Introduzione

Nel Ventunesimo secolo la vita si snoda in un mondo interconnesso, diversificato e in rapida evoluzione. Emergenti forze economiche, digitali, culturali, demografiche e ambientali determinano l’esistenza degli esseri umani in tutto il pianeta, aumentando incontri e scontri, rischi e opportunità. L’avvento del terzo millennio ha avvalorato la profezia di McLuhan del 1962 della nascita del «villaggio globale». Oggi l’umanità vive in un mondo plurale, interconnesso e in rapido mutamento, divenendo sempre più dipendente da persone che non hanno mai incontrato prima e da fenomeni che avvengono a migliaia di chilometri di distanza. La nuova tecnologia digitale, emergenti forze economiche, culturali, demografiche e ambientali condizionano la vita di ogni donna e ogni uomo di tutto il pianeta. La diffusione dei mass media, il progresso nel campo dell’informazione, notevoli cambiamenti geopolitici che interessano singoli Stati nazionali, nonché la creazione di nuovi mercati, implica una riduzione delle distanze, più forti legami tra le diverse aree geografiche, una maggiore mobilità, maggiore interdipendenza, e nuovi e diversificati flussi migratori. Ad aumentare la mobilità concorrono anche le crescenti discrepanze tra i Paesi ricchi e poveri, la persistenza di regimi dittatoriali, la violenza, la guerra e le deportazioni in molte parti del mondo. D’altro canto, in molte nazioni industrializzate, i bassi tassi di natalità e la crescente domanda di servizi e di risorse umane fungono da forte attrazione all’arrivo di nuove persone. La migrazione, da elemento di rischio, diviene nuova risorsa e opportunità; da fenomeno transitorio e marginale, costituisce uno dei più significativi aspetti che modificano permanentemente le società sul piano strutturale e sistemico. Emergono nuove sfide da affrontare, problemi da identificare e opportunità da cogliere. Tuttavia, nei Paesi di arrivo, mentre problemi e conflitti sono evidenti e ben enfatizzati nei media, i benefici sono più difficili da riconoscere e attuare (Bauman, 2000; Soros, 1988; Suarez-Orozco e Qin-Hilliard, 2004; Unesco, 2016). 

Peraltro, dopo le necessarie riforme liberali che hanno giustamente decretato la morte delle forme di governo autoritarie e oppressive (era vittoriana; dittature fasciste e comuniste; governi teocentrici), oggi nei Paesi industrializzati viviamo una fase definita del neoliberalismo. (Joseph Nye; Robert Keohane). L’ordine neoliberale ha potenziato le egemonie, fornito le ali al capitalismo senza regole (tranne quelle che cerca di darsi da solo) e senza limiti (persino l’educazione e la formazione divengono elementi del capitale, occasione per fare soldi). Si cerca di scoraggiare le riflessioni critiche, l’impegno pubblico. Si affievoliscono anche alcuni valori del vivere civile (Hyslop-Margison e Sears, 2006). Il mondo sperimenta l’esacerbazione della divisione fra Paesi, aree e cittadini ricchi e poveri. Sussistono radicali cambiamenti volti alla soppressione di principi morali a favore di logiche di mercato. Gli effetti disumanizzanti del neoliberismo, compresa la manipolazione dell’opinione pubblica, inducono milioni di cittadini negli Stati democratici a inseguire unicamente il miraggio dell’accumulo di soldi, beni materiali e potere, a scapito del bene comune. Imperativi, quali competizione, efficienza, individualismo e standardizzazione sembrano essere attuati a danno dell’attenzione alla singola persona umana (donna, uomo, bambino, anziano, portatore di handicap o straniero). Tutto ciò va anche a scapito della comunità (bisogno di far parte di un gruppo, accettazione, rispetto, amore; Portera, 2015, pp. 169), nonché (Portera tes. Sommersi);del rapporto con l’ambiente esterno: terreno, acqua, aria, piante, animali (Sumner, and Mair 2008).

La potente onda neoliberale non solo ha manipolato strutture sociali, la modalità di produrre, dividere e spendere ricchezza, ma esercita un influsso pervasivo anche nel sistema scolastico. Moltissime scuole, in pressoché tutti i Paesi industrializzati, si trovano a sottostare a logiche di mercato e si trovano sempre più costrette a instillare conformismo politico-culturale a scapito dell’engagement, della responsabilità e dell’azione politica (Nussbaum, 2010). Insegnanti di ogni ordine e grado rischiano di divenire «la mano lunga» del capitalismo e del neoliberismo (Hyslop-Margison e Sears, 2006). Le scuole di tutto il mondo rischiano di perdere il ruolo centrale nel formare al pensiero critico e promuovere persone e società eque, a misura d’uomo (Baldacci, 2017). L’individualismo competitivo, alimentato dalla cultura del positivismo, pare contrastare l’empowerment della donna e dell’uomo: «[it] ignores ethical and moral questions and thus tacitly supports forms of domination, hierarchy and control» (Kincheloe, 1999, p. 7).

