Test Book

Riflessioni e teorie / Thoughts, theories, analysis

Per una mediazione interculturale come strumento pedagogico
Intercultural mediation as pedagogical instrument

Anna Aluffi Pentini

Professore Associato in Pedagogia generale e sociale presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Roma Tre, coordinatrice del corso di studio in «Educatori per il nido e servizi per l’infanzia e responsabile» del Centro Studi Montessoriani dove insegna pedagogia sociale, interculturale e consulenza pedagogica, anna.aluffipentini@uniroma3.it.


Autore per la corrispondenza

Anna Aluffi Pentini
Indirizzo e-mail:
Dipartimento di Scienze della Formazione, Università degli Studi Roma Tre, Via del Castro Pretorio, 20, 00185 Roma RM



Sommario

La riflessione che si propone concerne le questioni centrali che caratterizzano la mediazione interculturale: l’equilibrio tra advocacy ed empowerment, la questione dell’appartenenza culturale del mediatore, la riflessione in merito all’alternativa tra una professionalità specifica di mediatore culturale o piuttosto di una competenza interculturale, necessaria oggi a tutti i professionisti del sociale. Infine, si ipotizza una caratterizzazione della mediazione interculturale nei contesti educativi, mutuata dal concetto di Donald Winnicott di spazio potenziale.

Parole chiave

mediazione interculturale; spazio potenziale; cura.


Abstract

The proposed consideration concerns the central issues that characterize intercultural mediation: the balance between advocacy and empowerment, the question of the cultural belonging of the mediator, the reflection on the alternative between a specific profession of cultural mediator or rather of an intercultural competence, necessary today for all social professionals, and especially educators. Finally, we hypothesize a characterization of intercultural mediation in educational contexts, borrowed from the Winnicottian concept of potential space.

Keywords

intercultural mediation; potential space; care.


Introduzione

In questo contributo si affronta il tema della mediazione culturale in ambito pedagogico, evidenziando dapprima i nodi teorici del dibattito sulla professione e analizzando poi il significato più profondo dell’attività del mediatore, nei contesti educativi. Si intende per mediazione culturale un’attività che, mettendo a frutto competenze linguistiche e/o interculturali, abbia come fine esplicito la facilitazione di una comprensione tra persone o gruppi, appartenenti a culture e/o lingue diverse, per rendere possibile una comunicazione paritaria tra le parti, e garantire alla parte più debole l’esercizio di un diritto e/o l’accesso a opportunità, che altrimenti le sarebbero precluse. Se guardiamo alle molteplici sfumature della competenza interculturale, così come queste vengono definite da Deardoff (2009), ci rendiamo facilmente conto della difficoltà di concettualizzare la competenza interculturale in sé e per sé, e della conseguente necessità di declinare tale competenza in specifici contesti, quali per esempio le risorse umane, il business, la formazione degli insegnanti, l’apprendimento delle lingue straniere, l’educazione internazionale, l’ingegneria, il servizio sociale, la religione, la sanità. In tutti questi ambiti poi occorre tener presente elementi trasversali, che riguardano aspetti identitari, morali, e inerenti alla risoluzione di conflitti e alle discriminazioni.

Da ciò deriva evidentemente: a) la complessità della mediazione culturale, vista come un esercizio di competenze interculturali, finalizzato, in diversi contesti, al potenziamento di canali comunicativi tra singoli e gruppi, connotati da elementi linguistici e culturali diversi; b) la necessità di declinare il tema della mediazione interculturale a seconda dei contesti. In Italia la professione del mediatore è legata all’accoglienza dei lavoratori immigrati e delle loro famiglie; questa figura inizia ad affermarsi nei primi anni Novanta con la circolare 205/1990 del Ministero della Pubblica Istruzione, sull’integrazione degli allievi stranieri, ed è poi introdotta con maggiore precisione con il Testo Unico sull’immigrazione, Legge 40/1998, laddove si recita tra l’altro che il mediatore debba essere preferibilmente straniero. Va detto poi che, a partire dagli anni Novanta, la formazione dei mediatori è stata caratterizzata da una varietà di proposte, sia in termini di contenuti, sia in termini di durata dei corsi: si va dai minimi storici dei primi corsi in Italia di 30 ore (ormai integrati da pratica e aggiornamento per la maggioranza dei mediatori) ai 180 crediti di un corso universitario triennale, ai 120 di un corso magistrale biennale. Proprio in nome di questa varietà, quando si ragiona sulla professione del mediatore, è indispensabile definire in termini quantitativi e qualitativi il tipo di formazione del mediatore di cui si parla. Concorda su questo orientamento Milena Santerini (2017, p. 131) quando afferma che «il profilo professionale attende ancora di essere definito e uniformato» e riconosce che comunque i mediatori sono da tempo presenti nella scuola italiana per «facilitare la comunicazione tra scuola e famiglia» e per «aiutare l’insegnante nella promozione di attività interculturali» (Santerini, 2017, p. 131). Anche in Germania troviamo rispetto alla formazione interculturale sia master, sia corsi aggiuntivi paralleli alla formazione curricolare, sia crediti all’interno di percorsi di formazione universitaria in vari ambiti (Roth e Wolfgarten, 2018). Riguardo alla formazione in Italia, vale la pena di soffermarsi a titolo esemplificativo su un recente corso online1 per mediatori culturali che rilascia 60 crediti formativi. Sul sito che pubblicizza il corso, sono indicati come compiti del mediatore «attività di interpretariato linguistico, traduzione e orientamento culturale e una funzione di “ponte” tra i bisogni dei migranti o dei cittadini stranieri e le risposte offerte da enti pubblici e strutture private italiane». Inoltre il corso si prefigge di «garantire competenze in ambito giuridico, sociale, linguistico, culturale; fornire ai mediatori interculturali una formazione concreta ed effettiva dei principi di non discriminazione e parità di trattamento che orientano la cultura giuridica europea». Una volta concluso il percorso formativo i corsisti saranno capaci di sostenere i destinatari dell’intervento di mediazione in termini di: «pari opportunità di tutti i cittadini nell’accesso ai servizi dello Stato e nel rispetto dei diritti e dei doveri di ciascuno; partecipazione attiva alla vita sociale, alle attività lavorative ed educative; formazione per la conoscenza e la valorizzazione delle differenze, al fine di contrastare atti e atteggiamenti discriminatori». Il corso si articola in undici moduli inseriti in altrettanti settori scientifico-disciplinari che spaziano tra glottologia e linguistica, pedagogia, sociologia, psicologia, pedagogia, antropologia, diritto,2 e quattro laboratori.3

