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Riflessioni e teorie / Thoughts, theories, analysis

Intercultura e ambiente: un rapporto complesso
Interculture and environment: a complex relationship

Rosella Persi

Professoressa di Pedagogia generale e sociale presso la Scuola di Scienze Motorie, Sportive e della Salute, Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Studi Umanistici e Internazionali: Storia, Culture, Lingue, Letterature, Arti, Media (DISCUI) e Responsabile Scientifico CIRTA (Centro Interdipartimentale della Ricerca Transculturale Applicata), Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, rosella.persi@uniurb.it.


Autore per la corrispondenza

Rosella Persi
Indirizzo e-mail:
Dipartimento di Scienze della Comunicazione, Studi Umanistici e Internazionali: Storia, Culture, Lingue, Letterature, Arti, Media (DISCUI), Urbino Via Saffi, 15



Sommario

Ambiente e intercultura sono elementi inscindibili dei problemi del nostro tempo. Il testo propone una riflessione critica con l’intento di evidenziare il ruolo dell’ambiente nella sua connessione e interazione con le questioni inerenti il multiculturalismo e l’interculturalità. È infatti importante comprendere che in buona parte le cause dei grandi flussi migratori prendono origine dalle problematiche di ambienti caratterizzati da scarsità di risorse e da fattori naturali e sociali ostili. Il background dei migranti può, in alcuni casi, condizionare negativamente l’inserimento nei nuovi contesti di vita, compromettendo l’inclusione e causando difficoltà nelle nuove relazioni. L’educazione interculturale, finalizzata a sviluppare un pensiero plurale e competenze comunicative interculturali, si intreccia e condivide i fini con l’educazione ambientale, poiché entrambe operano per favorire una integrazione sostenibile e partecipata.

Parole chiave

ambiente; educazione; intercultura.


Abstract

Environment and interculture are inseparable elements of our time problems. The text proposes a critical reflection to highlight the relationships between multiculturalism and intercultural environment. It is in fact important to understand that mostly the great migratory flows originate from environments with scarce resources and hostility of natural and political factors. The migrants’ background can, in some cases, negatively affect insertion into new life contexts, compromising inclusion and causing difficulties in new relationships. Intercultural education, aimed at developing a plural thought and intercultural communication skills, intertwines and shares the goals with environmental education, since both work to promote sustainable and participatory integration.

Keywords

environnement; education; interculture.


Ambiente e mobilità: una questione di grande attualità

Ambiente e intercultura non sono «soggetti» lontani e le relazioni tra questi, che a un più attento esame potrebbero emergere, non sono così indirette come si potrebbe supporre. E questo anche quando per «ambiente» intendiamo la sua accezione originale di spazio regolamentato da processi e da elementi naturali, dove quindi gli esseri umani interagiscono come semplici componenti di un ecosistema, assai articolato e complesso, composito e agonistico, caratterizzato da un equilibrio fragile e perennemente instabile. Potrebbe apparire riduttivo declassare la presenza umana alla stregua di altre componenti viventi, sia pure superiori, ma bisogna riconoscere che, almeno in una fase primigenia, questa era la condizione della nostra specie che, meno dotata di altre — e forse proprio per questa iniziale debolezza — ha dovuto acuire l’ingegno per scoprire nuove soluzioni e adottare raffinati artifici. Così è riuscita a emergere nella competizione, prima con una natura spesso matrigna e poi anche con altre comunità umane diversamente sviluppate, ma favorite da risorse minerarie, forestali e ambientali. In tal modo gli esseri umani si sono posti progressivamente al centro dell’ambiente, lo hanno sfruttato e modificato, avviando contemporaneamente un cammino di sviluppo economico e sociale, anche se non sempre accompagnato da un pari progresso culturale e civile.

Il risultato principale è che all’«ambiente» si è sovrapposto il «territorio» con un livello organizzativo superiore per grado di complessità e di funzionalità, cioè uno spazio ordinato per soddisfare le esigenze di una comunità e che, a un tempo, è rappresentato e rappresentativo, cioè carico di valori e simboli e, pertanto, profondamente vissuto come tale e adeguatamente presidiato. Tanto vissuto e presidiato da diventare identitario e appartenente a un determinato popolo che, per quanto sempre aperto agli scambi e alle contaminazioni culturali, vigila sugli effetti della moderna globalizzazione e sul patrimonio di tradizioni, accuratamente custodito e trasmesso da generazione a generazione (Persi, 2018). L’appartenenza a un ambito sociale ben coeso prevede l’esclusione di quanti non vi si riconoscono o i cui comportamenti e visioni non sono riconosciuti e accettati dal gruppo. Questo il background in cui, in contrapposizione, si incardina un’altra tendenza dell’umanità manifestatasi sin dai tempi più remoti che è quella della mobilità e dell’irrequietezza che da sempre ha pervaso l’animo dei singoli, spingendo piccole comunità o intere popolazioni a spostarsi da una sede all’altra alla ricerca di migliori condizioni e opportunità di vita, o anche di conoscenza o di dominio.

Sicché la storia potrebbe essere riscritta sulla base dei movimenti di popolazioni che, pacificamente e, più spesso, aggressivamente si sono incontrate e scontrate con altre, talora sovrapponendosi e talaltra ibridandosi, rigenerando comunque il sangue, la lingua, i culti e le attività produttive e di relazione, quindi tutte le espressioni che si legano alla weltanschauung di un popolo e alla sua capacità di riorganizzare uno spazio ambientale e culturale (Bernardi, 2004; Spedicato Iengo e Di Gaetano, 1999). Dunque la mobilità, indipendentemente dal modo con cui si è realizzata, è la chiave del cambiamento e del rinnovamento, di un fecondo rimescolamento delle carte e dei contesti sociali e ambientali, delle organizzazioni politiche e delle modalità di rapportarsi alle risorse — al loro sfruttamento o valorizzazione —, alla realizzazione di nuovi territori e di nuovi spazi funzionali dove l’ambiente gioca spesso un ruolo determinante o comunque un ruolo irrinunciabile per la vita e il benessere della comunità (Morin, 2012).