Il piano dell’educazione e quello della formazione, in famiglia, a scuola e nella società civile sono profondamente condizionati da tutti i suddetti cambiamenti. Paure e insicurezze emergono in spazi pubblici e privati. Rischi, conflitti e opportunità in molti Paesi occidentali, soprattutto in Italia, conducono alla ricerca e implementazione di nuovi approcci. Piani di studio e metodi di insegnamento sono revisionati in modo frettoloso (spesso senza adeguata sperimentazione). Il risultato è che spesso le soluzioni conducono a situazioni peggiori del male: invece di essere risolti, i problemi degenerano (Portera e Milani, 2019).

Quale potrebbe essere la via di uscita? Quali risposte fornire a fronte dei conflitti, dei rischi e delle opportunità? Oggi, da più autori e ambiti disciplinare emerge con chiarezza che, alla luce dei numerosi e rapidi cambiamenti e crisi, l’educazione e l’istruzione assumono una funzione determinante (Suarez-Orozco e Qin-Hilliard, 2004; Nussbaum, 2010; Council of Europe, 2016; OECD, 2018). La questione centrale è: quale tipo di educazione e di pedagogia sono più appropriati in un momento di crescente interconnessione tra le persone, in cui la migrazione non è più un prerequisito per entrare in contatto con altri gruppi etnici con differenti lingue, norme e religioni; e in cui la vita di una persona è direttamente o indirettamente influenzata da eventi contemporanei in altre parti del mondo? Di quale istruzione si ha bisogno in una società condizionata da idee neoliberiste e in cui la preparazione accademica e sociale degli studenti sembra asservita a logiche di profitto e di mercato? 

In seguito al totale fallimento della maggior parte delle soluzioni politiche messe in atto in passato anche in Europa, e ancora presenti in alcuni Paesi (per esempio, eliminazione, assimilazione, segregazione, ghetti, fusione), sul piano pedagogico sono stati sviluppati e attuati diversi modelli, soprattutto: transculturale, multiculturale e interculturale (Portera, 2013). Attualmente il concetto più frequentemente usato in politica dell’istruzione e della formazione nelle nazioni più industrializzate è l’educazione multiculturale (Palaiologou & Dietz, 2012; Catarci e Fiorucci, 2015). Nonostante il fatto che ci sia una grande divergenza circa il significato semantico e l’applicazione del multiculturalismo, anche in risposta alle circostanze specifiche dei diversi Stati (Sleeter e Grant, 1987; Nieto, 2009), tale concetto è stato criticato anche sul piano politico. In Europa, Angela Merkel (Discorso alla conferenza della CDU, 17 ottobre 2010) ha dichiarato che il multiculturalismo era «completamente fallito»; David Cameron (2011) ha affermato che il multiculturalismo è una politica «non riuscita» del passato che ha indebolito l’identità collettiva francese e incoraggiato culture differenti a vivere vite separate; Nicolas Sarkozy (2011) ha affermato che il multiculturalismo era stato «un fallimento», perché le istituzioni sarebbero troppo preoccupate a salvaguardare le culture dei cittadini immigrati e non abbastanza attenti all’identità del Paese di accoglienza. 

Accanto a tali critiche sul piano politico, anche nel settore educativo e nel campo della formazione, nonostante il modello multiculturale sia apprezzato per la capacità di promuovere conoscenza e rispetto per l’alterità, molti autori (Perotti, 1994; Allemann-Ghionda, 1999; Gundara, 2000; Santerini, 2003; Barrett, 2013; Fiorucci, Pinto Minerva e Portera, 2017) evidenziano alcuni limiti; soprattutto: staticità e rigidità dell’idea di cultura; epochè, ossia sospensione di giudizio politico o morale; organicismo, ossia cultura percepita come organizzazione indivisibile, spesso associata allo stato nazionale; assenza di valutazione (standard culturali non possono essere giudicati né modificati); strategie educative che promuovono la coesistenza pacifica come in un condominio (Demetrio, 1997). In forza di ciò, in Europa, a partire dalla fine del 1980 le istituzioni ufficiali (soprattutto il Consiglio d’Europa), la maggior parte di studiosi, educatori e insegnanti, superando il concetto di multiculturalismo considerano l’educazione interculturale come l’approccio più appropriato. 

 

