Test Book

Riflessioni e teorie

Un dialogo sulla congiura congiunturale - A dialogue about economic conspiracy

Andrea Canevaro

Professore Emerito dell’Università di Bologna

Luciano Carrino

Presidente della KIP International School


Abstract

La facilità con la quale si diffondono atteggiamenti razzisti, xenofobi, intolleranti e violenti è spaventosa, ma non è eccezionale né nuova. Questi atteggiamenti hanno guidato, con maggiore o minore forza, la politica degli ultimi diecimila anni di storia. Lo scenario politico vede avanzare soggetti che attingono al populismo, al razzismo o quantomeno alla xenofobia; essi si dichiarano antieuropei e proclamano con enfasi di essere l’«anti-politica». Con la crisi delle ideologie, sembra che si sia affermata un’idea di valori propria di un capitalismo ridotto alla contrapposizione fra ricchezza (bene) e povertà (male). La solidarietà selettiva spinge gli individui a scegliere chi amare e chi no e sarebbe importante ritrovare gli antichissimi e naturali sentimenti di solidarietà universale, facendoli divenire anche culturali.



 

Abstract

The ease with which racist, xenophobic, intolerant and violent attitudes are spreading is scary but is neither exceptional nor new. These attitudes have guided politics over the last ten thousand years of history, with different degrees of power. Politics is witnessing the appearance of people who promote populism, racism or xenophobia; they declare themselves as anti-European, proclaiming to be «anti-politics». Because of the ideology crisis, it seems that an idea of values of reduced capitalism has established itself with a contraposition between wealth (good) and poverty (bad). Selective solidarity pushes individuals into choosing whom they love and whom they don’t and it would be opportune to rediscover the ancient and natural feelings of universal solidarity, making them become even cultural.

 

Keywords: conjuncture, changing demographics, proactive secularism, widespread corruption, a common project.

Sommario

La facilità con la quale si diffondono atteggiamenti razzisti, xenofobi, intolleranti e violenti è spaventosa, ma non è eccezionale né nuova. Questi atteggiamenti hanno guidato, con maggiore o minore forza, la politica degli ultimi diecimila anni di storia. Lo scenario politico vede avanzare soggetti che attingono al populismo, al razzismo o quantomeno alla xenofobia; essi si dichiarano antieuropei e proclamano con enfasi di essere l’«anti-politica». Con la crisi delle ideologie, sembra che si sia affermata un’idea di valori propria di un capitalismo ridotto alla contrapposizione fra ricchezza (bene) e povertà (male). La solidarietà selettiva spinge gli individui a scegliere chi amare e chi no e sarebbe importante ritrovare gli antichissimi e naturali sentimenti di solidarietà universale, facendoli divenire anche culturali.

 

Parole chiave: congiuntura, cambiamenti demografici, laicità propositiva, corruzione diffusa, necessità di un progetto.

 

Le società in transizione e le due culture a confronto

Il presente contributo si struttura come una riflessione dialogante tra gli autori.

Luciano Carrino. La facilità con la quale si diffondono atteggiamenti razzisti, xenofobi, intolleranti e violenti è spaventosa, ma non è eccezionale né nuova. Questi atteggiamenti hanno guidato, con maggiore o minore forza, la politica degli ultimi diecimila anni di storia. Sono stati usati dai governi, dai partiti e da «guide spirituali» per gettare su nemici interni o esterni i sentimenti di paura e di odio che i cittadini accumulano proprio a causa delle conseguenze del malgoverno e della cattiva politica.

Per la verità, la politica, cioè l’arte di organizzare e governare le società, non è mai servita ad assicurare, a tutti i cittadini, la sopravvivenza, il benessere e la sicurezza, in linea con la funzione naturale di ogni società di esseri viventi. È stata, invece, l’arte di competere con ogni mezzo per conquistare potere e controllo delle risorse, facendo credere che solo chi emerge in questa competizione può assicurare il bene comune. 

Le società sono state organizzate in forma settoriale e gerarchizzata, e sono state governate da vertici che hanno accentrato grandi poteri e risorse, emarginando a cascata tutti gli altri. La politica è stata per millenni basata sul diritto del più forte e le popolazioni sono state sottomesse ai vertici con la forza e con le ideologie. La società è stata al servizio delle gerarchie e non viceversa.

Questo, in mille variazioni, è durato fino a un paio di secoli fa, quando ha cominciato a diffondersi, prima nei paesi occidentali e poi dappertutto, l’aspirazione all’uguaglianza dei diritti e delle opportunità. Quest’aspirazione diffusa, che sembra ormai insopprimibile, costituisce la rivoluzione culturale più importante della storia umana. Ha aperto una transizione dalle culture della disuguaglianza, dei privilegi e dell’esclusione, alle culture dell’uguaglianza, della giustizia sociale e della collaborazione tra tutti.

