Approfondimenti
CONFLITTI ETNICO-CULTURALI: DALL’INDIFFERENZA ALLA STRUMENTALIZZAZIONE E ALLA VIOLENZA
Antonio Genovese
Condirettore della rivista “Educazione interculturale”
Abstract
Negli ultimi anni sono profondamente cambiati i “fattori di spinta” delle migrazioni che stanno avvenendo nel mondo: le guerre, insieme alle catastrofi naturali, sono diventati i motivi principali per cui si lascia il proprio Paese alla ricerca di una vita migliore. Poiché sono tanti i contesti di guerra e/o di conflitti violenti nel mondo, oggi ci troviamo di fronte a più di cinquanta milioni di profughi che sono già oltre i confini della loro nazione o si sono rifugiati in territori nazionali, ma più sicuri perché omogenei dal punto di vista etnico-culturale. Questi mutamenti planetari impongono che si analizzi la realtà sociale, e soprattutto quella delle migrazioni, con uno sguardo sistemico ed ecologico, tale da lasciare trasparire la complessità della situazione per evitare semplificazioni che possono produrre discriminazioni, violenze e razzismi.
I cambiamenti nei processi migratori
L’estate del 2015 ha drammaticamente messo sotto gli occhi di tutti noi che il terreno in cui si stanno manifestando più conflitti, drammi umani e tensioni sociali è — prima in Italia e in Grecia, poi in tutta l’Unione Europea — certamente l’immigrazione. Migliaia di persone, rischiando la vita, tutti giorni per mare e per terra cercano di entrare in Europa.
Per comprendere a fondo cosa e perché sta succedendo occorre, a mio parere, partire da una data particolarmente significativa, e cioè dal 17 dicembre 2011. Cos’è avvenuto in quel giorno che ha cambiato il segno dell’immigrazione (non solo italiana)? Mohamed Bouazizi, un giovane venditore ambulante tunisino, si è dato alle fiamme per protestare contro l’impossibilità di sopravvivere senza lavoro e risorse. Mohamed Bouazizi faceva il venditore ambulante abusivo di frutta e verdura nella città di Sidi Bouzid, in Tunisia. Dopo che la polizia gli ha confiscato la mercanzia — probabilmente perché privo del permesso per la vendita come ambulante, oppure, come sostengono altre fonti, perché stanco di essere taglieggiato dalla polizia si era rifiutato di pagare la tangente — si è dato fuoco di fronte al palazzo del governatore locale. È morto, dopo pochi giorni, a causa delle ustioni riportate.
Quella morte ha dato l’avvio, in diversi Paesi arabi, a una serie di moti che sono stati battezzati con l’espressione “Primavera araba”: una ribellione, guidata soprattutto dalle masse giovanili scolarizzate e disoccupate, contro i regimi autoritari di quei Paesi, ma, allo stesso tempo, una rivolta contro sistemi economici che non lasciano alcuna possibilità di futuro ai giovani arabi. Dalla Tunisia i moti si sono presto estesi all’Egitto, alla Libia fino alla Siria.
Questi eventi hanno cambiato significativamente il volto dell’immigrazione: dal 2011 ci sono sempre meno “immigrati economici” (cioè soggetti che si muovono dal proprio Paese per cercare un lavoro o condizioni di vita meno difficili) che arrivano in Italia e/o in Europa e sempre più “immigrati di guerra” o “richiedenti asilo politico”, cioè persone scacciate dal proprio Paese a causa delle violenze e delle distruzioni prodotte dalla guerra.
Le guerre, insieme alle catastrofi naturali derivanti dai mutamenti climatici, sono via via diventati i principali fattori di spinta dei processi migratori. Uniti al disagio economico e alla fame nel mondo (quasi un miliardo di persone oggi vive sotto i livelli minimi di sussistenza), fanno sì che l’immigrazione sia diventata un fenomeno strutturale che riguarda soprattutto le società “ricche”, ma non solo quelle, e che si sviluppa in tutte le latitudini e verso quasi tutti i Paesi.
A livello mondiale, negli ultimi dieci anni, i migranti sono aumentati di 64 milioni di unità e, secondo l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni, [1] i migranti nel mondo sono attualmente 250 milioni. I flussi migratori sfiorano i 6 milioni di unità per anno: i flussi determinati dalle guerre sono in aumento; quelli “economici”, seppure rallentati nell’attuale fase di recessione internazionale, acquisteranno, secondo le previsioni dell’Ocse, nuovo dinamismo se ci sarà la ripresa economica.
