Il TNPEE

© 2022 Erickson

Vol. 4, n. 1, maggio 2022

(pp. 3-31)

Indicatori precoci di un deficit dello sviluppo comunicativo-sociale e aree funzionali dell’intervento educativo-abilitativo attraverso l’utilizzo dello strumento: Scheda di Valutazione

Roberto Militerni

Neuropsichiatra Infantile, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli.

Giovanna Gison

TNPEE, Dottore in Psicologia, Università degli studi della Campania «Luigi Vanvitelli», Napoli.

Andrea Bonifacio

TNPEE , Psicologo-Psicoterapeuta, Università degli studi della Campania «Luigi Vanvitelli», Napoli.

Guido Militerni

Psicologo-Psicoterapeuta, Università degli Studi Suor Orsola Benincasa, Napoli.

Sommario

Fra i vari «problemi» che spingono i genitori a richiedere una consulenza specialistica nella fascia di età compresa tra 0 e 3 anni, un ritardo nel linguaggio è sicuramente tra i più frequenti. Tale ritardo in genere si inscrive in un profilo comportamentale caratterizzato da scarsa disponibilità alla relazione, disattenzione agli stimoli sociali, tendenza a dedicarsi in maniera spesso assorbente a particolari attività nelle quali si osserva fatica ad accettare la guida e la partecipazione dell’Altro. Un profilo comportamentale di questo genere è denominato «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» (DICS).

Il team curante multidisciplinare che viene in questi casi interpellato deve affrontare due aspetti critici: l’esistenza di un DICS e, in questo caso, l’inquadramento clinico ai fini della formulazione dell’intervento educativo-abilitativo.

Nel presente contributo vengono fornite indicazioni per il precoce riconoscimento di un DICS e suggerite le aree funzionali sulle quali dovrebbe essere incentrato l’intervento educativo-abilitativo, ovvero: la regolazione delle emozioni, le funzioni esecutive e la costruzione del Sé.

Parole chiave

DICS, Neurosviluppo, Interazione, Comunicazione, Abilità sociali, TNPEE.

Introduzione

Fra le varie preoccupazioni che spingono i genitori a richiedere una consulenza specialistica nella fascia di età compresa tra 0 e 3 anni, la presenza di un ritardo del linguaggio è sicuramente uno dei più frequenti. La preoccupazione dei genitori è al giorno d’oggi particolarmente accentuata da una nuova consapevolezza: il ritardo del linguaggio può rientrare in quadri clinici di ordine più generale. I genitori, cioè, in questi casi iniziano a rendersi conto che il bambino non solo non accede al linguaggio verbale, ma non si lascia agganciare in un gioco che preveda un’alternanza dei turni, non cerca l’Altro per condividere un’attività con minime regole basate sulla reciprocità, tende per lo più a utilizzare l’Altro in maniera strumentale, preferisce giocare da solo, può anche divertirsi a vedere i coetanei giocare, ma non si inserisce nei loro giochi. Un profilo comportamentale di questo genere, al di là del significato che può avere, viene descritto e denominato come un «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» (DICS).

Il team multidisciplinare che viene in questi casi interpellato deve affrontare due aspetti critici: valutare se esiste un DICS e, in caso affermativo, cercare di inquadrarlo in una categoria nosografica.

Valutare l’esistenza di un dics

Quando un bambino viene segnalato per ritardo del linguaggio e/o per la presenza di comportamenti atipici che riguardano l’interazione e la comunicazione sociale, è necessario che il team deputato alla presa in carico verifichi la reale esistenza di un DICS.

Attraverso l’osservazione clinica comportamentale di un bambino di 2 anni e 5 mesi, identifichiamo gli elementi utili da considerare per porre eventuale diagnosi differenziale di DICS.

Antonio è un bambino di 2 anni e 5 mesi. Entra nella stanza dei giochi. Alle sollecitazioni di mamma e papà di salutare il bambino non risponde in quanto incuriosito dalla stanza e dai giochi che vi scorge. Esplora il materiale ludico. Prende in considerazione un oggetto: lo guarda, lo prende, lo manipola e poi passa a un altro oggetto. L’Altro lo sollecita a prenderne in considerazione uno in particolare dicendogli che si tratta di un gioco interessante. Antonio ignora la sollecitazione e continua a esplorare. Ritorna quindi su uno dei vari oggetti precedentemente esaminati e comincia a utilizzarlo in maniera poco funzionale. L’Altro cerca di intromettersi cercando di fargli vedere l’uso corretto dell’oggetto. Antonio lo ignora e sembra quasi percepire questo «aiuto» come un’incursione fastidiosa. Passa a un altro gioco. La madre lo chiama: lui non si gira. La madre insiste accompagnando al richiamo anche un gioco che ha nella sua borsa. Antonio si gira e va a prendersi il gioco che lui conosce e predilige. L’Altro ne approfitta per sedersi. accanto a lui. Antonio accetta la presenza dell’Altro. Alle domande semplici che riguardano il suo nome o quanti anni ha, Antonio non risponde, ma i genitori affermano che «lo sa dire». Sembra, infatti, che Antonio conosca 5-6 parole che sono mal articolate e, soprattutto, non utilizzate in senso funzionale. Informandosi dai genitori delle cose che sembrano attrarlo particolarmente (nel caso specifico le palle), l’Altro tira fuori da un armadio una serie di palle. Antonio finalmente si accorge dell’Altro e comincia a farsi agganciare in una sequenza interattiva nel corso della quale compaiono segnalatori sociali abbastanza espliciti, quali il sorriso, l’anticipazione, l’attesa, il divertimento condiviso. L’Altro quindi invita Antonio a mettere a posto le palle e a passare a un gioco diverso. Antonio continua anche da solo a giocare con le palle in modo disorganizzato. L’Altro si rivolge ai genitori per fare delle domande. Antonio molla le palle e ritorna al suo gioco distaccandosi e dedicandosi ancora una volta a un’attività autoreferenziale.

Si riportano a seguire le possibili aree comportamentali da prendere in considerazione per la formulazione di un giudizio sulla reale esistenza di un DICS:

  • disponibilità all’aggancio in attività ludiche condivise;
  • disponibilità al soddisfacimento di richieste dell’Altro relative a bisogni contingenti;
  • disponibilità a direzionare su richiesta dell’Altro la propria attenzione su un oggetto, un evento o una persona;
  • individuazione dell’Altro quale partner privilegiato per la condivisione di interessi, attività e mutuo scambio di aiuto.

Aderenza alle convenzioni sociali (ACS)

Conferiscono in quest’area gli abituali preliminari sociali normalmente attesi quando si va in un ambiente nuovo (per esempio, «Buongiorno!», «Come ti chiami?», «Vedo che stai guardando i miei giocattoli, ce n’è qualcuno che ti piace?») o quando si va via da un ambiente (per esempio, «Allora ciao!», «Ti sei divertito?», «Vieni a trovarmi qualche altra volta?» e così via).

Tale parametro include anche gli scambi comunicativi domanda-risposta relativi a domande convenzionali, quali, ad esempio: «Quanti anni hai?», «Vai scuola?», «Com’è la tua scuola?», «Hai fratelli o sorelle?», «Qual è il gioco che preferisci?», e così via.

La valutazione di questo parametro non tiene conto della competenza linguistica del bambino: non è importante, cioè, come risponde il bambino; l’importante è che dimostri di comprendere la domanda e, soprattutto, di aver voglia di rispondere. Si tratta, infatti, di un momento interattivo a elevata valenza sociale, anche se solo formale.

All’interno di questo contesto osservativo e valutativo può essere utile soffermarsi sulla produzione di gesti convenzionali del bambino durante la sua interazione con l’ambiente che lo circonda.

I gesti convenzionali nascono come gesti non intenzionali che il bambino spesso fa per imitazione. È la reazione dell’ambiente che finisce per conferire intenzionalità a questi gesti. Ad esempio, il bambino accenna a fare un ciao con la mano e la mamma rinforza dicendo «Bravo hai fatto ciao! Fai ciao a papà!», «Ora fai ciao alla nonna» (e rinforza con la voce e il gesto «Ciao nonna!»). La ripetizione di questi gesti da parte del bambino trova costantemente un rinforzo positivo dall’ambiente (Stewart, Vigil, & Carlson, 2021). Peraltro, è proprio la reazione degli astanti che soddisfa «il piacere di piacere». Il meccanismo si estende a tanti altri gesti come «Butta il bacio!», «Come è la pappa?», il bambino porta l’indice alla guancia e la mamma «Ah, è buona!». Quanto appena detto è sicuramente importante in quanto denota comunque l’importanza che il bambino attribuisce all’Altro e giustifica il suo ripetere i gesti che gli vengono richiesti. Ma un altro aspetto importante è valutare se tali gesti vengono interiorizzati e contestualizzati. Ciò, infatti, richiede che il bambino abbia cominciato a conoscere e condividere alcune regole che governano i rapporti interpersonali. Ci si saluta quando si va a casa di qualcuno, si saluta quando si va via da casa di qualcuno, si risponde quando ci rivolgono la parola. Sono regole molto convenzionali che rimandano al concetto di educazione. Un bambino che saluta, che risponde al saluto o che risponde a una domanda non è soltanto un bambino «ben educato», ma è un bambino che non solo è socievole, ma è anche sociale. È un bambino che ha capito alcune regole e, ancora di più, a cui piace aderire a tali regole.