 

Tutto quello che accade, in politica e nella vita sociale, oscilla tra queste due visioni contrapposte del mondo. La prima, conservatrice, resiste al cambiamento e ha dalla sua l’enorme forza economica e culturale dei suoi promotori accumulata nel passato. La seconda, progressista, è legittimata da tutte le risoluzioni dell’ONU e dall’Agenda verso il 2030, si diffonde attraverso mille esperienze concrete, ma è debole e manca ancora di una visione organica di come dovrebbero funzionare le società e di strategie politiche efficaci.

Tutte le volte che l’aspirazione all’uguaglianza si manifesta con ribellioni, movimenti popolari di protesta e rivoluzioni, il modo tradizionale di gestire il potere si ripresenta per cavalcarle, neutralizzarle e rilanciare la cultura conservatrice nelle sue forme più violente, com’è accaduto in Iran e come sta accadendo in Turchia e in tante altre parti del Mediterraneo e del Medio Oriente.

I rigurgiti d’intolleranza che oggi si diffondono in Europa e negli Stati Uniti (dove sono pilotati verso gli immigrati, i nuovi capri espiatori da indicare come colpevoli di tutto ciò che non funziona nelle loro società) sono anche il segno di una grave crisi delle società più ricche. Queste riescono sempre meno a mantenere le promesse di benessere e sicurezza fatte a tutti i propri cittadini, che accumulano paure e sentimenti di ribellione. Nel frattempo, queste società continuano a favorire spudoratamente chi è più aggressivo e chi è già ricco e potente.

Nessuno può dire se e quando la cultura progressista dell’uguaglianza e della partecipazione riuscirà a prevalere. Finché dominerà quella conservatrice, anche nelle sue forme liberali, il razzismo e l’intolleranza non saranno banditi.

Ma perché l’intolleranza attecchisce così facilmente e può essere usata efficacemente da politici conservatori e populisti d’ogni genere?

 

Abitare il mondo durante una congiura congiunturale

Andrea Canevaro. Le proiezioni demografiche prevedono che le popolazioni di America e Asia crescano, nel 2050, rispettivamente del 19% e del 21%. L’Europa avrebbe un calo del 4,5%. L’immigrazione potrebbe colmare questo calo? Possiamo immaginare una redistribuzione della popolazione mondiale? Lo scenario politico vede avanzare soggetti che attingono al populismo, al razzismo o quantomeno alla xenofobia; che si dichiarano antieuropei. E che proclamano con enfasi di essere anti-politica.

Essendo la politica l’attività che maggiormente fa partecipare al processo di umanizzazione, è doloroso constare che proclamandoci «anti» corriamo il rischio della disumanizzazione. E forse chi si proclama «anti» non lo sa. O ritiene che una bella scossa dolorosa, faccia bene. In passato c’è stato chi ha invocato la guerra come igiene del mondo. E nella storia della salute, fra salassi ed elettroshock … Insomma: niente di nuovo.

L’ingiustizia dovrebbe essere insopportabile. Ma l’organizzazione sociale, cioè politica, in questo momento storico, sembra interessare pochi, essendo molto diffusa una percezione della realtà unicamente in rapporto con la propria situazione. É l’individualismo di massa. Che interesse ho io a perdere cinque minuti di tempo per andare a mettere nel contenitore la bottiglietta d’acqua che ho bevuto? La risposta sarebbe: per la pulizia dell’ambiente. Ma io non abito l’ambiente; abito a casa mia, che tengo pulita. Quella sì. Questa logica e questa percezione, rendono molto problematica l’organizzazione sociale.

Il problema diventa tragico se è la somma, congiunturale, cioè con un effetto combinato, di molti problemi drammatici, dall’economia alle guerre, ai migranti per fame e per guerre, o per persecuzioni e regimi violenti. All’ambiente. E altro ancora. I singoli problemi forse potrebbero avere soluzioni appropriate. Ma il groviglio congiunturale rende molto difficile trovare soluzioni, che inoltre dovrebbero anch’esse essere connesse fra loro, congiunte.

Forse cercare di sbrogliare la matassa imbrogliata dei problemi è un modo di abitare il mondo cercando la speranza di non soccombere alla congiura congiunturale. A volte una diagnosi può favorire una prognosi.

Su questo sfondo, cerchiamo di individuare alcuni punti che riteniamo importanti per abitare il mondo.