Se ripercorriamo la storia dell’umanità sempre vediamo popoli in movimento, regni e imperi che si sviluppano o si disintegrano, fronti culturali che avanzano o arretrano, tentativi per costituire società internamente coese e flussi che ne insidiano le periferie e spesso il cuore stesso. Si evidenziano, dunque, opposte tendenze tra mobilità, che sembra racchiusa nel patrimonio genetico umano, e l’aspirazione a chiudersi in mondi autosufficienti e impermeabili alle intromissioni esterne che non cessano d’insidiare un precedente ordine costituito. Ma è sempre la storia che sottolinea un secondo aspetto, quello del ruolo dell’ambiente, con le sue continue modificazioni e variazioni soprattutto climatiche, che è il motore dei grandi spostamenti. In passato — e, nonostante i progressi tecnologici e la consapevolezza dei diritti degli altri, anche nel presente — l’ambiente sembra costituire il grande fattore che, in un contesto globale, mette in moto le genti tra Stati confinanti a diverso livello organizzativo e a diverso sviluppo, e tra Stati anche lontani che, per una questione d’immagine o di percezione, ma anche per una diversa possibilità occupazionale o speranza di reddito, oggi diventano meta di correnti talora assai consistenti di diseredati in cerca di futuro (Capello, Cingolani e Vietti, 2014). La questione ambientale legata soprattutto al degrado delle condizioni climatiche, diventa così la molla principale di un esodo che riguarda interi scacchieri del mondo, meno favoriti dalle risorse di suolo, acque, clima e caratterizzati dall’arretratezza produttiva, mai disgiunta comunque da una forte precarietà sociale e spesso da instabilità politica.

 

Ambiente, territorio, intercultura: una puntualizzazione non solo terminologica

Si ritiene opportuno sottolineare in maniera più esplicita le differenze di significato tra «ambiente» e «territorio», termini che vengono spesso confusi e arbitrariamente utilizzati come sinonimi. Quando si parla di ambiente, specialmente senza aggiunta di qualificativi che ne limitano inevitabilmente l’accezione, dovremmo intendere un insieme di componenti e di condizioni naturali legate a strette interazioni così da formare un sistema che possiede un suo areale e particolari caratteristiche per lo più rese visibili da morfologie peculiari e da processi specifici. In questo ambito rivestono un peso determinante le masse litologiche, quelle idriche, le coperture dei suoli e dei manti vegetali, le condizioni climatiche e i processi fisici, chimici e biologici che caratterizzano questo spazio, determinandone le forme e generando sistemi con equilibri notoriamente sempre instabili e dinamici. In esso la vita si sviluppa e si organizza e le comunità umane si affermano con interventi che rispecchiano la cultura, il livello tecnologico, la ricchezza e il tenore di vita, le proprie aspirazioni e credenze spirituali. È in base a questi aspetti che l’ambiente assume altre connotazioni, si razionalizza secondo le esigenze e la progettualità umana, quindi con segni e significati che nell’insieme possono modificare, e talora anche molto profondamente, l’iniziale assetto, ad esempio ponendo ad agricoltura le aree deforestate, bonificando le piane acquitrinose, deviando i corsi d’acqua, fondando insediamenti e costruendo una rete di comunicazioni, ecc. Questo è il territorio, che rappresenta il tentativo di connubio tra natura e società, tra leggi planetarie ed esigenze e norme di ordine sociale, economico, politico e culturale. Se l’ambiente è una realtà prevalentemente dettata dalla natura, il territorio è una struttura di tipo sociale, che rispecchia una cultura, realizza nuovi rapporti con l’ambiente naturale il quale resta comunque sempre alla base di ogni realizzazione territoriale (Iavarone, 2006, pp. 155-165). Si può anche dire che i due concetti di ambiente e territorio definiscono il passaggio dall’«organizzazione naturale» all’«organizzazione artificiale», intendendo con quest’ultimo termine l’artificio prodotto dall’ingegno umano e favorito dalle potenzialità tecnologiche e dello sviluppo economico.

Il territorio in sé ingloba l’ambiente, non può prescinderne, si rapporta a questo e si adatta alle condizioni naturali, ma aggiunge leggi sociali ed economiche che si muovono con ritmi diversi e con diverse finalità fino alla situazione estrema in cui si scontrano con le leggi della natura compromettendo anche queste stesse, causando degradi e persino calamità che talora, troppo sbrigativamente, vengono liquidate come calamità naturali. È vero che la storia del pianeta, forse non diversamente dalla storia umana, è distinta da andamenti contrapposti, da corsi e ricorsi, da oscillazioni tra posizioni estreme alla perenne ricerca di una via mediana e di un equilibrio duraturo. Ma tutto è distinto da dinamismo e da evoluzione, anche perché in ogni sistema complesso il difficile equilibrio raggiunto dipende da tanti fattori e condizioni e in esso il cambiamento, anche di un solo e piccolo componente, comporta una perdita di equilibrio e la febbrile ricerca di una nuova stabilità. La continua e rapida trasformazione dei traguardi sociali e la loro interferenza con le finalità naturali comportano una riformulazione continua dei contesti e delle politiche spaziali e l’avvio di sfide continue con cui l’umanità deve confrontarsi tentando di conciliare il rispetto dell’ordine naturale con le mete di ordine sociale ed economico che si prefigge (Carley e Spapens, 1999). Ciò costituisce una bella quadratura del cerchio che spesso manifesta i limiti di un impossibile connubio.

