

Malgrado tutte queste significative difformità di progettazione e impiego, alcune review sull’uso della VRE in regime di abituazione nei disturbi d’ansia e delle fobie specifiche mostrano come tale terapia possa considerarsi, nel breve termine, generalmente valida (Maples-Keller et al., 2017) e, tutto sommato, promettente anche nel caso specifico del disturbo da ansia sociale, dove, probabilmente, la realtà virtuale potrebbe incontrare maggiori difficoltà nella rappresentazione di contesti ad alta interattività (Emmelkamp et al., 2020). In particolare:

  • nel caso della fobia del volo, dell’altezza e dei ragni, la VRE in abituazione supera i trattamenti di controllo non espositivi, mostrando spesso risultati equivalenti all’esposizione in vivo, nonché una notevole capacità di promuovere nei pazienti, nel post-trattamento, e dunque nella vita reale, la generalizzazione dei risultati conseguiti in ambiente virtuale. Tuttavia, è importante riconoscere che la maggior parte degli studi esistenti, e, in particolare, quelli relativi alla paura dei ragni e del volo, sono stati condotti su campioni di piccole dimensioni; inoltre, mancano follow-up a lungo termine (1 anno o più), anche se le poche ricerche che li hanno previsti mostrano una tendenza al mantenimento dei risultati nel tempo. Alcuni studi, in maniera assai interessante, e in linea con la teoria dell’apprendimento inibitorio, mostrano poi come i risultati conseguiti nella VRE, in particolare per l’aracnofobia, in termini di paura auto-riferita, di evitamento comportamentale e di variazione della conduttanza cutanea sono migliori se la VR è progettata in maniera tale da poter rappresentare contesti multipli, piuttosto che un unico contesto, che stimoli multipli in un contesto univoco, permettono, sul lungo termine, riduzioni della paura più consistenti rispetto a quelli prodotti da uno stimolo unico presentato in più contesti e che la riattivazione della paura immediatamente prima della VRE consente di conseguire risultati migliori (Shiban et al., 2015a; Shiban et al., 2015b; Shiban et al., 2015c; Maples-Keller et al., 2017);
  • nel caso del disturbo da stress post-traumatico (PTSD), le ricerche suggeriscono che la VRE produce riduzioni significative dei sintomi, superiori rispetto a quelli conseguibili in condizioni di controllo e comparabili con quelli ottenibili con l’esposizione in vivo, anche se sussiste, tra i vari studi, una significativa variabilità per quanto riguarda il rigore metodologico e non sempre, all’interno di essi, è stata eseguita una corretta valutazione dell’influenza, sui sintomi e sulla loro riduzione, delle eventuali (ma frequenti) comorbidità dei pazienti con altri disturbi psichiatrici. Anche per il PTSD, alcune ricerche sembrano corroborare suggestioni provenienti dalla teoria dell’apprendimento inibitorio, mostrando come la D-cicloserina, un potenziatore cognitivo, consenta di conseguire risultati migliori rispetto al placebo e all’alprazolam, una benzodiazepina, quando somministrata assieme alla VRE (Ressler et al., 2004; Difede et al., 2020; Maples-Keller et al., 2017).

Una delle spiegazioni più intriganti del fatto che l’esposizione per abituazione in VR, malgrado tutte le difformità di strutturazione e di impiego sopra menzionate, mostri una efficacia notevole, in alcuni casi non inferiore a quella in vivo, è fornita dalla Lowered Threshold Hypothesis (oggetto di recenti verifiche sperimentali – Lindner et al., 2021). Secondo tale teoria, l’esposizione in ambienti virtuali avrebbe risultati positivi per il fatto che essa consentirebbe di ridurre l’aspettativa di minaccia nelle successive esposizioni in vivo, nella vita reale. La riduzione della risposta di paura a stimoli fobici virtuali, in pratica, renderebbe possibile ai pazienti di impegnarsi più facilmente nelle opportunità di esposizione in vivo offerte dall’esistenza quotidiana, favorendo così la rottura del circolo vizioso dell’evitamento che mantiene i disturbi d’ansia (Hoffman et al., 2018; Lindner et al., 2021). Questa possibilità di agevolare la generalizzazione potrebbe, secondo la teoria, spiegare perché in molte ricerche sulla VRE i miglioramenti dei sintomi sembrano proseguire nei follow-up a 1 e a 6 anni, dopo il completamento della terapia di esposizione VR (Rothbaum et al., 2002; Wiederhold et al., 2001; Lindner et al., 2021). Lo stesso principio potrebbe fornire inoltre una efficace spiegazione alla relazione che si ritrova, in alcune ricerche, tra il miglioramento dopo la tradizionale terapia di esposizione in vivo e la continuità nelle esposizioni post-trattamento (Wolitzky-Taylor et al., 2008).