 

La banalità del male

L.C. Gli atteggiamenti aggressivi e intolleranti hanno le loro radici in una banalità del pensiero conservatore: che ciascuno ha il diritto di competere per il proprio successo e che l’insieme delle competizioni rende migliore la società. La parte non detta di questa banalità è che s’intende per competizione quella egoistica in cui uno vince e gli altri perdono, uno emerge e gli altri rimangono indietro. La parte falsa di questa banalità è che non è vero che si possa competere in un solo modo.

Siamo sempre mossi dal desiderio di soddisfare i nostri bisogni, come ogni essere vivente. Ma siamo diventati propriamente umani perché abbiamo avuto la capacità di controllare l’aggressività passionale e animalesca che ci spingerebbe a cercare la soddisfazione in modo diretto e imprudente. E abbiamo imparato a usarla, invece, in modo razionale e prudente, ma molto più sicuro ed efficace. Fa parte di quest’apprendimento la capacità di collaborare tra umani per aumentare a dismisura e reciprocamente le possibilità di soddisfazione dei bisogni. In altre parole, si è tanto più umani quanto più si sostituisce la competizione egoistica e conflittuale con quella collaborativa, in cui tutti fanno a gara per raggiungere sia il bene individuale che quello collettivo.

Nella mente e nelle scelte degli umani l’aggressività passionale deve sempre trovare le sue forme d’espressione scegliendo tra la competizione conflittuale e quella collaborativa.

 

Ma nelle culture della disuguaglianza molti non si accorgono della pericolosità della loro aggressività conflittuale, proprio perché è stata resa banale. Una volta stabilito che il valore principale è il successo individuale o di gruppo, e che questo serve anche a far funzionare meglio le società, i valori della partecipazione, della collaborazione pacifica e della solidarietà universale diventano secondari. Tutti sono legittimati cercare il successo economico o culturale, esercitando la propria aggressività in modi egoistici e conflittuali.

La cultura della disuguaglianza contiene un inganno e un’ipocrisia strutturale. Perché l’aggressività egoistica produce grandi benefici solo per chi vince. Per tutti gli altri, invece, produce marginalità, compressione dei bisogni, insicurezza. Perciò, l’attesa generale di benessere, sicurezza e successo è destinata in gran parte a essere frustrata. La conseguenza è che l’aggressività naturale di molti emarginati che non accettano la sottomissione si «libera» selvaggiamente e colpisce qualunque cosa capiti a tiro: familiari, colleghi, donne, passanti, migranti. E non è difficile orientare i violenti verso capri espiatori indicati insistentemente come i responsabili dei loro fallimenti.

Il problema è che l’aggressività egoistica e conflittuale è stata banalizzata e vaga liberamente, mentre il suo governo razionale e collaborativo, che distingue gli umani dai predatori, è intralciato in tutti i modi. I rigurgiti d’intolleranza mostrano quanto ci sia ancora da fare per liberare le società umane dalle forme di violenza bestiale e quanto sia ancora forte la cultura conservatrice, che si presenta abitualmente come rassicurante e banale ma mostra quando vuole la sua faccia spietata.

 

Laicità e laicità propositiva

A.C. Anni fa venivano usate due espressioni: linea orizzontale e linea verticale. Indicavano un bisogno degli esseri umani, un bisogno che possiamo chiamare sguardo bifocale. Abbiamo bisogno della terra, su cui siamo appoggiati. E abbiamo bisogno del cielo, per immaginare. C'è un proverbio canadese che dice che un adulto deve regalare a un bambino le radici e le ali. La terra e il cielo.

Le ideologie più importanti contenevano le due linee. Era presente il cielo, magari del proletariato di tutto il mondo. Quando la laicità è diventata un connotato imprescindibile della modernità (che però a volte è confusa con la moda stagionale…), le ideologie hanno cercato di abolire il loro cielo, la linea verticale. Sarà un caso che le ideologie hanno avuto un crollo? Però il bisogno di linea verticale, di cielo, rimane. A volte emergono individui che incantano. La loro ascesa può essere letta attraverso un’opera teatrale di Brecht. Bertolt Brecht scrisse, nel 1941, La resistibile ascesa di Arturo Ui pensando a Hitler, la cui ascesa sarebbe stata appunto resistibile. Come altri individui incantatori, sono mediocri, e si spacciano per irresistibili. E colgono la congiuntura della scomparsa della linea verticale per proporsi come figure simboliche capaci di sostituirla. Utilizzano, ciascuno a suo modo e nel suo contesto storico, i mezzi di persuasione di massa per affermarsi come figure carismatiche. Non sono personalità e i loro nomi sono più un prodotto, ancora una volta congiunturale, del caso che del merito. Hitler ha una grandezza proporzionale ai morti che ha provocato. Volendo essere idoli, generano idolatria. Con le conseguenze immaginabili. Tra queste, una molto importante è il cambiamento di parametro nell’individuazione dei quadri, dei responsabili della cosa pubblica. Siamo passati da parametri che avevano come elemento più importante il termine servizio, a parametri che si organizzano attorno al consenso, senza troppo badare a come viene ottenuto.