La complessità dei compiti dei mediatori corrisponde agli obiettivi ribaditi da un recente documento europeo (European Commission – Euridyce, 2019) sulla scolarizzazione degli allievi migranti nel quale si parla di accesso all’educazione e alla formazione, sostegno linguistico e culturale, approccio globale a insegnamento e apprendimento, approccio politico inclusivo e integrato (comprehensiveness) (European Commission – Euridyce, 2019, p. 11). A fronte della complessità di questi compiti, vale a mio avviso la pena di soffermarsi su tre nodi fondamentali della mediazione interculturale, trasversali a tutti i contesti, per poi addentrarsi più specificatamente nel ruolo del mediatore nei contesti educativi, perché proprio questi tre nodi ci aiuteranno a ragionare meglio anche sulla peculiarità della mediazione nei contesti educativi.

I nodi sono:

 

  1. L’azione del mediare tra advocacy ed empowerment.

  2. Il dilemma della provenienza del mediatore, vale a dire: mediatore italiano o straniero?

  3. Mediatori come professionisti a sé stanti, o professionisti con competenze interculturali nei diversi settori.

 

Si intende per advocacy un’azione di affiancamento di un soggetto che, nello specifico, si esplica in difesa dei diritti dell’immigrato, quando non in sostituzione di un soggetto debole per rivendicare e far valere un diritto che alla persona nella pratica non viene riconosciuto, o del quale la persona non è pienamente consapevole. Si ritiene che la persona immigrata, arrivata da poco in Italia e/o scarsamente padrona della lingua, debba essere sostenuta e il mediatore debba intercedere in suo favore, fino, in qualche caso, ad agire al suo posto. Per empowerment si intende, invece, dare potere alla persona per renderla autonoma, riconoscendo la sua forza e restituendole un’immagine positiva delle sue potenzialità. La persona impara ad avanzare delle richieste, sapendo che sono appoggiate da qualcuno che la sostiene, così come viene incoraggiato il suo esercizio di potere. Il processo di empowerment diventa anche un processo di «capacitazione» (capability) (Nussbaum, 2011), un’azione educativa, che persegue l’emancipazione e la fioritura del soggetto, specialmente il più debole.

A eccezione del mero intervento di traduzione, ogni intervento di mediazione deve fare i conti con il delicato equilibrio tra advocacy ed empowerment e si configura a partire dall’analisi del contesto di mediazione e del potere delle parti. L’intervento di mediazione va continuamente rimodulato in corso d’opera, privilegiando un orientamento all’advocacy o all’empowerment, a seconda del feedback che l’interazione tra le parti restituisce al mediatore. La tensione tra advocay ed empowerment evoca dal punto di vista pedagogico la tensione propria dell’Area di Sviluppo Prossimale (Vygotsky, 1992), una tensione dialettica tra l’atteggiamento di un educatore che si colloca troppo vicino al soggetto, e lo protegge quindi in modo eccessivo da qualsiasi nuovo stimolo, e di un educatore che pone sfide che il soggetto non può cogliere, perché troppo lontane dalla sua situazione reale e dalla sua possibilità di affrontarle. Nella realtà concreta la tensione tra queste due posizioni deve caratterizzare ogni intervento educativo consapevole: la flessibilità e la rimodulazione del proprio agire devono essere assunti come elementi dinamici, imprescindibili nella professione.

Relativamente al secondo nodo, vale a dire la provenienza del mediatore, ovvero la sua appartenenza linguistico-culturale, va sottolineato che questa dimensione può essere letta in termini di posizionamento rispetto al potere. Ogni mediatore, straniero o italiano, che sia, è professionale e imparziale, se ha elaborato la sua personale storia di rapporto con la diversità, e se ha imparato a riconoscere una sua propensione dominante verso l’advocacy o verso l’empowerment. Il mediatore straniero o con background migratorio sarà infatti consapevole degli ostacoli e delle opportunità incontrate nel proprio percorso di integrazione e avrà analizzato criticamente la mediazione formalmente o informalmente ricevuta: sarà quindi in grado di valutare il livello di riconoscimento che l’istituzione autoctona gli riconosce in termini di potere professionale. Analogamente per quanto riguarda il mediatore autoctono, egli avrà conseguito la capacità di analizzare le sue esperienze interculturali, in termini di potere, e avrà appreso di doversi continuamente guardare dai propri pregiudizi nei confronti delle parti tra le quali media (Aluffi Pentini, 2004). Si capisce quindi come in un orientamento all’advocacy, il sostituirsi all’altro senza ascoltarlo e il paternalismo sono atteggiamenti sempre in agguato, mentre la sopravvalutazione delle energie e delle possibilità dell’altro, ovvero l’incredulità o addirittura insofferenza di fronte alle sue debolezze, sono i rischi che si corrono se si è troppo orientati all’empowerment. Sia il mediatore italiano sia il mediatore straniero, alla luce delle diverse esperienze interculturali e del posizionamento linguistico, culturale e sociale, dovranno imparare nel loro percorso formativo specifico a distinguere tra advocacy e paternalismo da un lato, e tra empowerment e mancanza di empatia, dall’altro. Saranno quindi capaci di individuare in quali situazioni devono guardarsi dal cadere in quali atteggiamenti e pratiche; in quali situazioni potrebbero non tener conto delle esigenze della persona immigrata «qui e ora» (con la sua storia narrata o taciuta) e basarsi invece su proiezioni e pregiudizi propri. Saranno quindi continuamente chiamati a riaggiustare il tiro e a un confronto «interculturale» all’interno di una équipe o in supervisione. Si dissente infatti da posizioni secondo le quali la sola provenienza del mediatore da un Paese straniero, o dallo stesso Paese della persona destinataria dell’intervento possa essere considerata garanzia di libertà da pregiudizio.4