Disponibilità all’aggancio in attività ludiche condivise (DAAL)

Indica la possibilità di riuscire ad agganciare il soggetto in un’attività condivisa di carattere ludico. La qualità dell’aggancio deve tener conto del contesto, del tipo di attività in essere, della durata della sequenza di interazione.

Relativamente al contesto, ci si aspetta che in situazioni non familiari il bambino sia inizialmente diffidente o quanto meno attento a conoscere e prendere confidenza con l’ambiente. Quando poi acquisisce confidenza con l’ambiente, o quando si trova in un ambiente familiare la disponibilità è sicuramente maggiore. Il bambino può tentare di seguire i suoi interessi o giocare come è suo solito, ma i tentativi dell’Altro alla fine riescono a farlo adattare a nuove proposte e/o variazioni legate all’attività in corso.

Relativamente al tipo di attività è abituale che il bambino abbia delle preferenze. Può prediligere, ad esempio, giochi di movimento, giochi a tavolino o attività libero-espressive. Quale che sia l’attività che predilige, il bambino mostra di accettare comunque la presenza dell’Altro ed è portato al divertimento condiviso.

Relativamente alla durata ci si aspetta che il bambino presenti motivazione e impegno per un tempo utile a portare a termine il compito. Il completamento del compito rappresenta, infatti, una delle caratteristiche fondamentali per inquadrare il comportamento come normotipico.

I comportamenti inclusi in quest’area presuppongono l’investimento dell’Altro come figura privilegiata, nel senso che è preferita rispetto all’oggetto o all’attività fine a sé stessa. Se si tratta di un gioco motorio, per esempio con la palla, il bambino si diverte con essa, ma soprattutto si diverte a giocare a palla con l’Altro. Ciò comporta che, se l’Altro gli propone un altro gioco, il bambino all’inizio può protestare, per poi mostrare maggiore interesse per la presenza dell’Altro come partner per il divertimento. In questa prospettiva risulta particolarmente importante accertarsi che l’Altro non sia solo un «mezzo» per procurarsi divertimento (il che non appartiene a quest’area), ma che rappresenti lo «scopo» di un’attività da fare insieme (Cooke et al., 2019; Tomasello, 1999; Trevarthen & Aitken, 2001).

Disponibilità al soddisfacimento di richieste dell’Altro relative a bisogni contingenti

Tale disponibilità viene spesso inclusa nei comportamenti definiti di Regolazione Reciproca. Nel caso specifico il bambino aderisce a una richiesta relativa a un bisogno contingente dell’Altro: «mi porti le scarpe?», «mi prendi quel giocattolo?», «mi prendi la forchetta?», «ti dispiace chiudere la porta?», e così via.

La risposta a una richiesta permette di valutare la valenza sociale che il bambino attribuisce alla persona che fa la richiesta. Anche il rispondere quando viene chiamato per nome rientra in tale area, nel senso che il bambino è interessato a capire perché l’Altro lo abbia chiamato e sotto questo aspetto è anche un po’ curioso circa il motivo per cui l’Altro lo ha chiamato.

Partendo dalle prime esperienze di «sintonizzazione» che si realizzano nelle relazioni precoci neonato-caregiver, fin dalle prime settimane di vita, il bambino comincia progressivamente a organizzare gli stimoli sensoriali in esperienze percettive che, come tali, vengono sistematizzate in schemi di conoscenza. Anche per quel che riguarda l’Altro, dopo una fase iniziale di indifferenziazione, il bambino accede progressivamente alla conoscenza «sociale» sistematizzando in schemi di conoscenza le prime esperienze di Sé-con-l’Altro.

Una tappa fondamentale nello sviluppo sociale del bambino è rappresentata dall’età dei 9 mesi. È una vera e propria svolta nella consapevolezza dell’Altro come persona diversa da sé. Molti autori parlano di rivoluzione socio-cognitiva. Il bambino a partire da questa età comincia a individuare l’Altro come «Agente di azione», cioè come persona che può appagare le sue richieste e che tende a soddisfare le richieste di altre persone che appartengono all’ambiente. La componente cognitiva nel rispondere alla richiesta dell’Altro è rappresentata dal fatto che il bambino si rende conto che c’è una persona che in talune circostanze può avere bisogno di aiuto; la componente sociale è rappresentata dal riconoscere l’Altro come persona privilegiata nel suo spazio esperienziale; una persona nei cui confronti il bambino desidera fornire aiuto (Siposova & Carpenter, 2019).

Disponibilità a direzionare su richiesta dell’Altro la propria attenzione su un oggetto, un evento o una persona

Il bambino si mostra in grado di rispondere alla sollecitazione dell’Altro che vuole catturare la sua attenzione: «uh! guarda l’aereo!», «guarda come è bello questo fiore!», «guarda è venuto il nonno!», «guarda il tuo nuovo pigiamino!», e così via.

Anche in questo caso la valenza sociale di un tale tipo di comportamento è evidente: il bambino percepisce un’attivazione dello stato emotivo dell’Altro ed è interessato a capire che cosa sta interessando l’Altro.

Nella progressiva conoscenza di Sé e dell’Altro, con la rivoluzione socio-cognitiva dei 9 mesi avviene un’altra conquista fondamentale nello sviluppo del bambino: la comparsa dell’attenzione congiunta (o condivisa). Il termine di «attenzione congiunta» (o condivisa) indica quella situazione in cui due «persone» rivolgono la loro attenzione su un comune fuoco di interesse (Adamson, Bakeman, Suma, & Robins, 2019).

A partire dai 9 mesi, cioè, il bambino comincia a non limitarsi più a polarizzare la sua attenzione sull’Altro, sui suoi gesti, sui suoi atteggiamenti mimici o sulle sue produzioni prosodiche-verbali, ma rivolge la sua attenzione a quello che l’Altro sta facendo. Contestualmente, il bambino comincia a comprendere che l’Altro è animato da emozioni e desideri che lo portano ad agire.

Ciò testimonia un momento particolarmente importante nello sviluppo: non tanto l’attenzione del bambino per l’Altro, evidente fin dalle prime settimane di vita, ma la capacità di assumere la prospettiva dell’Altro (Gabouer & Bortfeld, 2021).

Questa assunzione di prospettiva dell’Altro può avvenire:

  • spontaneamente, come quando il bambino senza alcuna sollecitazione si accorge che l’Altro si sta interessando a qualche cosa e va a curiosare con il suo sguardo («il bambino diventa pettegolo!»);
  • su sollecitazione dell’Altro, come quando l’Altro richiama l’attenzione del bambino, guardando intensamente un oggetto o un evento e indicandolo con il dito (il bambino capisce che l’Altro è entrato in uno stato di attivazione emotiva e si dice: «Fammi vedere perché questo si riscalda tanto!»).

Individuazione dell’Altro quale partner privilegiato per la condivisione di interessi, attività e mutuo scambio di aiuto

I comportamenti di interazione, che siano riferiti al soddisfacimento di bisogni contingenti o alla polarizzazione condivisa dell’attenzione su un oggetto, su un evento o una persona, non avvengono solo su «richiesta» dell’Altro, ma spesso partono come un’iniziativa del bambino.

Nei comportamenti di attenzione congiunta viene abitualmente individuata un’altra forma di attenzione: l’attenzione congiunta su iniziativa del bambino. Tale forma indica l’atteggiamento del bambino che mette in atto una serie di comportamenti tesi ad agganciare l’attenzione dell’Altro su una cosa o un evento che attira la sua attenzione. Il bambino «vuole» catturare l’attenzione dell’Altro per renderlo partecipe di un suo interesse; il bambino «vuole» che l’Altro si interessi a quello che in un dato momento sta interessando lui. In questa prospettiva l’attenzione su iniziativa del bambino è un comportamento inequivocabilmente sociale (Wass et al., 2020).

Ciò significa che il bambino individua l’Altro sia come «Agente di azione» che, come tale, può fare qualcosa per lui, sia come «Agente mentale», cioè come una persona dotata di stati mentali in termini di emozioni, desideri e convinzioni, a cui pertanto può rivolgersi per condividere emozioni, desideri e convinzioni (Kingsbury & Hong, 2020).

In quest’ultima area di riferimento rientrano anche i comportamenti inquadrabili come una naturale curiosità nei confronti di quello che l’Altro sta facendo. Non c’è bisogno che l’Altro lo solleciti: se il bambino vede l’Altro impegnato in un’attività va a curiosare per cercare di capire che cosa sta facendo.

La scala di valutazione DICS

Sulla base di un’esperienza comune anche ai meno addetti ai lavori, un bambino che presentasse una rigida aderenza in positivo ai comportamenti descritti e previsti nelle varie aree indagate risulterebbe fortemente sospetto.