Anche noi italiani ci inseriamo molto bene in questo flusso migratorio in uscita: secondo il “Rapporto Italiani nel Mondo” (Fondazione Migrantes, 2014), gli italiani all’estero regolarmente iscritti all’AIRE (l’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero) erano, nel 2012, circa 4.400.000, in crescita del 3,1% rispetto al 2011, e risultavano così ripartiti nelle 4 circoscrizioni elettorali estere per le elezioni politiche: in riferimento all’Europa 2.365.170 persone; all’America meridionale 1.338.172; all’America settentrionale e centrale 400.214; all’Africa, Asia, Oceania e Antartide 237.600. [2]
Tenendo conto che molti lavoratori italiani all’estero non si iscrivono all’anagrafe per varie ragioni pratiche, possiamo affermare (e sottolineare) che l’emigrazione italiana non è affatto finita; anzi, con l’acuirsi della crisi economica che stiamo attraversando dal 2008, l’emigrazione italiana per motivi di lavoro sta crescendo in misura esponenziale soprattutto fra i giovani. [3]
Chi sono i nuovi migranti italiani? I recenti migranti italiani sono soprattutto giovani, con qualifiche medio-alte o privi di un titolo di studio. Per la maggior parte risultavano uomini sia nel 2013 (56,3%), sia nel 2012 (56,2%), non sposati nel 60% dei casi; tra le fasce di età al primo posto c’è il gruppo di età compresa tra i 18-34 anni (36,2%), seguito da quella tra i 35 e i 49 anni (26,8%).
Il Regno Unito, con 12.933 nuovi iscritti all’inizio del 2014, è il primo Paese verso cui si sono diretti i recenti migranti italiani, con una crescita del 71,5% rispetto all’anno precedente. Seguono la Germania (11.731, +11,5% di crescita), la Svizzera (10.300, +15,7%) e, con 8.402 nuovi iscritti pari a +19,0%, la Francia (Fondazione Migrantes, 2014).
Il problema delle migrazioni, soprattutto del numero consistente di migranti, è diventato così rilevante che i diversi governi dell’Unione Europea si stanno preparando a modificare le norme per la gestione degli arrivi dei profughi di guerra. In particolare, in Gran Bretagna il governo conservatore sta pensando di impedire l’arrivo nel proprio Paese non solo di nuovi profughi di guerra ma perfino degli europei comunitari che vanno in quel Paese alla ricerca di un lavoro.
Ma veniamo all’immigrazione in Italia. Quanti sono gli immigrati regolari oggi in Italia? Secondo il Rapporto Istat, al 1° gennaio 2015 risultavano iscritti all'anagrafe e, quindi, residenti in Italia 5 milioni 73 mila cittadini stranieri, l'8,3% del totale della popolazione. [4] Ma quanti sono gli immigrati irregolari presenti nel nostro Paese e quanti quelli sbarcati sulle coste italiane che alimentano l’idea dell’invasione? Gli sbarchi stanno diventando, per diverse realtà politiche, una vera e propria ossessione, nonché una carta elettorale che si sta dimostrando, per alcuni partiti e movimenti politici, molto redditizia!
Allarmanti sono anche i numeri forniti dall'Oim (Organizzazione internazionale per le migrazioni) relativi agli arrivi attraverso il Mediterraneo: nei primi otto mesi del 2015, sono stati 351mila i migranti che hanno attraversato il mare in cerca di una vita migliore (gli arrivi dell'anno scorso nello stesso periodo erano stati 219mila). L'Oim stima in 235.000 i migranti arrivati in Grecia e in 115mila quelli approdati in Italia fino al mese di agosto del 2015. Ma com’è noto, con gli sbarchi, arrivano anche le tragedie: è di questi giorni la morte di oltre 700 immigrati in mare; dall’inizio del 2015, i morti e i dispersi nel Mare Mediterraneo sono, alla fine dell’estate 2015, quasi 3.000.