Per quanto riguarda il terzo nodo sopramenzionato, il dilemma è stato posto chiaramente come segue nell’ambito del servizio sociale: «Gli assistenti sociali necessitano di figure di supporto con specifiche competenze interculturali o è sufficiente che abbiano essi stessi acquisito tali competenze?» (Barberis e Boccagni, 2017, p. 140). La questione è più ampia. Infatti, dal momento che le società diventano sempre più multiculturali nei diversi settori professionali saranno sempre più presenti professionisti con background migratorio, che insieme ai colleghi, sia durante lo studio, sia nella professione, arricchiranno la dimensione interculturale nelle professioni sociopedagogiche. È compito delle agenzie formative incoraggiare e sostenere degli apprendimenti che si traducano in autoriflessione e quindi, nel caso specifico, competenze interculturali. In quest’ottica il mediatore è una figura che dovrebbe sempre di più specializzarsi in interventi puntuali di traduzione linguistica, e questo perché, nei vari settori della società, la multiculturalità si traduce in una presenza sempre più numerosa di professionisti con background migratorio e con competenze interculturali. Se la società non evolve in questa direzione, significa che qualcosa è fallito nei processi di integrazione, e significa che un concetto generale di mediazione non ha funzionato. Delegando al mediatore le competenze interculturali, si rischia infatti di continuare ad avere professionisti «collaterali» ai quali viene affidata la presa in carico di cittadini di seconda classe.

 

E la pedagogia?

La pedagogia interculturale si afferma in Italia come risposta ai bisogni dell’istituzione scolastica di gestire la presenza di allievi immigrati, anche se si sottolinea spesso che la pedagogia interculturale sia nata per rispondere ai bisogni degli allievi e delle loro famiglie (Portera, 2013). Evidentemente entrambe le cose sono vere, ma sottolineare l’esigenza della scuola aiuta a riflettere sul punto di vista e sulle conseguenze che ne derivano. Una cosa è attrezzarsi all’accoglienza perché non se ne può fare a meno, altro è partire dai bisogni della persona che arriva. La cura come essenza dell’agire pedagogico può infatti, secondo Mortari (2006), tradursi in «occuparsi di» e «preoccuparsi di». Se si parte dall’esigenza della scuola, la scuola si limita a occuparsi degli allievi immigrati; se si parte dall’esigenza degli allievi immigrati gli educatori e gli insegnanti si preoccupano per loro e di loro. La preoccupazione è «un prendersi a cuore, l’altro entra nei tuoi pensieri» (Mortari, 2006, p. 43). Il prendersi cura si configura come avere premura, dedizione o devozione (Mortari, 2006, p. 44) e rimane in qualsiasi approccio pedagogico un concetto prezioso nell’accoglienza interculturale e nella sfida antirazzista.

Lavorando con gli allievi immigrati è utile quindi tener presente le conseguenze di uno o dell’altro modo di porre la questione e distinguere tra occuparsi e prendersi cura.

Molto si è scritto sulla figura del mediatore scolastico a scuola (Aluffi Pentini, 2004; Cestaro, 2013; Fiorucci, 2000; Luatti, 2011). Il mediatore culturale è oggi presente solo in 13 paesi dell’Unione Europea, e il suo utilizzo a scuola è soggetto a diversi limiti di tipo economico e organizzativo, oltre che all’ambiguità che spesso si riscontra in merito al suo ruolo (European Commission – Eurydice, 2019). A livello europeo si parla di support agli allievi stranieri e si dice però che, data la capacità di teaching assistants e intercultural mediators di sostenere i bisogni olistici degli allievi immigrati, sarebbe opportuno approfondire il ruolo e l’impatto che questi professionisti possono esercitare (European Commission – Eurydice, 2019, p. 24). Più avanti, a proposito del supporto psicosociale, si dice che il mediatore agisce come un interprete o come una persona di supporto, che aiuta a creare relazioni positive tra gli allievi, i loro genitori o famiglie così come nella più ampia comunità scolastica (European Commission – Eurydice, 2019, p. 110). La possibilità che un mediatore svolga un buon lavoro a scuola dipende massimamente dalla disponibilità degli insegnanti e, nella maggior parte delle situazioni, la prestazione del mediatore viene accolta in modo positivo e risulta utile per gli allievi e per le loro famiglie.

Tuttavia, rispetto ai nodi tematici della professione precedentemente menzionati, è evidente che in campo educativo sarebbe fondamentale che la competenza interculturale caratterizzasse le figure educative tutte, e non fosse relegata al mediatore. Il mediatore manterrebbe quindi una funzione di interpretariato in situazioni molto iniziali dell’accoglienza degli allievi immigrati, o molto specifiche per la comprensione di argomenti complessi. Concordiamo quindi a pieno con la Santerini (2017), quando sostiene che i laureati in scienze dell’educazione e pedagogia potrebbero ricoprire un ruolo fondamentale in una mediazione educativa interculturale, se le scuole accogliessero queste figure a pieno titolo nell’organico del personale.5

Aver presente la tensione tra advocacy ed empowerment significa, per chi svolge una funzione di mediazione educativa interculturale, saper attribuire il giusto peso all’evento migratorio, nell’individuare potenzialità e difficoltà dell’allievo immigrato: significa, in situazioni di intersezionalità,6 saper valutare i singoli fattori di rischio e le loro sinergie, e lavorare in équipe; vale a dire, condividere responsabilità e diversificare ruoli, funzioni e compiti dei professionisti della rete di accoglienza del minore e della famiglia immigrata nella società. Il tutto in un’ottica di dedizione.