Bisogno di educazione interculturale

Se è vero che ogni essere umano, in ogni periodo storico e in ogni luogo, detiene un imprescindibile, fondamentale bisogno di essere educato (senza la presenza fisica e il competente ruolo dell’educatore, il neonato non riuscirebbe neanche a sopravvivere), è anche vero che nel tempo della globalizzazione e dell’interdipendenza planetaria tutta l’educazione andrebbe coniugata in maniera interculturale. Come ho esplicitato meglio in altra sede (Portera, 2006; 2013; 2019), l’approccio della pedagogia realmente interculturale (non come spesso frainteso o confuso) rappresenta una vera e propria rivoluzione copernicana: concetti come «identità» e «cultura» non sono più intesi in maniera statica, bensì dinamica, in continua evoluzione; l’alterità, l’emigrazione, la vita in una società complessa e multiculturale non sono considerate come rischi di disagio o di malattie, ma come delle opportunità di arricchimento e di crescita individuale e collettiva. L’incontro con lo straniero, con il soggetto etnicamente e culturalmente differente, rappresenta una sfida, una opportunità di confronto e di riflessione sul piano dei valori, delle regole, dei comportamenti. L’approccio interculturale si colloca tra universalismo e relativismo, tiene conto di opportunità e limiti di entrambi e li supera in una nuova sintesi, aggiungendo l’intervento mediante incontro, dialogo, confronto e interazione. Laddove la multi e la pluricultura richiamano fenomeni di tipo descrittivo, riferendosi alla convivenza pacifica, gli uni accanto agli altri, come in un condominio, di persone provenienti da culture diverse, l’aggiunta del prefisso inter- presuppone la relazione, l’interazione, lo scambio di due o più persone. In tal senso, l’approccio interculturale promuove il contatto, l’incontro, il dialogo e il confronto (nel senso di saper gestire differenze di opinione, dissensi e conflitti). Alla luce di tali sviluppi, oggi occorre pensare alle forme di comunicazione e dialogo opportune nel tempo presente, atte a gestire la crescente globalizzazione, interdipendenza e cosmopolitismo planetario. Sempre più emerge un forte bisogno di competenze interculturali.

 

Fraintendimenti e conflitti sul piano comunicativo

L’incontro fra esseri umani nati in Paesi diversi e detentori di lingue, valori, religioni, modalità di pensiero e comportamentali differenti, implica sempre l’insorgere di incomprensioni e conflitti sul piano linguistico-comunicativo. Fraintendimenti e conflitti potrebbero insorgere su tutti i piani della comunicazione: sotto il profilo verbale, non verbale e paraverbale.

Rispetto al piano verbale: «uno degli aspetti più naive di chi affronta la dimensione interculturale è la presunzione che sia possibile tradurre i significati in modo esatto, trasponendo verbi e parole come sono, semplicemente portandoli nel linguaggio altrui. La traduzione è in realtà un fenomeno molto più complesso. Ogni parola, ogni verbo, ha campi semantici (campi di significato) specifici e non traducibili esattamente nella lingua altrui». (Balboni, 2014, p. 45)

Il fraintendimento verbale può scaturire da più fattori. L’ambito verbale genera problemi di comunicazione tra parlanti ponendosi come un «software mentale» diverso fra gruppi linguistici differenti.

Per esempio (Blommaert, 1991, pp. 27-38) due persone che utilizzano una lingua comune si comprendono a livello linguistico ma ciò che esprimono sono significati diversi. L’incontro è fra un cittadino belga e uno del Sudafrica. A è belga, B è africano; si trovano a Bruxelles in un pomeriggio d’inverno:

 

A: Vuoi un caffè?

B: No, grazie, non ho fame.

A: Vuoi un CAFFÈ’?

B: No, grazie, (breve pausa) Non ho fame,

 (lunga pausa)

A: Vorresti andare a bere qualcosa?

B: Certo, con piacere, fa proprio freddo.

A: Magari un caffè?

B: Bene, volentieri.

 

Cosa è successo? L’incomprensione nasce dal fatto che B risponde pensando che gli abbiano offerto del caffè in grani, in quanto nel suo Paese di provenienza agli ospiti si offrono chicchi di caffè da masticare, come simbolo di ospitalità. Perciò per B caffè = cibo. Invece A intende caffè = bevanda calda, da qui il fraintendimento di tipo pragmalinguistico. Solo quando invece di ripetere la parola «caffè» si invita a bere qualcosa, B accetta.

Un ulteriore esempio (Niehaus, 2008, p. 94) è costituito dal caso di un manager italiano (A) che chiama un cliente tedesco (B). Già riguardo le semplici forme di cortesia si presentano le prime trappole di possibili incomprensioni.

A inizia la telefonata con convenevoli adatti a una conversazione tra italiani, chiedendo «Wie geht es Ihnen?» («Come sta?»).

Specie se si tratta di una breve conversazione al telefono, che non prevede l’uso di un tempo più esteso, egli genera impaccio in B, che si troverà nell’imbarazzo di dare sinceramente informazioni sul suo stato d’animo o di salute. Mentre nella cultura lavorativa di B non si tratta di un elemento consueto in tutti i tipi di comunicazione, per l’italiano, anche nel dialogo con un partner commerciale quasi sconosciuto, la domanda fa parte dell’aspettato esordio. Specie in Italia, gli autori riscontrano come sussista la tendenza a non approfondire la conoscenza dell’inglese. Molti ritengono sufficiente «farsi capire in qualche modo». Ciò fa sì che nascano molteplici incomprensioni. Ad esempio, la semplice richiesta fatta a un assistente di volo di madrelingua inglese: «Give me a glass of mineral water with no ice», che in italiano sarebbe l’equivalente di «Mi dia un bicchiere d’acqua minerale senza ghiaccio», per un madrelingua inglese sembra un’imposizione poco educata (in tali situazioni l’inglese non utilizza l’imperativo).

