Il TNPEE

© 2020 Erickson

Vol. 2, n. 1, maggio 2020

(pp. 39-51)

Una TNPEE sulle Ande

10 anni di collaborazione con la Casa Madre Teresa (Encañada, Cajamarca, Perù)

Valentina Poli TNPEE, Azienda Provinciale per i Servizi Sanitari UO Neuropsichiatria Infantile Territoriale, Trento

Sommario

Il presente lavoro racconta l’esperienza di una Terapista della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva e alcuni casi clinici, in un percorso decennale di scambio con la Casa Madre Teresa (Encañada, Cajamarca, Perù). In particolare l’esperienza ha previsto momenti di formazione teorico-pratici sulla valutazione funzionale secondo i criteri ICF-CY (OMS, 2007), attività di «educazione al disabile» come definito nel Manifesto per la Riabilitazione del bambino (GIPCI, 2000) e un costante intervento sui fattori ambientali che da barriera gradualmente sono diventati facilitatori favorendo la partecipazione e l’integrazione degli ospiti della Casa.

Parole chiave

ICF-CY, Riabilitazione dell’età evolutiva, Fattori ambientali, Partecipazione, Perù.

INTRODUZIONE

In una realtà dove i servizi per la salute mentale non esistono, dove bambini e ragazzi con disabilità fisica e/o psichica vengono spesso abbandonati dalle famiglie ed emarginati dalla società, nel 2008 è nata la Casa Madre Teresa, distretto di Encañada, provincia di Cajamarca, Perù. Nella Casa vengono accolti, come in una grande famiglia, bambini e ragazzi con disabilità fisica, disturbi del neurosviluppo e problemi psichiatrici. Sono entrata in contatto con questa realtà nel 2010 grazie alla conoscenza diretta con la fondatrice, l’infermiera Daniela Salvaterra. Parlando con Daniela è emerso come la vocazione iniziale della Casa di assistenza ai malati terminali si sia rapidamente dovuta riadattare ad accogliere bambini e ragazzi con tutt’altra tipologia di bisogni.

Una criticità rilevata fin da subito è stata la scarsa preparazione del personale locale ad affrontare le esigenze di questi ragazzi e a offrire loro il miglior supporto possibile, fornendo non soltanto assistenza ma percorsi educativi/abilitativi volti a favorire per ciascun ospite il miglior livello di autonomia possibile.

Mi sono da subito interrogata su come la professionalità di TNPEE potesse venire in aiuto di questa realtà apparentemente lontana dalla nostra pratica quotidiana nelle «stanze di terapia», ma anche bisognosa di quei concetti che guidano «l’agire neuropsicomotorio», e che se trasferiti in setting anche diversi da quello strettamente neuropsicomotorio possono ristrutturarli secondo nuove prospettive e orizzonti. Il percorso di collaborazione e crescita reciproca che ne è scaturito non è stato concepito sulla carta ma si è sviluppato via via con il tempo, adattandosi alle esigenze della Casa, dei suoi ospiti e del contesto sociale di riferimento. È stato guidato dall’obiettivo generale di rendere il personale locale consapevole di come ogni bambino/ragazzo abbia, nonostante la patologia, punti di forza che possono diventare risorsa per sé e per la comunità. Per ragioni personali e lavorative la mia disponibilità a effettuare soggiorni in Perù è stata limitata ad alcuni periodi di ferie, pertanto il progetto si è articolato in attività dirette dove sono stati svolti momenti di formazione teorico-pratica al personale locale sulle specificità dell’intervento riabilitativo in età evolutiva, sull’assessment funzionale e i relativi strumenti, sulla definizione e la realizzazione di obiettivi, e attività indirette a distanza di monitoraggio e supervisione del lavoro svolto.

CORNICE TEORICA DI RIFERIMENTO

Il principale riferimento in questo lavoro è stato il «modello biopsicosociale» come proposto dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute (ICF) (OMS, 2001). L’ICF propone una sintesi tra il «modello medico», che vede la disabilità come un problema della persona causato direttamente da malattie traumi, e il «modello sociale», che vede la disabilità come un problema creato dalla società fornendo una prospettiva coerente delle diverse dimensioni della salute a livello biologico, individuale e sociale.

La Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Disabilità e della Salute, Versione per Bambini e Adolescenti (ICF-CY) è stata sviluppata allo scopo di cogliere e descrivere l’universo del funzionamento dei bambini e degli adolescenti (OMS, 2007).