In questo ambito si inserisce la questione migratoria dalle dimensioni sempre più globali e dalle molteplici sfaccettature, che comporta una difficile ricomposizione di contrasti generati dalla contrapposizione e dalle interazioni tra sfere culturali spesso molto diverse e lontane tra loro, come l’esigenza di conservare le proprie radici culturali e contemporaneamente di aprirsi a nuove visioni e interpretazioni, ma anche a nuove condivisioni del lavoro e di ogni forma di bene comune (Capello, Cingolani e Vietti, 2014; Stocchiero, 2016). Si tratta, sostanzialmente, di una difficile conciliazione, quantunque non impossibile, se le parti interessate sono disposte a porsi in discussione e ad aprirsi a nuove prospettive basate non tanto sulla conservazione acritica della propria cultura, quanto sulla volontà di un progresso condiviso e di una reciproca accettazione e valorizzazione, che è molto più della semplice conoscenza e rispetto dell’altro.

Nel secolo passato, e in misura maggiore in quello precedente, nell’incontro tra popoli diversi, a seguito di una politica di colonizzazione, si è avuto un processo di assimilazione delle popolazioni dei paesi conquistati, svalorizzando la cultura locale a favore di quella dominante dei colonizzatori, magari giustificandolo come processo di modernizzazione e superamento del feudalesimo. Se vogliamo, già in precedenza le conquiste delle Americhe avevano realizzato in modo violento e traumatico questo atteggiamento dove la lingua, la cultura e la religione europea venivano introdotte, spesso con sistemi coercitivi, a tutto danno della cultura locale e senza alcun rispetto per i valori in essa contenuti. Il tutto con il pretesto di innovare e di introdurre una cultura superiore rispetto ad altre considerate arretrate, secondo un orientamento evoluzionistico ed etnocentrico, che imponeva la sostituzione di un mondo sviluppato a uno sottosviluppato senza alcuna attenzione alle specificità da questo possedute (Reinhard, 2002)

Il multiculturalismo, che dagli anni Settanta ha superato il monoculturalismo etnocentrico, ha rappresentato un passo avanti in quanto valorizzava la coesistenza di culture diverse sulla base del rispetto reciproco e della tutela della differenza. Ma ben presto ci si è resi conto che tale approccio rischiava di accentuare le diversità, gli stereotipi, i pregiudizi, e non favoriva il dialogo tra gruppi etnici e religiosi. Alcuni anni dopo si è affermata una prospettiva interculturale, che poggia sulla relazione e sul possibile arricchimento prodotto dalla mutua conoscenza e dalla intenzionalità di instaurare una proficua interazione. Per giungere a questo importante e significativo traguardo è stato necessario avviare un cammino di conoscenza dell’altro che rendesse possibile la contaminazione/condivisione di informazioni, fonti, narrazioni e vissuti, vale a dire, la cooperazione per un fine comune (Allport, 1976). L’interculturalità, si pone come modello paradigmatico, regolativo, per una possibile convivenza con le diversità in un clima pacifico e produttivo. In tale ottica è condizione indispensabile la reciprocità, senza la quale non c’è relazione propositiva ed efficace. Investire sulla conoscenza autentica dell’altro significa promuovere e sviluppare l’empatia, promuovere incontri, mettersi in una condizione di ascolto per meglio comprendere e interiorizzare la storia dell’altro, assumendo e trasmettendo un principio fondamentale che è quello del rispetto (Cambi, 2001; 2006). Non si può comprendere in pieno le altrui storie se non si sperimenta il decentramento necessario per poter assumere altri punti di vista. Ogni incontro comporta inevitabilmente un cambiamento, uno spiazzamento, un riflesso e una ristrutturazione del sistema cognitivo. Tutto questo rende più flessibili, partecipativi, non spettatori distratti, ma intenzionalmente predisposti ad acquisire una diversa modalità di pensiero che potremmo definire tanto migrante (Pinto Minerva, 2002) quanto ecologico (Morin, 2007), requisiti che sono fondamentali in ogni percorso educativo interculturale. «Scegliere l’interculturalità in modo consapevole, intenzionale, significa compiere una scelta non solo pedagogica, ma anche di politica scolastica. Infatti l’educazione interculturale per esistere deve essere voluta, progettata, sperimentata» (Ministero della Pubblica Istruzione, 1998, p. 8).

