Test Book

Editoriale

Criticità e potenzialità della formazione e della comunicazione nei campi dell'accoglienza: un’introduzione


Cecilia Gallotti

Formatrice nei servizi sociali e sanitari, docente di Discipline demoetnoantropologiche presso la Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Bologna

Federica Tarabusi

Ricercatrice confermata in Discipline demoetnoantropologiche presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin” dell’Università di Bologna, federica.tarabusi2@unibo.it


Autore per la corrispondenza

Cecilia Gallotti
Indirizzo e-mail: cecilia.gallotti@unibo.it
Scuola di Medicina e Chirurgia dell’Università di Bologna, Via Massarenti 9 - Policlinico S.Orsola-Malpighi Complesso Didattico A. Murri, Bologna



Campi in-costruzione e professioni dell’accoglienza1

La sezione monografica prosegue la riflessione che, nel precedente numero di maggio, si era focalizzata sui dilemmi e le potenzialità nel lavoro di accoglienza rivolto a rifugiati e richiedenti asilo (Riccio e Tarabusi, 2018). L’introduzione dei curatori chiariva le ragioni che avevano portato la Rivista a dedicare ampio spazio alle esperienze empiriche, progettuali e lavorative di chi si trova, a vario titolo, coinvolto nei campi «ordinari» e straordinari dell’accoglienza.

Da un lato, si evidenziava il tentativo di arricchire il fiorente dibattito sulle migrazioni forzate, assumendo una prospettiva emica dell’accoglienza e del sistema istituzionale dell’asilo, spesso analizzato «dall’alto» nelle scienze politiche e sociali. I contributi contenuti nel numero mostravano, d’altro canto, quanto la scelta di privilegiare il punto di vista di chi si trova direttamente implicato nei contesti di accoglienza potesse restituire un’immagine meno semplificata e astratta di un sistema frastagliato e composito di attori istituzionali e professionali, attraversato da alta discrezionalità e molteplici pressioni e contraddizioni (cfr. Riccio e Tarabusi, 2018).

Dall’altro lato, il numero ambiva a «prendere sul serio» la necessità, espressa dagli operatori in diverse occasioni, di innescare una riflessione critica sulle professionalità che si vanno definendo in un campo altamente controverso e conflittuale. Mentre, infatti, il dibattito pubblico ci stimola ad ampliare le esplorazioni empiriche dei mondi dell’accoglienza, le esperienze lavorative di chi è coinvolto in tali ambiti testimoniano la necessità di guadagnare spazi di riflessività nel proprio agire professionale, per evitare di affidarsi a soluzioni preconfezionate e rassicuranti automatismi (cfr. Altin et al., 2017).

In quest’ottica, le esperienze raccolte nel numero di maggio hanno restituito, da un lato, il senso di frustrazione e impotenza che a volte domina i campi discorsivi e operativi dell’accoglienza. Con consapevolezza critica, gli autori e le autrici hanno riportato le difficoltà di chi si trova a navigare negli ingranaggi opachi di un sistema altamente proceduralizzato sul piano normativo e burocratico, sentendosi poco supportato nella costruzione di interventi che implicano un certo grado di improvvisazione (Biffi, 2018; Policicchio, 2018); hanno evidenziato disagi che gli operatori avvertono nel rispondere a un modello che, a fronte dell’inesperienza dei soggetti gestori nel settore delle migrazioni e dell’accoglienza, richiede loro un'alta professionalità all’interno di carriere professionali spesso fragili e incerte (Nistri, 2018); hanno esplorato le tensioni che rimandano a mandati istituzionali divergenti nel proprio operare quotidiano, così come le discrepanze che gli operatori avvertono fra le richieste astratte di neutralità e le implicazioni personali in storie cariche di violenza e drammaticità (Biffi, 2018; Segneri, 2018); e ancora, hanno messo in luce le criticità che emergono nella gestione della diversità culturale all’interno di contesti organizzativi in cui il lavoro sembra «sistematicamente organizzato per andare incontro al fallimento» (Urru, 2011, p. 82).

Su questo versante, i punti di vista riflessivi degli autori e delle autrici ci aiutano a cogliere più da vicino i dilemmi etici e professionali di operatori che rischiano di sentirsi complici dell’ambiguità di un sistema che, mentre promuove l’autonomia dei soggetti, tende a riprodurre un ruolo passivizzante del richiedente asilo (Biffi, 2018; Cammelli e Restuccia, 2018; Segneri, 2018).