Queste evidenze di letteratura e la stessa ipotesi della Lowered Threshold Hypothesis potrebbero trovare una solida base nella teoria dell’apprendimento inibitorio. Se interpretata alla luce di questa teoria, l’efficacia dell’esposizione per abituazione, sia in vivo che in VR, non dipenderebbe tanto dalla struttura delle manovre terapeutiche adottate per promuovere la stessa abituazione (struttura che anzi, come si è visto nel secondo paragrafo di questo lavoro, ostacola non poco la formazione di una valida memoria inibitoria e quindi l’estinzione a lungo termine della paura), quanto dalla positiva influenza che l’iniziale, ma fragile, riduzione della paura conseguente all’abituazione ha sulla propensione dei pazienti ad affrontare la varietà di stimoli fobogeni che la vita reale offre loro. In una logica di apprendimento inibitorio, potrebbe essere proprio questa successiva varietà e complessità di stimoli a fortificare e rendere stabile la memoria inibitoria che si contrappone alla memoria di paura, facendo migliorare continuamente i pazienti.

Va da sé che, secondo quanto fin qui espresso, i risultati della terapia espositiva, in vivo come in VR, potrebbero essere più intensi e duraturi se lo stesso training espositivo, piuttosto che seguire l’approccio dell’abituazione, seguisse i dettami dell’apprendimento inibitorio, come mostrato sommariamente in Tabella 1. Questo richiederebbe però un profondo ripensamento della procedura di esposizione e, nel caso della VR, una conseguente, significativa riprogettazione delle strutture hardware e del software a servizio della creazione degli ambienti virtuali. Nella Tabella 1, vengono schematicamente espresse le differenze di impostazione e caratteristiche tecnologiche e informatiche necessarie a garantire una buona applicazione, in VR, dei principi dell’apprendimento inibitorio al trattamento dei disturbi d’ansia e delle fobie specifiche, rispetto a quelle ordinariamente presenti nei protocolli VRE in abituazione, in linea con quanto evidenziato nel secondo paragrafo di questo lavoro.

Tabella 1

Differenze implementative per una esposizione tramite la realtà virtuale (VRE) secondo il modello della abituazione o dell’apprendimento inibitorio

VRE in abituazione

VRE in apprendimento inibitorio

L’esposizione allo stimolo temuto viene anticipata (e affiancata) da pratiche di ristrutturazione cognitiva e di rilassamento, finalizzate a realizzare una pronta riduzione dell’ansia.

L’esposizione allo stimolo temuto viene anticipata dalla visione di immagini positive o di spezzoni di film umoristici al fine di creare un umore positivo nel paziente (utile per facilitare la formazione, il consolidamento e il successivo recupero dell’apprendimento). Le pratiche di ristrutturazione cognitiva vengono svolte al termine della sessione in VR, in un secondo momento, al fine di consolidare la memoria. Non vengono mai eseguite prima, per impedire che l’aspettativa di minaccia si riduca (idem per le pratiche di rilassamento).

La somministrazione viene effettuata secondo una scala progressiva e graduale, in relazione al grado di paura del paziente.

L’esposizione viene fatta a stimoli diversi o parti di stimoli (aventi SI comune), variando i tempi, i livelli di intensità, o sistemando gli elementi che creano paura in maniera disordinata all’interno di una gerarchia e, il tutto, senza aspettare che l’ansia diminuisca.

