Il TNPEE

Erickson

Vol. 1, n. 2, novembre 2019

(pp. 100-109)

CONTATTO OCULARE, SGUARDO E INTERSOGGETTIVITÀ

Roberto Militerni Neuropsichiatra Infantile, Docente di Psicologia dello Sviluppo, Università degli Studi «Suor Orsola Benincasa», Napoli

roberto.militerni@gmail.com

Sommario

L’importanza del contatto oculare nelle relazioni interpersonali trova ampio riscontro in letteratura. Spesso si parla in senso generico di «contatto oculare», di «sguardo», di «intersoggettività», riferendosi ad aspetti che presentano sicuramente ampie aree di sovrapposizione, ma che ciò nondimeno non possono essere considerati del tutto sovrapponibili. Un aspetto che necessita di una particolare attenzione è l’evoluzione del comportamento «contatto oculare» nel corso dello sviluppo. Se è vero come è vero che il contatto oculare è particolarmente importante nelle relazioni è altrettanto vero che esso assume aspetti diversi nel corso dello sviluppo. Il bambino nasce con una serie di dispositivi innati che gli permettono da subito di entrare in una relazione molto intima con il caregiver. Tra tali dispositivi c’è sicuramente il comportamento «contatto oculare». Progressivamente, la valenza che il contatto oculare ha sul bambino dipende in larga misura dagli stati emotivi che ha imparato ad associare a tale comportamento. Ciò che va considerato è che il bambino che sta costruendo nella sua mente la realtà sociale attribuisce un significato emozionale non tanto a un singolo comportamento, ma a una configurazione complessa nel cui ambito vanno a inscriversi più «comportamenti»: in aggiunta, cioè, al suo sguardo ci sono la mimica, l’intonazione della voce, la modulazione prosodica, la postura e così via. Tali aspetti devono essere tenuti in debita considerazione quando si va a costruire una relazione terapeutica nei bambini di età compresa tra i 2 e i 5 anni.

Parole chiave

Contatto oculare, attaccamento, attenzione congiunta, intersoggettività, ESCS.

Introduzione

L’importanza del «contatto oculare» nelle relazioni interpersonali trova ampio riscontro in letteratura. «L’incontro tra due paia di occhi rappresenta la modalità primaria fondamentale che favorisce l’incontro interpersonale» (Heron, 1970). In una recente rassegna sul potere sociale del contatto oculare, Hietanen ripropone questa affermazione concludendo che questo «incontro tra due paia di occhi» apre una porta all’incontro delle menti delle persone coinvolte nel guardarsi (Hietanen, 2018). In questa prospettiva viene individuato un percorso sequenziale obbligato che vede il contatto oculare come condizione necessaria e indispensabile per la realizzazione delle relazioni interpersonali considerate un’esigenza primaria del gruppo sociale.

Spesso si parla in senso generico di «contatto oculare», di «sguardo», di «intersoggettività», riferendosi ad aspetti che presentano sicuramente ampie aree di sovrapposizione, ma che ciò nondimeno non possono essere considerati del tutto sovrapponibili.

Il contatto oculare è un fissarsi negli occhi, l’uno con l’altro; esso è presente fin dalle prime ore di vita tra madre e neonato e ha un’alta valenza socio-comunicativa.

Lo «sguardo» implica un qualcosa che va al di là del semplice guardarsi negli occhi. Il contatto oculare cioè va a inserirsi nell’ambito di un’espressività mimica molto più articolata che finisce per avere la vera valenza socio-comunicativa. Si parla, infatti, di sguardo d’intesa, di sguardo di sfida, di sguardo truce, di sguardo dolce, di sguardo aggressivo.

L’«intersoggettività» è un mutuo scambio di messaggi tra due partner sociali. Essa si avvale del contatto oculare e ancor più dello sguardo, ma non si esaurisce in questi due segnalatori sociali. L’«intersoggettività», infatti, si realizza attraverso codici subliminali inscritti nella conoscenza incarnata. In una relazione entrambi i partner coinvolti nell’interazione sono abili lettori dello sguardo, della mimica facciale, dell’intonazione vocale, della prosodia, del controllo tonico-posturale e di quello cinetico.