I domini dell’ ICF e ICF-CY sono definiti da due «termini ombrello»: funzionamento, all’interno del quale vengono comprese tutte le funzioni corporee, le attività e la partecipazione; disabilità, all’interno del quale sono comprese le menomazioni, le limitazioni dell’attività e le restrizioni della partecipazione; l’ ICF-CY prende inoltre in considerazioni i fattori ambientali che si riferiscono a tutti gli aspetti del mondo esterno che formano il contesto di vita di un individuo e impattano sul funzionamento della persona. I fattori ambientali, classificati in facilitatori e barriere, comprendono l’ambiente fisico, le altre persone in diverse relazioni e ruoli, atteggiamenti e valori, sistemi sociali e servizi, politiche, regole, leggi. I facilitatori sono quei fattori ambientali che, mediante la loro assenza o presenza, migliorano il funzionamento e riducono la disabilità. Le barriere sono quei fattori ambientali che mediante la loro assenza o presenza limitano il funzionamento e creano disabilità.

Nelle applicazioni cliniche, le categorie dell’ICF-CY possono fornire un riassunto dei risultati dell’assessment e servire come base per la pianificazione degli interventi.

Altri importanti riferimenti di questo lavoro sono stati alcuni principi chiave definiti nel Manifesto per la Riabilitazione del Bambino (GIPCI, 2000). In particolare la riabilitazione è definita come un processo complesso che si pone l’obiettivo ambizioso di realizzare le massime potenzialità del bambino, intese non soltanto come recupero funzionale ma soprattutto come miglioramento della partecipazione alla vita reale. La riabilitazione si compone di interventi integrati di rieducazione, educazione e assistenza. La rieducazione è competenza del personale sanitario e ha per obiettivo lo sviluppo e il miglioramento delle funzioni adattive; deve necessariamente concludersi quando per un tempo ragionevole non si verifichino cambiamenti significativi né nello sviluppo né nell’utilizzo delle funzioni adattive. L’educazione è competenza della famiglia, del personale sanitario e dei professionisti del settore e ha per obiettivo sia la preparazione del bambino a esercitare il proprio ruolo sociale (educare la persona con disabilità) sia la formazione della comunità, a cominciare dalla scuola, ad accoglierlo e integrarlo (educare alla persona con disabilità), per aumentarne le risorse e accrescere l’efficacia del trattamento rieducativo. L’assistenza ha per obiettivo il benessere del bambino e della sua famiglia ed è competenza del personale sanitario e degli operatori del sociale. Essa deve accompagnare senza soluzioni di continuità il bambino e la sua famiglia sin dalla diagnosi di disabilità (GIPCI, 2000).

Le specificità e le criticità proprie della riabilitazione in età evolutiva stanno tutte nelle caratteristiche tipiche di questa fase della vita. In età evolutiva il sistema nervoso è in pieno sviluppo e maturazione e le affezioni che lo interessano assumono un’espressività clinica polimorfa, investendo abitualmente sia il versante delle funzioni neurologiche sia quello delle funzioni neuropsicologiche e psichiatriche, e comportano un forte impatto socio-relazionale. Ne deriva che la riabilitazione in questa fase della vita raramente deve far fronte a deficit prestazionali settoriali; ma più spesso i deficit riguardano più dimensioni.

Il «modello Biopsicosociale» (OMS, 2001) e i principi definiti dal Manifesto per la Riabilitazione del Bambino (GIPCI, 2000) sono stati integrati con uno dei principi propri dell’intervento neuropsicomotorio, in particolare la non identificazione del deficit con la difficoltà. In campo neuropsicomotorio il deficit è visto come una limitazione specifica derivante dalla patologia, mentre la difficoltà è il risultato delle interpretazioni che il bambino e gli altri hanno dato del deficit nel corso della sua storia. Quindi il deficit è un dato individuale e oggettivo, mentre la difficoltà riguarda la relazione del bambino con il mondo (Berti, Comunello e Savini 2001). Secondo quest’ottica è possibile identificare in ogni singolo caso ciò che il bambino non può fare a causa della sua patologia e ciò che il bambino non sa o non può o crede di non saper e non poter fare a causa della sua difficoltà (Berti, Comunello e Savini, 2001); ciò permette di identificare poi una serie di facilitatori e strategie utili al bambino per superare la difficoltà realizzando un miglior adattamento all’ambiente e maggiori autonomie.