Dall’altro lato, però, i contributi raccolti ci allontanano da un’immagine monolitica di contesti rigidamente «ingessati» dalle pressioni burocratiche e istituzionali, nei quali gli operatori si troverebbero loro malgrado imbrigliati. Al contrario, di fronte alle ruvidità del sistema, rileviamo un (in parte inaspettato) potenziale creativo nelle pratiche quotidiane degli attori professionali, che mostrano di intervenire in modo flessibile e contestuale sui processi lavorativi e organizzativi. Le esperienze esaminate hanno, infatti, riportato le diverse mediazioni, soluzioni innovative e micro-strategie che gli operatori mettono in campo nel proprio agire quotidiano, attingendo ai loro background formativi ed esperienziali, alle risorse personali e del contesto. Consapevoli del proprio potere discrezionale, coloro che «hanno imparato a navigare dentro le storture del sistema» (Nistri, 2018) si adoperano dunque per ideare forme trasformative dei processi lavorativi; attivano modalità plurime, a volte innovative, per contrastare le norme e la burocrazia; ridefiniscono approcci e costruiscono strumenti alternativi per ripensare dispositivi, diagnostici e di intervento, che appaiono ai loro occhi miopi e inadeguati nel rispondere ai bisogni degli utenti.

Le questioni sollevate dal numero, unitamente al desiderio espresso da altri di partecipare al dibattito, hanno portato la Rivista a dedicare ancora spazio alla riflessione critica sulle potenzialità e contraddizioni che emergono nei campi operativi dell’accoglienza. Sul solco del precedente numero, questa sezione monografica continua a interpellare la riflessività di professionisti e ricercatori che, pur focalizzandosi su questioni analoghe a quelle appena citate, adottano vertici di osservazione che non sono sempre sovrapponibili. I contributi qui raccolti appaiono, infatti, maggiormente orientati a discutere la specificità del profilo e del ruolo dell’operatore e, più in generale, delle professioni coinvolte nel sistema di accoglienza e asilo (in particolare, educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori interculturali, operatori legali e sociali), assumendo l’ambito della comunicazione e della formazione come punti di osservazione privilegiati.

In particolare, alcuni contributi evidenziano i contorni ambigui e indefiniti del profilo professionale degli operatori, mettendo a fuoco la discrezionalità e multidimensionalità del loro ruolo, difficile da identificare e circoscrivere in modo chiaro anche nelle loro rappresentazioni (Salinaro). Richiamando lo scarto tra le richieste istituzionali astratte e le concrete pratiche dell’accoglienza, si concentrano sul senso di inadeguatezza che i professionisti avvertono in un contesto lavorativo attraversato da discrepanze profonde, come quella che emerge fra il loro inquadramento contrattuale, il titolo di studio e la vastità e complessità dei compiti che si trovano concretamente a gestire (Centi Pizzitulli e Di Genova). Ancora una volta registriamo fra coordinatori e operatori, che si percepiscono nel sistema come «equilibristi» (Salinaro), un diffuso senso di inquietudine, spesso ancorato alla difficoltà di misurarsi con obiettivi molto ambiziosi, a fronte di azioni, relazioni e vincoli che limitano la loro agency (Faso e Bontempelli) ed esperienze che tendono a generare confusione nei loro ruoli e nell’interpretazione del proprio mandato.

A complicare il quadro si inserisce la variabilità locale dei sistemi di accoglienza, che nel nostro Paese ha storicamente forgiato modi diversi di interpretare e «dare forma» al ruolo e profilo degli operatori sul campo. Va infatti specificato che le esperienze discusse nel numero si collocano in contesti locali e regionali eterogenei, in cui la gestione dell’accoglienza ha assunto accezioni e declinazioni molteplici (in particolare, Abruzzo, Calabria, Emilia-Romagna) e si sviluppano in centri, strutture e servizi estremamente diversificati per dimensioni, progettualità e modelli gestionali (quali, cooperative sociali, centri SPRAR, associazioni locali, Centri di Accoglienza Straordinaria CAS, servizi di seconda accoglienza).