 

Contesto ambientale ed ecomigranti

Se passiamo in rassegna i Paesi che maggiormente contribuiscono ad alimentare l’emigrazione internazionale, senza troppa difficoltà riscontriamo che essi si concentrano in determinate aree distinte da connotazioni ambientali particolari e talora estreme. È vero, le cause dell’esodo non sono solo ambientali, ma queste sembrano prevalere o far scattare improvvise impennate e rapide accelerazioni del fenomeno, magari in coincidenza con difficoltà politiche, irrispettose dei diritti dei popoli e degli individui, o con interventi antropici massicci che sovvertono o comunque compromettono la regolarità delle leggi naturali (vaste deforestazioni, devastanti miniere a cielo aperto, grandi sbarramenti fluviali, estese piantagioni di potenti gruppi multinazionali, ecc.) (Myers, 1999). Per una spiegazione più convincente dovremmo osservare la superficie terrestre come costituita da fasce di varia ampiezza e da mobili contorni, che rispecchiano la diversa concentrazione della radiazione solare e la disuguale distribuzione pluviometrica, che comportano di conseguenza una singolare tipologia di suoli, una differente rete idrografica, un particolare rilievo orografico, forme diverse di attività produttive e d’insediamento. La concentrazione termica, massima lungo la fascia equatoriale, si riduce sensibilmente e gradualmente verso le alte latitudini. Anche la quantità delle piogge varia, in conseguenza della circolazione atmosferica a sua volta influenzata da fattori molteplici come il diverso rapporto tra aree emerse e oceaniche, la circolazione delle correnti marine e dei venti di alta quota, la latitudine di un paese e la sua altitudine media, l’orientamento delle barriere montuose, l’esposizione, ecc.

È un fatto incontrovertibile che la superficie del nostro pianeta risulti assai variegata per condizioni climatiche, geo-litologiche, strutture orografiche, coperture vegetali, risorse del suolo e sottosuolo, con conseguenti difformità delle condizioni ambientali e di vita, le une legate alle altre con particolari evidenze ed effetti perversi proprio nel Sud del mondo. Ne risulta un puzzle estremamente frammentato con ambienti ostili e inospitali affiancati da altri più favoriti da madre natura e dalle iniziative degli uomini.

Se volessimo adottare una terminologia più specifica, dovremmo parlare di sistemi morfo-climatici, che si succedono dall’equatore ai poli: quello equatoriale, particolarmente favorevole alla vita, quello dei tropici dominato da aree desertiche e predesertiche, quello temperato con le quattro stagioni e con le maggiori concentrazioni demografiche e economiche, quello freddo e glaciale, per lo più anecumenico o con rare comunità in prossimità delle fasce costiere, più miti e collegate al resto del mondo. Il passaggio da un sistema all’altro coincide con le zone di transizione, vere e fluttuanti interfacce poste tra ambienti diversi, che quindi risentono maggiormente di ogni sorta di variazione, anche se apparentemente poco significante. Sono queste le aree maggiormente critiche, distinte da un equilibrio fortemente instabile, perché non adeguatamente protetto dall’inerzia del sistema, che si oppone e resiste a lungo a ogni tentativo di cambiamento. Se all’interno del sistema, quindi, prevale l’autoconservazione, almeno entro certi limiti di variabilità, ai suoi bordi convivono situazioni opposte, che spesso si avvicendano tra loro, mettendo a dura prova le forme di vita presenti, costrette ad adeguarsi oppure, nei periodi più critici, a muoversi verso ambienti meno ostili e più stabili nel corso degli anni (McNeill, 2000). La fascia interposta tra zona equatoriale (foreste caldo-umide) e tropicale (deserti, come ad esempio il Sahel) corrisponde alle savane e alle steppe; quella tra aree tropicali e temperate del vecchio continente è la mediterranea, notoriamente distinta da stagionalità e da periodi caldi e siccitosi, alternati ad altri temperato-umidi o anche freddi e secchi. A ogni variazione climatica tutto il sistema deve recuperare un nuovo equilibrio e questo avviene spesso traumaticamente per gli esseri viventi. Così si spiega, nelle fasce di transizione, una copertura forestale frammentata, a pelle di leopardo, con attività agricole e di pascolo stagionali, dissesti idrologici dopo eventi piovosi e spesso in coincidenza con una cattiva gestione territoriale, ecc. Sono proprio queste aree di passaggio che forniscono il maggiore gettito emigratorio, anche per una radicata propensione all’emigrazione e alla mobilità nomadica derivate da un ambiente difficile e avaro. Con ciò non si vuole negare l’esodo di intere popolazioni sotto la furia della guerra o di calamità improvvise (alluvioni, straripamenti, esplosioni vulcaniche, ad esempio), ma queste riguardano spazi più circoscritti e non vasti come nel caso di diversi Paesi significativamente allineati lungo fasce di spiccata fragilità ambientale, il che compromette e aggrava la condizione sociale e spesso politica di tali ambiti. Proprio in questi territori il ritardo o la prolungata assenza di precipitazioni oppure, al contrario, l’eccedenza di piogge con conseguenti inondazioni, generano carestie ed epidemie. È qui che la pur solidale struttura sociale si sgretola, la comunità perde di coesione e di speranza, sicché la ricerca di vie di fuga si fa frenetica e disperata. Non si riuscirebbero a comprendere lunghi percorsi in un deserto sconfinato come il Sahara, attraverso Paesi spesso ostili fino alla Libia scossa da lotte fratricide, la navigazione di un mare non vasto, ma comunque spazzato da venti tempestosi e l’incertezza dell’accoglienza, se alle spalle non ci fossero condizioni di criticità estrema con una spiccata base ambientale (Mastrojeni e Pasini, 2017; Carsetti e Triulzi, 2009).

Chi lascia queste terre, spesso, lo fa senza proporsi, neppure in prospettiva lontana, un ritorno nel Paese di origine a causa delle difficoltà affrontate in patria, in un’area senza risorse naturali e senza possibilità di miglioramento, là dove il suolo si fa sempre più ridotto e portato via dal vento, le acque sono scarse e imbevibili, le sorgenti e i pozzi sono lontani dal villaggio, le piogge sono insufficienti e irregolari, lo stesso legname per improvvisare il fuoco quotidiano, intorno a cui si stringe la comunità familiare, è un bene sporadico da reperire sempre più lontano, le risorse dell’orto e del campicello sempre più esigue, mentre greggi di capre distruggono ogni piccola traccia di superstite vegetazione. Intorno il paesaggio è arido, ingiallito e secco, raro è il verde, asciutto è il greto dello uadi (corso d’acqua del tutto effimero), ovunque le plastiche abbandonate sono trasportate dal vento o impigliate alle siepi e alle reti di recinzione. E questa è l’immagine del Paese abbandonato che si lega alla povertà, alle privazioni, alla mancanza di assistenza e di servizi (sanitari, scolastici, finanziari, ecc.) e alla assenza di prospettive (Altiero e Marano, 2016).