In effetti, non c’è bambino nella fascia di età considerata che non presenti dei comportamenti atipici in una delle aree considerate, senza per questo dover essere considerato «atipico»! Ciò non toglie nulla all’importanza dei comportamenti inclusi nelle varie aree, ma bisogna tener conto di una serie di elementi aggiuntivi la cui valenza può essere valutata solo dopo aver cercato di trasformare i comportamenti inclusi in ciascuna delle varie aree in variabili semi-quantitative misurabili (Nowell, Watson, Faldowski, & Baranek, 2018).

In accordo con tale prospettiva, è stata elaborata una scheda di valutazione, riportata in Tabella 1, con l’obiettivo di quantificare le osservazioni degli operatori relativamente all’area di maggiore difficoltà, al numero delle aree coinvolte e alla trasversalità delle atipie comportamentali. Il processo di trasformazione delle osservazioni qualitative in dati quantitativi avviene assegnando a ciascuna delle aree considerate un punteggio da 1 a 5 punti (1 = giudizio pessimo; 5 = giudizio ottimale), per un punteggio complessivo variabile pari a un minimo di 5 punti (grave immaturità dei comportamenti comunicativo-sociali) fino a un massimo di 25 (situazione ottimale relativamente alla maturità dei comportamenti comunicativo-sociali), in assenza di punteggio di cut-off.

La trasformazione semi-quantitativa dei dati ottenuti permette, infatti, all’équipe interessata di orientarsi più agevolmente nel formulare un sospetto di «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale».

In particolare, essa permette di valutare:

  • la particolare area in cui il bambino sembra presentare le maggiori difficoltà: relativamente al primo punto l’area dell’«Aderenza alle convenzioni sociali» è quella in cui la maggioranza dei bambini cade. Pertanto, quando le cadute in quest’area non si associano a cadute in altre aree, la valenza diagnostica è molto dubbia o addirittura nulla. Per contro, l’area indicata come «Individuazione dell’Altro quale partner privilegiato per la condivisione di interessi, attività e mutuo scambio di aiuto» è sicuramente la più importante. Comportamenti inadeguati eventualmente presenti in questa area indicano un mancato interesse del bambino per l’Altro. L’Altro, cioè, non viene individuato quale partner privilegiato per la condivisione e questo determina a cascata deficit a carico delle altre aree: «Aderenza alle convenzioni sociali», «Disponibilità a rispondere alle richieste dell’Altro relative a bisogni contingenti», «Disponibilità a direzionare su richiesta dell’Altro la propria attenzione su un oggetto, un evento o una persona»;
  • il numero delle aree coinvolte: la suddivisione dei vari comportamenti sociocomunicativi in 5 aree comporta che quante più sono le aree coinvolte tanto più è sospetto il profilo funzionale del bambino. In particolare, il profilo è decisamente sospetto quando in tutte le aree si verificano uno o più comportamenti atipici;
  • la trasversalità delle atipie comportamentali, intesa come loro presenza in tutti gli abituali contesti di vita del bambino: rappresenta la conditio sine qua non per poter conferire significatività ai comportamenti inadeguati. L’inadeguatezza dei comportamenti non si verifica solo in casa, né solo a scuola, né solo nelle attività del tempo libero, ma tutti gli ambienti che il bambino frequenta. In particolare, la trasversalità delle cadute in tutti gli abituali contesti di vita conferisce un profilo comportamentale che esprime un modo di essere del bambino; un modo di essere che non rappresenta «semplicemente» un qualcosa determinato da circostanze esterne al bambino stesso.

Utilizzando la Scheda-DICS, il punteggio ottenuto da Antonio alla scala DICS, secondo la valutazione effettuata da uno dei collaboratori del team diagnostico, è pari a 9 punti sul totale dei punti totalizzabili che è di 25 (9/25), di cui è necessario osservare la distribuzione nella Tabella 2 per la riflessione guidata all’orientamento diagnostico.

Prendendo spunto dai punteggi della scheda di Antonio è possibile affermare che:

  • i comportamenti inadeguati investono diverse aree funzionali (in pratica tutte, a eccezione «forse» dell’area 2 che si colloca comunque al di sotto dell’indice di ottimalità);
  • l’entità della compromissione è alta, con particolare interessamento delle aree 1 e 5;
  • gli aspetti rilevati caratterizzano il modo di comportarsi di Antonio in tutti gli abituali contesti di vita.

Tabella 1

Il punteggio a ciascuna area viene espresso in accordo a una scala Likert. Si tratta di una scala a 5 punti, in cui il punteggio di (1) corrisponde a una capacità decisamente inadeguata, all’estremo opposto il punteggio (5) corrisponde a una capacità «ottimale», mentre i punteggi (2), (3) e (4) corrispondono a capacità intermedie secondo l’impressione derivante dall’intera osservazione

Tabella 2

Compilazione della Tabella 1 da parte di un operatore dell’équipe multidisciplinare, in riferimento al caso sopra esposto

Denominazione dell’area

Punteggio

1.

Aderenza alle «convenzioni» sociali

1

2.

Disponibilità all’aggancio in attività ludiche condivise

3

3.

Disponibilità al soddisfacimento di richieste dell’Altro relative a bisogni contingenti

2

4.

Disponibilità a direzionare su richiesta dell’Altro la propria attenzione su un oggetto, un evento o una persona

2

5.

Individuazione dell’Altro quale partner privilegiato per la condivisione di interessi, attività e mutuo scambio di aiuto

1

Sulla base di quanto detto fin qui, è possibile sicuramente orientarsi per un «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» (DICS).

Affermare che esiste un DICS comporta la necessità di inquadrarlo in una categoria nosografica.

Correlazione della scheda di valutazione con altri strumenti diagnostici

La «Scheda di valutazione DICS» a oggi non gode di una validazione psicometrica. Tuttavia, in una ricerca in corso da parte del nostro gruppo di lavoro, è stato effettuato uno studio di correlazione dei punteggi della Scala-DICS con i punteggi della sub scala «Affetto Sociale» dell’ADOS-2 Toddlers (Lord et al., 2012). Il campione era composto da 21 soggetti di età compresa tra i 16 e i 28 mesi (età media 22 mesi) condotti a osservazione per disturbi nella comunicazione («mancata emergenza del linguaggio») e della relazione («non si lascia coinvolgere in attività condivise, ma preferisce organizzarsi per i fatti suoi»). I 21 bambini sono stati inizialmente osservati in una situazione non strutturata, nel corso della quale sono state tratte le informazioni utili a siglare la Scala-DICS. I bambini sono stati quindi sottoposti a una valutazione in setting strutturato per la somministrazione dell’ADOS-2 Toddlers. Dell’ADOS-2 Toddlers è stata presa in considerazione la sotto-scala «Affetto Sociale».

In Tabella 3 vengono riportati i risultati delle due valutazioni.

In particolare, si è rilevato un alto indice di correlazione tra i punteggi delle due scale (= - 64, 32). il valore negativo sta a indicare che quanto più alto era il punteggio alla Scala-DICS (il che stava a indicare delle prestazioni tendenti all’ottimalità), tanto più bassi erano i punteggi dell’ADOS-2 Toddlers (tendenti, cioè, a un basso rischio di autismo).

Tabella 3

Correlazione tra i punteggi della Scala-DICS e della sotto-scala «Affetto Sociale» dell’ADOS-2 Toddlers

Punteggio Scala DICS

Punteggio ADOS-2 Toddlers (sottoscala Affetto Sociale)

Indice di Correlazione

Media

11,9

8,6

- 64,32

Deviazione standard

1,8

1,2

L’inquadramento nosografico di un dics

Si tratta di un passaggio obbligato anche se non sempre agevole nella fascia di età considerata. La ricerca di un quadro nosograficamente definito in cui possa essere fatto rientrare il DICS rilevato risponde al nome di «approccio categoriale».

L’approccio categoriale si prefigge come scopo una sistematizzazione di carattere nosografico dei vari sintomi riscontrabili nella comune pratica clinica. Ciò che viene ricercato non è tanto il significato di ciascun sintomo, ma la sua eventuale ricorrenza in associazione con altri segni e sintomi. Un’eventuale ricorrenza, infatti, che vada al di là della semplice associazione casuale permette di riconoscere all’associazione il carattere di un set di manifestazioni che valgono a definire una «categoria» diagnostica.

L’approccio categoriale è quello abitualmente seguito dai principali manuali di nosografia codificata: il Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali elaborato dall’Associazione America degli Psichiatri, giunto alla quinta edizione (DSM-5) (APA, 2013) e la Classificazione Internazionale delle Malattie elaborata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, giunta all’undicesima edizione (ICD-11) (WHO, 2019).