Una laicità propositiva non nega la trascendenza. La laicità è un progetto di emancipazione che permette a ciascuno di vivere la propria spiritualità. È fondata sulla coesistenza.

Laicità è la promozione dell’incontro delle ragioni del valore dei diversi modi di essere. È «impegnarci ad approfondire dialogando con altri] in cosa consiste il valore: nell’essere […] attivamente quello che siamo per caso, nello stabilire con gli altri e con noi stessi quella comunicazione resaci possibile dalla nostra struttura temporale e di cui la nostra libertà è solo l’abbozzo» (Merleau-Ponty, 1962, p. 60). Questa è una prospettiva e una speranza.

 

Il cielo

L.C. Tutti gli atteggiamenti intolleranti si autogiustificano con la difesa di valori e principi assoluti contro oscure minacce e nemici potenti. Ma dare una grandissima importanza alle proprie credenze (mistiche o laiche) può essere l’anticamera dell’intolleranza e offre argomenti contro i «diversi».

Molte persone per bene hanno credenze religiose o laiche. Ma le hanno anche molti criminali e soggetti poco raccomandabili. Credere in qualcosa, purtroppo, non garantisce di essere una persona per bene. Anzi, avere solide credenze è la base per diventare fondamentalista e, in particolari circostanze, intollerante e violento. Ma non averle può significare campo libero a ogni opportunismo e atteggiamento furbesco o violento, se si è guidati esclusivamente dal desiderio di successo e soddisfazione individuale.

A molti piace sostenere che gli umani hanno bisogno di credenze assolute, valori «superiori», visioni trascendenti e simili. Perché altrimenti, senza ideologie, non avrebbero valori, moralità, solidarietà e comportamenti civili. Regredirebbero, insomma, a uno stadio animalesco. Ma è davvero così?

Da sempre gli umani hanno credenze. Probabilmente sono nate insieme con l’apprendimento dell’uso dei simboli e del pensiero creativo, cioè la capacità di combinare parole, linguaggi, pensieri e sentimenti per lavorare su una realtà virtuale e organizzare azioni efficaci per rispondere ai propri bisogni di sopravvivenza, benessere e sicurezza.

 

Da quando il pensiero creativo ha cominciato a essere usato con successo (probabilmente circa un paio di milioni d’anni fa), gli umani hanno tentato di usarlo per rispondere meglio a tutti i propri bisogni, compresi quelli di vivere in sicurezza tenendo sotto controllo fenomeni ed eventi pericolosi e minacciosi: terremoti, incendi, siccità, malattie ecc. Alcuni pensieri creativi ottenevano risultati concreti e avevano un’efficacia provata (per esempio quelli che hanno permesso di usare bene il fuoco, di coltivare la terra, d’inventare la ruota ecc.). Le credenze, invece, erano pensieri che avevano un’efficacia sperata.

Nessuna credenza è stata efficace contro la morte, le malattie, i terremoti, le guerre, le grandi frustrazioni, i sensi di colpa (che le culture conservatrici seminano a piene mani) e le cose che più fanno paura, ma piuttosto che restare senza strumenti di difesa gli umani hanno continuato a sperare nelle credenze a portata di mano.

 

Ma le credenze non sono servite solo a combattere le paure e dare senso a cose inaccettabili, sono servite anche a formulare ipotesi di ricerca che hanno portato progressivamente a risultati utili. Per esempio le credenze dell’antica Grecia sul funzionamento del corpo umano hanno aperto la strada a ricerche che hanno portato a risultati di efficacia dimostrata. Il pensiero creativo non separa le certezze dalle credenze. Queste, come le fantasie, le ipotesi di ricerca, le intuizioni o le creazioni artistiche, sono parte indissociabile e positiva del pensiero. Servono a guidare verso visioni utili, soluzioni efficaci e armonie possibili.

Tuttavia, le credenze possono anche essere create o utilizzate da chi vuole trarne vantaggi per sé e il proprio gruppo e cerca di inculcarle a tutti (anche a quelli che ne ricevono danni) nella versione che meglio gli conviene. Questo è successo sistematicamente nelle società autoritarie e stratificate, dove i vertici delle piramidi sociali hanno avuto il potere di stabilire in cosa le popolazioni dovessero credere e a quali regole dovessero conformarsi.

