Il TNPEE

© 2020 Erickson

Vol. 2, n. 2, novembre 2020

(pp. 46-59)

Autoregolazione, comportamento adattivo e funzionamento sociocomunicativo nel bambino con disturbo visivo precoce: spunti di riflessione dall’analisi della letteratura

Stefania Petri

TNPEE, Laboratorio Visione, Dipartimento di Neuroscienze dello sviluppo, Fondazione IRCCS Stella Maris, Pisa

Giulia Purpura

TNPEE, Laboratorio Visione, Dipartimento di Neuroscienze dello sviluppo, Fondazione IRCCS Stella Maris, Pisa

Sommario

La vista è una delle principali funzioni adattive nella vita dell’individuo e costituisce uno dei prerequisiti fondamentali nello sviluppo psicomotorio del bambino, in quanto consente di esplorare precocemente il mondo circostante, localizzare gli stimoli più significativi, riconoscerli, interpretarli e pianificare una risposta funzionale nell’ambiente.

Sono ormai numerosi i lavori scientifici che si sono focalizzati sull’influenza che un disturbo visivo precoce può avere sullo sviluppo neuropsichico del bambino, e in particolare i ricercatori sono andati ad analizzare diversi ambiti, tra cui l’autoregolazione, il comportamento adattivo e le abilità sociocomunicative. Tuttavia, la letteratura ha trovato diverse contraddizioni, lasciando ancora aperto il dibattito per quanto riguarda la presenza di tratti «autistic-like» o di un’effettiva comorbidità del disturbo dello spettro autistico nei bambini con deficit visivo. La questione risulta probabilmente condizionata anche dal fatto che gli strumenti osservazionali attualmente in uso per l’identificazione precoce delle difficoltà sociocomunicative richiedono in larga parte l’utilizzo del canale visivo.

Lo scopo di questa review narrativa è pertanto quello di andare ad analizzare la letteratura scientifica cercando di individuare alcuni pattern comportamentali atipici nel bambino con grave disturbo visivo e infine fornire alcuni spunti di riflessione sull’approccio diagnostico-terapeutico per questa specifica popolazione.

Parole chiave

Neurosviluppo, Funzioni visive, Disturbo visivo, Disturbo dello spettro autistico.

INTRODUZIONE

È noto come la vista, intesa come utilizzo dei movimenti oculari per esplorare l’ambiente e localizzare gli stimoli biologicamente significativi, ma anche come capacità di riconoscere e interpretare i dati raccolti dal sistema visivo, sia fondamentale fin dalle prime fasi della vita per entrare in relazione con il mondo circostante. Il canale visivo permette al bambino di adattarsi all’ambiente extra-uterino e comunicare con l’altro, già molto prima dell’effettivo sviluppo del linguaggio verbale. Infatti, la preferenza visiva innata del neonato per gli stimoli «tipo volto» (Turati et al., 2005) e la possibilità di iniziare un dialogo tonico con il caregiver già poche ore dopo il parto (de Ajuriaguerra, 1989) sono la prova che l’essere umano risulta biologicamente predisposto a comunicare attraverso l’esperienza sensomotoria ed è naturale pensare che la vista sia il canale preferenziale attraverso cui il bambino impara a interpretare gli input sociali del suo ambiente. La visione permette l’individuazione, l’elaborazione e la processazione degli stimoli circostanti, necessari affinché l’individuo riesca a organizzare una risposta comportamentale adatta alla situazione. Per questo motivo, l’insorgenza precoce di un disturbo visivo, se non considerata in una prospettiva life-span, può avere conseguenze a cascata sulle varie aree dello sviluppo neuropsichico, andando a compromettere diversi aspetti come l’autoregolazione, gli apprendimenti, il comportamento adattivo e successivamente la qualità della vita dell’individuo. Per questo motivo, la letteratura scientifica ha ampiamente analizzato, pur trovando diverse contraddizioni, il comportamento dei bambini con disturbo visivo congenito e la presenza di disfunzioni sociocomunicative in questa popolazione (Cass, Sonksen e McConachie, 1994; Fazzi et al., 2007; Purpura e Tinelli, 2020). In particolare, la presenza di tratti «autistic-like» o la comorbidità del vero e proprio disturbo dello spettro autistico nei bambini non vedenti o ipovedenti, è un dibattito ancora aperto, anche se è difficile pensare che la mancanza di feedback visivo non intralci negativamente lo sviluppo psicomotorio del bambino. In tal senso, lo scopo di questa review narrativa è duplice: (i) analizzare la letteratura scientifica nell’ottica di individuare alcuni specifici pattern sociali e comportamentali atipici nel bambino con grave disturbo visivo; (ii) fornire alcuni spunti di riflessione relativi all’approccio diagnostico-riabilitativo per questa popolazione.