Un aspetto connesso al contatto oculare, che ha ricevuto grande attenzione da parte dei ricercatori, riguarda la potente attivazione emotiva che viene a determinarsi in un soggetto quando si rende conto di avere lo sguardo dell’altro su di sé.

Studi neurofisiologici supportati dal contributo delle neuroimmagini funzionali hanno permesso di individuare nell’amigdala la struttura centrale nel determinare il potere emotivo dello sguardo. L’attivazione dell’amigdala avviene sia quando lo sguardo veicola atteggiamenti minacciosi dell’altro, o almeno vissuti come tali, sia quando veicola atteggiamenti positivi, o vissuti come tali. In altri termini, l’amigdala media emozioni sia positive sia negative (Meletti et al., 2012).

Questa lettura dello sguardo dell’altro mediata dall’amigdala determina di conseguenza risposte comportamentali congruenti con il vissuto emotivo. In caso di situazioni associate a emozioni positive il comportamento del soggetto è teso alla condivisione, alla cooperazione, rispondendo con il contatto oculare allo sguardo dell’altro. Viceversa, nelle situazioni percepite come minaccia, riprovazione o derisione la prima risposta, la più immediata, è l’evitamento dello sguardo e, più in generale, la messa in atto di condotte di evitamento della situazione vissuta con senso di disagio. Risulta tuttavia evidente che in tali situazioni la connotazione qualitativa dell’attivazione del sistema che coinvolge l’amigdala non è legata al solo contatto oculare di per sé, ma si estende all’analisi di tutta un’altra serie di segnalatori che si associano al contatto oculare e che rientrano nella mimica facciale (rima labiale, rughe della fronte, solchi naso-genieni ecc.). In aggiunta, il sistema di vigilanza relativo alla apertura/chiusura alle relazioni interpersonali è attento non solo «all’incontro con un paio di occhi» e ai relativi elementi mimici a esso associati (le espressioni facciali), ma analizza in simultanea una serie di elementi aggiuntivi che riguardano l’intonazione della voce, la prosodia, la postura, il grado di attivazione motoria e gli elementi contestuali che riguardano il chi, il dove, il quando.

Il bisogno di sistematizzare aspetti di questo tipo comincia a rendersi necessario quando vengono suggeriti modelli interpretativi dei disordini del contatto oculare che lasciano spazio ad approcci educativo-terapeutici che forse meriterebbero ulteriori approfondimenti.

In un recente lavoro un gruppo di ricercatori ha riportato l’effetto positivo della somministrazione di un farmaco sulla frequenza e la continuità del contatto oculare in un gruppo di soggetti affetti da «autismo ad alto funzionamento» (Hadjikhani et al., 2018). Il campione era costituito da 9 soggetti di età compresa tra i 14 e i 28 anni (età media 21 anni). Il farmaco usato era la Bumetanide, una sostanza in grado di attivare l’inibizione GABAergica e, come tale, di ridurre i livelli di attività dell’amigdala nel corso di esposizione dei soggetti al contatto oculare con scene a elevato impatto emotivo. Ciò si traduceva in un incremento dei tempi del contatto oculare nei confronti delle suddette scene. La conclusione degli Autori era che la Bumetanide si poneva come farmaco in grado di migliorare le capacità di processazione degli stimoli sociali nei soggetti autistici.

Il presente contributo non vuole essere una recensione critica al lavoro appena citato, ma vuole piuttosto utilizzare questo lavoro per alcune considerazioni di carattere più generale.

Evoluzione del comportamento «contatto oculare» nel corso dello sviluppo

Un aspetto che necessita di una particolare attenzione è l’evoluzione del comportamento «contatto oculare» nel corso dello sviluppo. Se è vero come è vero che il contatto oculare è particolarmente importante nelle relazioni è altrettanto vero che esso assume aspetti diversi nel percorso di crescita psicologica della persona.

Rilettura di alcuni dati inediti relativi a una ricerca originale

Ci è sembrato interessante portare un contributo al tema facendo riferimento a una serie di dati raccolti in uno studio svolto negli anni 2006-2008. Lo studio si riferisce alla valutazione di alcuni comportamenti socio-comunicativi esaminati una prima volta all’età di 9 mesi e rivisti successivamente all’età di 18 mesi, in un gruppo di 11 bambini con sviluppo «tipico». Lo scopo, infatti, era quello di valutare se e come cambiano «normalmente» nel tempo i segnalatori socio-comunicativi presi in considerazione nello studio.