Nella fascia di età compresa tra 0 e 3 anni i criteri diagnostici suggeriti dal DSM-5 per le varie categorie in esso contemplate non sono di agevole applicazione. Pertanto, in letteratura internazionale è abbastanza diffuso un ulteriore sistema di classificazione specificamente rivolto alla fascia di età 0-3 anni: è il DC:0-5™ - Classificazione diagnostica della salute mentale e dei disturbi di sviluppo dell’infanzia. Originariamente pubblicata nel 1994 a cura dello ZERO TO THREE, la Classificazione Diagnostica della Salute Mentale e dei Disturbi di Sviluppo dell’Infanzia (CD:0-3) è stato il primo sistema per la diagnosi per bambini nella fascia di età compresa tra 0 e 3 anni. La revisione della CD:0-3, pubblicata nel 2005 (CD:0-3R) si rese necessaria in base alla ricerca empirica e alla pratica clinica. Attualmente è in uso una nuova versione aggiornata, la CD:0-5, che oltre a estendere la fascia di età presa in considerazione si è avvalsa dei nuovi contributi emersi dalla letteratura internazionale sull’argomento (ZERO TO THREE, 2018).

Considerazioni critiche relative all’approccio categoriale

L’approccio categoriale rappresenta, come accennato, un passaggio obbligato subito dopo l’aver accertato la presenza di un DICS.

Il problema è che un DICS può ritrovarsi in molte delle categorie incluse nei vari sistemi di nosografia codificata, come risulta evidente nella Tabella 4, di seguito riportata.

Tabella 4

Elenco dei quadri clinici proposti da diversi sistemi di nosografia codificata in cui tra i vari sintomi è previsto anche un DICS

DSM

ICD

CD:0-5

DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO

• D. Spettro Autistico

• D. Deficit Attenzione / Iperattività

• Ritardo Globale dello Sviluppo

• D. Comunicazione

DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO

• D. Spettro Autistico

• D. Deficit Attenzione / Iperattività

• Ritardo Globale dello Sviluppo

• D. Comunicazione

DISTURBI DEL NEUROSVILUPPO

• D. Spettro Autistico

• D. Deficit Attenzione / Iperattività

• Ritardo Globale dello Sviluppo

• D. Comunicazione

DISTURBI D’ANSIA

DISTURBI D’ANSIA

DISTURBI D’ANSIA

DISTURBI DEPRESSIVI

• D. da disregolazione dell’umore dirompente

• D. depressivo persistente (distimia) a inizio nell’infanzia

DISTURBI DELL’UMORE

• D. distimico

DISTURBI DELL’UMORE

• D. depressivo dell’infanzia

• D. da disregolazione della rabbia e dell’aggressività dell’infanzia

DISTURBI CORRELATI A EVENTI TRAUMATICI E STRESSANTI

• D. reattivo dell’attaccamento

• D. da impegno sociale disinibito

• D. da stress post-traumatico nei bambini sotto i 6 anni

• D. dell’adattamento

DISTURBI SPECIFICAMENTE ASSOCIATI ALLO STRESS

• D. post-traumatico da stress

• D. dell’adattamento

• D. reattivo dell’attaccamento

• D. da aggancio sociale disinibito

DISTURBI DA TRAUMA, STRESS E DEPRIVAZIONE

• D. da stress post-traumatico

• D. dell’adattamento

• D. da lutto complicato infanzia

• D. reattivo dell’attaccamento

• D. da coinvolg. sociale disinibito

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO DIROMPENTE, DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI E DELLA CONDOTTA

• D. oppositivo-provocatorio

• D. esplosivo intermittente

• D. della condotta

DISTURBI DA COMPORTAMENTO DISTRUTTIVO O DISSOCIALE

• D. oppositivo-provocatorio

• D. dissociale della condotta

DISTURBI DEL CONTROLLO DEGLI IMPULSI

• D. esplosivo intermittente

DISTURBI DELLA PROCESSAZIONE SENSORIALE

• D. da iper-responsività sensoriale

• D. da ipo-responsività sensoriale

L’analisi della tabella evidenzia un panorama secondo il quale sono molteplici le situazioni cliniche che possono esprimersi con un DICS. Il possibile disorientamento conseguente potrebbe, in alcuni casi, forzare l’orientamento diagnostico dell’équipe verso una specifica categoria diagnostica, talvolta definita in base alla prevalenza del momento. È il caso, ad esempio, del Disturbo dello Spettro Autistico.

In particolare, considerando che il DICS è uno dei «sintomi» nucleari del Disturbo dello Spettro Autistico e che si è diffusa a macchia d’olio nel grosso pubblico una conoscenza alquanto superficiale dell’autismo, si è di fatto creato un orientamento clinico diagnostico secondo il quale nei primi 3 anni di vita l’eventuale presenza di un DICS non rappresenta più un comportamento da leggere e interpretare, ma viene ormai identificato come «sintomo» che autorizza in automatico la diagnosi di un Disturbo dello Spettro Autistico. In pratica, il «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» è diventato a tutti gli effetti sinonimo di «disturbo dello spettro autistico».

Si tratta di un errore grossolano che conferisce a un comportamento, già di per sé mal definito nei primi anni di vita, una valenza patognomica che di fatto non ha. Nell’adulto, ad esempio, in cui peraltro un «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» è un comportamento agevolmente identificabile, lo si può trovare in svariati quadri nosografici. Un «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» è presente nella schizofrenia, nella depressione, nel disturbo bipolare, nei disturbi del comportamento alimentare, nella fobia sociale, e così via. In questa prospettiva il «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» rappresenta la via finale comune di molti, se non di tutti, i disturbi psichiatrici. Pertanto, nell’adulto l’orientamento diagnostico non si esaurisce nell’accertare la presenza o meno di un «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale», ma si basa piuttosto sulla conoscenza della persona nel suo complesso, in cui il deficit sociale finisce per rappresentare solo una delle conseguenze.

In età evolutiva negli ultimi anni si assiste, purtroppo, a un ribaltamento dell’atteggiamento: sembra sia sufficiente la sola presenza di un «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» per formulare una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico o rischio di Spettro Autistico. Altri sintomi eventualmente presenti — come abitualmente succede — vengono considerati «secondari» al «deficit» e quasi mai analizzati come possibili cause del deficit. Non è importante che il bambino sia iperattivo, non è importante che abbia esplosioni di rabbia immotivate, non è importante che sia goffo e impacciato nei movimenti, non è importante che abbia dei disturbi del sonno, non è importante che abbia delle difficoltà alimentari, non è importante che abbia paure quasi fobiche per taluni stimoli sensoriali! Gli unici indicatori in grado di assumere rilevanza sembrano essere relativi a «chiamato non risponde», «non guarda negli occhi», «non si lascia agganciare in attività condivise», «preferisce giocare da solo»: è il «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» quello che conta.

In questo modo, si dà scarso peso a uno dei sintomi nucleari dell’autismo, indicato da Leo Kanner come «sameness» o bisogno di immutabilità. Attualmente tale sintomo è stato declinato in diverse modalità di manifestazione. In particolare, il DSM-5 tra i criteri che individua come indispensabili per poter formulare una diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico include il «Criterio B», vale a dire la presenza di «Pattern di comportamento, interessi o attività ristretti e ripetitivi», includendo anche una «iper- ipo-reattività in risposta a stimoli sensoriali o interessi insoliti verso aspetti sensoriali dell’ambiente» (APA, 2013, p. 50). Pertanto, il disattendere la valutazione di tale criterio è disdicevole in assoluto ma è grave per fare una diagnosi di autismo.

Un altro evento che ha favorito una tendenza in questo senso è sicuramente la diffusione sempre più massiva dell’«Autism Diagnostic Observation Schedule» (AD0S2, 2013) che da sempre ha enfatizzato l’aspetto socio-comunicativo quale elemento determinante e in pratica esclusivo per formulare la diagnosi di autismo.

Facendo riferimento al lavoro in corso di pubblicazione precedentemente menzionato, un’analisi dei dati dei singoli bambini ha permesso di rilevare che 11 bambini, pari al 52,4%, per l’entità dei loro punteggi alla sotto-scala «Affetto Sociale» cadevano nella fascia del «Rischio da lieve a moderato per l’Autismo», indipendentemente dal punteggio che riportavano alla sotto-scala «Comportamento ristretto e ripetitivo». In questi casi, cioè, il punteggio alla sotto-scala «Comportamento ristretto e ripetitivo» fungeva solo da elemento che «aggravava» il rischio ma non era necessario a determinarlo!

Riguardo al caso di Antonio, è possibile approfondire il senso delle considerazioni fin qui svolte.

Considerata l’età e le aspettative definite dal contesto socio-culturale di appartenenza, il bambino presenta una significativa difficoltà nel rispondere alle aspettative dell’ambiente soprattutto per quel che riguarda le capacità di relazionarsi con gli altri, di condividere interessi e attività, di comprendere le regole che sottendono le interazioni tra i membri del gruppo sociale di appartenenza.

Il suo punteggio alla scala DICS è di 9 punti su un totale dei punti totalizzabili che è di 25 (9/25).

Il team diagnostico si orienta pertanto verso un Disturbo dello Spettro Autistico e va quindi a verificare se sono soddisfatti i Criteri diagnostici riportati dal DSM-5.