Sulla terribile e disumana tragedia delle morti in mare o addirittura soffocati nelle stive di orrendi e fatiscenti barconi, mi piace ricordare una bellissima poesia di Erri De Luca, una preghiera laica dal titolo Mare nostro:
Mare nostro che non sei nei cieli / e abbracci i confini dell’isola e del mondo / sia benedetto il tuo sale / sia benedetto il tuo fondale.
Accogli le gremite imbarcazioni / senza una strada sopra le tue onde / i pescatori usciti nella notte / le loro reti tra le tue creature / che tornano al mattino con la pesca dei naufraghi salvati.
Mare nostro che non sei nei cieli / all’alba sei colore del frumento /al tramonto
dell’uva di vendemmia / ti abbiamo seminato di annegati/ più di qualunque età delle tempeste.
Mare nostro che non sei nei cieli / tu sei più giusto della terraferma / pure quando sollevi onde a muraglia poi le abbassi a tappeto.
Custodisci le vite, le visite cadute come foglie sul viale / fai da autunno per loro, da carezza, da abbraccio / da bacio in fronte di madre e padre prima di partire. [5]
Molti migranti muoiono anche nei percorsi via terra: si parte dalla Grecia con la speranza di arrivare — attraversando la Macedonia, la Serbia e l’Ungheria — in Austria e da lì in Germania o in qualche altro Paese del nord Europa. Agosto 2015: in un Tir abbandonato lungo un’autostrada austriaca vengono scoperti 71 cadaveri fra cui 4 bambini, morti asfissiati nel camion abbandonato sotto il sole in piena estate.
I fattori di spinta e di crescita delle migrazioni
Da dove arrivano i “nuovi migranti”? In Grecia giungono prevalentemente dalla Siria, dall’Afganistan, dal Pakistan, dall’Iraq; in Italia, dalla Somalia, dall’Eritrea, dal Sudan, dalla Nigeria e anche dalla Siria. In più di trecentomila, in questa estate del 2015, hanno vagato — sui gommoni, su barconi fatiscenti, nei treni “blindati”, nei cassoni di Tir senza aria, a piedi — per la “civilissima Europa”, respinti da molti Paesi europei, nella speranza di riuscire a raggiungere un posto in cui vivere.
Ma da cosa stanno fuggendo? Soprattutto dalle guerre che oggi sono il fattore principale di spinta e di crescita dei flussi migratori. Per capire meglio cosa sta accadendo e quante siano le guerre in atto, oggi, nel mondo, occorre consultare il sito www.guerrenelmondo.it, che svolge in questo ambito un servizio prezioso, molto documentato e aggiornato. Riporto qui un elenco parziale e incompleto, ma che comunque fornisce un’idea abbastanza precisa di cosa sta accadendo nel mondo e che ha fatto dire a Papa Francesco che stiamo già vivendo la Terza Guerra Mondiale:
- Africa: 27 Stati e 177 tra milizie-guerrigliere, gruppi separatisti e gruppi anarchici coinvolti.
- Punti Caldi: Egitto (rivolta popolare contro il Governo), Libia (guerra contro i militanti islamici), Mali (guerra contro i tuareg e i militanti islamici), Nigeria (guerra contro i militanti islamici), Repubblica Centrafricana (guerra civile), Repubblica Democratica del Congo (guerra contro i gruppi ribelli), Somalia (guerra contro i militanti islamici), Sudan (guerra contro i gruppi ribelli), Sud Sudan (guerra civile).
- Medio Oriente: 8 Stati e 215 tra milizie-guerriglieri, gruppi separatisti e gruppi anarchici coinvolti.
- Punti Caldi: Iraq (guerra contro i militanti islamici dello Stato Islamico), Israele (guerra contro i militanti islamici nella Striscia di Gaza), Siria (guerra civile), Yemen (guerra contro e tra i militanti islamici).
- Asia: 16 Stati e 145 tra milizie-guerriglieri, gruppi separatisti e gruppi anarchici coinvolti.
- Punti Caldi: Afghanistan (guerra contro i militanti islamici), Birmania-Myanmar (guerra contro i gruppi ribelli), Filippine (guerra contro i militanti islamici), Pakistan (guerra contro i militanti islamici), Thailandia (colpo di Stato dell’esercito, Maggio 2014).
- Americhe: 5 Stati e 25 tra cartelli della droga, milizie-guerrigliere, gruppi separatisti e gruppi anarchici coinvolti.