Rispetto alle differenze circa gli elementi del paraverbale, è nell’esperienza di noi tutti che, in alcuni Paesi e alcune culture, l’intonazione differente e il tono di voce tende a essere molto più alto (ad esempio, nei Paesi del Sud), le pause più lunghe e non si interrompe l’interlocutore (Paesi del Nord). Come riportano alcuni autori (Reuter, Schröder e Tütula, 1991), mentre per il «finlandese»[footnote]Tali autori, adottando un approccio multiculturale, impiegano le denominazioni degli Stati Nazionali per definire le culture e le persone. Nel presente testo, seguendo l’approccio interculturale, si è scelto di scrivere tra virgolette tale attributo per indicare che le culture non rispettano i confini nazionali, ma sono sempre dinamiche e in continuo mutamento.[/footnote] una breve pausa tra l’ultimo commento di un interlocutore e la successiva osservazione è un importante segno di rispetto, per il «tedesco», la pausa potrebbe significare indecisione e/o incapacità di discutere del parlante. Ancora Balboni (2014, pp. 98-99), afferma: «I latini non tollerano il silenzio e se a tavola, in macchina, in un colloquio ci sono dieci secondi di silenzio incominciano a parlare anche di nulla, […] gli scandinavi e i baltici invece apprezzano le pause e tendono a irritarsi del cicaleccio qualsiasi.

Per quanto attiene il piano non verbale, molti fraintendimenti nascono dal comprendere i gesti, le distanze interpersonali, le espressioni, i vestiti, gli oggetti, gli status symbol: «sono grammatiche che variano da cultura a cultura e che spesso hanno significati opposti: un giapponese che durante una trattativa sorride leggermente e tace non è d’accordo, sta dicendo no, ma lo esprime in maniera delicata per non offendere l’interlocutore». (Balboni, 2014, p. 9)

Nella comunicazione gli elementi non verbali presentano maggiori difficoltà rispetto a quelli linguistici; non solo perché in gran parte mancano di «vocabolari ufficiali», ma anche perché sono espressioni di tradizioni culturali e sviluppi sociali che normalmente hanno radici lontane e sono solo eccezionalmente conosciuti o divisi da entrambe le parti della comunicazione. Le incomprensioni nascono dal fatto che tali elementi — che richiederebbero una conoscenza più profonda della cultura altra — sono spesso decodificati erroneamente attingendo ai propri «vocabolari».

Balboni spiega come, mentre in Europa il sorriso comunica un generico accordo o almeno attesta la comprensione di quanto si sta dicendo, in altre culture significa il contrario: «Un giapponese sorride invece di dire no, e tace, viene compreso nella nostra cultura come perché sorriso + silenzio = silenzio assenso» (Balboni, 2014, p. 9). Persone linguisticamente e culturalmente differenti adottano messaggi non verbali con diverse modalità. In genere, sempre secondo l’esperienza e gli studi di Balboni (2014, p. 115),

Esprimere emozioni, sensazioni, giudizi, pensieri con la mimica facciale è una cosa “ovvia” nell’Europa mediterranea, in Russia e nell’area latina dell’America; ma in Europa settentrionale ci si attende che queste espressioni siano abbastanza controllate e in Oriente esse sono poco usate, tanto che si educano i bambini fin da piccoli a una certa imperscrutabilità, alla riservatezza riguardo i propri sentimenti: il celare le proprie emozioni è un tratto di tutte le culture buddhiste. In alcune culture, come quella turca, tale controllo è richiesto soprattutto alle donne, che devono essere impassibili; in Cina, la donna che sorride spesso si copre la bocca con la mano. [...] Il problema interculturale nasce laddove per un latino si tratta di espressione spontanea, mentre per un orientale [...] il concetto di espressione spontanea non è concepibile e quindi la mimica viene letta come comunicazione, cioè assume valore di intenzionalità.

 

Bisogno di competenze comunicative (propriamente) interculturali

Oggi parlare di competenze, specie a scuola, è diventato una moda e una necessità, imposte dalle più recenti dichiarazioni e dai progetti europei. Ma cosa si intende per competenze (interculturali)?