Perciò, da quando è emersa l’aspirazione all’uguaglianza dei diritti e delle opportunità, si è sviluppata anche una notevole diffidenza verso le credenze del passato cercando di sostituirle con nuove credenze laiche più verosimili e più vicine all’idea di uguaglianza. Alcune delle vecchie credenze hanno saputo rinnovarsi (o ritrovare antiche radici popolari e libertarie) e sostituire il loro tradizionale aspetto autoritario e intollerante con nuovi aspetti più accoglienti e ugualitari, che coabitano con vecchie intolleranze. In meno di trent’anni, per esempio, la chiesa cattolica è passata dall’emarginazione dei preti progressisti dell’America Latina a un recente papato progressista. Altre fanno fatica a perdere l’antica coerenza conservatrice. Ma tutte le credenze, comprese quelle innovative e laiche che esprimono i bisogni di emancipazione, giustizia, equità e solidarietà universale, sono facilmente manipolabili e possono essere interpretate e usate a fini di potere e controllo sia da parte delle gerarchie interne delle rispettive organizzazioni (chiese, partiti), sia da parte dei governi e delle istituzioni pubbliche. Di fatto, molte credenze, comprese quelle laiche più affascinanti, hanno animato grandi movimenti popolari di protesta (come quello che ha portato alla rivoluzione sovietica), ma sono state distorte e usate poi da gerarchie che non hanno saputo o voluto cercare nuove forme partecipate della politica e del funzionamento della società, preferendo i vecchi strumenti della repressione e del controllo centralizzato e verticale.

In conclusione, il problema non è credere o non, avere o non avere un cielo, ma scegliere le credenze, o meglio le visioni e le ipotesi di lavoro progressiste che siano più vicine agli interessi di un’umanità maltrattata da millenni di cattive credenze e cattive organizzazioni sociali e, soprattutto, saperle usare in forma cosciente e largamente partecipata per prevenire le immancabili manipolazioni dei conservatori. 

 

La corruzione diffusa

A.C. Con la crisi delle ideologie, sembra che si sia affermata un’idea di valori propria di un capitalismo ridotto alla contrapposizione fra ricchezza (bene) e povertà (male). Questo schema apre le porte alle corruzioni, di tutti i tipi e diffuse, banalizzate.

Diventano trascurabili i «come». Tutto sommato, il successo di chi ha ottenuto ricchezza (bene) con mezzi poco chiari, ci legittima a fare qualcosa di simile. Ad esempio: non pagare le tasse. Ma anche inquinare, speculare, imbrogliare. Tutto è possibile se porta al bene-ricchezza. Diciamo spesso che non ci sono risorse…335 miliardi di sommerso all’anno. 200 miliardi di evasione fiscale. 80 miliardi di costo della corruzione. Il fatturato accertato della mafia: 160 miliardi. É vero: non ci sono risorse. Per il bene comune, la res publica, la repubblica.

Il messaggio della ricchezza e della povertà è semplice e si diffonde facilmente. Anche fra il popolo dei barconi. Facilita il reclutamento di manodopera a buon mercato dell’illegalità organizzata. Inoltre, se il male è la povertà, è più facile fare in modo che il povero sia colpevole.

La corruzione è frantumata in tanti piccoli e meno piccoli atti, ed è così banalizzata. Questo alimenta la convinzione che il singolo non possa opporsi a un modo di vivere così radicato e diffuso.

Bauman (1992; 1989) ha messo in evidenza questo meccanismo organizzativo che ha costituito la modernità dei genocidi operati dal nazismo: una minuziosa frantumazione e distribuzione dei compiti in modo da ottenere senso di complicità e nello stesso tempo di impotenza e deresponsabilizzazione. Ciascuno si sente una rotellina in un sistema che funziona ad ogni modo. E quindi, se tutto questo è inevitabile, tanto vale profittarne.

La corruzione diffusa è tanto più possibile quanto i compiti di controllo sono sminuzzati. È il paradosso secondo il quale tanti, troppi, sorveglianti rendono possibile il risultato dell’assenza di sorveglianza.

 

Solidarietà universale e selettiva

L.C. Le dinamiche di esclusione che prevalgono in tutte le società complesse hanno frantumato i potenti sentimenti di solidarietà spontanea e universale, che legano tutti gli umani tra loro e che li spingono, per esempio, ad aiutare istintivamente chi è in pericolo o a collaborare in tante attività scientifiche, sportive, artistiche ecc. Questi sentimenti non selettivi, che originariamente univano istintivamente tutti i membri delle piccole antichissime società umane e servivano a proteggersi tutti reciprocamente, sono stati sostituiti, nelle società popolose basate sulla divisione dei compiti e sulle stratificazioni di potere, da sentimenti selettivi. Da allora gli umani si proteggono (egoisticamente) aderendo a uno o più gruppi piuttosto che alla società nel suo insieme.