DEFICIT DELLA COMUNICAZIONE E DELL’INTERAZIONE SOCIALE

Sebbene la presenza di un disturbo visivo severo non possa essere considerata di per sé causa di un disturbo dello spettro autistico, vero è che il rischio di un danno nella sfera delle abilità comunicative e dell’interazione sociale in questa popolazione di bambini è molto alto. Hobson e Bishop (Hobson e Bishop, 2003) osservavano che, anche nei bambini ciechi e ipovedenti che non soddisfacevano i criteri per la diagnosi di autismo, era possibile, comunque, riscontrare alcune atipie e difficoltà nella sfera interpersonale e nelle modalità di relazione con gli altri, sebbene la presenza del disturbo autistico vero e proprio risultasse maggiormente presente nei bambini ciechi che vivevano in situazioni sociali svantaggiate, piuttosto che nei bambini ciechi che vivevano in buone condizioni socio-culturali. Tale risultato sottolineava, quindi, che la presenza di un deficit visivo che già di per sé tende a isolare il soggetto dal resto del mondo, se non adeguatamente preso in carico dalla società e compreso dall’ambiente circostante, può essere causa di una disarmonia evolutiva che andrà necessariamente a intaccare il funzionamento sociale del bambino. Più recentemente lo sviluppo comunicativo precoce (1-3 anni) dei bambini con disturbo visivo profondo e severo è stato analiticamente approfondito da Dale e collaboratori (Dale, Tadić e Sonksen, 2014), che hanno proposto un questionario diretto sia a genitori di bambini con deficit visivo, sia a genitori di bambini tipici vedenti. Lo studio, in linea con le teorie di Baron-Cohen (Baron-Cohen, 1995) secondo cui i meccanismi coinvolti nelle capacità di attenzione congiunta precoce dipendono principalmente dalla vista, ha messo in evidenza che i bambini con deficit visivo profondo mostrano con minor frequenza i comportamenti ritenuti significativi nell’area dello sviluppo dell’attenzione condivisa e degli interessi condivisi. L’assenza di questi comportamenti chiave può far parte, quindi, di una sintomatologia caratterizzante un ritardo nello sviluppo delle competenze sociocomunicative, che potrebbe portare alla comparsa dei primi segni autistic-like nei bambini più vulnerabili. Gli stessi autori (Tadić, Pring e Dale, 2009) avevano già indagato precedentemente le competenze linguistiche e comunicative durante l’età scolare, confrontando un gruppo di bambini affetti da deficit visivo congenito e intelligenza verbale nella norma, con un gruppo di coetanei vedenti. Gli autori mettevano in evidenza alcuni punti chiave, come ad esempio il fatto che, nonostante il perfetto match tra intelligenza verbale ed età, i bambini con deficit visivo ottenevano punteggi migliori rispetto ai coetanei vedenti in un test mirato alla valutazione delle funzioni linguistiche, mostrando però minori capacità per quanto riguarda gli aspetti sociocomunicativi, con un peggiore utilizzo del linguaggio ai fini pragmatici e sociali. Tali comportamenti, sulla base delle risposte date dai genitori, sono stati giudicati come simili a quelli messi in atto da bambini vedenti con disturbo dello spettro autistico.