- Punti Caldi: Colombia (guerra contro i gruppi ribelli), Messico (guerra contro i gruppi del narcotraffico).
- Europa: 9 Stati e 74 tra milizie-guerriglieri, gruppi separatisti e gruppi anarchici coinvolti.
- Punti Caldi: Cecenia (guerra contro i militanti islamici), Daghestan (guerra contro i militanti islamici), Ucraina (Secessione dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk e dell’autoproclamata Repubblica Popolare di Lugansk).
Totale degli Stati coinvolti nelle guerre: 65. Totale delle Milizie-guerriglieri e dei gruppi separatisti coinvolti: 638. [6]
Le conseguenze di queste guerre: l’Alto commissariato per l’ONU (UNHCR) ha dichiarato di avere assistito, nel 2014, oltre 46 milioni di soggetti in difficoltà, di cui oltre 13 milioni di profughi/rifugiati che hanno diritto a chiedere l’asilo politico/umanitario e di più di 26 milioni di “sfollati interni”, cioè di sfollati che vivono relativamente vicino ai territori di provenienza! [7]
Quello che sta accadendo in Iraq, in Afghanistan, in Pakistan e in Siria è paradigmatico. Il mondo islamico presentato, da mass media e forze politiche niente affatto disinteressate, fino a poco tempo fa come omogeneo si sta in realtà frantumando in tante “osservanze religiose” contrapposte: jihadisti sunniti che ammazzano musulmani sciiti, dopo essere stati emarginati e repressi da questi ultimi; sunniti salafiti che cercano di imporre con la forza le proprie regole religiose, molto severe, a tutti i sunniti; cristiani costretti con le armi a fuggire da territori che li vedevano presenti da migliaia di anni e in cui si sono sviluppate alcune delle prime comunità cristiane. Curdi, di religione islamica, costretti dai fondamentalisti dello ISS (Stato Islamico) a scappare dal proprio territorio in Siria e a cercare riparo verso la Turchia dove sono perseguitati dagli islamici turchi.
E sul piano degli avvenimenti/conflitti religiosi si dovrebbero aggiungere gli scontri fra Buddisti e Musulmani; fra Induisti, musulmani e buddisti, senza dimenticare le piccole e antiche comunità religiose quasi completamente distrutte come, ad esempio, i zoroastriani, ecc.
Complessivamente si valuta che solo la guerra in Siria abbia finora prodotto (in base alle ultime stime di UNHCR) più di 3 milioni e mezzo di profughi (e quasi 9 milioni di persone che vivono in stato di emergenza e di precarietà!). A questi si devono aggiungere oltre 2 milioni di persone che devono essere considerati rifugiati o richiedenti asilo fuori dall’Iraq.
Dunque, anche da queste parziali mie considerazioni, appare chiaro come il processo di globalizzazione delle migrazioni sia un fenomeno mondiale, tragico e complesso che investe vari piani del sapere, della coscienza individuale e di quella collettiva, della convivenza civile, della cultura e, soprattutto, della politica.
Come viene affrontata questa complessità in Italia e non solo? Troppo spesso, con la ricerca del capro espiatorio, con semplificazioni della realtà e per slogan; si fa leva sulla paura che assale, in particolare, i soggetti più in difficoltà, che vivono con estremo disagio questa crisi economica prolungata; si cerca di colpevolizzare e di ridicolizzare il pensiero — tacciandoli di “buonismo” — di chi tenta di portare l’attenzione sulle cause strutturali che investono trasformazioni rilevanti nel nostro pianeta e che stanno determinando un cambiamento enorme su questa nostra terra; si tenta di racchiudere l’orizzonte sociale all’interno di piccole comunità con l’occhio puntato solo ai propri problemi e al proprio tornaconto! Anche il segretario generale della Conferenza Episcopale Italiana, Nunzio Galantino, come riportato da quasi tutti i quotidiani italiani il 10 agosto 2015, ha avuto parole molto dure contro coloro che giocano con il fuoco della violenza e della discriminazione per ragioni di parte politica: “Piazzisti da quattro soldi che, pur di prendere voti, di raccattare voti, dicono cose straordinariamente insulse”.