All’ADOS-2 Toddlers Antonio riporta il seguente punteggio: Affetto-sociale = 12; Comportamento ristretto e ripetitivo = 1; Totale 13. Si tratta di un punteggio che fa rientrare Antonio nella fascia di autismo moderato.

In effetti, l’anello fragile dell’algoritmo per la formulazione di una diagnosi in rapporto ai criteri del DSM-5 va individuato nel nodo relativo al criterio B. Quando infatti un bambino presenta già nella fascia di età considerata dei chiari segni di disfunzione della processazione sensoriale con interessi ristretti e ripetitivi molto stringenti e scarsa disponibilità al cambiamento, pena delle crisi di angoscia, il criterio B è chiaramente «soddisfatto». Ma il più delle volte i comportamenti richiamati dal criterio B sono molto sfumati in questa fascia di età. Avviene quindi una forzatura, in rapporto alla quale la presenza di «banali» comportamenti ripetitivi quali aprire e chiudere una porta, l’accendere e spegnere un interruttore o il prediligere una data attività vengono considerati elementi utili per ritenere soddisfatto il criterio B. Il problema non è che tali comportamenti non siano «ripetitivi», ma essi sono di fatto «secondari», nel senso che il bambino non investendo la relazione e non lasciandosi agganciare in attività condivise, finisce per indugiare in attività autoreferenziali un po’ più di quanto non facciano altri bambini di questa fascia di età.

Sulla base di tutto quanto detto, una diagnosi categoriale in questa fascia di età risulta, a nostro avviso, molto difficile. Dopo un’attenta valutazione, quanto più possibile esaustiva, che sappia quindi tenere in considerazione tutti gli aspetti bio-psico-sociali che riguardano il bambino, si può anche formulare una diagnosi «categoriale», ma bisogna tuttavia tener conto che la sua stabilità nel tempo va periodicamente valutata.

Un aspetto importante che discende dalle considerazioni appena esposte riguarda il fatto che la formulazione del piano educativo-abilitativo non può essere ricondotta in maniera rigida e acritica a schemi pre-definiti come il processo dell’Evidence Based Medicine imporrebbe e i documenti ufficiali suggeriscono a professionisti e famiglie. Al contrario, il piano educativo-abilitativo deve essere formulato sulla base della conoscenza del bambino e della natura del DICS rilevato.

Comprendere la natura del dics rilevato

Un «deficit dell’interazione e della comunicazione sociale» rappresenta la via finale comune di una dis-organizzazione che può interessare una o più di quelle funzioni che in questa delicata fase dello sviluppo si stanno realizzando. Ne deriva che in presenza di un DICS dovrebbero essere esaminate le traiettorie neuroevolutive di diverse funzioni e, soprattutto, come si sono costruite nel tempo. In particolare:

  • presa di coscienza di Sé e dell’Altro,
  • regolazione delle emozioni,
  • controllo degli impulsi,
  • processi di astrazione simbolica,
  • organizzazione motorio-prassica,
  • padronanza dei codici comunicativi.

Si tratta di funzioni che interagiscono in maniera inestricabile tra loro, per cui la dis-organizzazione di una di esse, quale che sia il motivo, porta inevitabilmente alla compromissione di tutte le altre.

Con riferimento alla presenza di un DICS, il problema che si pone l’approccio funzionale risiede nell’individuazione di quale o quali sono le funzioni «mal-funzionanti» che portano all’espressione del DICS.

Nella fascia di età presa in considerazione, 0-3 anni, il compito non è agevole. Tuttavia, nella prospettiva di favorire la crescita della persona e le occasioni di apprendimento, risulta sicuramente condivisibile l’opportunità di eleggere quali funzioni prioritarie da stimolare le seguenti: la regolazione delle emozioni, le funzioni esecutive, l’auto-consapevolezza (come prima fase del processo di costruzione del Sé).

Aiutare un bambino nella fascia 0-3 anni che presenti un DICS, comporta necessariamente la conoscenza di queste tre funzioni di base sulle quali agire sia direttamente che indirettamente fin dal primo incontro con il bambino: direttamente, prevedendo percorsi educativo-abilitativi specificamente dedicati (per esempio un percorso di terapia della neuropsicomotricità); indirettamente, coadiuvando i genitori nell’organizzazione delle abituali attività del bambino nei contesti quotidiani (casa, scuola, attività del tempo libero).

La regolazione delle emozioni

Dalla lettura della Tabella 4, relativa alle categorie diagnostiche riconosciute dai diversi sistemi di classificazione, emerge che la maggioranza di esse, se non tutte, dipende da un problema che ha a che fare con le emozioni.

I Disturbi d’ansia, ad esempio, si declinano in forme diverse, ma queste sono tutte sottese da paure, senso di pericolo imminente, angosce, che sono emozioni.

I Disturbi depressivi possono assumere caratteristiche cliniche diverse, ma implicano tristezza, irritabilità, perdita di interessi.

I Disturbi correlati a stress e traumi sono tutti disturbi comportati da paura, ansia, angoscia, insicurezza, che sono stati della mente definibili come emozioni.

I Disturbi da comportamento dirompente rappresentano un insieme di quadri clinici alla cui base ci sono elementi quali rabbia, aggressività, irritabilità, che altro non sono che emozioni.

La classificazione CD:0-5 include anche la meta-categoria denominata «Disturbi della processazione sensoriale», laddove con il termine di processazione o elaborazione ci si riferisce al processo di gestione delle emozioni.

Le emozioni possono essere definite come stati della mente che vengono attivati da eventi-stimolo rilevanti per gli interessi del soggetto (Siegel, 2001).

Il sistema nervoso centrale è un sistema predisposto a monitorare gli stimoli dell’ambiente che si affacciano al sistema recettoriale. I recettori preposti possono essere distinti in esterocettori, quali vista, udito, tatto, olfatto e gusto, ed enterocettori, che sono quelli che raccolgono gli stimoli che provengono dall’interno del corpo.

Ogni stimolo in rapporto alla sua natura sollecita un determinato tipo di recettore.

Ciò determina nel cervello una prima reazione di allerta: «Sta succedendo qualcosa!» (risposta orientativa iniziale).

Sempre ragionando in termini di microsecondi la seconda fase è quella dell’attivazione (arousal), caratterizzata da processi che modulano i flussi di energia all’interno del cervello, con l’attivazione di determinati circuiti e la de-attivazione di altri e conseguente differenziazione degli stati della mente dell’individuo. Seguono, quindi, i processi di valutazione elaborativa (appraisal) che determinano se uno stimolo è «buono» o «cattivo». Dall’esito della valutazione deriva un’ulteriore elaborazione dei flussi di energia con il coinvolgimento, secondo il caso, dei processi di allontanamento o di avvicinamento. L’organismo si prepara all’azione grazie anche all’attivazione di una serie di modifiche neurofisiologiche con risposte neurovegetative regolate dal sistema nervoso autonomo, reazioni ormonali e cambiamenti dell’attività elettrica cerebrale.

Nelle prime fasi dello sviluppo gli stati di attivazione vengono indicati come «emozioni primarie». L’aggettivo «primario» non si riferisce alle emozioni come categorie discrete, ma alle primissime fasi del processo di elaborazione dell’emozione (risposta orientativa iniziale, arousal, appraisal).

In Figura 1 viene riportato uno schema di quello che verosimilmente succede quando uno stimolo saliente colpisce i recettori del corpo. La via indicata come «via rapida» si riferisce ai processi primari, mentre la «via lenta» con una dilazione dell’ordine di microsecondi prevede la partecipazione della corteccia nel processo di elaborazione delle emozioni (Figura 1).

In uno schema del tipo di quello riportato in Figura 1, la componente neurovegetativa svolge un ruolo fondamentale per preparare l’organismo alla «Azione».

Si tratta di una serie di manifestazioni che vengono fuori come una tempesta legata a un massivo investimento del sistema nervoso neurovegetativo: il riferimento è al sistema nervoso autonomo simpatico e parasimpatico. Tali manifestazioni si esprimono con:

  • sudorazione generale,
  • sudorazione delle mani,
  • rossore del volto (visibile e percepito come «mi sento avvampare»),
  • secchezza delle fauci («gola secca»),
  • senso di costrizione precordiale («senso di oppressione al petto»),
  • tachicardia,
  • respiro frequente e superficiale,
  • sensazione di «movimenti» intestinali,
  • minzione imperiosa («bisogno impellente di urinare»).

Fig. 1 Schema rappresentativo delle fasi del processo di elaborazione delle emozioni – Militerni.

Il sistema nervoso autonomo è il sistema che prepara automaticamente e «autonomamente» l’organismo alla difesa o all’attacco, andando a influenzare in maniera diretta e indiretta molteplici organi e interi sistemi dell’organismo, attraverso una serie di neurotrasmettitore chimici, quali acetilcolina, adrenalina, noradrenalina.

Le manifestazioni legate alla componente neurovegetativa delle emozioni sono insieme visibili dall’esterno e percepite dall’interno e contribuiscono a determinare il particolare vissuto che ciascuna emozione comporta.