 

Il significato della mediazione interculturale

Le considerazioni che seguono riguardano la mediazione culturale in senso lato, intesa proprio come dedizione in senso heideggeriano — o più precisamente nell’accezione di Donald Winnicott — e derivano da anni di esperienza nella consulenza pedagogica in contesti interculturali.[7] Come è già stato scritto (Aluffi Pentini, 2002; 2018) l’evento migratorio comporta una situazione di precarietà, che si traduce in un’interruzione della continuità di vita dell’individuo immigrato e della sua famiglia. Tale discontinuità comporta un senso di insicurezza, tanto per gli adulti che hanno deciso di emigrare, quanto, e molto di più, per i minori, che verosimilmente non hanno scelto di emigrare, ma hanno subito la decisione dei genitori. La discontinuità che il minore immigrato vive non è standard: è variabile e soggettiva e non è necessariamente proporzionale all’effettiva precarietà socio-economica della famiglia. Ogni bambino ha delle risorse interiori e delle caratteristiche proprie, che gli consentono di reagire a quanto avviene intorno a lui; ogni bambino percepisce ed elabora a suo modo una situazione oggettiva di precarietà e vive a suo modo l’esperienza di discontinuità. Non si può quindi generalizzare ciò che accade ai minori immigrati, pur se esistono dinamiche ricorrenti, sulle quali intervenire a livello educativo. In nome di queste dinamiche ricorrenti si fa spesso ricorso alla professionalità dei mediatori interculturali, ma l’utilizzo del mediatore non deve far dimenticare che il compito educativo permane prioritariamente una responsabilità della scuola e degli operatori che accolgono.

Lavorare in una prospettiva di accoglienza per i minori immigrati significa offrire loro l’opportunità di ricostruire i fili di una continuità vitale, tenendo conto che la discontinuità può essere stata vissuta, sia in modo problematico, sia in modo sereno. Per tessere i fili della continuità, nel panorama delle esperienze del bambino, risulta di importanza fondamentale il rapporto con le famiglie di origine dei bambini, dal momento che i genitori sono gli unici, sia pure a volte inconsapevoli, depositari della storia del proprio figlio e quindi i più attendibili interlocutori per iniziare un entusiasmante lavoro interculturale. Lavorare per il bambino e con il bambino significa lavorare anche insieme ai suoi genitori, rendendoli consapevoli e fieri di quanto loro siano importanti per il bambino. L’importanza dell’enfasi sulle risorse del bambino non si può limitare solo all’enfasi posta sul valore della sua cultura di origine: l’enfasi sulla comune scoperta delle risorse di quel bambino riporta il genitore al suo essere genitore, prima che migrante, e riporta l’interesse dell’educatore sul bambino in quanto tale, un bambino che tra le sue esperienze ha anche (ma non solo) quella della migrazione o del background migratorio. Ciò non è scontato in una situazione nella quale è facile che il nuovo Paese in cui si vive appaia alla famiglia in modo ambivalente; talvolta sotto una luce molto positiva («Qui tutto è meglio rispetto al mio Paese»), talvolta in una luce troppo negativa («Qui tutto è peggio rispetto al mio Paese»). «Mediare» significa quindi anche lasciare tempo e spazio a questo tipo di conflitti interiori, che portano il genitore a oscillare spesso tra il voler andar via e il voler restare e che influiscono sul benessere del bambino e sulla sua fiducia nel mondo.

In una situazione nella quale spesso lo stesso concetto di autorità, materna e paterna, è messo in crisi, è necessario aiutare il genitore a credere nella sua autorità e nella sua capacità di sostenere e aiutare i figli. Aiutare il genitore a vivere «come al solito», nel senso di Schütz (2013), significa aiutarlo a conservare la sua visione del mondo e a trasmetterla al bambino, sia pure con i correttivi che la nuova contingenza del «qui e ora» comporta. Un genitore che non è esperto del contesto sociale nel quale il figlio cresce può perdere di credibilità agli occhi del figlio: l’istituzione educativa autoctona può circoscrivere questo dato di fatto nei suoi giusti confini — non padroneggia la lingua, non conosce le regole implicite del luogo in cui vive — o può amplificare il dato di fatto fino a farlo coincidere con una carenza genitoriale, ovvero con un’incapacità a essere genitore, o essere un genitore di serie B. Rafforzare la genitorialità del genitore che appare «inesperto» nel nuovo contesto significa restituire a lui e al figlio un’immagine di buon genitore, intendendo per buon genitore qualcuno che vuole il bene del figlio e che ha i suoi valori e il suo legame con il Paese di origine, ma che può, come ogni genitore, imparare a negoziare con il proprio figlio e con il nuovo contesto di vita regole e valori, mettendosi in discussione aprendosi al dialogo. Ma non è possibile prospettare un dialogo se si è prevenuti nei confronti dell’altro e se lo si sminuisce agli occhi del figlio. Non è possibile che il genitore senta di poter negoziare, se si sente privo di potere. Per questa ragione advocacy ed empowerment sono due facce di una stessa medaglia, quella della mediazione educativa interculturale. Un agire che richiede attenzione, pazienza e umiltà perché l’educatore/mediatore è chiamato a esercitare una responsività «intesa come disponibilità a fornire una risposta ai bisogni dell’altro» (Mortari, 2006, p. 133). Un agire può diventare problematico «o perché si fa fatica a capire ciò di cui l’altro ha bisogno, o perché la nostra prospettiva interpretativa entra in conflitto con quella dell’altro, o perché la situazione è così inusuale che vengono a mancare quelle coordinate che sentiamo necessarie per elaborare un’interpretazione adeguata e attendibile» (Mortari, 2006, p. 133).