Rispetto ai concetti di comunicazione e di competenza interculturale, attualmente nel mondo esistono talmente tanti scritti e pubblicazioni che una rassegna anche sommaria supererebbe i limiti del presente contributo.[footnote]Per maggiori approfondimenti: Giaccardi, 2005; Deardorff, 2009; Portera, 2016; 2017.[/footnote] A. Fantini (2007), ha realizzato un’ampia analisi critica delle pubblicazioni e scale di misurazione circa le competenze interculturali, arricchendole della propria esperienza di ricerca empirica. Nella sua definizione, ritenuta classifica, considera tali competenze come un complesso di abilità atte a gestire, in maniera efficace ed appropriata, l’interazione con persone culturalmente e linguisticamente diverse. La paternità dell’approccio è unanimemente attribuito agli Stati Uniti. Dopo la Seconda Guerra mondiale, quale potenza mondiale leader, il Dipartimento di Stato degli Stati Uniti fondò il Foreign Service Institute (FSI) al fine di preparare i propri diplomatici, che raramente conoscevano la lingua e la cultura delle nazioni presso le quali erano assegnati. Nel quadro della guerra fredda tra USA e l’allora URSS, gli Stati Uniti promossero un piano di sostegno economico e alleanze strategiche con Paesi del Sudamerica, dell’Asia e dell’Africa, che prevedeva l’invio di finanziamenti, tecnologie, professionisti per l’alfabetizzazione degli adulti, il miglioramento delle condizioni di salute, l’incremento della produttività agricola, la costruzione di centrali idroelettriche e di mulini in acciaio. Molti di tali programmi di sviluppo tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta fallirono. La riflessione sulla sostenibilità di ulteriori progetti, ovvero sulla loro possibilità di rimanere autonomamente efficaci dopo il primo momento di aiuto, suggerì l’opportunità di una pianificazione preliminare più accurata, che tenesse conto anche di elementi di natura culturale. Sulla scorta dei fallimenti e delle critiche alle procedure utilizzate per gli interventi, la comunicazione e le competenze interculturali divennero un elemento sempre più importante dei programmi di formazione. Un ruolo decisivo nell'alfabetizzazione alle culture altre dei funzionari americani da inviare nei paesi stranieri, fu svolto dal Foreign Service Institute. Incaricati della preparazione del personale furono soprattutto linguisti e antropologi.

Il problema principale è che nonostante a scuola vi sia un disperato bisogno di competenze, i concetti di comunicazione e competenze interculturali, coniati negli Stati Uniti negli anni Cinquanta, ancora oggi conservano la matrice anglosassone (americana) e palesano una natura meramente strumentale. La cornice temporale e culturale in cui si sono sviluppati, – seguita da numerosi autori e pubblicazioni scientifiche-di natura occidentale, tesa alla persuasione, vendita o convincimento (talvolta manipolazione) dell’altro, potrebbe risultare «riduttiva e per certi aspetti anche pericolosa» (Giaccardi, 2005, p. 31), nonché antipedagogica, nel senso che contrasta con i principi educativi enucleati sopra. Pur impiegando l’aggettivo «interculturale», manca un chiaro riferimento ai suddetti principi fondanti della pedagogia interculturale nel modo in cui si è sviluppata in Europa. In seguito ad essi, le competenze (interculturali) sono quelle che riescono a stimolare l’attività e l’autonomia dell’educando, in modo da saper leggere e occupare un posto attivo — da protagonista e non da succube (Secco, 1999) — nella società.

Le competenze realmente interculturali — di cui si sente necessità e urgenza — a scuola non dovrebbero tradursi in interventi di tipo sommatorio (accanto alle lezioni di storia o di geografia previste si aggiungono quelle inerenti i bambini immigrati presenti in classe), ma neanche solamente in azioni ad hoc da realizzare in aggiunta o sostituzione dei programmi previsti, come ad esempio progetti o attività circoscritte; occorre promuovere una forma mentis interculturale, includendo tale prospettiva all’interno di ogni disciplina e attività. Peraltro, a scuola, per attuare esperienze di natura veramente interculturale, non basta il semplice contatto con l’alterità, ma bisogna imparare a interagire in maniera opportuna.

 

Gestione di conflitti e mediazione interculturale: ricerca attuata a Verona

Per ovviare a tali limiti, in seno al Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona si è deciso di attuare una ricerca empirica (Portera, 2013a) con la finalità di analizzare le CI (competenze interculturali) agite in differenti contesti sociali. Tenendo conto dei vari apporti disciplinari presenti, si è voluto conferire all’indagine un carattere interculturale e interdisciplinare. Alla luce di ciò, gli scopi precipui dell’unità di ricerca sono stati:

 

  1. definizione e individuazione delle CI in base alla letteratura;

  2. indagine circa le CI proprie di alcune categorie di «operatori privilegiati» (afferenti ai settori educativo-scolastico, socio-sanitario, giuridico, aziendale e della mediazione);

  3. apporto teorico alla definizione e individuazione delle CI, anche mediante la qualificazione dell’offerta formativa.

 

Per il raggiungimento di tali obiettivi sono state poste in essere le seguenti azioni: a) analisi critica della letteratura nazionale e internazionale sulla CI; b) ricerca-azione con operatori privilegiati (docenti, operatori educativi e sociali, avvocati, giudici, medici, infermieri, manager aziendali, mediatori culturali); c) approfondita ricerca qualitativa, strutturata nell’ambito della ricerca-azione, con l’ausilio di Focus Group (FG), interviste semistrutturate e osservazioni partecipanti (per maggiori dettagli circa la metodologia, Portera, 2013a).