L’ESPERIENZA PRATICA

Primo viaggio in Perù

All’epoca del mio primo viaggio nel giugno 2010, a circa due anni dalla sua fondazione, la casa aveva 25 ospiti: la maggioranza erano bambini, alcuni orfani, di cui una metà affetti da paralisi cerebrale infantile, disabilità intellettiva, disturbo dello spettro autistico e una piccola percentuale erano adulti con disabilità fisica acquisita o disturbi psichiatrici. I bambini/ragazzi con disabilità più gravi sia a livello motorio, sensoriale sia delle funzioni corporee di base come alimentazione, respirazione erano assistiti da alcuni operatori e genitori dedicati alla cura dell’igiene, dell’alimentazione e dei bisogni sanitari. I bambini/ragazzi con lievi e medie difficoltà nell’area della mobilità frequentavano una classe di «educazione speciale» collocata presso l’Asilo Parrocchiale del paese. I componenti di questo gruppo avevano dai 4 ai 14 anni, con quadri clinici e funzionali estremamente variabili. Le insegnanti li avevano divisi sommariamente in due sottogruppi in base alla presenza o meno del linguaggio. Le attività proposte erano poco individualizzate e l’integrazione con i bambini che frequentavano l’asilo molto difficile.

In questa prima fase il mio lavoro si è rivolto agli utenti in età evolutiva ed è stato soprattutto di osservazione. Il focus dell’osservazione si è concentrato sia sui singoli sia sull’ambiente per capire come quest’ultimo potesse risultare un facilitatore o una barriera all’espressione delle abilità e potenzialità di ognuno. Dal confronto con Daniela è emerso come entrambe ritenevamo importante rendere gli ospiti della Casa il più autosufficienti possibile, nonostante le importanti disabilità che si manifestavano, sia nelle autonomie personali sia nelle abilità domestiche e sociali.

Al rientro in Italia ho continuato a mantenere, nonostante la scarsità di strumenti per la comunicazione telefonica e internet, i contatti con la realtà conosciuta. Ho iniziato ad approfondire la letteratura e a confrontarmi con altri professionisti, TNPEE e non, che in Italia si occupano di tali problematiche per cercare di capire quali strumenti già in uso nella pratica clinica potessero essere riadattati alle esigenze della realtà conosciuta oltre oceano. Da questa analisi è emerso come l’ICF-CY potesse costituire un valido modello di riferimento sia teorico sia operativo. Altro importante lavoro è stato quello di individuare alcuni strumenti di valutazione utili a definire il funzionamento nei vari domini dell’ICF-CY e che potessero essere usati dal personale locale. Da un’analisi della letteratura (Ianes, 2004) e dell’esperienza clinica si è ritenuto opportuno utilizzare come strumenti di assessment: BAB (Kiernan e Jones, 1994), LAP (Sanford e Zelman, 2002), SON (Gison, Bonifacio e Minghelli, 2012), PEP-R (Shopler et Al., 1995).

Secondo viaggio in Perù

Nell’agosto 2014 ho effettuato un secondo viaggio nella Casa Madre Teresa. Dopo circa 4 anni la casa era cambiata e aveva raggiunto circa 50 ospiti, con diversi nuovi bambini e ragazzi anche loro con deficit più o meno severi. Il personale di supporto era composto da operatrici e familiari impegnati nei compiti di assistenza e igiene, e una mini équipe psico-educativa formata da una psicologa e due insegnanti. Per quanto riguarda l’organizzazione e la gestione, Daniela aveva deciso di rivedere la collaborazione con l’asilo parrocchiale. Lo scopo che sottostava all’idea di inserire i bambini/ragazzi nella «classe speciale» era quello di favorire l’integrazione con il contesto di pari, ma nonostante i buoni propositi la realizzazione non aveva raggiunto i risultati sperati. Pertanto la domanda che aveva motivato questo secondo viaggio era proprio quella di effettuare una valutazione individualizzata di ognuno per elaborare un piano di intervento personalizzato e riorganizzare i servizi socio-educativi offerti.