Questo è lo scenario che gli emigranti conoscono e che lasciano alle spalle, ma che resta profondamente radicato nella loro memoria e nei loro affetti. In esso si è formata una cultura della sopravvivenza e delle relazioni umane in un ambito estremamente difficile, distinto da precarietà di risorse e da una vita difficile. Con ciò si vuole evidenziare che una delle prime cause di emigrazione è data proprio dalle problematiche condizioni di vita per lo più generate da un contesto ambientale poco o per nulla idoneo alla sopravvivenza e alla realizzazione delle persone. Questi individui, che alimentano le migrazioni di massa, spinti da condizioni climatiche avverse, prendono il nome di migranti ambientali, «ecomigranti» o anche profughi ambientali (Stocchiero, 2016, pp. 131-138). Spesso sono confusi come migranti economici, ossia persone che migrano in cerca di un futuro migliore. Ebbene è chiaro che tutti coloro che lasciano il proprio Paese vanno alla ricerca di miglioramento economico. Meno chiaro è che gli ecomigranti — detti anche «emigranti invisibili» proprio per la scarsa conoscenza e soprattutto percezione delle ragioni vere del loro esodo — sono costretti a partire perché non hanno scelta, in quanto gli inasprimenti ambientali, improvvisi e/o progressivi, non consentono più una sopravvivenza dignitosa (Persi, 2017, pp. 45-54; Myers, 1999).

L’approdo nella nuova terra crea generalmente ulteriori problemi connessi alle nuove percezioni e agli inediti contesti ambientali che talvolta male si conciliano con le conoscenze e le esperienze precedentemente acquisite e con i modi di vita dei Paesi di origine.

 

«Credevo di conoscere la meta dove sarei arrivata. Ero stata qualche anno prima tre mesi in Svezia da mio fratello. Quando sono arrivata in Italia ero felicissima. Non potevo crederci. Ero finalmente in Europa. Ma alla stazione ho iniziato subito a capire che quello che vedevo era molto diverso da quello che sognavo. Il primo shock è stato vedere le persone che dormivano lì. In stazione. Per terra, senza un tetto sulla testa. Poi ho visto altre persone che dormivano per strada. Sono rimasta malissimo. Mi sono detta: non è possibile, qui a Roma, anche qui ci sono i poveri! Ma poveri molto. Più poveri di noi poveri in Africa perché almeno da noi, anche se dormi in terra come loro, trovi sempre qualcuno che ti accoglie e dormi sotto un tetto. Il secondo è stato scoprire che la casa dove sarei andata a vivere era grande. Avrei potuto ospitare tante delle persone che avevo incontrato, ma ho capito che qui non era come in Africa. Qui ognuno ha la sua casa e il suo spazio. Uno spazio di proprietà che si difende senza far entrare nessuno, anche se ci vivi solo, quello spazio è tuo e basta. Una cosa per me senza senso. Condividere non possedere, così sono cresciuta». (M.C., Rwanda, 35 anni)

 

Le narrazioni lungo le traiettorie migratorie

Riguardo al vissuto dei soggetti immigrati, alla scelta di emigrare, alle personali percezioni relative alle difficoltà di inserimento e approccio alla nuova realtà socio-ambientale e ai contrapposti sistemi di valori (dei rispettivi Paesi di emigrazione e immigrazione), si fa riferimento, oltre che alla letteratura scientifica in materia di questioni migratorie, agli esiti della ricognizione di esperienze di vita, effettuata attraverso l’analisi di narrazioni della popolazione di origine straniera, resa in forme e supporti di diverso genere, quali testi scritti (autobiografici, poetici, iconografici), interviste etnografiche, espressioni grafico-pittoriche che raccontano l’esperienza migratoria nei suoi risvolti meno sondabili e poco conosciuti. D’altra parte, la specificità della ricerca qualitativa, a cui si fa riferimento nella modalità di raccolta delle testimonianze sopra citate, è proprio quella di sondare micro-porzioni di realtà che nei risultati dell’analisi non possano essere generalizzate — vale a dire, estese come paradigma interpretativo —, ma consentono di esplorare in profondità la fenomenologia delle problematiche migratorie altrimenti inconoscibili.

La maggior parte delle testimonianze, utilizzate per questo lavoro, sono state raccolte tra gennaio-aprile 2019 in previsione di tre giornate interculturali organizzate dalla P.A.S.C.I[1] finalizzate alla conoscenza dell’Altro per una fattiva accoglienza, percorso che non può che richiedere di fare emergere la realtà della condizione dei cittadini stranieri sollecitando, in questo caso, l’espressione di vissuti personali dei partecipanti, delle esperienze e delle specifiche considerazioni/riflessioni sul proprio percorso, a partire dalla motivazione della scelta migratoria, fino all’approdo in una nuova condizione di vita.

In questo arco di tempo insieme a un gruppo di ricerca sono stati presi in esame 75 elaborati, costituiti da differenti tipologie di testi di natura prettamente autobiografica: autentiche narrazioni, poesie, testi di canzoni, la narrazione orale, rappresentazioni grafiche, disegni.