Per ogni stimolo della gerarchia, l’esposizione è ripetuta il numero di volte necessario a ridurre la paura, prima di procedere allo stimolo successivo. La diminuzione della paura è direttamente attestata dal paziente, oppure segnalata da sistemi di rilevazione elettrofisiologica connessi al sistema VR, ai fini dell’interruzione della procedura.

L’esposizione continua per un tempo predeterminato e funziona da test di verifica per l’aspettativa dichiarata; continua per il numero di volte necessarie a violare l’aspettativa, indipendentemente dalla riduzione della paura. Sistemi di rilevazione elettrofisiologica possono segnalare al sistema VR la diminuzione del disagio percepito, non producendo però l’arresto dell’esposizione ma, al contrario, un adeguato cambiamento dello scenario virtuale atto a mantenere alta l’aspettativa negativa dichiarata.

L’ambiente VR è generato in modo da interfacciare l’utente con un solo tipo di stimolo e contesto.

L’ambiente VR deve essere in grado di modificare in tempo reale stimoli e contesti in modo da mantenere elevata l’aspettativa di minaccia e generalizzare l’apprendimento a contesti e stimoli multipli.

L’ambiente VR è programmato in maniera tale da non consentire più l’abbinamento tra uno stimolo già oggetto dell’abituazione e lo stimolo incondizionato.

L’ambiente VR è progettato in maniera da assicurare l’estinzione rinforzata, che occasionalmente comporta, durante la pratica, casuali abbinamenti tra lo stimolo condizionato e quello incondizionato.

L’ambiente VR può essere programmato al fine di favorire alcuni comportamenti di sicurezza, come l’impego dell’attenzione divisa tra stimolo minaccioso e stimolo neutro o la distrazione o ancora la focalizzazione di segnali di sicurezza.

L’ambiente VR deve essere progettato in modo da impedire qualsiasi comportamento di sicurezza. Nel caso dell’attenzione divisa, ad esempio, un sistema di eye-tracking può essere collegato al sistema VR per garantire la focalizzazione visiva sullo stimolo fobico.

L’ambiente VR deve inoltre richiedere all’utente la denominazione periodica delle emozioni negative provate (etichettamento delle emozioni). Questo si è dimostrato utile al fine della formazione della nuova memoria inibitoria.

L’ambiente VR per il trattamento dei disturbi d’ansia non prevede un sistema adeguato di rinforzo.

Per mantenere motivato il paziente nell’eseguire le intense esposizioni c’è bisogno di un adeguato «sistema rinforzante». Utile, a tal proposito, potrebbe essere l’applicazione di un apparato che fornisca punti bonus in base alla difficoltà superata, e che possono essere usati in seguito dal paziente per ridurre l’intensità delle esposizioni.

Implicazioni concettuali e operative del Flow e la teoria dell’esposizione nel contesto della realtà virtuale

Lo studio del meccanismo psicologico del Flow (chiamato anche Esperienza Ottimale) può fornire informazioni utili relative alle molteplici implicazioni cliniche della teoria dell’esposizione perché offre una cornice teorica sufficientemente complessa da includere sia lo stato ottimale di funzionamento psicofisico che gli stati psicofisici subottimali come l’ansia o la noia. Approfondendo le dinamiche del Flow è possibile comprendere, attraverso un nuovo punto di vista, le differenze psico-neuro-endocrine tra il modello espositivo «classico» dell’abituazione, che prevede la riduzione progressiva dell’ansia e quindi del rischio percepito, operando sulla «forza» della pre-esistente memoria negativa oggetto degli interventi clinici, e il più recente e scientificamente aggiornato modello di «apprendimento inibitorio» basato invece sulla generazione di una seconda memoria aggiuntiva prodotta dall’apprendimento focalizzato sull’aumentata violazione dell’aspettativa di minaccia che compete con la memoria temuta aumentando significativamente la capacità individuale di fronteggiamento nelle situazioni ansiogene.