Nel tempo a disposizione abbiamo realizzato un percorso formativo strutturato in due momenti. Il primo di didattica frontale (8 ore), tenuto dalla TNPEE, nel quale sono stati trattati i riferimenti teorici alla base del presente lavoro come le caratteristiche dell’intervento riabilitativo e le sue specificità in età evolutiva come definito dal Manifesto per la Riabilitazione del Bambino (GIPCI, 2000); il modello biopsicosociale come riferimento per la presa in carico riabilitativa di persone con bisogni educativi speciali e complessi (OMS, 2001); la differenza tra definizione del deficit e della difficoltà (Berti, Comunello e Savini, 2001); la struttura e l’organizzazione dell’ICF (OMS, 2001) e i classificatori come definito nell’ICF-CY (OMS, 2007), e una breve introduzione agli strumenti di valutazione a disposizione. Il secondo momento è stato di didattica tutoriale, rivolta prevalentemente alla psicologa, in cui ci siamo occupate della valutazione individualizzata e della definizione del progetto riabilitativo per ciascun bambino ospite della casa. In pratica le valutazioni sono state svolte prima dalla TNPEE poi, a mano a mano che la psicologa ha acquisito maggiore dimestichezza con gli strumenti, ha iniziato a somministrate lei i test con la supervisione della TNPEE. Altra fondamentale parte del mio lavoro è stata quella inizialmente di guidare e poi supervisionare la psicologa nella definizione dello strumento di assessment più idoneo alla valutazione di ciascun bambino. Nello specifico abbiamo utilizzato la scheda SON (Gison, Bonifacio e Minghelli, 2012) per i bambini più piccoli in cui era difficile proporre una valutazione strutturata; il PEP-R (Shopler et al., 1995) per i casi di disturbo dello spettro autistico con o senza disabilità cognitiva; BAB (Kiernan e Jones, 1994) e LAP (Sanford e Zelman, 2002) per i casi di disabilità cognitiva medio-grave. Abbiamo valutato con questi strumenti prevalentemente i domini ICF-CY di: funzioni corporee (per i sotto domini: funzioni mentali, sensoriale) e attività e partecipazione (per i sotto domini: apprendimento e applicazione delle conoscenze, compiti e richieste generali, comunicazione, mobilità); le abilità della vita quotidiana sono state osservate nelle routine quotidiane e valutate facendo riferimento direttamente ai domini dell’ICF-CY quali cura della persona (si veda il capitolo 5), vita domestica (si veda il capitolo 6) e interazioni e relazioni interpersonali (si veda il capitolo 7) appartenenti alla componente Attività e Partecipazione. Infine con i dati raccolti è stato stilato per ciascun utente un profilo di sviluppo individualizzato che riportava i livelli di funzionamento in entrambi i domini ICF-CY: funzioni corporee (per i sottodomini: funzioni mentali, sensoriale) e attività e partecipazione (per i sottodomini: apprendimento e applicazione delle conoscenze, compiti e richieste generali, comunicazione, mobilità, cura della persona, vita domestica, interazioni e relazioni interpersonali), definendo per ciascuno i livelli funzionamento/attività e partecipazione raggiunti ed emergenti; intendendo per emergenti quelle abilità che il bambino riesce a esprimere solo in presenza di facilitazioni proposte dal terapista/operatore. Per ciascuna abilità emergente sono state descritte quelle strategie che, se messe in campo dall’operatore, potevano fungere da facilitatori o permettere di superare le barriere per la realizzazione dell’attività stessa. Tali fattori riguardavano sia caratteristiche ambientali (ad esempio: ambiente troppo illuminato, o rumoroso, fornire supporti visivi) sia atteggiamenti di singoli individui o della comunità (ad esempio: lasciare al bambino il tempo per esprimersi, proporre la scelta). Dopo questa fase di valutazione, dal confronto con Daniela, la psicologa e le due insegnanti si è deciso di organizzare i servizi educativi della casa secondo tre tipologie di «laboratori» a cui afferivano bambini/ragazzi con gruppi omogenei di abilità. Il primo gruppo era costituito da utenti con gravi deficit delle funzioni mentali e importanti disabilità motorie-sensoriali, degli apprendimenti, della comunicazione-interazione con conseguenti notevoli difficoltà nelle attività e nella partecipazione. Dalla valutazione era emerso come questi bambini fossero poco stimolati, trascorressero molto tempo nelle loro camere con scarsa consapevolezza e partecipazione attiva anche alle più semplici routine quotidiane. In questo gruppo sono state proposte attività volte a favorire una maggiore attivazione dell’arousal, attraverso attività di stimolazione sensoriale e stimolazione basale (Fröhlich, 2007). È stato proposto inoltre un lavoro per supportare la partecipazione e la comunicazione dei cosiddetti «comunicatori iniziali» (Beukelman e Mirenda, 2014) attraverso una definizione e differenziazione delle routine quotidiane della casa, con la creazione di momenti stabili e modalità di accudimento anticipate da segnalatori costanti (ad esempio: canzoncina del pranzo). Allo scopo di ridurre le barriere comunicative e favorire la creazione di momenti di partecipazione, sono state stimolate sia l’insegnante di questo gruppo sia le operatrici che si occupavano dell’assistenza a prendere maggiore consapevolezza dei minimi segnali comunicativi e ad attribuire a essi un senso e un’attenzione particolare in relazione alle possibili intenzioni del singolo bambino.