Oltre la metà dei soggetti intervistati erano di sesso maschile e provenienti per la maggior parte dal centro-nord Africa, ma vi sono testimonianze anche di cittadini provenienti dal Pakistan, Afghanistan, Siria, Cina, Turchia, Russia. L’età degli intervistati, fatta eccezione per due adulti maturi residenti da molti anni in Italia, oscilla fra i 16 e 35 anni, arrivati in Italia da meno di 6 anni.

Oltre ad essere stata un’esperienza umana molto significativa per tutti coloro che vi hanno preso parte, le narrazioni suddette evidenziano e riconfermano le difficoltà già prese in esame da studi specifici (Bennet, 2002; Sayad, 2002; Djouder, 2007; D’Ignazi e Persi, 2004)

La migrazione crea un disorientamento iniziale e difficoltà di accettazione, soprattutto nei casi di inserimento, che si riflettono anche sulla vita e sulle relazioni sociali (Bennet, 2002, pp. 176-184). I diversi modelli esistenziali presenti nel Paese ospitante portano a dover ristrutturare il modo di pensare e di organizzarsi conosciuto fino ad allora (Cambi, Campani e Ulivieri, 2003). Se nelle aree di partenza la vita veniva condotta per lo più all’aperto, in contesti caratterizzati da una stagione fredda e lunga, come quelli dei luoghi di approdo, le attività quotidiane si svolgono all’interno di costruzioni artificialmente riscaldate e in spazi urbani regolati da nuovi rapporti e con l’ambiente esterno e con le comunità sociali.

Forse si dovrebbe parlare di ambienti sperati, più che di ambienti di arrivo o di destinazione e il primo avvio è raccontato da E.O. (19 anni):

 

«Quella casa, in un piccolo villaggio del Ghana, l’ho lasciata a tredici anni per lavorare in una città più grande, nella famiglia di mio zio, presso la sua officina come saldatore. Non posso dire che con lui stavo male ma già a quella età pensavo di uscire dal mio Paese per conoscere l’Europa e le sue strade asfaltate, pulite, che per me erano una grande attrattiva. Il mio desiderio di andarmene l’ho tenuto nascosto ai miei genitori perché attraversare il deserto e il mare era pericoloso e non me lo avrebbero permesso».

 

Queste sono mete a lungo sognate e desiderate, sempre conquistate a prezzo di rischi personali e di dolorosi sacrifici. Per tanto tempo sono spazi sconosciuti, percepiti attraverso racconti e immagini, talora mediante filmati che spesso dipingono una realtà edulcorata e trasfigurata e pertanto ingannevole. Molteplici sono gli stati d’animo e le reazioni dopo il raggiungimento di una meta agognata: gli stupori e le paure di fronte a un mondo di apparenze spesso ammalianti e seducenti, le delusioni di fronte a contesti non corrispondenti alle attese, le difficoltà di inserimento accentuate dall’oscurità della lingua, le reazioni all’incomprensione da parte dei locali dei propri comportamenti, i disorientamenti di fronte ai valori diversi dai propri, ecc.

 Smarrimento e solitudine, accanto al desiderio di essere accolti e accettati, emergono frequentemente. Emblematica è la testimonianza di H.S. che confida di voler diventare uno scrittore/poeta e ci dice proprio in poesia:

 

« Non vedo niente, quasi cieco. Mi mancano le parole, sono quasi muto. Quasi rinnegato vivo la mancanza. La solitudine mi fa compagnia. Mi chiudo dentro lo scrigno e la mia solitudine è preziosa. Manca l’amore, l’affetto e la dolcezza. Accettatemi o fratelli e sorelle. Sono un uccello spaesato. Viaggio ovunque. Asciugatemi quel mare, il mare che scorre sotto i miei occhi». (H.S., Costa d’Avorio, 20 anni)

 

Il disorientamento inizia dalle cose più semplici e primarie come la ricerca di un letto o il bisogno di una casa, usare un mezzo di trasporto e così via. Un effetto disarmante, come emerge da alcune narrazioni, possono suscitare le estensioni anonime delle grandi città, le sfolgoranti luminarie notturne, le acque emesse ininterrottamente dalle fontane, il verde dei giardini e i parchi rigogliosi o, nelle periferie, gli orti e i campi coperti di ortaggi e di estese coltivazioni. A un ambiente ostile o comunque avaro si sostituisce un altro dalle numerose potenzialità che impone un nuovo rapporto di uso e di valore. Inizialmente queste fortunate condizioni ambientali producono nei nuovi arrivati una sorta di inebriamento e anche una spinta a un loro consumo poco attento, ignari dell’esistenza anche lì di problematiche ambientali che richiedono un uso responsabile e magari parsimonioso. Anche qui va evitato lo sperpero!

 

«Oggi ho capito. Sto attenta, ma a volte mi dimentico. All’inizio ero attenta, ma poi averla sempre mi ha fatto capire che in Italia c’è. C’è un pozzo senza fine dove l’acqua c’è per tutti. Tutta l’acqua del mondo è qui. Io vengo dalla Moldavia e nella mia zona, in campagna, l’acqua c’è, ma solo in alcune ore, qui invece sempre. Adesso siccome la signora mi sgrida cerco di fare attenzione, ma è difficile. Lei non vuole perché bolletta alta. Quando una cosa l’hai la usi». (EM, Moldavia, 40 anni)

 

Anche qui esiste una questione ambientale con forme di inquinamento aereo e acustico, alterazioni chimiche delle acque e dei suoli, accumulo di rifiuti che impongono la raccolta e smaltimento secondo un orario e un calendario settimanale a cui non si è abituati. Si tratta di acquisire nuove conoscenze e consapevolezze, di far proprie nuove sensibilità e regole di vita, di adottare nuovi modelli improntati al rispetto dei luoghi e delle persone. È una rivoluzione mentale e culturale che si pone quindi alla base di ogni più sviluppato e ampio processo di inclusione e di partecipazione nei nuovi contesti incontrati, nelle nuove sedi di lavoro, d’insediamento e di relazione.