Tali difficoltà potrebbero essere collegate alle precoci esperienze relazionali di cui il bambino con disturbo visivo precoce risulta in parte deprivato nelle prime fasi del ciclo di vita, a causa del ridotto o nullo utilizzo del canale visivo durante i primi apprendimenti sociali: è stato visto infatti che un deficit delle competenze visuo-percettive può influenzare negativamente il gioco, il movimento, le abilità sociali e cognitive. La presenza di limitazioni e ostacoli che interferiscono nell’interazione con l’ambiente circostante, in presenza di un alterato input visivo, risulta essere un aspetto determinante nella maturazione psicologica del bambino, poiché essi possono andare a inficiare la globalità e l’armonia dello sviluppo stesso (Glass, 2002). Infatti, nonostante la popolazione dei bambini con deficit visivo possa essere variegata per molteplici aspetti, questi soggetti sono comunque accomunati da una significativa alterazione e talvolta assenza di esperienze visive fondamentali nell’organizzazione di una crescita armonica. Tali alterazioni dello sviluppo del sistema visivo suggeriscono pertanto la necessità di un intervento quanto più precoce possibile in questo tipo di soggetti (Guralnick e Bennett, 1987). Seppure la letteratura più recente metta in luce la specifica presenza di disturbi precoci dello sviluppo comunicativo e linguistico dei bambini con disordine visivo, i meccanismi e il grado di impatto del deficit sensoriale sull’evoluzione delle competenze comunicative appare ancora poco chiaro. Infatti, sono ancora molti gli ostacoli che la ricerca incontra nella piena comprensione di quanto le difficoltà sociocomunicative possano essere attribuite primariamente a un deficit visivo, soprattutto nei casi in cui questo sia associato a disabilità multiple. Tali difficoltà sono spesso sottostimate e sottovalutate nei bambini con deficit visivo, spesso perché tale problematica viene considerata legata alle altre disabilità associate, ma anche perché la mancanza di strumenti appropriati per indagare le varie aree dello sviluppo in questa popolazione di bambini rimane ancora un grosso problema (Mosca, Kritzinger e van der Linde, 2015). Alla luce di tutto questo è chiaro quindi come il canale visivo possa giocare un ruolo di fondamentale importanza nella comunicazione, soprattutto per quanto riguarda i prerequisiti all’uso del linguaggio verbale. Nei primi 3 anni di vita in particolare, le componenti visive della comunicazione, come lo scambio reciproco di segnali mimici e gestuali, giocano un grande ruolo a livello sia di controllo sia di integrazione dei processi che rappresentano i presupposti di base per un’adeguata relazione con l’altro (soprattutto la condivisione dell’attenzione per e su qualcosa) e per lo sviluppo di un linguaggio verbale socialmente efficace.

PATTERN DI COMPORTAMENTO, INTERESSI O ATTIVITÀ RISTRETTI E RIPETITIVI

La presenza di comportamenti motori e linguistici stereotipati o ripetitivi (sia con che senza l’oggetto), l’eccessiva aderenza a routine o la presenza di pattern ritualizzati di comportamenti verbali o non verbali, oppure l’eccessiva resistenza al cambiamento, gli interessi altamente ristretti e fissi, o l’iper- o ipo-sensibilità ad alcuni input sensoriali o interessi atipici per aspetti sensoriali dell’ambiente sono solo alcuni esempi di comportamenti presi in considerazione come criterio diagnostico per poter fare diagnosi di disturbo dello spettro autistico (APA, 2013). In particolare, però, nelle prime fasi della vita, i movimenti stereotipati, intesi come risposte motorie sempre uguali, ripetitive ed eccessive in frequenza e ampiezza, risultano spesso già evidenti nei bambini a rischio di disturbi dello spettro autistico (Purpura et al., 2017) anche se, in letteratura, sono molti i lavori che hanno messo in evidenza il fatto che comportamenti analoghi risultano molto comuni anche tra i bambini con altre disabilità, e in particolare nei bambini con disabilità visiva (Cass, Sonksen e McConachie, 1994; Dale e Sonksen, 2002). Già nel 1991 Töster, Brambring e Beelmann (Tröster, Brambring e Beelmann, 1991) misero in evidenza la presenza di una vasta gamma di comportamenti stereotipati in lattanti e bambini in età prescolare ciechi dalla nascita, suggerendo che, anche secondo i loro genitori, questi tendevano a manifestare movimenti ripetitivi e stereotipati principalmente nelle situazioni di stanchezza, di noia oppure negli stati di eccessiva attivazione. Inoltre, secondo gli autori, nei bambini con disturbo visivo risultavano predominanti alcuni specifici movimenti stereotipati, diretti al bulbo oculare o alla zona degli occhi. Questo tipo di comportamento sembra essere tipico nei bambini ipovedenti e, infatti, nei bambini affetti da altre disabilità sono stati riscontrati in maniera minore. L’interpretazione più accreditata del motivo della presenza di questi specifici movimenti sembra essere che tale meccanismo di stimolazione del bulbo oculare provochi una sensazione visiva, chiamata fosfene, purché le vie di collegamento tra occhio e cervello non siano gravemente compromesse. Diversi autori hanno infatti confermato questa interpretazione notando che, nei bambini la cui cecità era causata da un danno al nervo ottico, tali movimenti diretti al bulbo oculare non erano presenti (Jan et al., 1983; Thurrell e Rice, 1970). Tuttavia, sebbene non vengano considerati come caratteristici dei bambini non vedenti, sono stati osservati in questi soggetti anche altri tipi di movimenti stereotipati, spesso generalizzati a tutto il corpo, come ad esempio il dondolarsi. Mc Hugh e Lieberman (2003) segnalano, per esempio, che questi movimenti corporei sembrano essere associati fortemente a quadri di Retinopatia del Prematuro (McHugh e Lieberman, 2003).