La metodologia

Lo strumento utilizzato per lo studio è stato l’Early Social Communication Scale (ESCS) elaborato da Peter Mundy e Collaboratori (Mundy et al., 2003).

L’ESCS consiste in una seduta di osservazione semi-strutturata specificamente rivolta a valutare lo sviluppo socio-comunicativo in bambini di età compresa tra gli 8 e i 30 mesi. La seduta, della durata di circa 20 minuti, si basa sul proporre al bambino una serie di situazioni stimolo, scelte tra quelle che abitualmente riescono ad attirare l’attenzione di un bambino di questa età e a spingerlo a coinvolgere l’altro.

Le situazioni-stimolo sono di vario tipo, come ad esempio: il ricorso a una palla (per valutare l’iniziativa del bambino a uno scambio o la risposta del bambino quando lo scambio è proposto dall’altro); vari giochini a carica meccanica (per valutare l’interesse del bambino verso l’oggetto proposto, la presenza o meno della volontà del bambino di coinvolgere l’altro, il tipo di comportamento che adotta quando finisce la carica); produrre un evento «strano» come far emettere un suono a un palloncino facendo fuoriuscire l’aria che conteneva (per valutare la sorpresa e la curiosità del bambino nei confronti dell’evento e la curiosità nei confronti dell’altro che sta procurando l’evento); e così via. La standardizzazione della seduta non si esaurisce nella scelta dei giochi e nelle modalità di somministrazione delle situazioni-stimolo, ma investe anche la disposizione dei giochi (che devono essere a vista, ma non raggiungibili direttamente dal bambino), la collocazione della madre (che può tenere in braccio il bambino o essere seduta dietro di lui) e quella dell’esaminatore rispetto al bambino (di fronte, ma lievemente spostato di lato per permettere che una telecamera nascosta possa inquadrare direttamente il bambino).

Tutta la seduta viene video-registrata. Ciò permette di leggere e di rileggere i comportamenti socio-comunicativi messi in atto dal bambino nel corso di tutta la seduta. La codifica di tali comportamenti è pre-definita in accordo a un sistema ampiamente illustrato e manualizzato nel lavoro specifico a cui si rimanda (Mundy et al., 2003). I comportamenti che l’ESCS analizza sono molteplici.

Per le considerazioni che verranno di seguito esposte nel presente studio sono stati presi in considerazione i seguenti segnalatori:

  1. contatto oculare (CO) = numero di volte che il bambino guarda negli occhi dell’altro;
  2. iniziativa per l’attenzione congiunta (IAC) = numero di volte che il bambino mette in atto comportamenti tesi ad attirare l’attenzione dell’altro su un oggetto o un evento che lo sta interessando;
  3. associazione dei comportamenti di iniziativa per l’attenzione congiunta e contatto oculare (IAC+CO). Tale segnalatore viene espresso in termini percentuali facendo riferimento al numero di volte che i comportamenti tesi ad attirare l’attenzione dell’altro si coordinano con il contatto oculare.

All’epoca, tra le varie valutazioni fu effettuata anche quella rivolta a definire il profilo temperamentale del bambino. Il test utilizzato è stato il QUIT (Questionari italiani del temperamento). In particolare, il riferimento è alla forma per bambini compresi tra i 12 e i 36 mesi (Axia, 2002).

I genitori aderirono allo studio previo consenso informato, con cui veniva spiegato loro che non si trattava di un test, ma di una raccolta di dati utili a definire dei parametri normativi dello sviluppo socio-comunicativo.

I bambini arruolati nello studio furono sottoposti a due osservazioni: all’età di 9 mesi e all’età di 18 mesi.

I fogli di notazione attualmente riletti si riferiscono a 11 bambini con sviluppo tipico.

Risultati

L’analisi dei dati ha permesso di rilevare alcuni aspetti che offrono lo spunto per le considerazioni che verranno di seguito riportate.