A una emozione segue necessariamente un comportamento. Ciò che tuttavia è importante segnalare è che se è vero che c’è sempre un comportamento conseguente a un’emozione, esso non è mai lo stesso per tutti i soggetti. Questa diversità non è legata solo alla differente sensibilità dei recettori o alla diversa intensità della risposta neurovegetativa, ma a una serie di fattori che nel corso dello sviluppo aiutano a mediare, modificare, adattare i comportamenti che seguono un’emozione.

La paura non comporta necessariamente il comportamento di fuga, essere felici non comporta necessariamente il comportamento di ballare e saltare per la contentezza, il disgusto non comporta necessariamente il comportamento di sputare un cibo disgustoso così come il disappunto nei confronti di un atto disdicevole non comporta necessariamente l’esternare verbalmente la nostra contrarietà. Sicuramente in conseguenza di un’emozione forte sarà messo in atto un comportamento, ma tale comportamento assume una forma diversa da soggetto a soggetto in rapporto a una serie di variabili che appartengono alla storia personale di ciascun soggetto. Peraltro, anche in uno stesso soggetto, una stessa emozione può dar luogo a comportamenti diversi a seconda delle circostanze (Figura 1).

A questo punto diventa necessario analizzare i fattori che mediano tra emozioni, da un lato, e comportamento conseguente, dall’altro. Si tratta di una serie di fattori di natura molto diversa tra loro, riassumibili nel modo seguente:

  • fattori temperamentali,
  • apprendimento,
  • stili cognitivi,
  • stili attributivi,
  • particolari circostanze
  • valenza delle prime relazioni di attaccamento,
  • pregresse esperienze traumatiche,

I fattori temperamentali svolgono un ruolo particolarmente importante. Nel concetto stesso di temperamento è implicita una particolare reattività di ciascun soggetto a stimoli, eventi e avvenimenti esterni. Se la reattività è innata, costituzionale, in quanto rispondente a bisogni adattivi che hanno permesso la sopravvivenza della specie, è altrettanto vero che tale reattività presenta una variabilità altrettanto innata da soggetto a soggetto nel suo grado di espressività. Ne deriva che esistono soggetti iper-reattivi che presentano una gamma di emozioni molto ricca in termini qualitativi e molto intensa in termini quantitativi. Per contro esistono soggetti poco reattivi con emozioni mai molto vivaci.

L’apprendimento si riferisce ai processi di associazione tra eventi. In rapporto a tale processo il soggetto impara che alcune risposte comportamentali reattive a determinati stati emotivi risultano molto più produttive e gratificanti rispetto ad altre, così come alcune reazioni possono risultare assolutamente improduttive e controproducenti. Il meccanismo è quello dello stimolo-risposta con relativi sistemi di rinforzamento.

Gli stili cognitivi riflettono la particolare modalità di funzionamento mentale che caratterizza il modo di pensare, riflettere e affrontare i problemi da parte di ciascun soggetto, descrivendo le modalità attraverso cui un soggetto apprende. L’apprendimento di strategie risolutive di problemi, nel caso specifico dei problemi emotivi, è condizionato dagli stili cognitivi peculiari del soggetto. Essi vanno individuati come modalità individuali a forte componente biologico-costituzionale, anche se l’ambiente, attraverso le esperienze che determina, educa gli stili cognitivi e ne favorisce una serie di modifiche che rispondono ai bisogni adattivi che di volta in volta si presentano.

Gli stili attributivi o locus of control (luogo di controllo) si riferiscono alle spiegazioni che ciascuna persona fornisce nei riguardi di eventi e accadimenti che lo investono. Un locus of control interno significa attribuire a sé stessi sempre e comunque la responsabilità degli avvenimenti che capitano. Per contro un locus of control esterno porta ad attribuire la responsabilità di un avvenimento sempre e comunque a cause esterne sulle quali il soggetto si convince di non avere possibilità di controllo.

Le circostanze particolari sono caratteristiche dell’hic et nunc, qui e ora. Per esperienza e per attitudini apprese ciascun soggetto analizza le caratteristiche del contesto prima di mettere in atto un dato comportamento. Per esempio, un’analisi del contesto può spingere a evitare comportamenti aggressivi e favorire l’adozione di comportamenti maggiormente accondiscendenti. Allo stesso modo considerando particolari circostanze il soggetto può capire che la risposta più logica non è in quel momento la più utile.

Le pregresse esperienze emozionali e relazionali, talvolta di natura traumatica, possono aver determinato la strutturazione di condotte comportamentali apprese che vengono emesse in automatico, perdendo in questo modo una reale congruenza con lo stato emotivo di fondo.

In quest’ottica, possiamo affermare che un disordine della regolazione delle emozioni può determinare un DICS.

Il bambino si trova in preda a emozioni che non conosce, che non sa come vengono fuori, che turbano la sua serenità mettendolo in una situazione di allarme ansioso, per cui non trova niente di meglio, considerando l’età, che evitare situazioni nuove e sconosciute, insistere e persistere su cose più che sulle persone, in quanto maggiormente prevedibili e povere di sorprese. In queste situazioni il bambino evita gli altri e ricorre a figure familiari rassicuranti, anche se poi tende a utilizzarle in maniera strumentale.

Risulta allora fondamentale improntare un lavoro sulla regolazione delle emozioni.

In effetti tutte le prime fasi del processo (emozioni primarie) riconoscono un substrato biologico di natura genetico-costituzionale. La sensibilità dei recettori a rispondere a uno stimolo e l’intensità della risposta sono caratteristiche che variano da soggetto a soggetto e che ne definiscono il particolare stile reattivo (Quinones-Camacho & Davis, 2019).

Forse la sensibilità dei recettori e l’intensità della risposta «rapida» non sono modificabili, ma sono sicuramente modificabili le «Azioni» connesse alle emozioni e, in particolare, le modalità comportamentali che vengono a realizzarsi in seguito a un’emozione. Ciò tenendo anche conto di tutti i fattori che sono in grado di incidere su tali modalità comportamentali (Golombek et al., 2020).

In effetti, il caregiver (la mamma) già a partire dalle prime settimana di vita attraverso i processi di sintonizzazione, rispecchiamento e reciprocità legge le emozioni del lattante e gli rimanda informazioni utili a procedere nel percorso di conoscenza delle «sue» emozioni (Cooke et al., 2019). L’educazione alle emozioni procede nei mesi successivi attraverso scambi interattivi che si arricchiscono progressivamente in senso sia qualitativo sia quantitativo. Il bambino, cioè, riesce a ricevere ed elaborare in maniera sempre più complessa gli aspetti che attengono al mondo emozionale e si confronta con sempre più persone, ciascuna delle quali, anche se inconsapevolmente, contribuisce al percorso di conoscenza delle emozioni.

Conoscere le emozioni è la condizione essenziale per poterle padroneggiare: che cosa significano rabbia, felicità, delusione, paura e così via (Fonagy, Gergely, Jurist, & Target, 2005).

Ma una conoscenza altrettanto importante è quella dell’associazione di ciascuna emozione alle situazioni esterne. Associare le emozioni alle varie situazioni permette quindi imparare a capire il significato di una serie di comportamenti che a volte agiamo in automatico quando siamo in preda a un’emozione. Quest’ultima è forse una delle conoscenze più importanti nel senso che può aiutarci a riflettere sul perché di determinati comportamenti e insieme sulle conseguenze che tali comportamenti comportano, in termini di conseguenze positive, negative, efficaci, inefficaci, e così via.

Quando questo processo di conoscenza e quindi di gestione per un qualsiasi motivo è «alterato», il bambino può cadere in una condizione in cui è in balia della tempesta delle emozioni, e non in quella «serenità» necessaria per avviare scambi interattivi e comunicativi fluidi e funzionali.

Sono queste le situazioni in cui l’intervento educativo-abilitativo può proficuamente «stimolare», «correggere» e «indirizzare» il processo di conoscenza delle emozioni e insieme la gestione dei comportamenti a esse correlati.

Le funzioni esecutive

Le Funzioni Esecutive (FE), chiamate anche funzioni di controllo esecutivo o funzioni di controllo cognitivo, si riferiscono a una famiglia di processi mentali top-down, che procedono, cioè, dall’alto verso il basso. Esse vengono attivate quando il soggetto si trova a fronteggiare un compito nuovo, una situazione nuova, un evento inaspettato: in altri termini, tutte le volte che le strategie di problem solving conosciute e padroneggiate non funzionano. Nell’agire quotidiano il soggetto, nei confronti delle innumerevoli sfide che il confronto con l’ambiente comporta, mette in atto in automatico una serie di strategie di problem solving già acquisite e padroneggiate. Questo comporta sicuramente un vantaggio adattivo, ma ha implicito in sé il problema che molte delle risposte del soggetto vanno in automatico: sono, cioè, impulsive. Questa impulsività viene quindi a porsi come un ostacolo a una rivalutazione della situazione per la ricerca di nuove strategie.