Un’interpretazione più recente è quella, invece, che attribuisce alla presenza di movimenti stereotipati il significato di facilitazione nel processo di adattamento all’ambiente circostante. Questi movimenti sembrerebbero aiutare i bambini non vedenti o gravemente ipovedenti sia nei casi in cui si trovino in uno stato di sotto-stimolazione, sia nei casi di sovra-stimolazione, al fine di aiutarli a ristabilire l’autoregolazione, e quindi a sentire il proprio corpo nel buio della cecità. Le stereotipie e la ripetizione di determinati movimenti sembrano infatti aiutare tali bambini a mantenere un omeostatico stato di stimolazione sensoriale (Greenspan e Wieder, 2005). Ad analizzare con più attenzione questo aspetto sono stati Gal e collaboratori (Gal, Dyck e Passmore, 2010), i quali hanno voluto indagare le differenze tra i movimenti stereotipati dei bambini totalmente ciechi e quelli degli ipovedenti. I risultati ottenuti da questo gruppo di lavoro indicano che il tipo e la gravità del deficit sensoriale modificano il tipo di comportamenti stereotipati che i bambini mettono in atto. Erano infatti proprio i bambini ciechi totali a presentare con maggior frequenza questo tipo di movimenti, confermando l’ipotesi che attribuisce ai movimenti stereotipati una funzione adattiva. Infatti, ogni gruppo di bambini analizzato metteva in atto movimenti che potessero promuovere una diretta compensazione della specifica perdita sensoriale (ad esempio, gli ipovedenti utilizzavano l’iperfissazione per massimizzare la stimolazione visiva, i bambini ciechi invece usavano maggiormente il dondolamento o stimolazioni propriocettive e vestibolari), suggerendo quindi che il grado di deficit sensoriale sembrava influire non solo sulla frequenza dei movimenti stereotipati, ma anche sulla tipologia. Al fine di comprendere meglio l’origine di questi comportamenti, anche il gruppo di Fazzi e collaboratori (Fazzi et al., 2007) ha voluto analizzare i pattern di movimento di un gruppo di bambini affetti da Amaurosi Congenita di Leber che, tipicamente, oltre al grave deficit visivo presentano specifici disturbi del comportamento. L’analisi di questo campione di soggetti riportava un’alta frequenza di comportamenti stereotipati soprattutto di mani e dita, suggerendo la difficoltà di questi bambini nel manipolare in maniera funzionale ed esplorativa gli oggetti, mentre il fatto di non aver riscontrato importanti disfunzioni nell’ambito socio-relazionale ha permesso di escludere una vera e propria comorbidità con un quadro di disturbo pervasivo dello sviluppo. Infatti, secondo gli autori, le principali difficoltà che questi bambini riscontravano relativamente alle competenze relazionali riguardavano piuttosto la mimica facciale e l’uso dei gesti per la comunicazione sociale, capacità che richiedono necessariamente un buon funzionamento e un buon utilizzo del canale visivo.