Nel contesto del meccanismo del Flow, il prendere in considerazione dimensioni quali il livello di controllo percepito dal soggetto, il sistema motivazionale, il sistema dopaminergico della ricompensa così come l’attivazione neurale del sistema nervoso centrale e autonomico (in particolare del nervo vago), sarà prezioso per distinguere le caratteristiche distintive tra il modello dell’abituazione e quello inibitorio oltre a evidenziare come implementarle nel potente e duttile strumento della realtà virtuale. Vediamo adesso in dettaglio cos’è il meccanismo psicofisiologico del Flow per poi capire perché può essere una preziosa nuova prospettiva per comprendere, anche nel contesto della realtà virtuale, la differenza tra il paradigma dell’esposizione basato sul modello dell’abituazione e quello basato sulla creazione di una memoria inibitoria.

Il Flow è un complesso meccanismo che può essere considerato sia nella sua dimensione esperienziale che in quella neurofisiologica (Nakamura & Csikszentmihalyi, 2009; Peifer et al., 2022; Ullen et al., 2011). Dal punto di vista esperienziale il meccanismo del Flow può essere definito come uno stato psicologico altamente gratificante e immersivo in cui la nostra attenzione è completamente focalizzata sull’attività che abbiamo deciso di compiere per il gusto stesso di fare (motivazione intrinseca) nel momento in cui vi è un equilibrio tra le proprie capacità e la complessità dell’attività (Csikszentmihalyi, 1975, 1990, 2000). Il primo scienziato che identificò il Flow fu lo psicologo Mihalyi Csikszentmihalyi che, per far comprendere intuitivamente cos’è questo processo psicologico dal punto di vista esperienziale, scrisse: «I momenti migliori della nostra vita non sono tempi passivi, ricettivi, rilassanti… I momenti migliori di solito si verificano se il corpo e la mente di una persona sono spinti ai loro limiti nello sforzo volontario di realizzare qualcosa di difficile e significativo» (Csikszentmihalyi, 1990). Quando viviamo il Flow la nostra mente sperimenta uno stato di intenso e positivo benessere, siamo totalmente concentrati e immersi nell’attività svolta in quel preciso momento e percepiamo un benefico alto controllo situazionale. Tutto questo pur se l’attività è sfidante rispetto ai limiti delle nostre capacità. Molto spesso la percezione del tempo è distorta nel senso che il tempo «vola» discostandosi dal tempo scandito dall’orologio. Le Esperienze Ottimali fanno parte di una categoria di stati psicologici chiamati eudaimonici caratterizzati da un positivo stato di crescita di complessità psicologica quindi si tratta di uno speciale tipo di apprendimento connesso anche al concetto di impegno e di sforzo finalizzato a un obiettivo chiaramente definito. Il Flow, lo stato psicologico eudaimonico per eccellenza, genera nel tempo soddisfazione e significato in ciò che facciamo e, oltre ad aumentare il benessere psicologico e la qualità di vita personale (Ryan & Deci, 2001; Delle Fave et al., 2011), migliora i processi fisiologici del meccanismo neuro-endocrino dello Stress (Agnoletti, 2015, 2018; Agnoletti & Formica, 2020; Heller et al., 2013) inducendo dei cambiamenti epigenetici che promuovono anche una più efficace gestione delle infiammazioni (Fredrickson et al., 2013). Il Flow rappresenta per antonomasia il benessere eudaimonico che risulta essere un fattore protettivo dalle psicopatologie e che predice anche il benessere fisico inclusi livelli più corretti di cortisolo (Davidson et al., 2000). Risulta interessante notare che le persone che riportano un maggiore benessere psicofisico hanno, in seguito a eventi positivi, una maggiore attivazione del corpo striato e della corteccia prefrontale e livelli più bassi di cortisolo (Heller et al., 2013). Il corpo striato e la corteccia prefrontale insieme ad altre importanti aree cerebrali fanno parte del circuito neurofisiologico della ricompensa chiamato anche circuito dopaminergico della ricompensa perché la dopamina è il neurotrasmettitore protagonista di questa complessa rete neurale. È stato suggerito che un sostenuto grado di attivazione del circuito della ricompensa in risposta a eventi positivi sia alla base del benessere e della regolazione adattiva dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (Heller et al., 2013) ed è stato dimostrato che in seguito a eventi negativi (anche di natura traumatica) corteccia prefrontale e amigdala sono inversamente attivati e predicono la produzione di cortisolo (Urry et al., 2006). Le Esperienze Ottimali sono specifici stati soggettivi dove la particolare combinazione cognitiva, emotiva e motivazionale genera uno stato di benessere significativo e di benessere così gratificante che induce la persona a replicare l’esperienza stessa. La tipologia specifica di attività nelle quali l’Esperienza Ottimale si esprime è assolutamente soggettiva (suonare uno strumento musicale, giocare a scacchi, danzare, praticare uno sport, ecc.) definita dalla specifica scelta personale (motivazione intrinseca), ma l’architettura neurale che la rende possibile è comune e specie-specifica cioè caratteristica della specie umana. Dagli studi finora emersi relativamente questa architettura psico-neuro-fisiologica risulta interessante notare che esiste un legame tra la propensione a vivere Esperienze Ottimali e la percezione di controllo che si ha della propria vita. È stato ipotizzato che alla base di questa relazione ci sia il coinvolgimento del circuito dopaminergico della ricompensa (Mosing et al., 2012), infatti differenze individuali nella propensione di vivere le Esperienze Ottimali sono legate alla disponibilità del recettore D2 della Dopamina che si trova nel corpo striato dorsale (Manzanoa et al., 2013), struttura che, ripetiamo, fa parte del circuito della ricompensa.