Per quanto attiene ai risultati della ricerca, è stato elaborato un modello di competenze interculturali, intese come «l’insieme di caratteristiche, conoscenze, attitudini e abilità atte a gestire con profitto relazioni con persone linguisticamente e culturalmente differenti».

Dalla sintesi dei risultati dei singoli settori d’indagine, tenendo conto anche della letteratura, come si evince dalla seguente figura 1, fra tutte le caratteristiche si vuole anzitutto evidenziare l’aspetto interattivo delle CI. Al centro è collocata l’Area del Sé, che include la Soddisfazione dei bisogni fondamentali dell’essere umano (Portera, 2015), la teoria della Quality of Life (Albertini, 2000), il Tetragramma di Pascal e la teoria delle Intelligenze multiple (Gardner, 1993). Inoltre, in tale area sono state inserite le competenze che, in seguito ai principali risultati della presente ricerca, nonché da studi pregressi, primariamente riguardano l’area del saper essere (attitudes): apertura, sensibilità, decentramento, curiosità, flessibilità (saper gestire situazioni inedite), rispetto, responsabilità, empatia. Intorno ad essa, in maniera interattiva (rappresentata dalle frecce, che in realtà dovrebbero collegare tutte le area fra di loro), si trova il settore del Sapere, dove soprattutto si rilevano: la consapevolezza del Sé culturale; le conoscenze culturali inerenti sia alla propria conoscenza di riferimento sia a quelle dell’altro (contesto, ruolo e impatto, altri punti di vista, specificità); le conoscenze linguistiche verbali, non verbali e paraverbali (meglio se più lingue). Per quanto concerne il settore specifico del Saper fare (in genere indicate come skills), in particolare si evidenziano le abilità linguistiche e comunicative (legato a ciò soprattutto il pensiero autonomo, l’ascolto attivo, e il dialogo assertivo). Di pari importanza risultano essere anche il saper esercitare le competenze inerenti l’accettazione (del nuovo e dello straniero; anche in sé), l’empatia e la congruenza. Altre capacità riguardano l’osservazione, l’analisi e l’interpretazione adeguata della realtà interna ed esterna, nonché il riuscire ad attuare relazioni positive, valutando bene le situazioni nuove, costruendo rapporti stabili e affidabili, nonché gruppi cooperativi, accoglienti e inclusivi. Specie nei rapporti di cura e di aiuto (anche professionale nel settore educativo, insegnamento, counselling) risultano necessarie anche le competenze sul piano della mediazione e della gestione di stereotipi, pregiudizi e conflitti. Nel contempo, particolarmente significativo per lo sviluppo e l’esercizio delle competenze risulta essere l’Ambiente esterno (la possibilità di disporre di tempi, spazi e luoghi adeguati per l’incontro e l’interazione), nonché la qualità delle Relazioni interpersonali: tipo di rapporto, volontà di incontro, dialogo, confronto e interazione.

 

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Fig. 1 Modello interattivo di competenze interculturali (Portera, 2017).

 

Competenze interculturali nella pratica educativa

In una successiva ricerca, dal titolo Successo formativo di progetti sulle competenze interculturali mediante l’uso di strategie didattiche innovative, ICT, e-learning attuata in seno al Centro Studi Interculturali dell’Università di Verona dal 2012 al 2015, si è deciso di validare il suddetto modello e di sperimentarlo nella pratica formativa nell’ambito di un Master Universitario sulle CI nei settori: scolastico-educativo, giuridico, sanitario, economico produttivo (Portera e Milani, 2019). La metodologia impiegata per la validazione del suddetto modello di CI è stata il metodo Delphi (Adler e Ziglio, 1996), in seguito al quale il modello è stato sottoposto a validazione critica da parte di circa 60 esperti nazionali e internazionali (Portera, 2019). Per quanto attiene l’attuazione, il modello di CI elaborato è stato alla base dei contenuti e del metodo di formazione per gli studenti del Master.

Nella ricerca empirica è stata attuata una metodologia sia qualitativa sia quantitativa. Segnatamente, rispetto alla parte qualitativa, è stato sviluppato un Portfolio dello studente costituito da un bilancio delle competenze elaborato all’interno del gruppo di ricerca di Verona. Il bilancio delle competenze consta di una prima parte che rileva le competenze pregresse (competenze di ingresso: percorso formativo precedente; esperienze lavorative passate e presenti; hobby, interessi, altre competenze) e le competenze attuali (relazionali e comunicative; pensiero critico e divergente-creativo; gestione dei conflitti e problem solving; conoscenze linguistiche; progettazione di interventi interculturali). Inoltre, sono state effettuate osservazioni partecipanti durante le ore di lezioni e di interazione seminariale e interviste semistrutturate a studenti, docenti e staff. Con strumenti quantitativi sono state misurate, tramite test standardizzati, le competenze emotive mediante l’uso del Trait Emotional Intelligence Questionare – TEIQue (Petrides, 2009) e le competenze sociali mediante il Big Five Inventory – BFI (John e Srivastava, 1999).