Per tutti coloro che hanno vissuto l’esperienza di discontinuità della migrazione, ripristinare una continuità significa imparare a vivere nel presente, integrando i ricordi e progettando il futuro. Guardando al minore è fondamentale che il pedagogista e l’educatore comincino a considerare il rapporto tra partenza dal Paese di origine, e arrivo nel Paese di immigrazione, come una nuova nascita e su questa immagine, approntino i dispositivi di cura educativa e di presa in carico del nucleo familiare. Questo perché una nuova nascita nel Paese di arrivo concerne evidentemente anche il genitore, chiamato a rinascere con il proprio figlio. I dispositivi di accoglienza che rientrano nel modello dell’educazione interculturale traggono vantaggio dal sintonizzarsi sulla metafora di una nuova nascita, come rappresentazione della ri-socializzazione in Italia.

Per questa ragione come già detto in altra sede (Aluffi Pentini, 1999; 2018), e come ho tradotto in pratiche, nella mia esperienza ventennale di consulenza pedagogica interculturale, risulta utile ragionare sul concetto di «incubatore di continuità», coniato rielaborando il pensiero di Winnicott sullo spazio potenziale, e sull’esperienza culturale intesa come prosecuzione dell’esperienza del gioco: il gioco che si colloca inizialmente per il bambino nello spazio potenziale, ovvero nello spazio tra il bambino e la madre.7

Il concetto di Winnicott di spazio potenziale si presta a una proficua rilettura interculturale e il suo grande contributo è quello di farci riflettere sul progressivo distacco tra il bambino e la madre che va di pari passo al passaggio dall’ambiente materno all’ambiente sociale. Se nella crescita della persona questo passaggio funziona, si stabilisce una fiducia nell’ambiente sociale, modellata sulla primordiale fiducia nella madre. Una madre che continua a essere intensamente presente, una volta che lei e il figlio sono fisicamente due entità diverse, e che garantisce la bontà dell’ambiente sociale. Una madre mediatrice di socialità e cultura. Sappiamo che nelle nursery degli ospedali l’incubatrice è quel dispositivo che protegge e consente al bambino che nasce troppo presto di sopravvivere, laddove la madre non può fornire al bambino la protezione assoluta che gli forniva prima e l’ambiente non può fornirgli ancora la sicurezza della quale il bambino ha bisogno. L’incubatore di continuità, per come lo intendo in ambito interculturale, si configura come spazio educativo nel quale si creano le condizioni ottimali perché il minore immigrato abbia il tempo necessario per trovare un nuovo equilibrio: proprio come il neonato nell’incubatrice dopo la nascita. In concomitanza con l’utilizzo di uno spazio adeguatamente protetto per il minore (laddove le istituzioni educative riescono ad approntarlo), la famiglia trova la tranquillità per rafforzare o recuperare a pieno una funzione genitoriale. Impara a tradursi linguisticamente e socialmente nel nuovo contesto, e ad affrontare le sfide che le si presentano: grazie all’opportunità di un luogo sicuro per il proprio figlio anche la famiglia inizia a fidarsi e si lascia accogliere e sostenere. Lo spazio educativo interculturale assume quindi una valenza analoga a quella dello spazio potenziale winnicottiano, lo spazio che unisce e separa il bambino e la sua famiglia dal Paese di origine, lo spazio che protegge e accoglie il bambino nel Paese di arrivo. Uno spazio davvero transizionale.

Per poter funzionare, questo spazio deve trasmettere fiducia al bambino e al genitore. Lo spazio dell’incubatore diventa quel luogo dove il bambino «mette ciò che trova» e che diventa lo spazio di gioco, prima e lo spazio dell’esperienza culturale, poi. Lo spazio potenziale tra il bambino e la madre è infatti secondo Winnicott lo spazio in cui vengono garantiti calore e sicurezza e il bambino viene rassicurato. Si consolidano le sue capacità di sopravvivere alla nuova situazione e di trovare le energie per intraprendere un cammino verso l’autonomia. Tale luogo protetto (reale e simbolico) si caratterizza quindi come un luogo di allentamento di tensioni accumulate, un luogo dal quale è bandita la «fretta» di crescere, la spinta a essere come gli altri. Nel caso della migrazione intendo per fretta la pressione a integrarsi, a recuperare un deficit: un’esplicita o implicita costrizione esterna a superare velocemente lo spaesamento individuale e familiare, derivato dallo spostamento della migrazione. Una pressione percepita solitamente all’arrivo in un nuovo Paese. Alleviare questo tipo di pressione è tipicamente un compito della mediazione educativa interculturale; anche in questo caso è fondamentale mantenere un equilibrio dinamico tra advocacy ed empowerment. L’atteggiamento di advocacy rischia di reclamare all’infinito la necessità di un incubatore di continuità, mentre l’empowerment vorrebbe fare uscire troppo presto le persone immigrate invocando la capacità di farcela da soli. Se il tempo di permanenza nell’incubatore è quello giusto (vale a dire tutto il tempo necessario a suscitare, nella famiglia e nel minore, fiducia) ne consegue che si svilupperà naturalmente il desiderio di esplorare il contesto circostante, esattamente come avviene quando il bambino inizia ad allontanarsi dalla madre, in nome di una sana curiosità rispetto all’ambiente, curiosità che nasce dal sentirsi protetto. Tornando al concetto winnicottiano di spazio potenziale, come chiave interpretativa e operativa di quanto avviene al bambino, possiamo dire che l’ambiente educativo, se accoglie, media con l’ambiente sociale più ampio ed esercita una funzione materna. La madre-ambiente della gravidanza non cessa di essere tale immediatamente dopo la nascita. Dopo la nascita il bambino è ancora per molto tempo assolutamente dipendente da lei: Winnicott definisce madre «sufficientemente buona» quella madre capace di regredire simbioticamente grazie ai bisogni del bambino, rivolgendo la sua attenzione e la sua cura incondizionata a lui. Quella madre che, proprio grazie alla nascita del suo bambino, mette in atto la sua potenzialità di comprendere e appagare i bisogni del figlio. La madre e il bambino condividono inizialmente uno spazio unico di prossimità, nel quale il bambino non distingue ancora la madre come altro da sé. In questa prossimità, si costituisce, quasi misteriosamente, quella fiducia di base, così decisiva per l’esistenza di ogni individuo. Successivamente, una volta che il bambino ha acquisito questa fiducia di base, la madre può tirarsi progressivamente indietro, lasciando che il bambino esplori autonomamente quanto lo circonda e cominci ad avanzare richieste differenziate, alle quali la madre ancora a lungo risponde. Winnicott chiama spazio potenziale quello spazio all’interno del quale si manifestano i bisogni del bambino ai quali la madre risponde istintivamente in una situazione di normalità del rapporto con il bambino. Questo spazio diventa quindi lo spazio del gioco nel senso di scoperta dell’ambiente, dapprima identico alla madre, poi, via via, sempre più distinto. «Lo spazio potenziale tra madre e bambino, tra il bambino e la famiglia, tra l’individuo e la società o il mondo dipende dall’esperienza che porta alla fiducia. Lo si potrebbe definire sacro perché è qui che l’individuo fa esperienza della vita» (Winnicott, 1996, p. 177).8 La fiducia nell’ambiente, la fiducia di base, è quindi secondo Winnicott la condizione per utilizzare le esperienze in modo creativo e costruttivo e combinarle in modo personale e nuovo, e tale fiducia è appunto mediata dalla madre. Laddove un brusco cambiamento di luogo ha determinato una discontinuità nella vita del bambino o laddove le differenze tra scuola e famiglia risultano troppo marcate, è necessario che questa fiducia primaria in un ambiente nuovo venga ripristinata. Ciò può avvenire solo in un ambiente «sufficientemente buono». La scuola e le istituzioni educative falliscono il loro compito educativo, se non si attrezzano per essere un ambiente con tali caratteristiche. Gli educatori, gli insegnanti, e, laddove necessario i mediatori linguistici, sono quindi chiamati come singoli e come gruppo a costituire, possibilmente insieme agli altri allievi, una comunità educante «sufficientemente buona».