La solidarietà selettiva, però, spinge gli individui a scegliere chi amare e chi no, chi va considerato amico e chi no, chi è un riparo e chi è un pericolo ecc. I potenti sentimenti universali di solidarietà (che per milioni d’anni avevano tenuto insieme, istintivamente, le piccole società umane) sono frammentati e si trasformano in potenti forze di separazione e conflitto tra famiglie, clan, partiti, gruppi, stati, religioni e così via.

Percepiamo positivamente qualunque sentimento di solidarietà, ma quella selettiva (che ci piace quando ci spinge a buone azioni verso chi scegliamo di aiutare e ci fa sentire persone per bene) nasconde sempre una sua faccia molto meno positiva: la diffidenza e l’avversione per chi non scegliamo, non capiamo e sentiamo come estraneo o pericoloso. Nel migliore dei casi, la tolleranza sostituisce l’istintiva solidarietà universale.

 

Le solidarietà selettive, specie quando manipolate da chi ha interesse a farlo, aprono la strada all’intolleranza e alla violenza. Esse spingono a consolidare un gruppo contro l’altro e hanno accompagnato e facilitato tutte le forme di aggressività e violenza tra umani: le guerre, il colonialismo, il razzismo, l’emarginazione delle donne e tante altre nefandezze.

Oggi, nell’epoca in cui la prolungata prevalenza delle solidarietà selettive ha prodotto enormi danni che mettono in pericolo il futuro di tutti, sarebbe importante ritrovare gli antichissimi e naturali sentimenti di solidarietà universale, facendoli divenire anche culturali. Per rilanciarli, non bisognerebbe rinunciare al piacere di scegliersi chi proteggere e da chi farsi proteggere. Basterebbe far coesistere questo piacere con quello di sentirsi anche parte della specie umana. Allora, forse, i due piaceri potrebbero potenziarsi reciprocamente, specie se le società fossero organizzate per dare spazio adeguato sia al bene individuale che a quello comune.

 

Lo spazio e il tempo. Un cortocircuito

A.C. Hartmut Rosa (2015) ha studiato il rapporto che si è creato fra l’accelerazione del tempo e l’alienazione. Possiamo osservare quotidianamente nostri comportamenti che hanno la caratteristica di aver dissociato tempo e spazio. Possiamo raggiungere istantaneamente una persona in un altro continente. Lo spazio, le distanze, spariscono. Il tempo ha un’accelerazione che sembra non dovere più tener conto dallo spazio. E questo sta provocando fenomeni che dovrebbero preoccuparci. Ma non ci preoccupiamo, perché non abbiamo tempo.

L’accelerazione ci porta a una reattività immediata, senza riflessione. L’immediatezza produce espressioni verbali anche indecenti. Anche violente e tali da far scattare, in chi è meno esposto a notorietà – ma così può conquistarla – e forse più fragile, comportamenti indecenti e violenti.

L’accelerazione produce decisioni repentine e sovente del tutto provvisorie, con conseguenti disorientamenti e conflittualità permanente. Che porta a trasformare il più possibile i conflitti da ricerca, sia pure attraverso un confronto fra posizioni diverse, di una soluzione, a conflitti inutili.

I conflitti utili seguono la logica della possibilità, attraverso di essi, dell’innalzamento del livello: la logica dell’idrovora, che ha il compito di innalzare il livello dell’acqua per permetterne un utilizzo funzionale al percorso canalizzato. Per andare oltre, a un livello più alto.

I conflitti inutili sono quelli distruttivi, vissuti con l’unico scopo dell’uscirne con la vittoria e la distruzione di chi viene considerato nemico, sia esso soggetto umano o situazione (che sovente viene fatta indossare a un soggetto umano).

 

Il rituale della pipa, fra le nazioni dei nativi americani, può essere letto come la saggia possibilità di condividere uno spazio senza immediatamente usare le parole. E lo spazio permette di scoprire una memoria condivisa. Aboliti i rituali che realizzavano in uno spazio condiviso, le parole escono senza memoria.

La perdita di una memoria condivisa, perdita indotta dall’enfatizzazione accelerata ed esasperata dell’attualità emotiva, ha prodotto l’ignoranza diffusa della storia. Un fatto accaduto dieci anni fa, viene sepolto in un’ignoranza che lo accomuna alle guerre puniche.

E l’accelerazione ci impedisce di discernere i tempi, avendo a disposizione unicamente la linearità del tempo. Non distinguiamo il cane dal lupo. Siamo confusi. «Nell’arco di tempo che, quotidianamente, si richiude su se stesso, nella catena senza fine delle ore luminose e oscure, ce n’è una, la più confusa ed evanescente, che è l’impalpabile limite fra la notte e il giorno. C’è un’ora, appena prima dell’alba, che già il mattino è arrivato, ma è ancora notte. Nulla di più misterioso e incomprensibile, nulla di più enigmatico e oscuro, che questo strano passaggio dalla notte al giorno» (Vygotskij, 1973, p. 37).