Dall’analisi dei risultati della ricerca, tenendo conto delle risposte dei colleghi intervistati e dell’esperienza sul campo con gli studenti del Master, è stato possibile elaborare un modello di CI che tenesse conto sia delle indicazioni degli esperti coinvolti nel metodo Delphi sia dell’esperienza di applicazione concreta agli studenti del Master. Fra le differenze più significative, il modello elaborato (figura 2) cerca di superare la visione prettamente eurocentrica e nordamericana, includendo fra le competenze anche la visione orientale. Pertanto, la CI non è considerata come disgiunta dalle competenze tout court, e oltre alle suddette teorie della personalità, sono stati inseriti anche la filosofia dei Chakra e del Tao (per maggiori approfondimenti, Portera, 2019).

 

 

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Fig. 2 Ripartizione delle competenze interculturali (Portera, 2019).

 

Dopo averle presentate singolarmente, è necessario sottolineare come il presente modello di CI presenta delle caratteristiche fondamentali (figura 3). Fra le più importanti:

 

  1. detengono un carattere dinamico e interattivo: sia la rappresentazione schematica sia la delimitazione delle varie aree vuole solo essere esemplificativa e contribuire alla comprensione; in realtà sono tutte in costante mutamento e, come per la teoria dei chakra, sono tutte correlate fra loro (non si può dividere nettamente fra attitude e skill) e il modo migliore di esercitarle è nel farle scorrere;

  2. comprendono tutte sia tratti (qualità) innati sia caratteristiche acquisite (flessibilità, apertura, empatia, curiosità, ecc.) (Fantini, 2007) e non è possibile distinguere nettamente le CI dalle competenze tout court: così come nella società complessa la pedagogia interculturale è da intendere come la migliore risposta educativa per tutti, tutte le competenze personali facilitano le relazioni interculturali;

  3. a volte possono apparire in maniera contraddittoria (ad esempio, comprensione e accettazione vs congruenza, capacità assertive) includono e variare in base ad aspetti legati a peculiarità personali (Sé), situazionali (momenti di crisi, stress; strutture politiche e legali; discriminazioni), ambientali (clima e luogo in cui avviene l’incontro) e relazionali (qualità di rapporto instaurato): più il contesto migliora (relazioni interpersonali, più tempo, spazio, ecc.), più migliorano il benessere, lo sviluppo del Sé e l’attuazione delle competenze. (cfr. Albertini 2000);

 

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Fig. 3 Modello interattivo di competenze interculturali (Portera, 2019).

 

In sintesi, l’acquisizione e lo sviluppo delle CI si configura come un processo lungo, complesso e dinamico, che si snoda per tutto l’arco della vita. Durante lo sviluppo di ogni essere umano, in seguito a eventi o esperienze favorevoli o critiche, possono subentrare non solo momenti di avanzamento, ma anche di stagnazione o di regressione. Pertanto, molte scale rischiano di misurare la performance piuttosto che le reali competences (Fantini, 2007).

Detenendo natura complessa e multidimensionale (non basta possedere conoscenze linguistiche o il contatto con la cultura altra), la loro acquisizione e sviluppo rimanda a un processo dinamico, a spirale, che implica diverse dimensioni (Deardorff, 2008); un processo continuo che muove dal settore personale a quello interpersonale, favorendo sia esiti interni (modifica di adattamento, flessibilità, visione etnocentrica, empatia) sia esiti esterni (comunicazione e comportamento appropriati in situazione multiculturale) (Deardorff, 2009, p. 480). In forza di ciò, nonostante la loro acquisizione più importante avvenga nell’infanzia, possono essere sviluppate durante gli anni successivi, sia in contesti formali (soprattutto scuola) che non formali (corsi appositi di meditazione, laboratori di empatia e gestione conflitti, ecc.) e informali (famiglia, persone di riferimento, gruppo dei pari, relazioni con cittadini stranieri). Determinante è il rapporto con educatori o interlocutori con elevate CI (importanza di modelli, esempi, funzione ponte da parte di soggetti con esperienze simili). Specie in caso di disfunzioni o stagnazioni, per l’acquisizione non bastano semplici corsi di formazione, ma è necessario ricorrere al supporto di counselling o psicoterapia.

 

Riflessioni conclusive

Nel tempo del cosmopolitismo, del neoliberalismo, dell’interdipendenza e della globalizzazione planetaria, in una stagione di costante aumento di pluralismo e complessità, la pedagogia necessita di attingere e rivalutare il proprio passato di scienza che mette al centro la persona umana. Essa dovrà altresì liberarsi da incrostazioni etnocentriche, dogmatiche e/o autoritarie, nonché da tendenze neoliberaliste, tenendo conto e valutando positivamente le molteplici differenze sul piano etnico, linguistico, religioso, assiologico e culturale (Frabboni, 2003).