  1. Il comportamento «contatto oculare» (CO) inteso come incontro degli occhi del bambino con quelli dell’altro, in termini di frequenza, intensità e durata è risultato particolarmente rappresentato nei primi mesi di vita. La sua frequenza, tuttavia, andava progressivamente riducendosi. L’indice di frequenza a 9 mesi è risultato pari a 1,6 mentre all’età di 18 mesi era pari a 1,1, con una differenza statisticamente significativa (p < 0.05). In altri termini, all’età di 18 mesi il bambino incrociava molto meno i suoi occhi con gli occhi dell’altro, rispetto all’osservazione effettuata a 9 mesi.
  2. Il comportamento «iniziativa nell’attenzione congiunta» aumentava significativamente nel corso dello sviluppo. L’indice di frequenza di tale comportamento è passato da 0,02 a 9 mesi a 0,1 a 18 mesi, con una differenza statisticamente significativa (p < 0.001).
  3. All’età di 18 mesi solo nel 18% dei casi il comportamento IAC era coordinato con il contatto oculare (IAC+CO). Nella maggioranza dei casi, pari all’82%, i bambini di 18 mesi sembravano sollecitare l’attenzione dell’altro con gesti e attivazione emotiva senza tuttavia ricorrere a un concomitante sguardo alternato (spostamento dello sguardo dall’oggetto o evento interessante all’altro e quindi ritorno a riposizionare lo sguardo sull’oggetto o evento interessante).
  4. Il comportamento «contatto oculare» a 18 mesi presentava una correlazione significativa di segno negativo con la dimensione «Attività motoria» del QUIT. Maggiore era il livello di attività motoria minore era l’indice di frequenza del contatto oculare.

Considerazioni conlusive

I dati appena accennati non sono certo sorprendenti. Essi, infatti, sono in linea con quanto comunemente riportato nella letteratura internazionale sull’argomento.

Il bambino nasce con una serie di dispositivi innati che gli permettono da subito di entrare in una relazione molto intima con il caregiver. Tra tali dispositivi c’è sicuramente il comportamento «contatto oculare». In particolare, nei primi mesi di vita è costante e per molti aspetti «monotono» l’incontro di due paia di occhi: quelli del lattante e quelli della madre (Trevarthen e Aitken, 2001). Ciò sicuramente permette al lattante di acquisire dati sulla realtà sociale, ma risulta oltremodo importante per stimolare il comportamento adottivo del caregiver attraverso l’attivazione di quel cervello genitoriale attualmente ben documentato mediante studi con neuroimmagini (Parsons et al., 2013). Il comportamento «contatto oculare» insieme alle connotazioni sonoro-melodiche del pianto e alle caratteristiche del volto del lattante (il prototipo infantile) attiva nel caregiver un network che vede coinvolti il giro fusiforme, l’amigdala e la corteccia orbito-frontale: è il cervello genitoriale. In questa prospettiva il contatto oculare è una componente oltremodo importante per la creazione di quel rapporto così intimo descritto molto bene dagli Autori di formazione psicodinamica. A partire dai 9 mesi di vita il bambino entra in una nuova fase del suo sviluppo: è la rivoluzione socio-cognitiva descritta da Tomasello e supportata da tanti altri studi con riferimenti teorici differenti (Tomasello, 1999). Il bambino comincia a essere meno interessato al caregiver e nel contempo sembra mostrare un maggiore interesse per l’ambiente degli oggetti e degli eventi. Il rapporto con il caregiver è meno «totalizzante» in relazione alla pressione di istanze prepotenti che spingono il bambino a capire e a conoscere ciò che succede intorno a lui. Si tratta di una rivoluzione facilitata anche da un potenziamento del senso di «essere agente» che gli deriva dalle nuove capacità motorie emergenti: la prensione, la manipolazione, le reazioni di equilibrio e le forme di locomozione intenzionale. Il bambino è sempre interessato all’altro, ma non solo come «presenza», bensì come agente mentale. Compare nel bambino la capacità di «differenziare le menti»: la sua nei confronti di quella dell’altro. Ciò rappresenta l’anticamera per capire che cosa l’altro sta facendo e con quale scopo (Fonagy, Gergely, Jurist e Target, 2005). Il bambino a partire dai 12-14 mesi è sempre più uno «scienziato» che cerca di capire e sistematizzare eventi fisici, meccanici e sociali. In questo procedere serrato verso la conquista del mondo il bambino spesso non ha il tempo di perdersi nella contemplazione dell’altro fissandolo negli occhi. Il bambino è entusiasta delle sue scoperte, gli fa piacere rendere partecipe l’altro, ma non vuole perdere tempo per accertarsi se l’altro sta aderendo o meno al suo invito. La prospettiva è molto egocentrica, tant’è che l’altro svolge molto spesso un ruolo strumentale: il bambino non impara dall’altro, ma attraverso l’altro. Si tratta di una prospettiva che non si limita al semplice uso strumentale dell’altro, ma che si estende all’imitazione delle azioni dell’altro di cui comincia a comprendere gli scopi.