DEFICIT DEL FUNZIONAMENTO ADATTIVO

«Una risposta adattiva è una reazione intenzionale e finalizzata a uno scopo, a un’esperienza sensoriale. Un bambino vede un sonaglio e cerca di raggiungerlo. Raggiungerlo è una risposta adattiva. Muovere semplicemente le mani senza scopo non è invece adattivo. In una risposta adattiva vinciamo una sfida e impariamo qualcosa di nuovo». In seguito a questa esauriente descrizione a opera di A. Jean Ayres (Ayres, 2012, p. 9), possiamo dedurre quanto il canale visivo possa giocare un ruolo chiave nella maturazione delle abilità che costituiscono le condizioni fondamentali per poter mettere in atto dei movimenti finalizzati a un preciso scopo, quindi adattivi e funzionali rispetto all’ambiente che ci circonda. Quando vi è una forte riduzione o, ancor peggio, una carenza totale di informazioni visive, sono soprattutto le informazioni propriocettive e cinestetiche a svolgere il ruolo di compensazione nella strutturazione del movimento finalizzato. Entrambe, infatti, risultano necessarie per l’acquisizione di determinati pattern di movimento, anche se non forniscono informazioni sufficientemente precise per poter analizzare dettagliatamente ciò che ci circonda e quindi per poter mettere in atto dei movimenti precisi e fluidi. È piuttosto il senso della vista a fornire un costante controllo sulle informazioni provenienti dall’esterno, permettendo l’anticipazione e la correzione dell’azione motoria (Brambring, 2004).