Sono loro a dover in un certo senso regredire empaticamente, per rispondere ai bisogni fondamentali del bambino o del ragazzo, quali il bisogno di accoglienza incondizionata, di affetto, di comprensione, di comunicazione. Il minore deve poter rinascere in una nuova lingua, in un ambiente nuovo per clima, odori, rumori, sapori, suoni e ritmi della lingua. Il bambino deve sentirsi sicuro: sulle prime sarà necessario adoprarsi per rassicurarlo, ma anche rispettare il suo bisogno di ri-orientarsi in solitudine o di apprendere passivamente e silenziosamente la nuova lingua. Come nella relazione madre-bambino, la propensione della madre a comunicare, e la sua fiducia nelle capacità di risposta (sia pure non ancora verbale) del neonato, è decisiva e pone le basi per l’apprendimento linguistico. La comunicazione tra madre e bambino non si configura, infatti, come pretesa da parte della madre di far imparare al bambino singoli vocaboli. Allo stesso modo nell’acquisizione della seconda lingua l’intenzione comunicativa dell’insegnante favorisce l’arricchimento linguistico, grazie ad accettazione e comprensione, che vanno oltre le parole e il loro significato puntuale. L’educatore interculturale deve imparare ad «aspettare attivamente». Come già sosteneva Decroly, «la scuola tacitamente conta sul linguaggio per innalzare l’edificio che vuole costruire. Del resto, cosa potrebbe intraprendere se il fanciullo non parlasse e non capisse la parola? La madre senza pensare ad analizzare a classificare gli esercizi si fa capire e imitare a poco a poco. Se questo miracolo fosse conosciuto meglio dagli educatori vedrebbero probabilmente più chiaro in tutto il problema che trattiamo qui. Il metodo della madre è il metodo globale» (Decroly, 1953, p. 21). Sempre secondo questo autore, l’attività globalizzatrice fa da «ponte» tra l’attività istintiva e l’intelligenza, «essa si connette con la prima per gli stimoli che la determinano e con la seconda per le possibilità di adattamento alle nuove condizioni» (Decroly, 1953, p. 51). Questo tipo di adattamento oggi si configura allo stesso tempo come un’azione di mediazione educativa e interculturale, quella che appunto è richiesta agli educatori e che non può essere delegata ai mediatori culturali, ma da loro solo eventualmente suggerita e accompagnata. Nessuna madre «sufficientemente buona» resta muta di fronte al bambino «perché tanto lui non capisce», o verifica continuamente e severamente il suo apprendimento di singoli vocaboli. Dosando parole e silenzio, ripetizioni e novità, la madre si prende cura di un terreno sul quale le parole possano sbocciare quando è arrivato il momento giusto. La madre lascia al bambino tutto il tempo per cominciare a parlare: lo loda per ogni più piccolo progresso, magari lo corregge, ma per nessuna ragione lo rimprovera, o lo punisce, se sbaglia. La madre trasmette al bambino la sensazione di essere capito, prima delle parole e oltre le parole. Lo spazio tra il bambino e la madre non li separa, li unisce. Come è stato precedentemente accennato, la possibilità di un’esperienza culturale è legata al fatto di avere uno spazio prima esterno. Nello spazio tra bambino e madre, ha inizio l’esperienza di gioco, che si trasforma poi nella più ampia esperienza culturale. Lo spazio esterno diventa spazio interiore, uno spazio di fiducia di base al quale ritornare per elaborare nuove esperienze.9 L’esperienza interculturale nella migrazione può risultare piacevole se si verificano condizioni analoghe a quelle della relazione tra il bambino e la madre, vale a dire se si crea uno spazio potenziale che media tra il soggetto e la nuova realtà, uno spazio di fiducia incondizionata, di rassicurazione, che permette la curiosità dell’esplorazione, uno spazio dove integrare ciò che si trova nel nuovo luogo in cui viviamo.

Per creare un siffatto «nuovo spazio potenziale» che permetta al minore immigrato di ricreare una continuità interiore e di acquisire la fiducia di base nel nuovo ambiente, serve empatia e cura, serve creare legami significativi. L’accoglienza incondizionata passa attraverso sguardi, intonazione della voce, cura del clima generale in classe: è il clima quindi che contribuisce a rendere l’ambiente scolastico incubatore di continuità10 per l’allievo straniero, vale a dire un luogo tranquillo in cui i minori appena arrivati sperimentino serenità, rispetto e fiducia.