 

Il tramite tra ambienti e culture: l’educazione interculturale

L’educazione ha il compito di guidare verso il dialogo al fine di disinnescare la potenziale aggressività implicita in ogni persona che vede in ciò che non conosce o che le risulta incomprensibile, un pericolo. Troppo spesso quando intraprendiamo un cammino di conoscenza, che ci vede protagonisti di un incontro con situazioni male o poco conosciute, condizionati da stereotipi e pregiudizi, lasciamo che a prendere il sopravvento sia la paura — piuttosto che la curiosità — dovuta al margine di incertezza, tipico delle relazioni tra soggetti provenienti da differenti culture ed esperienze di vita, condizione particolarmente marcata in chi è straniero e percepisce la propria condizione come aliena rispetto alla nuova realtà esistenziale verso la quale però non perde la speranza di inserirsi:

 

«Vorrei tanto sentirmi a casa, ma sento che sono straniero. Lo vedo negli occhi di chi mi guarda. Lo leggo nei volti di chi mi osserva. Mi fanno sentire diverso. Talvolta mi sento sbagliato, altre sono arrabbiato, ma voglio essere fiducioso. Spero in un futuro migliore». (I.C., Guinea, 23 anni)

 

Occorre, allora, acquisire e assumere atteggiamenti diversi se si vuole intraprendere un cammino interculturale. Infatti quando pensiamo allo specifico dell’approccio interculturale siamo tutti d’accordo nel riconoscere che questo risiede soprattutto nell’azione congiunta tra le parti. Non può esistere intercultura se non c’è interazione critica e aperta. La reciprocità è una condizione obbligata nel rapporto tra varie culture ed etnie perché, per essere tale, non può essere unidirezionale o a senso unico, ma necessariamente multidirezionale, multiforme e scambievole (Genovese, 2003; Fiorucci, Pinto e Portera, 2017).

Oggigiorno, con le migrazioni i contesti di vita sono sempre più multietnici e solo la conoscenza reciproca può disattivare la titubanza, la perplessità, il timore e abbattere le barriere dei pregiudizi e delle diffidenze. D’altra parte l’ignoto può diventare anche una preziosa opportunità di conoscenza e di crescita, e solo il dialogo e il confronto può consentire di comprendere che un determinato atteggiamento, per quanto difforme da quello da noi ritenuto più corretto, possa nascere da percezioni dell’ambiente e degli altri radicate in contesti sociali e fisici assai diversi dai nostri. Pertanto, non è sufficiente vivere sullo stesso territorio, sia pure armoniosamente, per poter avviare e attuare una realtà veramente interculturale.

La convivenza senza dialogo, senza molteplicità e fecondità di relazioni, senza conoscenza reciproca e fiduciosa è esclusivamente un fatto oggettivo, che si traduce nella multiculturalità. Vivere insieme, invece, significa costruire relazioni significative che contribuiscono a far sì che ci si riconosca più simili che diversi, o quanto meno con problematiche comuni e con visioni e «interpretazioni» suscettibili di ripensamenti o anche, in prospettiva, di cambiamenti in una prospettiva di condivisione e partecipazione.

Sulla base delle narrazioni raccolte, si rileva come una costante il fatto che anche chi proviene da luoghi, spazialmente e culturalmente molto lontani dalla cultura d’accoglienza, ha una percezione della realtà circostante differente da quella degli autoctoni, di coloro che sono nati e cresciuti in un medesimo luogo. D’altra parte, quando si emigra non si arriva nel nuovo territorio solo con il proprio corpo, ma con tutta la propria persona, quindi con un background culturale profondamente radicato, che continua a condizionare le nuove percezioni, le relazioni, le azioni e i comportamenti. Pertanto può accadere che anche i cittadini stranieri da tempo sul nuovo territorio, sviluppino una sorta di resistenza al cambiamento che impedisce loro di far proprie le nuove acquisizioni (almeno in una prima e lunga fase). In tal caso essi cercano di raccogliere, di ricordare, di trattenere tutto quello che hanno conosciuto e che hanno lasciato in patria, per una sorta di spirito di conservazione della cultura e delle memorie che temono di perdere e per un legame affettivo sempre vivo:

 

«Questa è la mia nuova casa dove sono indipendente, ma non è la casa che amo. Nel cuore rimane sempre la mia casa in Ghana; non riesco proprio a dimenticarla. Mi manca nonostante tutta la sua polvere, che ora mangerei volentieri per poterla rivedere con tutte le mie persone care dentro». (E.O., Ghana, 19 anni)

 

Talvolta, nei casi in cui il processo di inserimento presenta un grado elevato di difficoltà la sensazione di sradicamento può indurre smarrimento, alienazione, inducendo a ricercare nel nuovo contesto sociale e ambientale, con prevedibili e conseguenti frustrazioni, quanto già si conosce e che difficilmente si trova.