Nelle situazioni nuove in cui le strategie già acquisite non funzionano il soggetto deve:

  • desistere dall’insistere nel mettere in atto le strategie «vecchie»;
  • rivalutare il setting percettivo;
  • richiamare dalla memoria a lungo termine dati utili per la situazione attuale;
  • formulare un piano di azione articolato in sotto-unità da mettere in atto in maniera sequenziale;
  • mandare in atto il piano di azione;
  • tenere conto passo dopo passo della validità delle singole sotto-unità;
  • «ricordarsi» della sequenza delle singole sotto-unità così come inizialmente programmate modificandole eventualmente in accordo ai dati del feed-back;
  • impegnarsi nel compito fino a quando esso non possa essere considerato concluso.

Anche se di facile intuizione, le Funzioni Esecutive rappresentano un gruppo molto eterogeneo di attività mentali.

L’orientamento prevalente ritiene che le Funzioni Esecutive siano di fatto costituite da tre componenti fondamentali, operativamente distinte, ma che lavorano in maniera congiunta e come tali costituiscono nel loro complesso un costrutto teorico unitario (Miyake et al., 2000). Tali componenti sono:

  • Controllo Inibitorio (Inhibitory Control = IC),
  • Memoria di Lavoro (Working Memory = WM),
  • Flessibilità Cognitiva (Shifting = S).

In presenza di un DICS è possibile ipotizzare un’immaturità delle Funzioni Esecutive.

Le Funzioni Esecutive, infatti, quale che sia l’età del bambino hanno un effetto determinante nel:

  • mantenere l’attenzione su un compito in corso;
  • evitare fughe dell’attenzione verso distrattori insignificanti;
  • impedire di dare libero sfogo alle emozioni negative quando il compito non riesce;
  • aspettare prima di insistere su un comportamento inefficace (= pausa di riflessione);
  • provare nuove strategie.

Facendo in particolare riferimento al Controllo Inibitorio, un bambino, in assenza di un adeguato controllo inibitorio, sarebbe in balia degli impulsi, di vecchie abitudini, di schemi di pensiero o di azioni apprese per condizionamento. Peraltro, questo bambino, in questa fascia di età (0-3 per le sue ridotte capacità di sistematizzazione cognitiva degli stimoli in entrata sarebbe vittima di stimoli ambientali per loro natura ambigui e quindi favorenti risposte impulsive inadeguate.

Nonostante la loro complessità operativa, il lavoro sulle Funzioni Esecutive può essere avviato già in età prescolare.

Sotto questo aspetto una serie di ricerche hanno dimostrato che anche nei bambini nella fascia di età compresa tra 0 e 3 anni c’è la possibilità di stimolare delle «pause di riflessione» in grado di aiutare il bambino a inibire le risposte che partirebbero in automatico, di impulso. Nelle abituali pratiche di accudimento del bambino, relative ad esempio all’igiene personale, all’alimentazione, al vestirlo e così via, i genitori non fanno altro che allenare il bambino alla pianificazione delle azioni, sia che esse riguardino il mangiare, il lavarsi o nel prepararsi per uscire.

La scuola allo stesso modo offre moltissime possibilità per allenare e potenziare le Funzioni Esecutive. Gli operatori della scuola hanno moltissime opportunità per insegnare al bambino a gestire le risposte impulsive (Controllo Inibitorio), a pianificare le azioni necessarie per realizzare un compito, per sollecitare la continuità e il completamento del compito una volta che è stato avviato (Bernier, Carlson, Deschênes, & Matte-Gagné, 2012; Doebel, 2020; Thibodeau, Gilpin, Brown, & Meyer, 2016; Volkaert & Noël, 2015; Wass et al., 2011; Wass, Scerif, & Johnson, 2012).

Quando per un qualsiasi motivo un bambino presenta difficoltà a padroneggiare e proseguire nel percorso di maturazione delle Funzioni Esecutive, il terapista deve ricorrere a tutte le abituali sollecitazioni utilizzate per favorire il Controllo Inibitorio, la Flessibilità Cognitiva e la Memoria di Lavoro, identificando i luoghi, i materiali e le modalità operative più idonei. Dovrà cioè saper individuare le strategie più idonee per quel determinato bambino, offrendo al contempo un ottimo e pratico esempio di flessibilità cognitiva, intesa come capacità di modificare il proprio pensiero e il proprio comportamento a seconda dei feedback ambientali.

L’auto-consapevolezza

Nel processo di costruzione del Sé che operativamente può considerarsi realizzato nel giovane adulto, il bambino passa attraverso una lunga serie di fasi. Nella fascia di età considerata, 0-3 anni, la fase della auto-consapevolezza intesa come auto-riconoscimento del corpo e di Sé come Agente di azione è sicuramente importante (Militerni, Bonifacio, & Militerni, 2021).

La presa di coscienza del «corpo» è un percorso di progressiva scoperta di «pezzi», di parti parziali che solo in un secondo momento verranno ricomposti in un corpo concepito come un tutt’uno.

Il volto dell’Altro assume da subito una valenza particolare per i suoi attributi percettivi. Il lattante, infatti, è particolarmente attratto dagli oggetti in movimento e gli occhi, la bocca, il naso sono «particolari» in costante movimento.

Partendo dalle prime esperienze di «sintonizzazione» con l’Altro attraverso le espressioni facciali, il bambino comincia progressivamente a sistematizzare attraverso un processo percettivo le caratteristiche del volto e le modifiche dei tratti distintivi che lo caratterizzano, per arrivare alla identità del volto.

Ma la sistematizzazione dei dati percettivi riconosce un altro momento critico: la scoperta delle mani. Inizialmente le mani sono animate da un «riflesso»: il riflesso di prensione palmare. Ponendo un qualsiasi oggetto nel palmo della mano del neonato, egli risponde serrando a pugno le mani sull’oggetto che ha provocato lo stimolo. Progressivamente il lattante si libera del riflesso di prensione palmare e comincia ad afferrare gli oggetti.

Ed è attraverso le mani che il lattante estende la sua esplorazione al resto del corpo, toccandosi progressivamente la pancia, le gambe e, infine, verso gli 8 mesi, i piedi, che grazie alla fisiologica ipotonia presente in questo periodo riesce anche a portare alla bocca.

In questo processo di progressiva scoperta del corpo c’è un momento cruciale, critico, in cui le percezioni isolate, raccolte attraverso le attività esplorative sui vari segmenti corporei, vengono riferite a un tutto unico: è la scoperta del corpo.

Esiste cioè un momento in cui il bambino finalmente arriva alla formazione di un modello interno del corpo: lo schema corporeo. Si tratta di un primitivo senso di unità corporea, cui il bambino arriva un po’ per volta, mettendo insieme i pezzi sparsi, i frammenti di sensazioni diverse, fino a quel momento non ancora tenute insieme da un unico filo conduttore.

Lo schema corporeo deve essere inteso come una unità in grado di garantire l’adeguata sintesi percettiva dei dati provenienti dall’ambiente interno e da quello esterno e, nel contempo, come premessa per l’organizzazione dell’atto motorio.

Molti Autori, facendo riferimento alle esperienze effettuate valutando le reazioni del bambino allo specchio, ritengono che esso venga acquisito all’età di circa 8-9 mesi. Intorno a questa età, infatti, le reazioni del bambino di fronte allo specchio, in genere disinteressate o quanto meno indifferenti nei mesi precedenti, cominciano a essere vivaci ed entusiastiche. Evidentemente quello che vede lì, nello specchio, rappresenta per il bambino la conferma dell’esistenza di un corpo come un’entità a sé stante con confini ben definiti. Bisogna tuttavia rilevare che quello che il bambino vede nello specchio è «un» corpo, non il «suo» corpo: bambini di 8-10 mesi, cioè, come le scimmie meno evolute rispetto agli scimpanzé, che quando vedono riflessa nello specchio la loro immagine tendono ad attaccarla, non riconoscendola come la propria immagine.

In linea con le conquiste cognitive, tuttavia, per il bambino il passaggio dal vedere «un» corpo al riconoscere il «suo» corpo è molto rapido. Il bambino verso i 14 mesi capisce che quello che vede allo specchio è il «suo» corpo. Tuttavia, va sottolineato che il riconoscimento non è ancora rappresentazione. Se il bambino allo specchio vede riflesso un corpo impara a riconoscerlo molto rapidamente come il «suo». Ma vedere un corpo, e riconoscerlo come il proprio, non significa ancora avere la capacità di rappresentarselo mentalmente: non significa, cioè, avere la possibilità di pensare al «proprio» corpo in assenza di dati percettivi immediati. In altri termini, il riconoscimento che avviene vedendo il proprio corpo è cosa diversa dal rappresentarselo mentalmente, cioè dal richiamare alla mente l’immagine di esso senza un supporto visivo.