In questo periodo dello sviluppo il comportamento «contatto oculare» tende a ricomparire in maniera prepotente quando situazioni di disagio, di paura o di affaticamento spingono il bambino a un sano «ritorno alla base».

Una volta avvenuta la «separazione» – per dirla nei termini della Mahler – non solo fisica ma anche mentale del bambino dalla madre, comincia a diventare pertinente la domanda: «Ma il bambino che cosa sente quando si rende conto di avere lo sguardo dell’altro su di sé?». Ciò dipende in larga misura dagli stati emotivi che il bambino ha imparato ad associare al comportamento «contatto oculare» messo in atto dall’altro. Ciò che va, tuttavia, sottolineato è il fatto che il bambino-scienziato che sta costruendo nella sua mente la realtà sociale attribuisce un significato emozionale non tanto a un singolo comportamento, ma a una configurazione complessa nel cui ambito vanno a inscriversi più «comportamenti»: in aggiunta, cioè, allo sguardo dell’altro ci sono la sua mimica, l’intonazione della voce, la modulazione prosodica, la postura e così via. Viene quindi a definirsi una configurazione percettiva complessa che attiva uno stato della mente codificato in un network funzionale, in cui la componente emozionale ne attribuisce il significato (Siegel, 2001). Nella costruzione della realtà relazionale e sociale il comportamento «contatto oculare» non è analizzato in quanto tale, ma come elemento costitutivo di situazioni che possono essere gradevoli o sgradevoli. Basti pensare che il comportamento «contatto oculare» dell’altro si associa a enunciati verbali del tipo: «(io ti sto guardando e vorrei che tu mi guardassi in quanto voglio dirti) non mi piace quello che hai fatto!»; «(io ti sto guardando e vorrei che tu mi guardassi in quanto voglio dirti) sono contento che tu ti sia comportato bene!»; «(io ti sto guardando e vorrei che tu mi guardassi in quanto voglio dirti) bravo, sei stato gentile con la nonna!»; «(io ti sto guardando e vorrei che tu mi guardassi in quanto voglio dirti) non voglio che tu butti per aria le cose»; e così via. In questa prospettiva il comportamento «contatto oculare» dell’altro può far presagire una situazione gradevole o sgradevole, nei cui confronti il soggetto può reagire a seconda dei casi, ricambiando lo sguardo, evitando lo sguardo, fuggendo dalla situazione, piangendo, saltando e ridendo, e così via. Ciò che va puntualizzato è che la «gradevolezza» o la «sgradevolezza» della situazione non è oggettiva, ma è sempre soggettiva in quanto dipendente dal modo in cui il soggetto la percepisce in rapporto al suo percorso emozionale e relazionale e a caratteristiche «costituzionali» del suo modo di essere e di interagire.

Diventa in questo modo emblematico il comportamento «contatto oculare» nei soggetti con disturbo dello spettro autistico.