La pedagogia potrà affermare il proprio ruolo precipuo fra le scienze umane solo se riuscirà a rispondere in maniera competente e preparata alle sfide del nuovo millennio, cogliendone rischi e opportunità. Un aiuto potrebbe sicuramente pervenire dalle recenti riflessioni circa il concetto di pedagogia interculturale. Tale approccio, come trattato sopra, ha permesso di superare le strategie educative a carattere compensatorio, dove l’emigrazione, lo sviluppo e la vita in contesto multiculturale erano intesi solamente in termini di rischio di disagio o di malattia; ha consentito di prendere consapevolezza della dinamicità delle singole culture e delle singole identità, considerando lo straniero, il cambiamento, la vita in società pluralistiche e multiculturali in termini di risorsa, di opportunità di arricchimento e di crescita personale e collettiva. L’approccio interculturale, di fatto, tenendo conto dei vantaggi e dei rischi della società globale, fondandosi sulla cifra del dialogo, del confronto e dell’interazione, potrebbe dare nuovo vigore a tutta la pedagogia.

La pedagogia , come principale scienza dell’educazione (l’unica che riflette unicamente e interamente sul processo educativo) dovrà aprirsi ai nuovi mutamenti anche potenziando la ricerca scientifica. In un tempo in cui ciò che conta deve essere evidence based, è necessario apprendere il linguaggio comune. La qual cosa non rimanda al cercare di imitare metodi e disegni di ricerca propri delle scienze naturali. L’unicità e la dinamicità di ogni singolo essere umano sono elementi imprescindibili nella ricerca pedagogica: isolare singoli aspetti, correlazioni fra gruppi, rapporti fra variabili dipendenti e indipendenti, sarebbe come ricercare in dettaglio gli elementi dell’acqua dopo averla resa stagnante. Occorre anche richiamare il rischio di voler rendere generalizzabili dei dati ottenuti seguendo metodi ermeneutici o fenomenologici. Molto più corretto sarebbe invece riferirsi alla validità interna (soffermarsi sulle implicazioni pratiche piuttosto che sulle generalizzazioni) e portare a conoscenza di altri operatori esperienze e situazioni che accadono realmente nella pratica educativa.

La pedagogia dovrà inoltre attingere fortemente dall’eredità del passato, sviluppando modelli di insegnamento che mettano al centro la persona umana. Tale prospettiva si fonda sulla criticità di pensiero e di dialogo con le sue lontane radici in Socrate, risale a una sperimentata tradizione fìlosofica occidentale attinente anche preziosi studi e ricerche di area pedagogica, che va da Jean-Jacques Rousseau nel XVIII secolo a John Dewey nel XX, e comprende famosi pedagogisti come Friedrich Fröbel in Germania, Johann Pestalozzi in Svizzera, Bronson Alcott negli Stati Uniti e Maria Montessori in Italia. Come opportunamente ricorda Nussbaum (2010, p. 35), attualmente, per inseguire la pura crescita economica, è attaccato un aspetto fondante della tradizione formativa: «il tipico accento alla partecipazione attiva del bambino, alla ricerca e alla problematizzazione». Alla luce di tutti i cambiamenti suddetti, come base del processo educativo e formativo non può più essere posta l’assimilazione acritica a tradizioni culturali, spesso inutili o dannose (principio dell’imbuto e del bambino contenitore da riempire) né la pura acquisizione mnemonica di dati e fatti (spesso superati in fretta).

Oggi, Fra passato, presente e futuro, nel tempo della globalizzazione, alla luce di tale preziosa tradizione filosofica e pedagogica, l’obiettivo educativo dovrà consistere nello stimolare l’attività e l’autonomia della bambina e del bambino, in modo da saper leggere la realtà e occupare un posto attivo — da protagonista e non da succube, scriveva Secco (1999) — nella complessità del mondo che sono chiamati ad abitare. Introducendo modelli interculturali nella formazione scolastica (di ogni ordine e grado, anche universitario), volti alla partecipazione attiva, alla ricerca, al dialogo, al pensiero critico e all’interazione, si dovrebbe superare un sistema di insegnamento che purtroppo talvolta ancora oggi vede i bambini seduti al banco per tutto il giorno (se parlano o si muovono spesso vengono puniti togliendo loro la ricreazione; lezioni di musica o attività motoria poco curate e riconosciute), mentre semplicemente e passivamente «assorbono», per poi riproporre a memoria, tutto il materiale scelto e somministrato dagli insegnanti. Si tratta di pensare a una scuola a carattere interdisciplinare e interculturale che riconosca e valorizzi ogni forma di differenza e promuova ogni forma di intelligenza (Gardner, 1993).

In conclusione, l’aggiunta di competenze realmente interculturali (ossia conoscenza e rispetto delle diversità, elaborazione di principi e regole comuni, con l’aggiunta della capacità di incontro, dialogo e interazione tesa al cambiamento), a mio parere, servirà alla scienza pedagogica a promuovere sia una opportuna considerazione dell’eredità culturale passata sia l’apertura e l’attenzione al nuovo e a tutte le forme di diversità: non solo di origine somatica, etnica, linguistica, culturale, o religiosa, ma anche quelle presenti nelle strutture di potere, di natura politica, di genere, (dis)abilità, o status sociale.

 

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