Ai fini di questo scritto è particolarmente utile notare che l’attivazione del circuito celebrale della ricompensa è fortemente legato ai concetti di percezione di controllo situazionale e di aspettativa entrambi centrali nella tematica paradigma dell’esposizione. Sempre dal punto di vista neurofisiologico, l’esperienza del Flow risulta corrispondere a una sostenuta attivazione sia del ramo simpatico che parasimpatico del sistema nervoso autonomo (Chin & Kales, 2019; Khoshnoud et al., 2022; Harmat et al., 2015; Peifer et al., 2014; Smith et al., 2020; Tian et al., 2017). In particolare, il grado di attivazione del Nervo Vago (che rappresenta la maggior parte delle fibre neurali del sistema nervoso parasimpatico oltre ad essere la più diffusa via comunicativa neurale cervello-resto dell’organismo) sembra essere fortemente correlato con l’Esperienza Ottimale (Agnoletti, 2017, 2018, 2021; Smith et al., 2020) e quindi anche, nel tempo, ai cambiamenti epigenetici che modificano la disponibilità del recettore D2 della Dopamina nel corpo striato dorsale (Manzanoa et al., 2013).

Il modello di funzionamento del Flow prevede l’esistenza di una situazione ottimale in cui il rapporto tra le capacità percepite e le complessità dell’attività affrontata sono bilanciate. Esso prevede anche situazioni sub-ottimali in cui questo rapporto è sbilanciato a favore delle capacità percepite (vissuto esperienziale di noia) o sbilanciato perché la complessità dell’attività è troppo elevata rispetto le capacità percepite dal soggetto. Quest’ultima situazione è connotata esperienzialmente dall’ansia quindi dalla percezione di basso controllo che viviamo nell’affrontare quel contesto di vita, che può esprimersi con sintomi distressanti anche fobici. Ciascuna di queste tre situazioni (ottimale, di noia e di ansia) previste dal meccanismo del Flow corrisponde a specifiche attivazioni psiconeuroendocrine del sistema nervoso centrale e di quello periferico.

Se all’Esperienza Ottimale corrisponde un’alta attivazione dopaminergica del sistema della ricompensa, un sistema nervoso parasimpatico dominante quello simpatico (che comunque rimane attivo) e una media produzione di cortisolo, la situazione relativa la noia corrisponde a un basso livello di attivazione del circuito della ricompensa, una dominanza del sistema parasimpatico con una bassa attivazione di quello simpatico e la pressoché assente produzione di cortisolo. La situazione ansiogena, più centrale ai fini di questo scritto, corrisponde invece a un’alta attivazione dopaminergica del sistema della ricompensa, un sistema nervoso simpatico dominante quello parasimpatico (che comunque rimane attivo) e un alto livello di produzione di cortisolo.