Neanche l’udito e il tatto rappresentano, in una prima fase, uno stimolo così motivante nel bambino piccolo non vedente, il quale spesso non risponde a un suono con un movimento di avvicinamento verso la fonte sonora, bensì si ferma per poter poi mettersi in ascolto. È stato visto che solo andando avanti con l’età e con lo sviluppo, il bambino sarà in grado di effettuare un ragionamento cognitivo che gli permetterà di attribuire al suono percepito la presenza di una persona o di un oggetto specifico e quindi di mettere in atto movimenti di ricerca verso una fonte sonora di cui riconosce il significato (Brambring, 2004). Infatti, anche per quanto riguarda le attività esplorative manuali, il canale visivo gioca un ruolo determinante, specialmente nelle prime fasi dello sviluppo, dove l’integrazione sensoriale tra il tatto e la vista non ha ancora raggiunto un livello tale da poter permettere al bambino di giovare dell’interazione tra i due sensi, o addirittura di compensare la mancanza della vista tramite il senso del tatto. Braddick e Atkinson (Braddick e Atkinson, 2013) hanno studiato in maniera approfondita la relazione che intercorre tra l’informazione visiva e il controllo delle funzioni manuali individuando nella via dorsale, e nei suoi specifici moduli visuo-motori, il network fondamentale in grado di tradurre le informazioni spaziali visive in programmi motori che consentono ai bambini con sviluppo tipico di pianificare una coordinata sequenza di azioni finalizzate al raggiungimento di un determinato oggetto. È stato inoltre visto come i deficit della via dorsale possano essere una delle caratteristiche presenti in diversi disturbi del neurosviluppo, come ad esempio l’autismo, la sindrome di Williams e la prematurità di alto grado (Atkinson e Braddick, 2011; Braddick, Atkinson e Wattam-Bell, 2003). È chiaro, quindi, quanto un deficit visivo, di natura sia periferica sia centrale, possa compromettere in maniera importante lo sviluppo motorio e l’acquisizione di determinate abilità. Prechtl e colleghi (Prechtl et al., 2001) hanno messo in evidenza, ad esempio, come la totale mancanza di vista, in assenza di lesioni a livello cerebrale, possa provocare atipie del primo sviluppo motorio, come per esempio la presenza di movimenti esagerati in ampiezza e poco fluidi rispetto a quando il canale visivo risulta funzionante, ipotizzando un tentativo, da parte del sistema nervoso, di compensare in questo modo la mancanza di integrazione tra visione e propriocezione, come tipicamente avviene durante il primo anno di vita del bambino. Ma anche per quanto riguarda alcune tappe miliari dello sviluppo motorio, come il controllo del capo o la deambulazione autonoma, numerosi studi hanno messo in evidenza il fatto che un’assenza totale di visione possa provocare ritardi significativi, anche in assenza di lesioni cerebrali (Fazzi et al., 2002; Levtzion-Korach et al., 2000). In particolare, per quanto riguarda la deambulazione autonoma, Hallemans e colleghi (Hallemans et al., 2011)n=28 hanno sottolineato che bambini e adulti non vedenti, in confronto a soggetti ipovedenti o normo-vedenti, manifestano alcune atipie durante il ciclo del passo. Il gruppo dei non vedenti sembra trascorrere più tempo nella fase di doppio appoggio, e conseguentemente questi soggetti eseguono passi più corti e quindi una camminata più lenta. Due sono le spiegazioni attribuibili a questo pattern: la prima prende in considerazione il fatto che il prolungamento del doppio appoggio sia un periodo in cui l’equilibrio, in mancanza della vista, venga recuperato con maggior lentezza, la seconda, invece, sottolinea che la durata maggiore della statica possa concedere più tempo ai soggetti non vedenti per analizzare con il piede il terreno tramite il tatto e le sensazioni propriocettive. In generale, comunque, queste differenze sembrano strategie e adattamenti posturali, necessari a questi soggetti al fine di permettere un migliore bilanciamento e spostamento del peso del corpo durante l’attività motoria. Il canale visivo assume, inoltre, un ruolo cruciale nell’esplorazione da parte del bambino del mondo materiale, sociale e spaziale. Attraverso il gioco, il bambino si confronta attivamente con l’ambiente circostante interagendo sia con gli oggetti sia con le altre persone, ed è proprio grazie a questo processo che si ampliano le sue competenze cognitive. È noto, ad esempio, come il gioco simbolico possa promuovere la capacità dei bambini vedenti nel gestire i propri sentimenti ed essere più predisposti nella relazione con gli altri, fungendo da vera e propria palestra nell’esercizio dei primi compiti sociali e quindi nella strutturazione del pensiero. A prova del fatto che la vista possa giocare un ruolo chiave anche per quanto riguarda la qualità del gioco del bambino, Fraiberg, per primo, descrisse nel 1977 il comportamento di una bambina totalmente cieca, che mostrava importanti difficoltà e limitazioni nella messa in atto di un gioco di tipo simbolico (Fraiberg, 1977).

Tale aspetto è stato analizzato anche da altri studi, che hanno enfatizzato il fatto che i bambini non vedenti sono meno capaci nell’interpretare il ruolo di un’altra persona durante il gioco, mostrando importanti difficoltà nel saper ribaltare il proprio punto di vista (Sandler e Hobson, 2001; Sandler e Wills, 1965). Tutto ciò ha spesso portato sia gli addetti ai lavori sia i familiari a confondere questi atteggiamenti con la difficoltà a empatizzare tipica dei bambini con disturbo dello spettro autistico.