Una voce dissonante: Evangelii Gaudium di Papa Francesco
Martedì 26 novembre 2014, Papa Francesco ha reso pubblica la sua prima “esortazione apostolica”, intitolata Evangelii Gaudium (“La Gioia del Vangelo”). L’esortazione apostolica è un documento ufficiale che, nella gerarchia degli scritti ufficiali della Chiesa cattolica, viene subito dopo l’enciclica: si tratta cioè di una lettera aperta indirizzata a un destinatario in particolare (la comunità cattolica) e resa pubblica perché di interesse generale per la Chiesa. Eppure questa esortazione del Papa non ha avuto tutta la risonanza che meritava, forse nemmeno fra i cattolici, e questo a mio parere dimostra come la “politica della paura dell’altro”, lo sdoganamento del linguaggio violento nonché la resa pubblica di pensieri violenti — senza che ci siano sanzioni morali né sociali conseguenti e coerenti — stiano purtroppo portando a un radicarsi dei sentimenti negativi generati dalla paura e a una drammatizzazione eccessiva e pericolosa della politica.
Oggi tutto entra nel gioco della competitività e della legge del più forte, dove il potente mangia il più debole. Come conseguenza di questa situazione, grandi masse di popolazione si vedono escluse ed emarginate: senza lavoro, senza prospettive, senza vie di uscita. Si considera l’essere umano in se stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. [...] Abbiamo dato inizio alla cultura dello “scarto” che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono “sfruttati” ma rifiuti, “avanzi”. [...]
La cultura del benessere, che ci porta a pensare a noi stessi, ci rende insensibili alle grida degli altri, ci fa vivere in bolle di sapone, che sono belle, ma non sono nulla, sono l’illusione del futile, del provvisorio, che porta all’indifferenza verso gli altri, anzi porta alla globalizzazione dell’indifferenza. In questo mondo della globalizzazione siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro. (Francesco, 2013, pp. 45-47)
Cosa ci porta verso l’indifferenza al dolore degli altri?
Nei primi giorni di dicembre del 2011, una ragazza torinese di sedici anni ha sporto denuncia dichiarando di avere subito uno stupro da parte di due giovani zingari di un vicino campo Rom.
La notizia è in realtà falsa: la giovane l’ha inventata per paura delle reazioni dei propri familiari al fatto che, in realtà, si era appartata in intimità con il proprio ragazzo e in quell’occasione aveva perso la propria verginità. Secondo il suo racconto, due uomini l'avevano spinta fino a un caseggiato isolato del quartiere popolare delle Vallette di Torino, dove poi era stata immobilizzata e violentata. La ragazza dice di essere riuscita a divincolarsi, a sfuggire dalle mani dei violenti e a raggiungere il fratello che, a sua volta, aveva confermato di averla trovata senza jeans e con pullover e camicia strappati.
La notizia dello stupro si sparge rapidamente per il quartiere e viene organizzato un corteo “spontaneo”, per protestare contro la violenza subita dalla giovane, a cui partecipano amici, familiari e molta gente del quartiere, tutti inconsapevoli del fatto che si trattava di una menzogna costruita dalla stessa ragazza.
La manifestazione di protesta degenera in un vero e proprio assalto al vicino campo Rom, un vero e proprio raid: alcune persone, armate di bastoni, invadono il campo alla cascina Continassa, fanno fuggire i Rom rimasti lì vicino, per lo più donne e bambini (la maggior parte degli uomini prudentemente si era già allontanata), spaccano quello che trovano e danno fuoco alle baracche e al capannone che le conteneva.
Intanto dai medici dell'ospedale Sant’Anna di Torino arriva la conferma che la ragazza aveva avuto un rapporto sessuale normale e consenziente. Di fronte all’evidenza dei risultati dell’analisi medica (che non aveva riscontrato alcuna traccia di violenza), la ragazzina ritratta e davanti ai carabinieri ammette di essersi inventata tutto: dallo stupro con tutti i particolari indicati, ai due zingari rumeni violenti, alla cicatrice sul viso di uno di loro. Ma ormai la voglia di vendetta si è già messa in moto: nonostante il fratello della ragazza, insieme ai carabinieri, abbia cercato — sia pure tardivamente — di avvisare che si trattava di un falso stupro, i tentativi di linciaggio continuano, tanto che finanche le autobotti dei vigili del fuoco, chiamati per contenere l’incendio, vengono bloccate da alcuni giovani manifestanti inferociti.