La presa di coscienza di sé

Le spinte motivazionali che portano il bambino ad aprirsi alla relazione con le figure di accudimento si traducono in una serie di comportamenti tesi a mettersi in mostra. La reazione degli astanti improntata al gaudio, all’approvazione e alla sollecitazione funziona come un rinforzo positivo e conferisce una valenza sociale a tali gesti e comportamenti. Ma la valenza evolutiva di tali comportamenti è legata anche al fatto che il bambino comincia a rendersi conto di essere in grado di incidere sui tempi e sui modi delle relazioni con le figure dell’ambiente significativo, e a comprendere che l’agente d’azione è lui stesso con i suoi comportamenti. Attraverso questo nuovo senso di essere agente, il bambino raggiunge finalmente, verso i 18-24 mesi di vita, la presa di coscienza di sé (Tomasello, 1999).

L’acquisizione della coscienza di sé induce il bambino a modificare le modalità relazionali con l’ambiente circostante. Il «piacere di piacere» comincia a essere sostituito dal «piacere di essere» e quindi di porsi, proporsi e talvolta imporsi per affermare la sua personalità emergente.

Ulteriori segni di progresso nella formazione di questa primitiva identità sono rintracciabili nell’utilizzo della prima persona («io») e del pronome possessivo («mio») sul piano verbale, e dalle accentuate manifestazioni della nozione di proprietà sul piano comportamentale.

I comportamenti del bambino a questa età si caratterizzano spesso con spiccato egocentrismo, tendenza ad attirare l’attenzione su di sé, scoppi di collera, comparsa di condotte più autonome e spesso chiaramente in opposizione alle richieste genitoriali.

Questo periodo viene anche definito «fase dell’oppositività», in quanto il bambino avendo preso coscienza di sé come persona tende a «opporsi» a tutte le richieste per affermare la sua «personalità». In termini emotivi, infatti, a questa età si viene a configurare una vera e propria crisi epocale: è l’adolescenza dell’infanzia.

Questo nuovo modo di porsi ha importanti ricadute sulla qualità dei rapporti con le figure dell’ambiente significativo, le quali cominciano a percepire il bambino in maniera diversa rispetto a quanto non abbiano fatto nei mesi precedenti. In situazioni «normali» il papà e la mamma cominciano ad avvertire la presenza di una Persona che mostra i tratti di un modo di essere che è tutto suo. I genitori hanno sempre avuto fantasie sul «carattere» del bambino, fin dai primi giorni di vita, ma adesso si confrontano con stili di comportamento che testimoniano la presenza reale di un Altro che ha dei suoi tratti temperamentali e li mostra in maniera esplicita. I bisogni che questa nuova persona esprime non sempre coincidono con le aspettative definite dal contesto e molto spesso non coincidono con le aspettative dei genitori; aspettative dipendenti dall’immagine che i genitori si erano fatti del bambino. I genitori devono fare i conti con una nuova Persona (Stern, 1987).

L’autostima

In rapporto all’età, il bambino nella fascia compresa tra 0 e 3 anni non è ancora in grado di esprimere un giudizio valutativo su sé stesso.

Ciò nondimeno egli mostra:

  • soddisfazione quando riesce in qualcosa;
  • «mortificazione» quando combina un guaio (e non solo per paura di essere sgridato dai genitori),
  • rinuncia a compiti che ritiene di non riuscire a svolgere;
  • gioia quando viene elogiato;
  • rabbia quanto viene denigrato;
  • aggressività quando viene preso in giro.

Il bambino, pertanto, anche se non riesce ad accedere a un giudizio auto-valutativo su di sé e sulle sue capacità, già comincia a mostrare di essere sensibile ai messaggi dell’ambiente relativi a sé.

Un disordine nel processo di costruzione del Sé può determinare un DICS.

Egocentrismo esasperato, uso strumentale dell’Altro, mancata individuazione dell’Altro come agente mentale, mal definizione dei confini tra sé e altro da sé, dipendenza dal contesto nella scelta delle modalità reattive per la mancata costruzione di un sé coeso, sempre tenendo conto dell’età: sono tutte caratteristiche che interferiscono in maniera marcata su una relazione che possa essere considerata adeguata sul piano della qualità, della continuità, dell’alternanza dei turni e sulla reciprocità.

Fin «da subito» si può e si deve lavorare su questo percorso così articolato che va dal raggiungimento dello schema corporeo al riconoscimento del proprio corpo, alla capacità di rappresentarsi mentalmente il proprio corpo, all’auto-consapevolezza di Sé e di un Altro e delle regole che definiscono i rapporti Sé-con-l’Altro.

Si tratta di un’esigenza particolarmente pressante soprattutto negli sviluppi atipici. I bambini, infatti, che presentano una o più disabilità sono «handicappati» nella realizzazione di quelle esperienze emozionali e relazionali che valgono a raggiungere una sana identità personale. Da qui discende la necessità che il terapista chiamato a intervenire su una specifica «disabilità», quando si confronti con un soggetto in età evolutiva, deve allargare il suo campo d’azione per lavorare anche e soprattutto sugli aspetti che attengono alla costruzione del Sé.

Considerazioni conclusive

I concetti appena esposti sono ormai patrimonio della Psicologia dello Sviluppo, sulla cui validità c’è poco da eccepire. Risultano, tuttavia, piuttosto impellenti alcuni interrogativi da risolvere, come ad esempio:

  • concetti quali Regolazione delle emozioni, Funzioni Esecutive e Auto-consapevolezza sono traducibili in pratiche operative da implementare negli abituali programmi educativo-abilitativi per i DICS?
  • e in questo caso, qual è la loro capacità di incidere favorevolmente sull’evoluzione dei DICS?

L’utilizzo della Scala di Valutazione DICS consente all’équipe multidisciplinare l’individuazione e la quantificazione di elementi utili non solo a stabilire una diagnosi di DICS in età precoce (0-3 anni), ma anche a impostare un piano educativo-abilitativo che sappia tener conto dei reali bisogni personalizzati del bambino considerato. Alla luce di questo strumento e delle sue implicazioni cliniche, infatti, l’individuazione precoce di obiettivi inerenti alla capacità di regolare le emozioni, le funzioni esecutive e l’autoconsapevolezza, diventa parzialmente traducibile in azioni da attuare e integrare negli abituali programmi educativo-abilitativi.

Quanto ipotizzato trova conferma in un’attenta analisi delle ricerche recentemente pubblicate in letteratura internazionale e, in particolare, nella realtà italiana della terapia della neuro e psicomotricità dell’età evolutiva che, con il suo approccio globale, sembra poter offrire una valida e completa risposta a entrambi gli interrogativi appena accennati (Bonifacio, Gison & Minghelli, 2012).

A sostegno di tale affermazione, recentemente è stato pubblicato un lavoro da parte di un gruppo di ricerca che opera nella Regione Campania (Caliendo et al., 2021). Il lavoro riporta i risultati di uno studio condotto su 84 bambini con età media di 57 mesi affetti da un Disturbo dello Spettro Autistico. Gli 84 bambini sono stati seguiti per un periodo di 6 mesi, durante i quali sono stati sottoposti a terapia della neuro e psicomotricità. Per la valutazione dei risultati tutti i bambini sono stati sottoposti all’inizio dello studio (tempo 0 = T0) e dopo sei mesi (T1) a una valutazione funzionale integrata dalla somministrazione di uno strumento dedicato: ASD Behavior Inventory (ASDBI) (Cohen, Schmidt-Lackner, Romanczyk & Sudhalter, 2003). Tutti i bambini hanno riportato un sensibile miglioramento del profilo funzionale generale. In particolare, le aree maggiormente interessate da miglioramento sono risultate le seguenti: «Problemi di eccitabilità»; «Aggressione»; «Comportamenti sociali»; «Apprendimento e memoria».

Si tratta di aree strettamente connesse con la Regolazione delle emozioni, le Funzioni Esecutive e l’Auto-consapevolezza, che in pratica coincide con la consapevolezza sociale e conseguentemente con l’adozione di comportamenti maggiormente aderenti alle esigenze del contesto.

In conclusione, dai dati disponibili in letteratura un lavoro educativo-abilitativo che preveda un potenziamento delle funzioni più volte citate della Regolazione delle emozioni, delle Funzioni Esecutive e dell’Auto-consapevolezza ha sicuramente la possibilità di incidere favorevolmente sull’evoluzione di un DICS (deficit dell’interazione e della comunicazione sociale) quale che sia il quadro clinico in cui si inserisce.

Abstract

A language delay in children from age 0-3 is the most frequent of «problems» that convince parents to ask for professional consultation. The language delay is usually a part of a behavioural profile that includes impaired reciprocal social interaction, disinterest in social stimulus, & a tendency to become absorbed in restrictive activities where the participation & guidance of another are difficult. This kind of behavioural profile has been classified as DISC. (Disorder in Interaction & Social Communication).*

The multidisciplinary team must consider two critical issues when consulted – a diagnostic confirmation of DISC & a clinical framework or description that allows for formulating educational & abilitative intervention.

This article offers indications for early recognition of DISC & suggestions for focusing on the functional areas, specifically emotional regulation, executive functions, & self-image construction, for educational & abilitative intervention,

Keywords

DISC, Neurological development, Interaction, Communication, Social skills.

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