Riferendosi a diversi ambiti di intervento, i contributi dirigono così lo sguardo verso le criticità che si annodano nelle sfere della comunicazione e della relazione con l’utenza: dai possibili fraintendimenti linguistici e comunicativi nell’interazione con richiedenti asilo (Cadei e Ramsamy-Prat; Mazzei) al rischio di ricadere in pratiche di etichettamento e categorizzazioni che entrano in gioco nel contatto quotidiano con la diversità culturale (Tumino); dalla responsabilità che i professionisti avvertono nel mediare i rapporti tra gli utenti e un mondo esterno ostile e discriminatorio, al peso delle rappresentazioni e aspettative, a volte idealizzate, che i «beneficiari» proiettano sugli operatori (Tarsia); dal senso di colpa che questi ultimi sperimentano di fronte a soluzioni sterili, a carattere emergenziale (Salinaro), alla scarsa padronanza di competenze che sono percepite come cruciali nel lavoro di accoglienza, quali quelle riflessive e relazionali, ma non sempre acquisite nei loro percorsi di studio (Centi Pizzutilli e Di Genova; Salinaro).

Su questo sfondo, gli autori e le autrici discutono la domanda sociale di formazione del personale e dei servizi deputati alla gestione dell’accoglienza e riflettono sull’opportunità di attivare risorse e strumenti capaci di incidere in modo significativo sui percorsi di inclusione dei richiedenti asilo. In quest’ottica, i contributi offrono esemplificazioni empiriche di progetti e interventi locali che evidenziano il peso delle competenze professionali e comunicative, verbali e non verbali, nel progettare interventi capaci di tenere conto del punto di vista e dei percorsi esistenziali dei propri utenti (Cadei e Ramsamy-Prat; Mazzei); nondimeno, viene ribadita la funzione cruciale del lavoro di rete e delle sinergie fra mondi istituzionali, professionali e simbolici diversificati (Centi Pizzutilli e Di Genova; Salinaro) nell’attivare una presa in carico in senso olistico dei bisogni molteplici e multi-stratificati di rifugiati e richiedenti asilo (Tarsia).

Mentre i conflitti vengono interpretati come «risorse euristiche» e spazi sociali di co-apprendimento, come nel caso dei lavori di équipe nei progetti territoriali (Tarsia), alcune riflessioni ci invitano a reinterpretare, in modo riflessivo e contestuale, metodi e strumenti che rischiano altrimenti di essere percepiti dagli operatori come rigidi ricettari «calati dall’alto» (cfr. i manuali operativi SPRAR). Nondimeno, la costruzione di setting innovativi dedicati all’ascolto e al racconto viene inquadrata come risorsa capace tanto di ricongiungere lo scarto fra progetto e percorso migratorio nelle traiettorie di vita dei richiedenti asilo, quanto di agire positivamente sulle pratiche di decentramento degli operatori (Tumino).

Trasversalmente ai contributi, traspare così il potenziale trasformativo che si evidenzia nella formazione degli operatori e nell’opportunità di mobilitare risorse e competenze capaci di incidere sui processi interattivi e comunicativi. La possibilità di rafforzare il profilo professionale degli operatori viene interpretata, in sostanza, non solo come un’occasione per allargare i propri orizzonti conoscitivi, metodologici e operativi ma anche come necessità di intraprendere una direzione capace di nutrire e rinnovare il senso di un «mandato sociale» che, superando interventi a carattere emergenziale, ponga in primo piano il ruolo dei professionisti nell’attivazione di processi di cambiamento a favore dell’utenza.

 

Posizionamenti plurali e trame comuni nel lavoro di accoglienza e nell’analisi dei servizi

Se è vero dunque che i contributi raccolti in questo numero adottano lenti e prospettive apparentemente molto diversificate, è però forse possibile individuare anche una trama comune che, ricomponendo la molteplicità di posizionamenti e ruoli di chi lavora nei campi dell’accoglienza, consenta di contestualizzare e attualizzare un’analisi complessiva dei servizi. 

Il contributo di Faso e Bontempelli, collocato in forma di prologo al volume, può offrire in tale senso una chiave di comprensione unificatrice, grazie a un allargamento della prospettiva che colloca i singoli contesti operativi del lavoro dell’accoglienza nel più ampio scenario sociale e politico italiano. A partire dalla sistematizzazione realizzata nel loro Manuale (Faso e Bontempelli, 2017), oggi riferimento irrinunciabile per operatrici e operatori dell’accoglienza – in cui si presentava non solo un apparato di strumenti applicativi ma anche un’articolata analisi delle contraddizioni vissute dagli operatori tra mandati istituzionali e pratiche quotidiane – gli stessi autori propongono qui una sintesi, non astrattamente ideologica ma implicata e critica, di come il contesto mediatico e politico «stia pesando su ogni decisione e comportamento e sul clima stesso dei Centri, delle agenzie che li gestiscono, degli uffici amministrativi che vi intervengono, e del discorso circostante di senso comune» (Faso e Bontempelli in questo numero).