Adesso che abbiamo decritto anche se sommariamente il meccanismo del Flow vediamo le sue connessioni con la teoria espositiva e le sue applicazioni nella realtà virtuale (VR). All’interno del contesto proposto dal meccanismo del Flow, in particolare nella situazione ansiogena appena descritta, la teoria dell’esposizione può essere intesa come lo sforzo finalizzato a far riguadagnare al soggetto un’alta percezione di controllo situazionale esponendolo ripetutamente e sistematicamente al contesto ansiogeno originariamente temuto. Le connessioni che troviamo particolarmente interessanti tra il Flow e il paradigma espositivo potrebbero essere riassunte in una serie di considerazioni relative la convergenza tra questi due concetti e una ipotesi che possiamo formulare in ambito espositivo, in particolare con la VR, derivante il meccanismo del Flow.

Risulta interessante notare che vi è una convergenza molto significativa tra le due principali modalità previste dal Flow per realizzare questo percorso finalizzato a ripristinare un alto controllo situazionale percepito e le due diverse forme di apprendimento previste dal paradigma dell’esposizione.

Se infatti il Flow prevede l’esistenza di una specifica strategia (Strategia #1; si veda la Figura 3) per far riguadagnare al soggetto un più corretto controllo situazionale percepito attraverso l’abbassamento della complessità dell’attività svolta senza incrementare le capacità percepite, il modello espositivo dell’abituazione, prevede di esporre ripetutamente il soggetto alla situazione ansiogena originaria abbassando gradatamente il livello di stimolazione ansiogena, assumendo che tale abbassamento equivalga a una attivazione psicofisiologica più favorevole (diminuzione attivazione dell’amigdala rispetto la corteccia prefrontale ventromediale, diminuzione della dominanza del sistema nervoso simpatico sul parasimpatico, minore produzione di cortisolo/adrenalina, ecc.).

Questa modalità segue la logica di rimodellare la memoria originariamente associata con una connotazione emotivamente negativa diminuendo nel tempo la forza dell’associazione emotiva negativa tra stimolo e risposta psicofisiologica (si veda ad esempio la desensibilizzazione sistematica), riducendo quindi l’aspettativa di minaccia e facendo recuperare la percezione del controllo situazionale al soggetto. Nell’abituazione l’assunto implicito è che la progressiva diminuzione della paura conseguente la violazione dell’aspettativa dell’esito negativo atteso produce la modifica sulla memoria ansiogena temuta indebolendo il legame associativo stimolo risposta (Foa et al., 1986).

Figura 3

Grafico del meccanismo del Flow.

Anche la strategia prevista dal Flow che consiste nell’aumentare il senso di controllo percepito attraverso l’aumento delle capacità personali percepite senza abbassare la complessità della situazione (Strategia#2) trova un grado di convergenza con il modello dell’apprendimento inibitorio del paradigma espositivo.

L’apprendimento inibitorio, infatti, prevede di esporre il soggetto alla situazione ansiogena temuta aumentando la complessità della situazione e abbassando temporaneamente la percezione di controllo situazionale del soggetto per poi riportarlo a una situazione di sicurezza che viola intensamente le aspettative di minaccia.

Qui la logica è quella di creare una traccia mnestica aggiuntiva che interferisce in maniera competitiva con la memoria eccitatoria ansiogena.

Dalla letteratura scientifica attualmente disponibile (Craske et al., 2014), questo effetto apparentemente paradossale focalizzato sulla violazione dell’aspettativa di minaccia aumentandola temporaneamente, è maggiormente efficace rispetto il precedente e più diffuso relativo all’abituazione (Toso, 2019).