Nel corso del primo anno di vita il bambino che svilupperà un disturbo dello spettro autistico usa normalmente il comportamento «contatto oculare» in quanto esso rappresenta un dispositivo innato consolidato nel corso dell’evoluzione per i vantaggi adattivi che comporta (Hazlett e IBIS Network, 2017). È solo a partire dai 14-18 mesi che comincia a rendersi evidente un profilo comportamentale «patognomonico», rappresentato da mancata risposta al nome, evitamento dello sguardo, scarsa attenzione agli stimoli sociali, netta preferenza per gli stimoli non sociali a cui il bambino si dedica con un interesse assorbente. Si tratta di un profilo comportamentale che ha da sempre portato a enfatizzare la componente «relazionale» del disturbo quale sintomo di un complesso sindromico descrivibile in termini categoriali. A fronte di un modo di vedere l’autismo come una «malattia», attualmente viene sempre più enfatizzata la prospettiva secondo cui l’autismo dovrebbe essere considerato come una neurodiversità (Baron-Cohen, 2017). Si tratta di una neurodiversità che si organizza durante il neurosviluppo quale espressione di una traiettoria neuroevolutiva atipica e che nel corso del tempo va a configurare la «condizione autistica» intesa come quella di una persona che ha un suo modo di essere, di percepire la realtà, di organizzare le sue attività. Pertanto, il soggetto con una condizione autistica non ha un «disturbo» che riguarda specificamente il contatto oculare: il suo «disturbo» è il disagio che gli deriva dal confronto con una realtà sociale che non riesce adeguatamente a comprendere, di cui non riesce a inferire le regole che la governano e che sovraccarica di stimoli i suoi sistemi di regolazione.

Ritornando al lavoro di Hadjikhani e Collaboratori non è certo un farmaco che aumenta la frequenza e la durata del contatto oculare che può essere considerato in grado di curare l’autismo (Hadjikhani et al., 2018). Ma come già segnalato all’inizio, il presente contributo non vuole porsi come una recensione critica del suddetto articolo. Il riferimento a questo lavoro è legato semplicemente al fatto che esso offre lo spunto per alcune considerazioni critiche nei riguardi di approcci educativo-abilitativi che si preoccupano di più della cura di un determinato comportamento piuttosto che della crescita psicologica della persona con una condizione autistica. Ciò diventa particolarmente grave nell’approccio terapeutico ai bambini nella fascia di età compresa tra i 2 e i 5 anni. Purtroppo riecheggia molto frequentemente nelle «sale di riabilitazione» dei bambini in età prescolare un’esortazione proferita con toni perentori: «LOOK AT ME!». «Guardami» è il comando abituale teso a far venir fuori il comportamento «contatto oculare» considerato come condizione necessaria e indispensabile per avviare una relazione. Molto spesso diventa «secondario» il motivo per il quale il bambino si sottrae al contatto oculare. Quale che sia la condizione di fondo, vale a dire uno stato di forte ansia, un vissuto depressivo, un disturbo reattivo dell’attaccamento o una condizione autistica, la preoccupazione primaria del terapista che prende in carico il bambino è quella di «catturare» il suo sguardo.

Per contro, quello che va sostenuto con forza è che agganciare un bambino, soprattutto nelle prime fasi del percorso terapeutico, passa attraverso un cercare di «sentire» quello che verosimilmente lui sente, proponendosi come presenza discreta, ma attenta. Il comportamento di «esserci» ma «senza invadere» è sicuramente molto difficile: si configura come un’arte che rappresenta un momento essenziale nel percorso formativo del terapista della neuropsicomotricità (Bonifacio, Gison e Minghelli, 2012). «Esserci» ma «senza invadere» è la sola strategia che nella fase iniziale del percorso terapeutico permette al bambino di «sentire» che c’è un altro che cerca realmente di sentire quello che lui sente.

In questa prospettiva l’«intersoggettività» viene a realizzarsi attraverso una situazione di sintonizzazione empatica che investe molteplici «canali», noti e meno noti, tra i quali va incluso anche il «contatto oculare».

Abstract

The importance of «eye contact» in interpersonal relationships is widely reconized in the literature. Frequently the terms «eye contact», «gaze», and «relationship» are used interchangeably, although they often refer to different concepts. An aspect that needs special attention is the evolution of the «eye contact» behavior during development. Eye contact is particularly important in relationships, but it takes on different aspects during development. In the newborn there are a series of innate devices that immediately allow him to enter into a very intimate relationship with the caregiver. Among these devices there is certainly the «eye contact» behavior. Progressively, the value that «eye contact» has on the child largely depends on the emotional states that it has learned to associate with such behavior. What needs to be considered is that the child who is building social reality in his mind attributes emotional significance not so much to a single behavior, but to a complex configuration in which more «behaviors» are involved: gaze, mimicry, intonation of the voice, prosodic modulation, posture and so on. These aspects must be borne in mind when we try to build a therapeutic relationship with a child between 2 to 5 years old.

Keywords

Eye contact, attachment, joint attention, intersubjectivity, ESCS.

Bibliografia

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