Il giorno dopo la ragazza scrive una lettera in cui chiede scusa a tutti: “Scusatemi. Ho visto in tv le immagini delle fiamme al campo nomadi e mi sono sentita male”. “Chiedo scusa, soprattutto a quei bambini del campo e a tutta la gente del quartiere”. E termina dicendo: “Voglio solo dimenticare”! C’è però da chiedersi se anche quella povera gente e quei poveri bambini vorranno o riusciranno a dimenticare!
Cos’è che spinge giovani e abitanti di un quartiere di una città del Nord Italia a scatenare un rancore e un odio che possono portare alla disumanizzazione delle proprie azioni?
Un pogrom. Diciamola la parola, per terribile che possa apparire. Quello di Torino è stato un pogrom in senso proprio, come quelli che avvenivano nella Russia ottocentesca o nella Germania degli anni Trenta contro gli ebrei; cioè un vero e proprio “stato di follia” che s’inebria della propria furia vendicatrice, convinta di compiere un “atto di giustizia”.
Se una ragazzina spaventata e (per questo) bugiarda ha evocato i “due zingari” per accreditare una violenza mai avvenuta, è perché ha pensato che quell’immagine avrebbe potuto rendere credibile — in famiglia e nel quartiere — un racconto altrimenti improbabile.
Se centinaia di persone sono scese in piazza in una fredda serata d’inverno per manifestare, non è purtroppo perché si trattava di una violenza sessuale (quante sono passate ignorate in questi anni!), ma perché i suoi presunti (e falsi) autori erano di un’etnia odiata a priori. Se le decine di incendiari hanno potuto agire sotto lo sguardo compiacente degli altri abitanti del quartiere, è perché mettevano in scena un comportamento condiviso. (Revelli, 2011)
Dopo poco tempo, a Milano, un giovane Rom, alla guida di un SUV, investe e trascina per diversi metri, causandone una morte atroce, un povero vigile che voleva multarlo! Altra violenza che nasce nello stesso stato di guerra non dichiarato che purtroppo avanza ogni giorno sempre di più. Come interpretare anche questi versanti della violenza: com’è possibile agire annullando e cancellando ogni riferimento alla vita e all’umanità dell’altro?
In un contesto di crisi sociale si generano e si ramificano, in forma più o meno silente e nascosta, conflitti carichi di pregiudizi reciproci. Essi sono a tal punto presenti, nella narrazione quotidiana di massa, che vengono percepiti come possibili strumenti descrittori e interpretativi della realtà e probabili capri espiatori, perfino dai ragazzi: un meccanismo che richiama alla mente l’invenzione di Erika e Omar per giustificare l’atroce assassinio della madre e del fratello della ragazza: “sono stati due albanesi a commettere gli omicidi”.
E, accanto alla distorsione della realtà effettuata dalla rabbia sociale, occorre individuare anche ciò che alimenta il formarsi di questi comportamenti violenti e xenofobi. E in questo quadro va sottolineato il ruolo, a volte anche poco consapevole, della stampa e della politica.
Dentro questi contesti di spersonalizzazione e di emarginazione sociale, si determina un sentimento gelido di disumanizzazione dell’altro che può facilmente trasformarsi in violenza metropolitana, un tipo di brutalità che non riesce più a vedere il “volto dell’altro”, anzi si crea un cortocircuito del pensiero e dello sguardo sociale che spinge ad avere paura dell’altro e a considerarlo, di volta in volta, come un nemico, un ostacolo alla propria vita.
Nei luoghi di degrado materiale e sociale, di perdita dei legami solidaristici, l’io e il proprio gruppo diventano il centro e il limite del vivere: tutto si gioca, dal punto di vista delle relazioni umane, nell’orizzonte geografico e temporale breve, ravvicinato, racchiuso.
Il razzismo e il pregiudizio trovano — in questo “vuoto” di valori e di legami che si riscontra in tutte le dimensioni del disagio, sia nei quartieri colpiti dalla crisi economica, sia nei campi affollati da emarginati, sia nelle masse di migranti in fuga — il terreno in cui radicarsi e allargarsi: la violenza che cova in queste culture, trova facilmente, di volta in volta, vittime da sacrificare.