L’analisi del clima teso e conflittuale del dibattito pubblico e delle azioni politiche che hanno scandito la costruzione dell’«emergenza securitaria» intorno alla figura del rifugiato, attraverso l’erosione progressiva del confine tra principi costituzionali e valori culturali, fornisce una cornice introduttiva ai diversi punti di vista prospettici, corrispondenti ai profili e ruoli operativi o di ricerca, degli autori e delle autrici presenti in questo numero. Infatti, ci sembra che la percezione dell’intensificarsi parossistico dell’allarme sociale e del progressivo irrigidirsi delle pratiche istituzionali di disciplinamento si riverberi nei vari contributi, permettendo di comprendere, sotto questa luce macro-contestuale, le ricorrenti criticità variamente descritte nei più diversificati contesti, ma anche le comuni poste in gioco.  

Alla progressiva «de-umanizzazione» del rifugiato, cui corrisponde la «disumanizzazione» del lavoro degli operatori, così come il restringimento della capacità di critica sociale e politica di chi fa ricerca sugli spazi dell’accoglienza, può corrispondere per contrappasso un intensificarsi del senso del proprio mandato sociale. Crediamo che le tracce di questo specifico impegno siano reperibili nella oscillazione indistinguibile tra una postura enunciativa analitica e osservativa, da un lato, e una attivamente coinvolta, dall’altro lato, presente trasversalmente in tutti i testi. Sebbene le due sezioni Ricerche e Esperienze e progetti restino distinte, come di consuetudine nella Rivista, in questo numero, l’intenzione emica del ricercatore, di privilegiare il punto di vista interno di chi abita i luoghi dell’accoglienza, e quella dell’operatore critico, di sperimentare una posizione riflessiva sulle proprie pratiche, si intrecciano spesso in modo indistinguibile.

Tale articolazione di prospettive si realizza fattualmente quando il contributo è il risultato di una collaborazione tra chi progetta e realizza percorsi di accoglienza nel sistema SPRAR, e ne valorizza i percorsi personalizzati già sperimentati, e chi fa ricerca negli stessi spazi: entrambi si ritrovano nel testo accomunati dall’intento di «sfatare» gli stereotipi socialmente diffusi sui minori stranieri non accompagnati e in generale sui richiedenti asilo (è il caso raccontato da Alba e Foresti). Ma anche nel caso di chi si colloca decisamente sul piano della ricerca, dunque osserva criticamente le funzioni e disfunzioni del ruolo dell’operatore SPRARSalinaro), ritroviamo uno speciale coinvolgimento nel riconoscere le difficoltà di «contrabbandare» spazi e tempi relazionali con gli ospiti al di fuori delle maglie strette della sorveglianza istituzionale e nell’aspirare a supportarli attraverso modelli pedagogici che promuovono un agire etico della cura. Similmente, Tarsia utilizza specifici riferimenti teorici, quelli della sociologia del conflitto, non solo per analizzare le dinamiche d’interazione tra gli operatori dei servizi di seconda accoglienza ma anche per offrirli come strumenti riflessivi che consentano agli operatori di leggere e utilizzare le riunioni di équipe in quanto spazi sociali conflittuali di apprendimento dove potenziare la propria agency. Centi e Pizzutilli, attraverso la loro ricerca sulle diverse professionalità impiegate nella gestione dell’accoglienza (assistenti sociali, psicologi, educatori, mediatori interculturali, operatori sociali), sui loro itinerari differenziati e eterogenei, si fanno portavoce della (non) corrispondenza tra l’inquadramento contrattuale degli intervistati e l’effettivo svolgimento dei compiti loro richiesti, nonché della loro aspirazione a auto-formarsi e costruirsi una competenza riconoscibile. Così Cadei e Ramsamy-Prat, nell’analisi delle forme d’interazione non verbale tra operatori e richiedenti asilo, valorizzano i «gesti etici» osservati e mettono a disposizione competenze di analisi conversazionale per incrementarne le funzioni di intercomprensione. Dall’altro vertice di riflessione, quello «operativo» di insegnante di lingua italiana nei CAS, anche Mazzei mostra un’intenzionalità ad ampio raggio, tesa ad attingere a modelli pedagogici critici, come quello dell’alfabetizzazione dialogica di Freire, servendosi degli spazi di apprendimento dell’italiano, ordinariamente intesi dalle istituzioni come mera trasmissione di informazioni, per trasformarli in spazi di comunicazione e intercomprensione. Nondimeno, ampliando lo sguardo sui riferimenti teorici, di cui è ricco il contributo di Raffaele Tumino, che ribadiscono il carattere plurale e ibrido di nozioni come quelle di cultura e differenza culturale spesso reificate nel discorso politico e istituzionale, si trovano spunti per declinare la riflessione in termini operativi e progettuali.