Il secondo gruppo era costituito da bambini con moderati deficit delle funzioni mentali e nei quali, nonostante le lievi disabilità motorie-sensoriali, si erano rilevate discrete difficoltà negli apprendimenti e nella comunicazione-interazione, con conseguenti significative limitazioni nelle attività e nella partecipazione. Dalla valutazione era emerso come questi bambini mostrassero moltissime abilità emergenti in tutti i domini funzionali e in particolare nell’apprendimento e nell’applicazione delle conoscenze, nei compiti e nelle richieste generali, nella comunicazione, nella mobilità, nella cura della persona, nella vita domestica, e nelle interazioni e relazioni interpersonali. Abbiamo ipotizzato che con idonei interventi individualizzati tali abilità emergenti potessero essere acquisite e facilmente generalizzate. Una parte importante del lavoro è stata quella di aiutare l’insegnante a comprendere come ciascun bambino avesse un proprio profilo di funzionamento con ben specifiche abilità acquisite ed emergenti, e come la loro acquisizione e la generalizzazione dovessero passare per un iniziale momento di «insegnamento individualizzato» e un successivo rapido trasferimento della competenza nel contesto della vita quotidiana. Usando la terminologia ICF in questo gruppo il primo lavoro è stato quello di «eliminazione di barriere mentali» degli operatori. Poi si è passati a un rapidissimo momento di tutoraggio della TNPEE all’insegnante per aiutarla a realizzare materiali e attività utili al raggiungimento degli obiettivi specifici individuati.

Il terzo gruppo era costituito da ragazzi con moderati deficit delle funzioni mentali, lievi disabilità motorie-sensoriali, modeste difficoltà degli apprendimenti e della comunicazione-interazione con conseguenti discrete limitazioni nelle attività e nella partecipazione. Dalla valutazione era emerso come anche loro mostrassero moltissime abilità emergenti in tutti i domini funzionali e in particolare nella cura della persona, nella vita domestica, nelle interazioni e relazioni interpersonali, aree di vita principali e di vita di comunità, e che con idonei interventi individualizzati tali abilità emergenti potessero essere acquisite, facilmente generalizzate e successivamente messe al servizio della gestione della casa e dei loro compagni con maggiori difficoltà. Con l’équipe abbiamo condiviso l’idea, che allora ci sembrava un po’ utopica, di creare dei laboratori occupazionali in cui i ragazzi più abili potessero imparare alcune delle attività manuali tipiche della cultura peruviana come cucire, lavorare a maglia o tessere con il telaio, realizzare piccoli lavori di falegnameria, curare un orto e degli animali da cortile e i loro prodotti potessero essere poi venduti in qualche mercatino in Perù o in Italia per autofinanziare la casa.

A questo punto le ferie a mia disposizione erano terminate e sono dovuta tornare in Italia, ma la «mini équipe psico-educativa transoceanica» ha continuato a lavorare, grazie ai contatti diventati più facili e costanti per l’avvento dei social. In particolare tramite l’invio di video è stato possibile supervisionare a distanza il lavoro svolto dalla psicologa e dalle insegnanti. Nel frattempo, grazie a un progetto finanziato dalla Regione Trentino Alto-Adige e Provincia Autonoma di Trento, è stato possibile costruire i laboratori occupazionali, assumere alcune insegnanti e educatrici a essi dedicati e finanziare un breve periodo di formazione sul campo in Italia della psicologa e di un’educatrice. Inoltre visto l’aumento costante delle richieste di accoglienza, provenienti da tutto il territorio peruviano, si è deciso di costruire una seconda struttura «gemella» a pochi chilometri di distanza, la casa «San Giuseppe Cottolengo».