Come suggerisce Lorenzo Guadagnucci (2010), nel suo bel libro Parole sporche, dobbiamo imparare a svelare la violenza che si cela anche nelle parole, soprattutto in quelle “sporche”, quelle che descrivono l’altro (sia il rom, sia il vigile urbano, sia l’immigrato, siano i giovani senza lavoro, ecc.) come un nemico con cui non c’è niente in comune e che, quindi, è da eliminare, da distruggere.
E queste parole sporche ci riportano direttamente alla crescita del razzismo negli anni Trenta nel cuore di un’Europa che veniva considerata civile e sviluppata. A proposito della crescita del razzismo, Primo Levi rinvia al “sistema di pensiero” che si è consolidato in quegli anni, cioè all’insieme degli atti collettivi che hanno trovato la loro giustificazione nelle condizioni storiche date (il nazifascismo) e che hanno funzionato da elemento amplificatore del fenomeno, costruendo una cultura diffusa, un complesso di idee e di supporti organizzati che hanno determinato, consolidato e diffuso comportamenti discriminatori conseguenti e terribili. In quei contesti discriminatori ed escludenti, i pensieri e gli atti individuali trovano il loro cinico coordinamento e sostegno collettivo, acquistano forza e diventano strumento di differenziazione e sopraffazione.
Per poter distruggere l'altra persona occorre ridurla, prima di tutto nel pensiero, a oggetto, al non-umano: eliminare — presso di sé e gli altri — la sua umanità attraverso un gioco perverso delle differenze, per annullare, poi, finanche la sua esistenza materiale.
Il linguaggio diventa lo strumento principale della disumanizzazione dell’altro: il nazismo utilizzò, in particolare nei confronti degli ebrei, una terminologia che li distruggeva in quanto esseri umani e che li connotava come animali, bestie: cimici, pulci, parassiti, vermi, ratti, serpi, avvoltoi, esseri asociali e così via.
Ridotto l’altro a pura bestialità, sradicata da quei volti ogni traccia di umanità, si può passare, con il consenso di molti, alla loro persecuzione e perfino alla loro distruzione. Oppure, come sta avvenendo con i “nuovi migranti”, si può passare ai respingimenti, ai muri, ai fili spinati, ai treni blindati, al “si ammazzino fra di loro, tanto sono animali”!
Allora cosa fare? Un impegno all’azione democratica, solidale e umanitaria
Cosa possiamo fare noi, noi insegnanti, educatori, genitori, ricercatori, studiosi spesso isolati, oltre che inascoltati?
La città di Monstar — che si trova nella Bosnia Ergegovina, uno degli Stati nati dal dissolvimento della Yugoslavia in cui sono stato due anni fa insieme ad alcuni colleghi — è attraversata da un fiume che, oggi, purtroppo, divide la città non solo in due sponde separate ma anche in due entità etniche diverse: croati, cattolici, da un lato e bosniaci, per lo più musulmani, sulla sponda opposta. Le due parti della città, prima delle divisioni etniche, erano collegate da un ponte molto antico, fatto a schiena d’asino, stretto e in pendenza, dove a stento due persone riuscivano a passare a piedi. Eppure, durante gli scontri etnici degli anni Novanta, questo ponte fu completamente abbattuto a colpi di cannoni dall’armata croata: per quale motivo è stato distrutto, con accanimento, un ponte del tutto privo di valore militare?
Perché era il simbolo di una città che nel corso dei secoli si era organizzata sulla base di rapporti interculturali e di pacifica convivenza: ciò appariva e appare ancora del tutto inaccettabile a quelle forze che puntano sulla divisione, sulla separazione, che alimentano l’odio reciproco fondato sul presupposto di una presunta purezza culturale e religiosa del proprio gruppo.
Molto spesso, troppo spesso, la fragilità e la semplificazione culturale ed etica sono rafforzate e sostenute dalla violenza! Con la distruzione di quel ponte si voleva colpire a morte la cultura dell’integrazione e i rapporti di reciprocità e le relazioni pacifiche centenarie che quei popoli avevano realizzato (Genovese, 2011)!
Gli aiuti internazionali di organizzazioni non governative e di molte istituzioni hanno puntato a ricostruire, subito, quel ponte che oggi ha rimesso in comunicazione simbolica, e non solo, le due sponde del fiume e, un po’ alla volta, sta ricostruendo relazioni quotidiane anche fra le due opposte popolazioni.