Bishop, Hobson e Lee (Bishop, Hobson e Lee, 2005) hanno confrontato il livello di gioco simbolico tra un gruppo di bambini ciechi con difficoltà nelle relazioni sociali e un gruppo di bambini ciechi con buone capacità di interazione sociale; quest’ultimo gruppo ha mostrato una discreta qualità di gioco simbolico, molto simile a quello di bambini tipici vedenti. Questa constatazione conferma, quindi, che durante lo sviluppo il gioco simbolico può svilupparsi a livelli sofisticati anche nei bambini ciechi socialmente più capaci. Dunque, se le abilità di interazione sociale non sono compromesse, la mancanza di vista non costituisce necessariamente un’insormontabile barriera per lo sviluppo di un soddisfacente gioco simbolico. Tale aspetto sembra correlato anche alla presenza e al livello del residuo visivo, infatti Dale e collaboratori (Dale et al., 2017) hanno evidenziato come la mancanza totale della vista sia associata a un ritardo nell’identificazione degli oggetti e a un conseguente ritardo nella manipolazione funzionale di essi, da un punto di vista sia materiale sia concettuale, mentre i bambini che preservano un utilizzo, seppur scarso e grossolano, della funzione visiva mostrano uno sviluppo migliore di tali abilità. Più recentemente Bathelt e colleghi (Bathelt, de Haan e Dale, 2019) hanno analizzato la presenza di eventuali alterazioni nel comportamento adattivo all’interno di un gruppo di bambini in età scolare con deficit visivo congenito di origine periferica, differenziando il campione in base al diverso livello di impairment visivo (severo-profondo / medio-moderato). Lo studio inoltre ha voluto indagare come il deficit visivo, e il suo diverso grado di complessità, potesse influenzare anche la qualità della vita e i punti di forza e di debolezza nella vita quotidiana. I risultati ottenuti, confrontati anche con un gruppo di bambini tipici vedenti della stessa età, mettono in evidenza il fatto che deficit visivi severi-profondi influiscono negativamente su diversi aspetti del comportamento adattivo, soprattutto per quanto riguarda le abilità richieste per prendersi cura di sé e per interagire efficacemente con l’altro. Tali effetti risultano meno pronunciati nel gruppo dei bambini con deficit visivo medio-moderato, anche se i genitori di quest’ultimo gruppo riportavano comunque un basso livello di qualità della vita soprattutto nel contesto scolastico. Oltre a quanto già detto, gli autori hanno messo in evidenza che l’effetto di un certo grado di impairment visivo sul livello della qualità della vita a scuola è parzialmente mediato dal livello di comportamento adattivo. Questo risultato suggerisce il fatto che una buona ideazione di programmi terapeutici mirati a intervenire sulle diverse aree del comportamento adattivo, possa influenzare positivamente anche la qualità della vita a scuola nei bambini con deficit visivo, sia di grado severo-profondo sia di grado medio-moderato (Bathelt, de Haan e Dale, 2019).

NUOVE PROSPETTIVE PER L’IDENTIFICAZIONE E LA PRESA IN CARICO PRECOCE

Lo studio della relazione tra autismo e deficit visivo è al centro di molti dibattiti ed è ancora oggetto di studio. Alcuni autori, piuttosto che una casuale associazione tra sintomatologia e quadri clinici, prediligono l’ipotesi della presenza di una comorbidità tra deficit visivo e autismo attribuendo all’esistenza di un fattore genetico comune o a una specifica predisposizione ambientale la causa della manifestazione patologica. Fraiberg, in contrapposizione a quanto appena esposto, sosteneva che un precoce disturbo visivo, soprattutto se di grave entità, può compromettere in maniera significativa lo sviluppo globale di un bambino sia dal punto di vista sociocomunicativo sia dal punto di vista adattivo, favorendo la manifestazione di comportamenti «autistic-like». Un deficit sensoriale di questo tipo potrebbe pertanto giustificare la presenza di anomalie del comportamento, come ad esempio l’acquisizione ritardata del gioco simbolico e di altre attività sociocomunicative, piuttosto che la copresenza di un deficit primario nell’interazione sociale come l’autismo. Numerosi autori, comunque, suggeriscono che i bambini affetti da importanti deficit visivi congeniti siano esposti, soprattutto nella prima infanzia, a un maggior rischio di sviluppare difficoltà a livello sociocomunicativo e relazionale (Do et al., 2017; Mukaddes e Kilincaslan, 2007), seppure alcuni risultati sostengano che tali difficoltà siano maggiori quanto più è profondo il disturbo visivo, in quanto la percezione della forma e del movimento, anche solo nell’ambiente più prossimale, sembra avere un effetto protettivo sullo sviluppo cognitivo precoce e sull’evoluzione della comunicazione e del linguaggio (Dale e Sonksen, 2002). Non a caso, negli ultimi decenni tale aspetto ha destato l’interesse di numerosi clinici e professionisti, in particolare relativamente alla presenza dei movimenti ripetitivi e stereotipati comuni nei bambini ciechi, definiti, per le loro tipiche caratteristiche, «blindismi» (Fraiberg, 1977). Per questo motivo, saper osservare tali comportamenti per poter diagnosticare in maniera puntuale e precisa la presenza e il grado del disturbo visivo anche nel bambino molto piccolo così come anche la presenza di un effettivo disturbo dello spettro autistico nei bambini che presentano un disturbo visivo precoce, risulta di fondamentale importanza nella pratica clinica. Non a caso, iniziano a essere numerosi i gruppi di ricerca che stanno tentando di adattare scale e strumenti di valutazione funzionale, specifici per pazienti con disabilità visiva, anche se questa sfida non risulta affatto banale, in quanto tutti gli strumenti osservazionali attualmente disponibili per l’identificazione precoce delle difficoltà di comunicazione e interazione sociale richiedono, almeno in parte, il coinvolgimento del canale visivo. Absoud e collaboratori (Absoud et al., 2011), ad esempio, hanno cercato di aiutare i clinici creando una scala finalizzata a identificare precocemente difficoltà nella comunicazione nei bambini con disabilità visiva. La Visual Impairment and Social Communication Schedule (VISS), significativamente correlata con la validata scala CARS, evidenzia il range dei comportamenti sociali e comunicativi in questi bambini di età prescolare utilizzando solamente item che non prevedano l’utilizzo del canale visivo (Absoud et al., 2011). Più recentemente, Williams e il suo gruppo di ricerca (Williams et al., 2014) hanno modificato e sostituito alcuni item all’interno di due strumenti utilizzati comunemente nella pratica clinica per effettuare diagnosi di autismo (ADOS, ADI-R), rendendoli somministrabili e comunque validi anche sui bambini affetti da disabilità visiva. Sicuramente, i dati finora in possesso suggeriscono che la valutazione precoce della funzionalità visiva e il sostegno precoce all’utilizzo del canale visivo, soprattutto nei primi anni di vita, anche nei bambini con bassissimo residuo, possa portare un enorme beneficio all’apprendimento e alla conoscenza dell’ambiente circostante, nonché favorire la promozione di uno sviluppo armonico e maggiormente adattivo in questa popolazione.