Uno studioso dell’University di Stanford, Robert Proctor, nel 1992 ha coniato il termine agnotologia, che significa scienze dell’ignoranza. Una delle possibilità più semplici e diffuse consiste nell’accelerare continuamente la presentazione di tesi in contrapposizione, come se entrambe fossero opinabili e giustificabili, mentre una dovrebbe essere da tempo – quello che viviamo accelerato e quindi manca - collocata fra le falsità ad esempio: presentare due tesi a proposito del genocidio nazista: il negazionismo accanto alla memoria degli assassini di massa.

L’effetto porta anche alla possibilità di vantarsi della propria ignoranza, che può permettere di menar vanto del non star dietro a tante chiacchiere considerate inutili come la conoscenza.

 

Laicità ed etica dello sviluppo

L.C. Nell’epoca dell’incerta transizione tra culture della disuguaglianza e dell’uguaglianza, il pensiero conservatore si è dimostrato molto capace di cambiare forma per mantenere la sostanza: sa nascondere le disuguaglianze e le ingiustizie dietro le ideologie liberali, ma quando conviene sa anche far ricorso agli strumenti ideologici ben consolidati del razzismo, della xenofobia, del nazionalismo, della difesa della propria «civiltà» ecc. Lo scopo è sempre far crescere le paure e presentare una realtà minacciosa, piena di nemici, nella quale c’è assoluto bisogno di vertici potenti, intelligenti e spietati, i soli che possano proteggere autorevolmente i cittadini dai pericoli.

Invece il pensiero progressista, pur avendo dalla sua la generale aspirazione all’uguaglianza, non ha ancora saputo trovare i mezzi per esprimersi efficacemente, far crescere costantemente il consenso e soprattutto dimostrare che è possibile organizzare diversamente le società umane e fare politica in modo nuovo. Perciò è ancora fragile e non è difficile metterlo in crisi tutte le volte che crescono gli squilibri provocati dalla vecchia ma sempre dominante organizzazione diseguale della società.

 

Le rivoluzioni basate sull’aspirazione all’uguaglianza sono state poi gestite da governi autoritari (da quella francese a quella sovietica, a quella cubana e fino alle «primavere arabe»). I governi progressisti continuano a usare per le questioni essenziali dell’economia e della sicurezza, gli stessi approcci dei conservatori e parlano di crescita, di PIL, di stabilità ecc. Non appena toccano un punto sensibile del sistema delle disuguaglianze, il sistema si vendica e mette in pericolo tutti (crisi economiche e finanziarie, minacce di guerre ecc.). I progressisti vorrebbero una protezione sociale più giusta e diffusa, ma la considerano «ridistribuzione», dando per scontato che prima bisogna crescere economicamente e poi si possono assistere quelli che restano indietro o hanno bisogni «speciali». Non hanno ancora preso sul serio le raccomandazioni dell’ONU che già da vent’anni affermano che occorre cambiare il modo con cui crescono economicamente le società e andare verso forme di economia inclusiva per ridurre il bisogno di servizi sociali insostenibili. Insomma il pensiero progressista è ancora intriso di schemi e valori conservatori e perciò non riesce a usare la transizione per promuovere efficacemente l’uguaglianza dei diritti. Tutto ciò nonostante la diffusione di migliaia di esperienze che sembrano anticipare aspetti di uno sviluppo equo e di qualità.

Le destre avanzano, anche nella loro versione più violenta, proprio perché il pensiero conservatore sa usare perfino i danni che provoca. Tra questi i sentimenti antisociali prodotti dalla delusione delle persone che avevano creduto nella promessa di successo, benessere e sicurezza che riesce a stornare verso capri espiatori.

Anche l’antipolitica che nasce dalla sacrosanta diffidenza per il sistema dei partiti è facilmente manipolata dal pensiero conservatore per andare verso nuovi autoritarismi.

 

L’anti socialità e l’antipolitica sono indicatori del fallimento delle società stratificate. I loro nodi di privilegi, manipolazioni, esclusioni ecc. vengono al pettine. Ma, paradossalmente, il pensiero conservatore regge meglio la crisi perché sa come manipolare lo scontento e, se necessario, reprimere violentemente l’aspirazione all’uguaglianza. Invece, il pensiero e la politica progressista sono ancora contraddittori, deboli e incapaci d’indicare sia una nuova visione radicalmente nuova basata sull’uguaglianza di diritti e sulla partecipazione attiva di tutti, sia una pratica che vada coerentemente in questa direzione.