Terzo viaggio in Perù

Nel 2018 ho avuto la possibilità di tornare per la terza volta in Perù. Scopo del viaggio era quello di monitorare l’andamento del lavoro e affrontare alcune criticità emerse. In particolare l’apertura dei laboratori, della nuova casa e l’assunzione di nuovo personale rendevano necessario un nuovo momento formativo. Arrivata là mi sono resa conto che la realtà era molto cambiata; gli utenti erano quasi 100, i bambini conosciuti otto anni prima erano diventati ragazzi, tra i nuovi ospiti un gruppo consistente era rappresentato da bambini in età prescolare con disturbo dello spettro autistico e poi un neonato pre-termine di pochi mesi e una bimba con Sindrome di Down di due anni. Oltre al significativo ampliamento della struttura quello che ho potuto apprezzare fin da subito è stato un vero e proprio cambio organizzativo, alcuni ospiti aiutavano sette giorni su sette nella gestione delle faccende domestiche, si occupavano di pulire i dormitori e il refettorio, partecipare alla preparazione dei pasti, lavare i piatti, andare a comprare il pane, imboccare e cambiare i compagni non autosufficienti, curare l’orto, ed è stato bellissimo vederli mimetizzati molto bene tra le operatrici addette all’assistenza. Ogni ospite si dava da fare per aiutare per quanto era nelle sue possibilità. Era stato attivato un percorso di integrazione scolastica efficace: tre bambini frequentavano l’asilo parrocchiale e cinque la scuola elementare con l’ausilio di operatori di supporto dedicati. La normativa peruviana prevede l’integrazione scolastica per i bambini disabili; gli operatori di supporto a tale utenza non vengono forniti dallo Stato, ma devono essere assunti e pagati dalle famiglie. Nel nostro caso i bambini inseriti erano tutti minori abbandonati dalle famiglie quindi gli operatori erano stati scelti tra il personale della Casa. Ho potuto osservare, con molto piacere, come tutto il personale — non solo le insegnanti ufficiali, ma anche le operatrici, le lavandaie, le cuoche ecc. — si impegnasse quotidianamente nell’attività di abilitazione e educazione dei bambini e dei ragazzi. Con Daniela abbiamo quindi pensato di aprire il momento formativo anche a tutte loro e alle insegnanti della scuola pubblica che stavano accogliendo in classe gli utenti della casa ed erano poco formate alle tematiche dell’educazione speciale. Questa scelta è stata guidata dal fatto che, per migliorare la partecipazione, non è importante lavorare solo sull’implementazione della abilità ma anche sulla creazione di un ambiente che funga da facilitatore e non da barriera. Se l’obiettivo è «imparare a fare una lavatrice», chi meglio potrà insegnarlo se non una lavandaia sensibile e formata a trasmettere le sue competenze anche a una persona con disabilità? Per questo è stato organizzato un momento formativo (12 ore in totale) tenuto dalla TNPEE articolato in due macro momenti. Nel primo, con linguaggio il più possibile semplice ed esempi concreti tratti dall’esperienza clinica sia in Italia sia in Perù, sono stati affrontati i principi base dell’intervento riabilitativo e le sue specificità in età evolutiva. Il secondo momento si è svolto con la modalità della discussione di un caso clinico: alcuni operatori o gruppi di operatori presentavano una loro esperienza che poi veniva analizzata e rielaborata dal gruppo con la supervisione delle TNPEE; in questa fase gli argomenti trattati sono stati molto semplici come ad esempio lo svezzamento dal pannolino, la gestione dei comportamenti problema, la strutturazione dell’ambiente per favorire le autonomie e la comunicazione. Questa modalità di lavoro ha aiutato le operatrici a scorgere come all’attività quotidiana possano sottendere anche obiettivi riabilitativi, che non spetta a loro definire ma che loro possono contribuire a realizzare.

ALCUNE STORIE

E. ha la Sindrome di Down, l’ho conosciuta nel 2010, aveva 8 anni, viveva nella casa da qualche mese. I genitori vivevano nella provincia ed erano contadini, era stata affidata alla casa in quanto i genitori dovendo lavorare non riuscivano a occuparsi di lei. Data la relativa vicinanza i genitori venivano spesso a trovarla la domenica o nelle festività. E. era una bambina molto attenta all’ambiente circostante, partecipava alle varie proposte ma necessitava di costante sostegno e incoraggiamento e manifestava scarsa tolleranza alla frustrazione e atteggiamenti oppositivi. Discreta la comprensione dei messaggi contestuali, a livello verbale produceva alcune gergolalie caratteristiche a cui nel tempo era stato attribuito un significato comunicativo preciso. Frequentava la classe speciale dell’asilo dove le venivano proposte attività di coloritura che, se adeguatamente motivata, eseguiva con molta precisione.