Dal punto di vista psicofisiologico sia il Flow che l’apprendimento inibitorio prevedono che nella situazione in cui si realizza la Strategia#2 il soggetto permanga in modo temporaneo esperienzialmente all’interno di un contesto emotivamente negativo (ansiogeno) corrispondente a una attivazione intensa (circuito dopaminergico, produzione cortisolo/adrenalina con generalizzazione dei processi mnestici ippocampali, dominanza sistema simpatico rispetto quello parasimpatico, ecc.) per poi vivere una situazione di controllo percepito, derivante dall’intensa violazione delle aspettative negative catastrofiche prospettate.

Un’altra convergenza tra il meccanismo del Flow e il paradigma espositivo è rappresentata dal fatto che anche in quest’ultimo ambito recentemente si è cominciato a definire con maggiore accuratezza la tipologia di processi motivazionali che minimizzano i comportamenti evitanti aumentando la valutazione positiva del contesto temuto (Paulus et al., 2017). In questo scenario, la differenziazione tra motivazioni difensive (defensive motivation) e appetitive (appetitive motivation) (Griffith et al., 2009) è molto coerente con la tipologia di strategie previste dal Flow per gestire la situazione ansiogena rispettivamente con l’apprendimento per abituazione che massimizza la diminuzione relativa la minaccia percepita facendo leva sulle motivazioni difensive (Strategia#1) e con l’apprendimento inibitorio che, basandosi sulle motivazioni appetitive, massimizza la capacità di fronteggiamento mantenendo temporaneamente alto il rischio percepito (Strategia#2).

All’interno del concetto di motivazione, recenti studi di carattere psiconeurofisiologico sull’anedonia, intesa come processo di perdita di interesse o piacere nelle attività abituali, hanno evidenziato da una parte la diffusa sovrastima relativa i tentativi di riduzione delle emozioni negative piuttosto che il miglioramento delle emozioni positive (Craske et al., 2016), dall’altra sembra sempre più chiaro che questo disturbo sia associato a un deficit di apprendimento del sistema di ricompensa appetitiva e quindi delle aspettative (Craske et al., 2019). Nell’ottica proposta dal Flow, un deficit del sistema motivazionale appetitivo della ricompensa tipico dell’anedonia equivale a una frequenza scarsa di Esperienze Ottimali, che, oltre a rendere basso il numero di emozioni piacevoli e gratificanti, ha anche un effetto sulle risorse messe in atto per affrontare situazioni di distress per il danneggiamento funzionale del sistema dopaminergico della ricompensa (bassa resilienza).

Per quanto riguarda possibili ipotesi derivanti da quanto appena esposto, possiamo pensare che l’interazione tra il meccanismo del Flow e il paradigma espositivo ci permetta di formulare due ipotesi che sarebbe interessante esplorare sia empiricamente che clinicamente.

La prima ipotesi consiste nel fatto che poiché la Strategia#2 è l’unica situazione in cui la persona percepisce l’aumento di controllo abbinato all’incremento delle capacità personali (Agnoletti, 2013, 2015) aumentando quindi la capacità di resilienza, possiamo supporre che il modello di apprendimento inibitorio risulterà maggiormente efficace rispetto quello basato sull’abituazione per il fatto che prevede la promozione del benessere psicofisico attraverso l’aumento di controllo situazionale abbinato a una crescita delle proprie capacità di fronteggiamento. La resilienza, cioè la capacità di fronteggiare situazioni ansiogene ristabilendo efficacemente il grado di benessere psicofisico precedente l’evento stressante, prevede infatti uno sforzo attivo da parte del soggetto di affrontare la situazione stressante con l’aspettativa positiva (speranza) di poter ottenere un risultato positivo al termine dell’esperienza sfidante. La seconda ipotesi è relativa al fatto che le persone con una frequenza maggiore di Flow, coerentemente con quanto finora descritto, dovrebbero registrare un apprendimento inibitorio facilitato rispetto a coloro che vivono meno frequentemente le Esperienze Ottimali.

In altri termini, a parità di esperienze ansiogene temute, le persone che esprimono una frequenza di Flow più alta avranno un’efficacia dei processi di apprendimento inibitorio maggiore rispetto a chi esprime scarse o comunque minori Esperienze Ottimali.