In questa situazione, hanno una grande responsabilità i politici e i ricercatori progressisti.

I primi devono trovare un nuovo modo di organizzare e far funzionare i partiti progressisti, attualmente appiattiti sulla visione conservatrice della società. In particolare devono superare l’idea che i partiti debbano conquistare il consenso elettorale delle diverse categorie sociali promuovendo gli interessi settoriali di ciascuna. I partiti tradizionali (anche quelli progressisti) si basano sulla visione conservatrice della società, sul valore positivo della competizione conflittuale tra tutti, sulla delega ai più forti e così via. Essi servono a far funzionare la società così com’è, non a cambiarla. Perciò servono efficacemente o a portare il consenso delle categorie più deboli ai valori tradizionali e alla visione dei partiti conservatori più forti, oppure a riempire di contenuti conservatori i partiti che vorrebbero essere progressisti. 

Invece il tipo di partito che servirebbe ai progressisti dovrebbe puntare al cambiamento strutturale delle società diseguali. Perciò dovrebbe promuovere: la collaborazione tra tutti gli attori sociali (invece che limitarsi a sostituire un potere con un altro); l’economia inclusiva e diffusa (invece di sostenere le grandi concentrazioni industriali e finanziarie e tamponare le crisi prodotte dalla crescita dissennata attuale); la crescita di qualità in armonia con la natura e senza danneggiare la coesione sociale (invece che quella delle quantità a ogni costo misurata con il PIL); la protezione sociale fondata sul grande patrimonio della solidarietà universale, sull’economia inclusiva e su servizi umanizzati (invece che moltiplicare servizi settoriali costosi e spesso disumanizzati); il lavoro comune degli attori sociali pubblici e privati sul territorio, come asse portante del cambiamento (invece che continuare a gestire interessi contrapposti delle categorie sociali); la partecipazione attiva e diretta dei cittadini ai processi di sviluppo locale sul territorio (invece che la delega al partito e alle istituzioni di ogni decisione); la collaborazione tra settori e professioni diverse (invece che cercare di occupare ministeri, assessorati, aziende pubbliche e settori dell’economia, dei media ecc.).

 

La visione potrebbe essere quella di un mondo in cui gli stati, governati in modo non solo democratico ma autenticamente partecipato, danno ampio spazio alle collettività locali che vivono nelle suddivisioni politico-amministrative dello stato (regioni, comuni ecc.) per fare sviluppo attraverso strategie, programmi e piani concertati tra tutti gli attori pubblici e privati, che usano in modo valorizzante e sostenibile le risorse naturali, storiche e umane del territorio.

I politici progressisti dovrebbero promuovere partiti del territorio e della partecipazione. Promuovendo con coerenza e convinzione la visione dello sviluppo raccomandata ormai da decenni dal sistema delle Nazioni Unite, potrebbero far sentire come vecchia e superata la visione conservatrice. 

 

L’assenza di un progetto comune

A.C. Prevale una certa logica: «[…] se lei fa un incidente in macchina l’economia ci guadagna. I medici lavorano. I fornitori di medicinali incassano e così il suo meccanico. Se lei invece entra nel cortile del vicino e gli dà una mano a tagliare la siepe compie un gesto antipatriottico, perché il Pil non cresce. Questo è il tipo di economia che abbiamo rilanciato all’infinito. Se un bene passa da una mano all’altra senza scambio di denaro è uno scandalo».1 Nella congiura congiunturale capita anche questo: il mio progetto, per realizzarsi, avrebbe proprio bisogno di un tuo incidente. Viviamo un periodo in cui nell’altro non vediamo un compagno di strada, ma una minaccia che però potremmo sfruttare a nostro esclusivo vantaggio. Lo si può vedere con i migranti, che hanno fatto nascere un’economia di sfruttamento con cifre notevoli. Le disgrazie possono essere un fatturato o una rendita.

Per il progetto comune e condiviso ci vuole tempo. La cultura della tenacia e della pazienza. Con la fretta si costruisce in fretta, e male.

 

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Autore per la corrispondenza

Andrea Canevaro
Indirizzo e-mail: andrea.canevaro@unibo.it
Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Dipartimento Scienze dell’Educazione



1 Dall’intervista a Z. Bauman del 7/08/11 su «La Stampa – Economia». A. Malaguti, Finanza fuori controllo. La politica non può limitarla, «La Stampa. Economia», 7/08/11, http://www.lastampa.it/2011/08/07/economia/finanza-fuori-controllola-politica-non-puo-limitarla-HVjtUKNoUQjub9Ka55wM1H/pagina.html (ultimo accesso: 3/04/17)

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