Tuttavia, è comunque necessario continuare ad affinare e approfondire le conoscenze in questo campo, al fine di poter prendere precocemente in carico la situazione, utilizzando il più possibile strumenti validi e sufficientemente sensibili per individuare eventuali problematiche associate o conseguenti al deficit sensoriale, e quindi ideare percorsi riabilitativi individualizzati. Alla base di questa idea resta molto importante definire al meglio le caratteristiche cliniche e funzionali della visione del bambino, che richiede lunghi periodi di osservazione da parte dei medici competenti (come neuropsichiatri e oculisti) ma anche da parte di terapisti e psicologi, per pianificare un intervento appropriato e finalizzato a limitare il possibile impatto negativo del danno visivo sul funzionamento neuropsicomotorio globale (Purpura e Tinelli, 2020).

Abstract

vision is one of the main adaptive functions in a person’s life and represents one of the fundamental prerequisites for a child’s psychomotor development. Indeed, it allows for early exploration of the environment, as well as localizing, recognizing and interpreting the most significant stimuli, therefore enabling the child to organize a functional response to the environment.

Several studies have recently focused their research on the influence that early visual impairment can have on the child’s neurodevelopment. In particular, researchers analyzed different areas, including self-regulation, adaptive behavior and socio-communicative skills.

The debate is still open, however, regarding the presence of «autistic-like» features or a real co morbidity of the autism spectrum disorder in children with visual impairment. This issue may also be conditioned by the fact that the observational tools currently in use for the early identification of socio-communicative difficulties require the use of vision. The aim of this narrative review is to analyze scientific literature, to try to identify some atypical behavioral patterns in the child with severe visual disorder, and, finally, to provide examples that stimulate reflection on the diagnostic-therapeutic approach in this specific population.

Keywords

Neurodevelopment, Visual functions, Visual disorder, Autism spectrum disorder.

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Fig. 1 Rappresentazione grafica del ruolo della funzione visiva nello sviluppo psicomotorio del bambino. La funzione visiva fu definita da Fraiberg, nel 1977, come «agenzia centrale» dell’adattamento sensomotorio e «sintetizzatore dell’esperienza»

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