Un dispositivo di accoglienza di questo tipo predispone proposte diversificate, offerte in un’ottica di gratuità e pazienza, con un obiettivo di mediazione educativa interculturale. Le proposte non saranno accolte tutte e subito, né ci aspettiamo che l’allievo immigrato lo faccia. Si tratta di possibilità, di potenziali strumenti di mediazione appunto, che riconoscono una libertà di rispondere in modo personale. Su questa dinamica si gioca il rinforzo della soggettività dell’allievo e l’incoraggiamento a esprimersi in modo personale al di là di un ruolo predefinito, sulla base di categorie culturali astratte. L’attenta osservazione delle reazioni dell’allievo a ciò che avviene intorno a lui fornisce poi un feedback prezioso per orientare il lavoro successivo, perfezionando le strategie di inclusione e integrazione nel gruppo. L’insegnante, tramite l’osservazione quotidiana, gestisce l’interazione con tutti i bambini dimostrando interessamento e compiacimento per la loro presenza anche laddove «non ci si capisce» sul piano della comunicazione verbale. Nella sua attenzione si configura uno specchio che dice al bambino: «tu ci sei e io sono contento» proprio come avviene nel legame iniziale con la madre. Se l’insegnante è distratto, nella sua distrazione o in interventi non calibrati, si rimanda all’allievo appena arrivato, e non ancora autonomo, un non-esserci, o peggio un essere-di-peso e il benessere del minore viene gravemente ipotecato. Perché, come insegna Said (2007), e lo dice nonostante il prestigio ormai acquisito: «Potrei descrivere la mia vita come una serie di partenze e ritorni. Ma la partenza è sempre piena di angoscia. Il ritorno sempre incerto». La rassicurazione è un ingrediente fondamentale della mediazione educativa interculturale: concerne la predisposizione degli spazi, del progetto educativo, dei dispositivi di ascolto per le famiglie, ma soprattutto l’attenzione ai bisogni dell’altro, come unico e irripetibile, soppesando continuamente advocacy ed empowerment e specificità dell’intervento interculturale, con la fondamentale responsività che caratterizza qualsiasi atteggiamento pedagogico. Per queste ragioni si propende qui per un tipo di mediazione interculturale basata su competenze educative e interculturali, e che sia quindi svolta da educatori e pedagogisti altamente qualificati, che consapevoli della loro appartenenza culturale, sappiano lavorare in modo interculturale, possibilmente in équipe di operatori di diverse provenienze e plurilingui. Si ritiene che il ricorso alla mediazione linguistica sia adeguato in situazioni molto specifiche, nelle quali le parti abbiano bisogno di una traduzione molto accurata o siano in una fase molto iniziale della loro esperienza migratoria. Inoltre, proprio perché la mediazione educativa interculturale si trova ad affrontare situazioni di discriminazione, più o meno latente, il tema del potere dell’operatore e del suo posizionamento rispetto alle questioni spesso esplosive della diversità visibile dei minori stranieri, oggetto di razzismo, deve diventare parte integrante della formazione di tutti gli educatori. La scuola, le istituzioni educative e formative hanno il dovere di incoraggiare l’accesso a ruoli educativi altamente specializzati di operatori stranieri. Il mediatore straniero non è di per sé più qualificato di quello italiano. Competenze pedagogiche, interculturali, e antirazziste, devono essere, anche per uno straniero, acquisite e verificate nella formazione per educatori e pedagogisti (Lorenzini e Cardellini, 2018).

 

Conclusioni

Lo spazio educativo per la mediazione interculturale si configura come spazio di accoglienza e di empowerment per gli allievi appena arrivati o che a causa della loro diversità linguistica o «visibile» (Aluffi Pentini, 2002; 2018) non siano (ancora) riconosciuti a pieno titolo come parte della società o non abbiano analoghe opportunità di crescita. La scuola e le altre istituzioni educative, in cui i minori trascorrono gran parte del loro tempo, sono chiamate, in collaborazione con le famiglie italiane e non, a costruire, intorno alle proposte culturali e ricreative, una cornice di promozione di benessere, orientata sulle prime all’advocacy e poi sempre più decisamente all’empowerment degli allievi immigrati o con background migratorio.

Ogni singola situazione o caso richiede pertanto un’alchimia individualizzata di strategie, nella quale educatori e mediatori possano definire in modo chiaro i loro ruoli e le loro responsabilità. Tuttavia sulla base della mia esperienza sul campo, volendo differenziare le fasce di età, ciò può avvenire come segue:

 