Nel 2014 (12 anni) dal profilo di funzionamento emergevano difficoltà a focalizzare l’attenzione, buona abilità di imparare attraverso semplici azioni con un oggetto o che mettano in relazione due o più oggetti. Emergenti le abilità di acquisire concetti sia di base sia complessi e abilità semplici e complesse, gravi le difficoltà nell’imparare a leggere, scrivere e calcolare. E. mostrava buone abilità nell’eseguire la routine quotidiana, interessata ma non ancora autonoma nell’intraprendere compiti singoli o articolati. La gestione del comportamento, in particolare di fronte alla frustrazione per un compito difficile o poco comprensibile, era ancora per lei difficile, con l’espressione di comportamenti di rifiuto e provocazione. A livello comunicativo E. comprendeva messaggi verbali semplici e complessi se riferiti alla sua esperienza diretta, comunicava utilizzando una gestualità molto ampia e articolata, alcune parole singole e una gergolalia a cui era stato attribuito un significato preciso. Buone tutte le abilità proprie dell’area motricità. Molto autonoma nella cura della propria persona, necessitava solo di un minimo supporto nell’indossare le calzature che spesso metteva invertendo la destra e la sinistra. Era molto interessata ai compiti casalinghi e ad assistere gli altri, ma in queste attività necessitava di costante supporto e supervisione da parte di un adulto. Buone le interazioni personali generali. Per lei è stato pensato un percorso che la aiutasse a migliorare nelle abilità domestiche e di assistenza degli ospiti. Nel 2018 la mamma era venuta a trovarla dopo la morte del padre e avendo visto come E. era diventata autonoma e capace ha deciso di riprenderla con sé e di insegnarle anche il lavoro nei campi.

C. è un ragazzo con disturbo dello spettro autistico orfano, ha vissuto per un tempo non ben definito per strada, è stato accolto nella casa all’età di 10 anni. Io l’ho conosciuto nel 2014 (12 anni). Dal profilo di funzionamento emergevano difficoltà nelle esperienze sensoriali intenzionali (tendenza a osservare in modo stereotipato le dita delle mani) e nel focalizzare l’attenzione, buona abilità di imparare attraverso semplici azioni con un oggetto o che mettano in relazione due o più oggetti. Grazie alla presenza di buone abilità imitative risultavano emergenti le abilità di acquisire concetti sia di base sia complessi e abilità semplici e complesse, gravi le difficoltà nell’imparare a leggere, scrivere e calcolare. C. mostrava buone abilità nell’eseguire le routine quotidiane, era più in difficoltà nell’eseguire richieste specifiche non routinarie. A livello comunicativo C. comprendeva messaggi verbali semplici e complessi se riferiti alla sua esperienza diretta, produceva alcune parole singole utilizzate per lo più per denominare oggetti o immagini, quasi mai per richiedere o esprimere un bisogno. Buone tutte le abilità proprie dell’area motricità. Molto autonomo nella cura della propria persona. Se adeguatamente motivato mostrava un iniziale interesse ai compiti casalinghi e di assistenza agli altri, ma in queste attività necessitava di supervisione e incoraggiamento da parte dell’adulto. Nonostante le importanti difficoltà nelle interazioni e relazioni interpersonali, C. differenziava le persone familiari e aveva relazioni preferenziali sia con Daniela e con alcuni operatori sia con alcuni compagni, possedeva alcuni segnalatori comunicativo-sociali (sguardo condiviso e referenziale, sorriso sociale). Per lui è stato pensato un percorso che partendo dalle buone doti imitative visuo-motorie lo aiutasse a implementare e generalizzare l’apprendimento delle abilità proprie della vita domestica, e stimolasse l’utilizzo della abilità linguistiche possedute in contesti comunicativo-sociali.

Nel 2018 ho trovato C. non soltanto più attivo e partecipe in molte attività, quello che mi ha colpito più di tutto è stato il momento del pasto. C. imboccava alcuni bambini con pazienza e attenzione e soprattutto i compagni gradivano moltissimo la sua modalità, lenta, scandita e costante di porgere loro il cibo e mangiavano molto più volentieri se era lui a imboccarli.

A. è una ragazza con paralisi cerebrale infantile orfana che è stata accolta nella casa all’età di 11 anni. Io l’ho conosciuta nel 2014 (13 anni). Dal profilo di funzionamento emergevano importanti deficit nel dominio della motricità: A. si spostava autonomamente con una carrozzina ad autospinta, per brevissimi momenti riusciva a mantenere la posizione eretta con appoggio anteriore, era in grado di passare dalla sedia o dal letto alla carrozzina; discreto l’uso fine della mano. A. mostrava difficoltà nel focalizzare l’attenzione, buone le abilità di imparare attraverso semplici azioni che mettano in relazione due o più oggetti. Emergenti le abilità di apprendimento e applicazione delle conoscenze compreso l’apprendimento della letto-scrittura e di semplici calcoli. Autonoma nell’intraprendere compiti singoli o articolati, buona la gestione del comportamento. Adeguate le abilità comunicativo-linguistiche. Molto autonoma nella cura della propria persona, e molto interessata ai compiti casalinghi anche se l’importante deficit motorio le impediva spesso di realizzarli. Buone le interazioni personali generali. Per lei è stato pensato un percorso che le permettesse di implementare le già buone abilità nell’ambito degli apprendimenti e quindi si è pensato di inserirla, nonostante l’età cronologica, nella scuola elementare. Nel 2018 A. frequentava la quarta classe, leggeva e scriveva, anche se molto lentamente, aveva fatto amicizia con alcuni ragazzi del paese che venivano anche a trovarla nella Casa. 