Come si può osservare, l’intento di raccogliere il contributo di ricercatori e operatori riflessivi – intento che la rivista «Educazione Interculturale» ha per sua stessa vocazione – trova in questo secondo numero una particolare configurazione. Infatti, gli slittamenti tra il punto di vista analitico e quello attivamente coinvolto cui abbiamo accennato sono rintracciabili in ognuno dei contributi presentati, trovando sintesi nel potenziale trasformativo attribuito alla «formazione», intesa in senso ampio come allargamento di una competenza che articola riferimenti teorici ed esperienza operativa, e che mira al miglioramento delle relazioni e della comunicazione. Detto in breve: negli spazi sempre più ristretti delle istituzioni di sorveglianza della cosiddetta accoglienza si aspira ad amplificare gli spazi della relazione-comunicazione, dotandosi di nuovi strumenti e formandosi a competenze specifiche; competenze intese non solo come saperi professionali, ma anche in senso più ampio come dimensioni innovative dell’agire, come capacità culturali di cambiamento sociale.

Siamo consapevoli della opportunità e insieme necessità, per chi si occupa dei campi dell’accoglienza, di storicizzare, disarticolare, rileggere il proprio impegno sociale in termini socio-professionali e socio-politici; così come, d’altro canto, dell’interesse di connetterlo all’annosa riflessione sulle forme di coinvolgimento – epistemologico, etico o francamente politico – del ricercatore nel suo campo di osservazione; o ancora, di come esso potrebbe trovare sviluppo nell’aprirsi anche in Italia di nuovi luoghi disciplinari di elaborazione insieme teorica, metodologica e operativa, come quelli dell’antropologia applicata (Olivier de Sardan 2008; Colajanni 2014).

Come curatrici di questo volume, ci limitiamo – senza voler sovra-interpretare né ridurre le riflessioni degli autori e autrici – a riconoscere una certa coerenza narrativa dei contributi raccolti in questo numero, quando essi individuano negli strumenti formativi mirati al potenziamento delle relazioni comunicative la possibilità di realizzare un impegno non riferito a valori umanitari né a ideologie politiche e nemmeno a una esplicita implicazione etica, ma che sembra esprimere piuttosto l’«aspirazione a una democrazia situata e praticata nella vita quotidiana» (Appadurai, 2011).

Se Appadurai riferisce la «capacità culturale di aspirare» ai poveri e alla loro possibilità di mobilitarsi in progetti di cambiamento delle loro condizioni di vita, noi possiamo forse estendere questo concetto alle aspirazioni di chi, a titolo diverso, come ricercatore o come operatore, spesso precario, opera nei campi dell’accoglienza, trovandosi a sua volta a subire le restrizioni del proprio orizzonte culturale e sociale e le pratiche istituzionali di disciplinamento sempre più pressanti e condizionanti; aspirazione vicaria a divenire alleati e supporto dell’aspirazione dei «poveri» dell’oggi, i migranti, recuperando senso e soggettività a propria volta e partecipando così al cambiamento sociale attraverso di loro.

In conclusione, è vero che il lettore si troverà a giostrarsi all’interno di un insieme di variegate esperienze e riflessioni, influenzate dai diversi livelli di identificazione degli autori in specifici ambiti e ruoli (ricercatore, educatore, pedagogista, operatore, professionista riflessivo), che potrebbe rendere poco agevole la comparazione fra i contributi presentati. Tuttavia, ci sembra che correre questo rischio possa restituire, da un lato, una visione complessiva sulle traiettorie professionali e sui campi-in costruzione che stanno prendendo forma nella gestione dell’accoglienza rivolta a rifugiati e richiedenti asilo; d’altro lato, consenta di ritrovare in questa pluralità di voci un unitario impegno situato e praticato – ancorché sempre più contrabbandato e interstiziale. Riconoscere le aspirazioni «tramate» in queste pagine può inoltre produrre un effetto di riverbero sul lettore e sulla lettrice, invitando a prendere coscienza di come ciascuno/a di noi coltivi o neghi le proprie nella quotidiana accoglienza che, dalla sua posizione sociale, soggettivamente contribuisce a costruire.