  • Nella fascia 0-5 anni, l’educatore prima, e l’insegnante poi, faranno ricorso alla mediazione da parte dei genitori in classe, un po’ come accade per l’inserimento di tutti gli altri bambini, e saranno particolarmente attenti a proporre all’intera classe attività che possano includere il nuovo arrivato o comunque attività nelle quali la lingua non sia di ostacolo alla partecipazione alla vita della comunità. Saranno consapevoli del fatto che al nuovo arrivato dovrà essere lasciato il tempo necessario per apprendere la lingua in modo naturale e saranno adottati quegli accorgimenti che rendono l’apprendimento dell’L2 più possibile simile a quello dell’L1. Il ricorso al mediatore linguistico in questa fase sarà quindi circoscritto a situazioni molto puntuali, ed eventualmente riguardanti i colloqui con i genitori, qualora questi ultimi non siano in possesso del vocabolario di base nella lingua italiana, o della conoscenza di una lingua veicolare che uno degli educatori conosce. In questo caso il mediatore sarà utilizzato prevalentemente per rassicurare il genitore sul fatto che il bambino imparerà certamente la lingua italiana, e sull’importanza che la famiglia lo sostenga affettivamente, continuando a utilizzare la lingua abitualmente parlata in casa. Verranno altresì illustrate, con l’aiuto della traduzione del mediatore, le questioni fondamentali che riguardano il funzionamento della scuola e la possibilità di avere dei colloqui periodici con gli insegnanti, per avere notizie sull’inserimento del figlio.
  • Per quanto riguarda la fascia 5-10 anni, si sottolinea che la responsabilità educativa e didattica spetta agli insegnanti, questi potranno valutare se utilizzare il mediatore per delle traduzioni o spiegazioni (periodiche) all’allievo o, eventualmente, su richiesta dell’allievo, durante l’orario scolastico o in altro orario. Fermo restando l’eventuale utilizzo del mediatore per i primi contatti con una famiglia che non conosce l’italiano, o una lingua veicolare utilizzabile per comunicare con la scuola (vedi sopra).
  • Nel periodo della scuola media inferiore (11-14 anni) sarà gestito valutando quando adottare strategie più simili a quelle della fascia di età 5-10 e quando quelle proprie della fascia 14-19.
  • Tra i 14 e i 19 anni adolescenza e diversità culturale rappresentano delle variabili che si combinano con notevole complessità. La diversità culturale può (non necessariamente deve) costituire un elemento in più che gli educatori devono affrontare. Il rapporto con la famiglia è quindi interculturale e intergenerazionale allo stesso tempo e il mediatore può assumere un importante ruolo di «quarto» nei rapporti tra allievi, insegnanti e famiglia. La sua preparazione pedagogica è quindi fondamentale in aggiunta a quella linguistica. Infatti egli dovrà anche essere in grado di compiere lavoro qualificato di interpretariato e traduzione per quanto riguarda dei contenuti specifici e complessi, che al ragazzo possono essere noti nella lingua di origine, ma non in italiano. In relazione al posizionamento dell’allievo in classe, al suo carattere, ai suoi desideri, si potrà invitare il mediatore a proporre in classe incontri di informazione sul suo Paese di provenienza, coinvolgendo eventualmente anche il minore o la sua famiglia, in una logica di empowerment.

 

Bibliografia

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Note

1 «IndireInforma»: http://www.indire.it/2019/02/14/iscrizioni-aperte-al-corso-online-gratuito-di-alta-formazione-per-mediatori-culturali/ (consultato il 5 novembre 2019).
2 Titolo del modulo pedagogico: «Gestione della relazione d’aiuto nelle attività di mediazione», http://www.indire.it/progetto/mediatoriculturali/faq/ (consultato il 5 novembre 2019).
3 Titoli dei laboratori: «I sistemi italiani di accoglienza»; «La mediazione culturale e la valorizzazione delle differenze»; «Simulazione di un colloquio di accoglienza»; «Affrontare la commissione territoriale» (tutti in video conferenza con l’esperto).
4 Le relazioni di potere e i pregiudizi esistono infatti anche tra persone provenienti da uno stesso Paese, o che condividono la stessa lingua madre, e non riguardano solo le appartenenze etniche, bensì anche il posizionamento sociale e la riuscita reale o percepita della propria esperienza migratoria e integrazione nel Paese di arrivo (Aluffi Pentini, 2004). Per tutti è necessaria una formazione interculturale e antirazzista.
5 Integrazione degli alunni migranti nelle scuole d’Europa: un confronto fra le politiche nazionali, «Eurydice – Sistemi educativi e politiche in Europa», http://eurydice.indire.it/integrazione-degli-alunni-migranti-nelle-scuole-deuropa-un-confronto-fra-le-politiche-nazionali/ (consultato il 5 novembre 2019). La regione Puglia ha fatto recentemente un passo importante in questa direzione con l’inserimento del pedagogista a scuola, grazie alla recente approvazione della modifica alla legge regionale 31/2009. Intendo qui per «intersezionalità» la concomitanza di fattori di rischio per il minore immigrato, e il loro potenziarsi reciproco. Esempio: scarsa conoscenza dell’italiano da parte di genitori, reddito basso, gap tra professionalità acquisita nel Paese di origine e lavoro svolto in Italia, disabilità intellettiva, diversità visibile (Aluffi Pentini, 2002), ecc.
6 Tale consulenza è stata svolta per circa venti anni (1997-2017) con le famiglie immigrate i cui figli (0-6 anni) frequentavano un centro interculturale ubicato nella città di Roma, e con gli operatori del centro e delle scuole del quartiere. Della consulenza hanno usufruito per alcuni anni anche famiglie con figli della fascia di età di 6-14 anni e operatori del doposcuola frequentato dai ragazzi, nonché per dieci anni circa famiglie accolte in centri di accoglienza per immigrati.
7 A scanso equivoci, va detto che Winnicott non ha mai parlato di «incubatore di continuità» e che l’espressione è mia.
8 Winnicott chiama infatti quest’area di gioco intermedia «uno spazio potenziale tra la madre e il bambino, o che congiunge la madre e il bambino» (Winnicott, 1996, p. 92).
9 Cfr. anche: «L’esperienza culturale ha inizio con il gioco e conduce a tutto ciò che costituisce il mondo umano, dalle arti ai miti della storia […] fino alle istituzioni sociali e alla religione. […] Ho cercato di analizzare dove si può situare l’esperienza culturale e sono giunto a questa conclusione: essa inizia nell’area potenziale esistente tra il bambino e la madre quando, grazie all’esperienza, il bambino ha sviluppato un elevato grado di fiducia nei confronti della madre, tanto da sentirsi sicuro che ella sarà disponibile quando lui ne avesse improvvisamente bisogno» (Winnicott, 1990, p. 28).
10 Il concetto di incubatore di continuità è una metafora mutuata dalle cure neonatali, sta a indicare la messa a disposizione di uno spazio caldo e protetto che dia sicurezza proprio come l’incubatrice aiuta a equilibrare e consolidare le funzioni vitali del neonato prima che quest’ultimo conquisti la sua primissima autonomia… del vivere (Aluffi Pentini, 2008).

DOI: 10.14605/EI1721904


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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