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE

Il lavoro e le esperienze narrate permettono di ribadire alcuni concetti che forse saranno scontati per noi professionisti dell’area riabilitativa del «mondo occidentale», ma che non lo sono in altre parti del mondo e che con gli opportuni adeguamenti possono essere esportati in diverse realtà socio-culturali. Nel mio primo viaggio in Perù ho capito come la loro visione delle persone e dei bambini con disabilità fosse estremamente diversa dalla nostra. Questi sono visti come inutil (inutili) e per tale motivo abbandonati; gli stessi familiari spesso si presentano dicendo tengo un hijo inutil, puedes ayudarme (ho un figlio inutile, potete aiutarmi). Coloro che si occupavano della loro assistenza supplivano in toto alle loro difficoltà. I terapisti e gli educatori tendevano a focalizzarsi sul contrasto dei deficit con scarsa consapevolezza che questo è dettato dalla storia naturale e della patologia e per questo poco modificabile. Attraverso il coinvolgimento di personale sensibile è stato possibile iniziare un lavoro che ha dimostrato come questi bambini e ragazzi abbiano potenzialità che, se adeguatamente coltivate, possono diventare una risorsa anche per la comunità. Questo è stato principalmente un percorso di «educazione al disabile» fatto non con le parole, ma con la pratica; che ha aiutato tutto il personale, non soltanto quello specificamente dedicato all’educazione e alla riabilitazione, a comprendere come le persone per e con cui lavoriamo prima di essere disabili sono individui con potenzialità e risorse; come il deficit sia difficile da modificare, ma la difficoltà possa essere compensata agendo soprattutto sui fattori ambientali. Sviluppando una visione della riabilitazione non volta a sgretolare un deficit, ma a favorire una partecipazione nonostante il deficit.

I risultati positivi sono stati provati dal cambio di mentalità di alcune famiglie, come quella di E., che aveva lasciato la figlia nella Casa definendola appunto inutil e ha deciso di riprenderla dopo aver visto e capito in cosa e come poteva rendersi utile. Il raggiungimento di tali risultati è stato possibile grazie al lavoro di molti ma soprattutto grazie al costante impegno di Daniela e di alcuni operatori più sensibili che hanno dimostrato con la loro pratica quotidiana, anche ai più scettici, come tale percorso sia possibile e fruttuoso. Trattandosi di una realtà molto dinamica, per i mutamenti sia degli ospiti sia del personale, il lavoro che abbiamo definito di «educazione al disabile» deve essere continuamente ripreso e riadattato alle nuove esigenze. Una importante sfida per il futuro, visto anche il costante aumento degli ospiti, sarà quella rendere il processo di valutazione, la definizione degli obiettivi, e il monitoraggio degli stessi, più rapidi e snelli.

Se provo a distaccarmi dal lavoro svolto e a osservarlo a posteriori mi accorgo come esso possa essere suddiviso in alcuni macro momenti e vi ritrovo quelle che sono le «pietre miliari» su cui si fonda l’intervento neuropsicomotorio: analisi della domanda (primo viaggio in Perù), osservazione/valutazione, definizione del progetto (secondo viaggio in Perù), verifica e supervisione (terzo viaggio in Perù).

Nella realtà descritta le competenze tipiche del TNPEE, quale operatore specificatamente formato sui processi di sviluppo e sulle tipicità della riabilitazione in età evolutiva, hanno permesso di offrire una visione globale ma non generalista che favorisce una concezione integrata sia sul processo di valutazione e definizione dei singoli piani di intervento, sia sulla più ampia organizzazione delle attività all’interno della Casa, che grazie al percorso di formazione e supervisione intrapreso si è gradualmente riorganizzata valorizzando nelle attività quotidiane i punti di forza di tutti i suoi ospiti.

Abstract

A TNPEE’s experience and several clinical cases are presented as a result of a ten-year exchange with the Casa Madre Teresa (Encanada, Cajamarca, Perù). More specifically, this experience included theoretical and practical training on functional evaluation using ICF-CY (World Health Organization) criterion, activities concerning (inclusive education as defined in the Manifesto for Child Rehabilitation (GIPCI, 2000) and continuous intervention on the environment for eliminating barriers and facilitating participation and integration of Casa Madre Teresa guests.

Keywords

ICF-CY, Developmental rehabilitation, Environmental factors, Participation, Perù.

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