Ciò produce una sorta di ambivalenza e di ambiguità nello spirito di fronte ad atteggiamenti opposti, tra l’aspirazione a entrare in questo «nuovo mondo» e la difficoltà di riconoscersi in esso (Sayad, 2002). Questa conflittualità e sdoppiamento generano quasi sempre una sorta di shock, legato a una realtà che si percepisce dualisica e contradditoria, diversa da come è stata immaginata, che non consente di comprendere appieno i giudizi di valore e le norme di vita del luogo di arrivo (Kuruvilla, Mubiayi, Scego e Wadia, 2005; Divakaruni, 2001; Laplantine, 2004).

Il disorientamento genera incomprensioni e malintesi che nascono non solo perché si incontrano persone che parlano una lingua diversa, ma anche perché, oltre alla diversità dei luoghi nelle modalità di relazione e di stimoli con l’ambiente, il soggetto immigrato fa riferimento a differenti piani di significato nella codifica e decodifica dell’esperienza nel nuovo contesto di vita (Bennet, 2002, pp. 176-184; D’Ignazi, 2008).

Così alla sofferenza per la perdita affettiva causata dall’allontanamento dei propri familiari e dell’ambiente di vita, si aggiunge altro disagio, altra inquietudine, altri motivi di sgomento e di insicurezza, se non di vera paura.

L’inserimento in una grande città a volte pone l’immigrato di fronte a una realtà poco conosciuta o male conosciuta:

 

«Sono arrivato in Italia attirato dai racconti di chi mi ha preceduto. Avevo previsto tante cose, ma non il freddo. Ho sofferto tanto, ma solo per il freddo ho veramente pianto. Sono stato anche in città come Roma, ma preferisco il paese dove vivo adesso vicino alla provincia perché almeno qui trovo qualcuno con cui parlare. Solo quando ti conoscono non fai paura. Nelle grandi città tutti ti evitano e rischi di svegliarti arrabbiato e arrivare a sera che ancora lo sei. Solo e arrabbiato». (M.B., Senegal, 29 anni)

 

Infatti le città, le grandi metropoli, a detta di alcuni intervistati, se da un lato ostentano ricchezza e benessere economico, dall’altro risultano carenti di valori umani, proprio quei valori umani di cui chi proviene da una comunità molto coesa e solidale, sente il maggiore bisogno. Di qui la ricerca di spazi e di gruppi di appartenenza in cui ci si sente più protetti e meno soli, ma con il rischio di cadere talvolta nella marginalità o devianza. Il mancato incontro con l’Altro genera incomprensione e fastidio, aumentando la difficoltà di contatti e l’avvio di intese indispensabili per condividere e ricercare comuni traguardi, come richiederebbe un’inclusione autentica.

Ogni processo interculturale si avvia con il dialogo espresso in vari modi e forme, che va perseguito promuovendo ascolto, incontro, scambio, e una competenza fondamentale quale è la capacità di decentrarsi, di assumere il punto di vista dell’Altro, vale a dire una visione e un orizzonte plurale, cercando di capire come noi siamo percepiti dagli altri, chiedendoci non «come agirei “se io fossi al suo posto”», bensì «come mi comporterei “se io fossi quella persona”», con quelle caratteristiche, quei problemi e situazioni particolari (Santerini, 2017).

Nella prospettiva di favorire lo sviluppo — a livello individuale e collettivo — di un pensiero plurale, sarebbe necessario promuovere lo sviluppo di un’altra competenza, che di quello è presupposto, cioè l’empatia, al fine di consentire una profonda ristrutturazione cognitiva dei soggetti impegnati in una relazione fecondamente interculturale. Infatti ogni esperienza modifica il nostro modo di pensare, di vedere e di sentire, cambia le nostre convinzioni, ci contamina e la contaminazione rappresenta un aspetto irrinunciabile per implementare i nostri modi di ragionare, di riflettere, di sentire e agire (Boncinelli, 2016).

Educare all’ambiente, in senso lato, vuol dire, sostanzialmente, educare a comprendere e a promuovere le sinergie e le relazioni tra le persone, e può rappresentare un primo cammino per comprendere che apparteniamo alla stessa Terra, verso la quale abbiamo anche obblighi (non solo diritti), che ci derivano dai diritti altrui e anche da quelli delle generazioni future. (Angelini e Pizzuto, 2007). Almeno se vogliamo sviluppare una sensibilità ampia e coerente con le problematiche di un futuro sostenibile e davvero compatibile (Malavasi, 2010).

Per concludere, ambiente e intercultura sono inscindibili e non possono che procedere e operare in stretta interazione. L’ambiente rappresenta il presupposto irrinunciabile per ogni incontro tra culture e per la soluzione corale delle grandi questioni dell’umanità, nella consapevolezza che il problema degli uni è anche il problema degli altri e che le sfide si pongono come interconnesse e, pertanto, vanno affrontate contestualmente e partecipativamente. Tutto ciò supportato da un comune progetto di convivenza aperta e democratica, fortemente interattiva e pregna di valori condivisi, radicata sulle diversità e sulla molteplicità di contributi e di visioni personali e comunitarie.

 

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[1] P.A.S.C.I. è l’acronimo di «Preghiera, Accoglienza, Servizio, Cultura, Identità». Il convegno si è svolto a Fano (PU) nei giorni 3-4-5 maggio 2019, dal titolo Di casa in casa. Stranieri per una casa comune, in collaborazione con l’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, Caritas Diocesana Fano Fossombrone Cagli Pergola, Ufficio Migrantes diocesano, «Umubyeyi Mwiza» associazione italo-rwandese e cooperative/associazioni della regione Marche.


DOI: 10.14605/EI1721910


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