Noi insegnanti, educatori, studiosi, cittadini e anche studenti abbiamo davanti un grande e importante compito, per quanto impegnativo e difficile: possiamo “costruire/ricostruire ponti”, mettere in relazione le diverse esperienze e bisogni, fare dialogare le culture e i soggetti, aiutare a cogliere la bellezza che è dentro ciascuna delle diverse culture, dentro le differenze culturali e fare capire quanta ricchezza di vita e di umanità c’è dentro la scoperta di ciò che ci unisce come esseri viventi e che ci rende uguali in questa umanità. Noi tutti, cioè, abbiamo la possibilità di operare una scelta allo scopo di contribuire a fare crescere una cultura in grado di gestire i conflitti per sviluppare un'ecologia della pace e della solidarietà.
Bibliografia
De Luca E. (2014), Mare Nostrum, Lampedusa, 2 ottobre 2014, “Agorà, speciale Rai3”, 3 ottobre 2014.
Fondazione Migrantes (2014), Rapporto italiani nel mondo, Roma, Idos.
Francesco (2013), Evangelii Gaudium. Esortazione apostolica sull’annuncio del Vangelo nel mondo attuale, Milano, Paoline.
Genovese A. (2012), La società della discordia. Gestire la rabbia, superare la paura. In F. Zannoni (a cura di), La società della discordia. Prospettive pedagogiche per la mediazione e la gestione dei conflitti, Bologna, CLUEB.
Guadagnucci L. (2010), Parole sporche. Clandestini, nomadi, vu cumprà: Il razzismo dei media e dentro di noi, Milano, Altreconomia.
Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (2011), www.italy.iom.int/index.php?language=ita
Revelli M. (2011), Laboratorio Torino, “Il Manifesto”, 13 dicembre 2011.
UNAR – Centro Studi e ricerche Idos (2014), Dossier Statistico Immigrazione 2014. Dalle discriminazioni ai diritti, Roma, Idos.
[1] Cfr. il sito www.italy.iom.int.
[2] La Fondazione Migrantes (Organismo Pastorale della Conferenza Episcopale Italiana) ha presentato la nona edizione del Rapporto Italiani nel Mondo 2014. Il Rapporto presenta un quadro articolato della mobilità italiana con dati dell’Anagrafe degli Italiani Residenti all’Estero (AIRE). Cfr. www.migrantes.it.
[3] Il dato più significativo del Rapporto è il numero di italiani che si sono trasferiti nel 2013 all’estero: 94.000 persone, un dato superiore ai flussi dei lavoratori immigrati in Italia. Nel 2012 si erano trasferiti all’estero 78.941 italiani, con un saldo positivo di oltre 15 mila partenze (una variazione in un anno del +16,1%). I minori sono il 18,8%. Dal 2012 al 2013 si registra una crescita generale delle migrazioni del 19,2%, che sembra non fermarsi. A livello regionale, al primo posto si colloca la Lombardia (16.418), seguita dal Veneto (8.743) e dal Lazio (8.211). Dall’Italia, dunque, non solo si emigra ancora, ma si registra anche un aumento nelle partenze.
[4] Cfr. Immigrazione. Dossier Statistico Immigrazione 2014.Rapporto UNAR.Dalle discriminazioni ai diritti, Roma, Idos, 2014.
[5] E. De Luca, Mare Nostrum, Lampedusa, 2 ottobre 2014, “Agorà, speciale Rai3”, 3 ottobre 2014.
[6] Il sito www.guerrenelmondo.it permette, attraverso varie sezioni, di rilevare i conflitti in atto e anche di vedere gli avvenimenti dal punto di vista storico, precisare le mappe dei conflitti e individuare i criminali di guerra.
[7] “Il nuovo rapporto annuale dell'UNHCR Global Trends riporta una forte escalation del numero di persone costrette a fuggire dalle loro case, con 59,5 milioni di migranti forzati alla fine del 2014 rispetto ai 51,2 milioni dell’anno prima e ai 37,5 milioni di dieci anni fa. L'incremento rispetto al 2013 è stato il più alto mai registrato in un solo anno”. Si veda il sito: www.unhcr.it.
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