 

Bibliografia

Altin R., Mencacci E., Sanò G. e Spada S. (a cura di) (2017), Richiedenti asilo e sapere antropologico, «Antropologia pubblica», vol. 3, n. 1, pp. 8-34.

Appadurai A. (2004), Culture and Public Action: A Cross-Disciplinary Dialogue on Development Policy, Palo Alto, Stanford University Press. Trad. it., Le aspirazioni nutrono la democrazia, Milano, Et al/Edizioni, 2011.

Biffi D. (2018), Lavorare con richiedenti asilo e rifugiati: l’etnografia di un ricercatore-operatore. In B. Riccio e F. Tarabusi (a cura di), Dilemmi, mediazioni e pratiche nel lavoro dell'accoglienza rivolta a rifugiati e richiedenti asilo, «Educazione interculturale», vol. 16, n. 1, pp. 1-21.

Cammelli M.G. e Restuccia M. (2018), Due Dj e un’antropologa. Etnografia di una festa in un Centro di Accoglienza Straordinario. In B. Riccio e F. Tarabusi (a cura di), Dilemmi, mediazioni e pratiche nel lavoro dell'accoglienza rivolta a rifugiati e richiedenti asilo, «Educazione interculturale», vol. 16, n. 1, pp. 1-15.

Colajanni A. (2014), Ricerca “pura” e ricerca “applicata”. Antropologia teoretica e antropologia applicativa. A un decennio dall’inizio del terzo millennio, «Dada, Rivista di Anthropologia post-globale», vol. 2, pp. 25-40.

Faso G. e Bontempelli S. (2017), Accogliere rifugiati e richiedenti asilo. Manuale dell’operatore critico, Firenze, Briciole CESVOT.

Nistri G. (2018), Abitare il confine: attori e contesti nell’esperienza dell’accoglienza carioca. In B. Riccio e F. Tarabusi (a cura di), Dilemmi, mediazioni e pratiche nel lavoro dell'accoglienza rivolta a rifugiati e richiedenti asilo, «Educazione interculturale», vol. 16, n. 1, pp. 1-9.

Olivier de Sardan J-P. (2008), Antropologia e sviluppo, Milano, Raffaello Cortina.

Pink S. (a cura di) (2007), Applications of Anthropology, Professional Anthropology in the Twenty-first Century, Berghahn, New York, Oxford.

Policicchio N. (2018), Gruppi di supervisione: uno sguardo dentro e fuori l’accoglienza. In B. Riccio e F. Tarabusi (a cura di), Dilemmi, mediazioni e pratiche nel lavoro dell'accoglienza rivolta a rifugiati e richiedenti asilo, «Educazione interculturale», vol. 16, n. 1, pp. 1-13.

Riccio B. e Tarabusi F. (2018), Dilemmi, mediazioni e opportunità nel lavoro di accoglienza rivolto a rifugiati e richiedenti asilo: un’introduzione, «Educazione interculturale», vol. 16, n. 1, pp. 1-9.

Segneri M.C. (2018), Essere di utilità a chi? Salvaguardare che cosa? Riflessioni e sentimenti del lavoro antropologico nell’ambito della certificazione sanitaria per richiedenti asilo, «Educazione interculturale», vol. 16, n. 1, pp. 1-18.

Urru R. (2011), Pratiche dell’accoglienza. In B. Sorgoni (a cura di), Etnografia dell’accoglienza. Rifugiati e richiedenti asilo a Ravenna, Roma, Cisu, pp. 61-86.



Note

1 Fermo restando che il contributo è frutto di un’elaborazione condivisa dalle autrici, il paragrafo 1. «Campi in-costruzione e professioni dell’accoglienza» è stato scritto da Federica Tarabusi, mentre il paragrafo 2. «Posizionamenti plurali e trame comuni nell’analisi dei servizi e nel lavoro di accoglienza» è stato scritto da Cecilia Gallotti.

DOI: 10.14605/EI1621810


© 2018 Edizioni Centro Studi Erickson S.p.A.
ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
Tutti i diritti riservati. Vietata la riproduzione con qualsiasi mezzo effettuata, se non previa autorizzazione dell'Editore.

Back