Da diversi anni la letteratura sulla realtà virtuale e i videogiochi ha espresso molto interesse relativamente il meccanismo del Flow per migliorare ulteriormente l’esperienza del fruitore (Ottiger et al., 2021; Riva et al., 2004; Riva et al., 2006). Temi quali la capacità attentiva, la motivazione, il senso di controllo e di rischio percepito, il grado di immersività e coinvolgimento, il rapporto tra difficoltà/complessità situazionale e le capacità percepite sono dimensioni tanto caratteristiche dell’Esperienza Ottimale quanto cruciali per realizzare un videogioco di successo o un’esperienza di RV efficace.

Le aree previste dal meccanismo del Flow quali l’ansia, la noia e naturalmente l’esperienza Ottimale sono tutte tematiche molto studiate per progettare un’esperienza coinvolgente, che induce a replicare l’esperienza stessa per il forte valore positivo di crescita legato all’apprendimento di nuove capacità in una situazione che abbina la sfida a un alto controllo percepito.

La realtà virtuale, per le potenzialità pressoché uniche attualmente offerte nel settore della psicoterapia data la possibilità di poter manipolare l’attenzione del soggetto che la sperimenta, gli stimoli ansiogeni proposti, il grado di condivisione e sintonizzazione tra terapeuta e paziente, risulta essere lo strumento elettivo per il paradigma espositivo in generale e per l’apprendimento inibitorio in particolare.

Effettivamente, attualmente, solo attraverso lo strumento della VR siamo in grado di offrite un contesto sfidante ma percepito come sicuro per il paziente (il «come se» tipico anche degli ambienti ludici), che garantisce la manipolazione e il monitoraggio sia degli stimoli temuti dal paziente che dell’attenzione e della risposta psicofisiologica dei soggetti.

Le caratteristiche pressoché uniche della VR risultano essere quindi particolarmente strategiche per esplorare sia il paradigma espositivo soprattutto per quanto riguarda il modello dell’apprendimento inibitorio come il meccanismo del Flow.

Conclusioni

Numerose ricerche hanno dimostrato l’efficacia dell’utilizzo della realtà virtuale nella terapia dei disturbi d’ansia. La VR non consiste in una vera e propria terapia ma rappresenta uno strumento tecnologico in grado di favorire quella che viene definita terapia di esposizione, ossia il ripetuto confronto con stimoli (di per sé innocui) che provocano molta ansia.

La nostra comprensione dei meccanismi responsabili degli effetti della terapia espositiva si è evoluta negli anni e negli ultimi due decenni, in particolare, i progressi raggiunti nelle aree di apprendimento ed estinzione della paura hanno portato alla formulazione di un nuovo modello concettuale della terapia e a un conseguente potenziamento del metodo. Due sono i punti chiave del nuovo modello. Innanzitutto, l’efficacia della terapia non sarebbe dovuta alla cancellazione dei ricordi eccitatori di paura, ma alla creazione di nuove memorie antagoniste e inibitorie. Di seguito, la riduzione della paura, all’interno di ogni singola seduta espositiva, non sarebbe più considerata un indice di successo terapeutico, ma tale risultato dipenderebbe dalla forza e recuperabilità delle nuove associazioni inibitorie, che si vengono a formare, e dall’efficacia della regolazione neurale sottostante.

Sulla scia di queste novità appare sensato considerare, così, che anche la tecnologia virtuale debba adeguarsi a tali sviluppi al fine di poter massimizzare gli interventi di esposizione. Nel presente lavoro si è riflettuto, appunto, su questa ipotesi e sono stati proposti spunti per alcune necessarie modifiche del software e dell’hardware.

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Presentato il 24 marzo 2022, accettato per la pubblicazione il 02 giugno 2023


1 SSPB – Scuola di Specializzazione Psicoterapia di Basilicata.

2 ITC – Scuola di Specializzazione in Psicoterapia, Padova.

3 Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Humanitas, Roma.

4 Università di Verona.

5 SSPB – Basilicata Psychotherapy Specialisation School.

6 ITC – Psychotherapy Specialisation School, Padua.

7 Humanitas Psychotherapy Specialisation School, Rome.

8 University of Verona.

Vol. 29, Issue 3, October 2023

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