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Valutazione degli studenti stranieri: ancora non ci siamo

Fiorella Farinelli


Abstract

Nonostante numerose esperienze di eccellenza, la scuola italiana non è ancora un “sistema esperto” nell’integrazione. La frequenza di risultati problematici e di percorsi accidentati degli studenti con background straniero ha tra le sue cause pure la permanenza di culture e pratiche valutative che stentano a misurarsi con i piani personalizzati di apprendimento e con la costruzione di prove capaci di accertare progressi e talenti anche indipendentemente dal possesso di competenze linguistiche evolute. Di qui l’importanza di nuove riflessioni e sperimentazioni sul tema della valutazione.



È ancora diffusa l’idea che i risultati degli studenti che non hanno l’italiano come lingua materna miglioreranno immancabilmente col passare del tempo. Tale idea non si fonda su processi organici di trasformazione della scuola in un “sistema esperto” nell’integrazione. Il miglioramento – che procede lento e diversificato per aree territoriali e settori – soffre di un’attenzione politica a dir poco debole (nel documento sulla Buona Scuola, ad esempio, il tema non viene neppure sfiorato) e di sconcertanti discontinuità dell’azione amministrativa. La verità è che, passata l’emergenza dei primi anni, sono in molti a contare sul fatto che oggi quasi il 50% dei figli di genitori stranieri è nato qui, che il numero dei “nuovi arrivati ” si è ridotto drasticamente, che una parte dei nati in altri Paesi è arrivata in Italia in età prescolare. Più che su una crescente capacità della scuola di misurarsi con efficacia con le trasformazioni della composizione culturale della popolazione studentesca, si scommette insomma sulla stabilizzazione di una parte dell’immigrazione e sulle seconde generazioni. C’è del vero, ovviamente, in queste aspettative, ma non quanto potrebbe sembrare. Senza contare che l’eccessivo ottimismo può accompagnarsi al duplice rischio di sottovalutare i danni anche sociali già prodotti da una scuola in ritardo (non provando neppure a rimediare con piani formativi di seconda opportunità per giovani adulti[1]), e di non agire con la dovuta determinazione sulle inerzie visibili nella scuola, nell’amministrazione, nelle istituzioni locali. Ma l’integrazione non può avvenire in maniera soddisfacente se non con un impegno più lungimirante ed esteso di quello che c’è stato finora. Sono le stesse situazioni di eccellenza – quasi sempre dovute anche al robusto supporto di istituzioni locali, università, privato sociale – a mostrare che non si realizzano miglioramenti sensibili senza l’impegno coordinato e continuativo di più attori e risorse. Sono viceversa le tante realtà scolastiche indifferenti o impotenti a segnalare l’improbabilità che le situazioni migliori riescano da sole a innescare una svolta decisa nelle performances del sistema.

 

Cresce la partecipazione al secondo ciclo di istruzione ed emergono nuovi problemi

Per un certo periodo di tempo al centro dell’innovazione didattica e organizzativa per l’integrazione ci sono stati soprattutto i temi della formazione delle classi, dell’accoglienza e dell’inserimento, della socializzazione e dell’interazione tra pari, dell’apprendimento a fini comunicativi della lingua italiana. Erano gli anni in cui i ragazzi stranieri erano concentrati soprattutto nel primo ciclo. Con la crescente partecipazione ai percorsi successivi, stanno emergendo anche altre questioni. Se è evidentemente positivo che sempre più famiglie investano nell’istruzione per ottenere una mobilità sociale altrimenti inarrivabile, è anche vero che il nuovo contesto evidenzia il permanere di una straordinaria fatica dei percorsi scolastici e formativi (ISMU-MIUR, 2012-2013).

Nelle Linee guida emanate dal MIUR nel 2014 è ampiamente visibile, rispetto a quelle del 2006, l’introduzione di temi nuovi o di nuove sottolineature di temi già affrontati. Si tratta dell’orientamento, a proposito del polarizzarsi degli studenti con background straniero nell’istruzione/formazione professionale e nell’istruzione tecnica. Degli effetti dei ritardi scolastici dovuti a fattori diversi, a proposito degli abbandoni e della propensione ai percorsi più brevi. Dei percorsi integrati tra scuola e formazione professionale, a proposito dei rientri formativi per i giovani che hanno abbandonato la scuola o rinunciato agli studi dopo la scuola secondaria di primo grado. Ma è un tema chiave anche la valutazione, sebbene su questo punto le Linee guida 2014 non siano state in grado di approfondire la riflessione e di spalancare prospettive evolutive, condizionate come sono dalla gabbia di una normativa (DPR 122/2009) che per gli esami di Stato prevede inderogabilmente prove uguali per tutti.[2] E forse imbarazzate da una regolamentazione recente, quella sui “bisogni educativi speciali”, che include tra i soggetti interessati a prove e percorsi diversificati anche gli studenti stranieri.[3] Con non pochi rischi di generare equivoci, visto che in questo caso i bisogni speciali non derivano da deficit permanenti sensoriali o cognitivi, ma da difficoltà transitorie come i deficit linguistici.

E tuttavia, a fronte di tanti debiti formativi e di tante bocciature, bisogna tornare a riflettere sulla valutazione e farlo in modo nuovo. Sarebbe anche utile, per una migliore cognizione di causa, disporre di un monitoraggio dei criteri e delle modalità con cui vengono valutati gli studenti stranieri e di specifici piani di riflessione/formazione del personale scolastico.

 

Sui risultati problematici dell’integrazione incide anche la valutazione scolastica?

La ricerca accademica e didattica, sgomberando il terreno da molte facilonerie, ha messo a fuoco le difficoltà – e i tempi per superarle – anche degli studenti che, nati in Italia o arrivati in età prescolare, imparano la lingua della comunicazione quotidiana fin dalla scuola d’infanzia o dal nido. La lingua “per lo studio”, infatti, richiede una ricchezza di codici espressivi e una padronanza semantica che non si acquistano spontaneamente quando in famiglia si parla un’altra lingua o un italiano approssimativo. Se i tempi di una prima familiarizzazione con la lingua del Paese ospite vanno, per un bambino o un ragazzo che ne sia digiuno, da sei mesi a due anni, quelli per la padronanza della lingua per lo studio possono dilatarsi fino a cinque anni (Favaro, 1999). Ma intanto a scuola ci si va e se, come spesso avviene, la conoscenza dell’italiano resta debole troppo a lungo, le difficoltà anche nelle altre discipline – in particolare quelle veicolate soprattutto per via verbale – si accumulano, invece che diminuire, nel passaggio da un grado di istruzione al successivo. È quello che emerge dai dati MIUR sull’incremento progressivo di ritardi, ripetenze, abbandoni; e sull’anomalo addensarsi dei figli di genitori stranieri nei comparti dell’istruzione – gli istituti professionali e tecnici – e della formazione professionale considerati, a torto, meno impegnativi.[4] Va detto però che, anche quando la scuola cura con buon impegno professionale l’italiano-lingua 2 e appresta, come dovrebbe sempre fare, dei percorsi di apprendimento personalizzati, non è scontato che la valutazione scolastica sia coerente con ciò che si è imparato e con i modi/tempi con cui lo si è fatto. È possibile, invece, che soprattutto nella valutazione di fine anno prevalga il riferimento ai contenuti che “non si possono non sapere” per poter accedere alla classe successiva; e un’interpretazione discrezionale (e variabile anche nello stesso consiglio di classe) di quali siano i contenuti irrinunciabili. La valutazione, si sa, è la prova regina dell’adesione a una cultura scolastica e professionale che, nelle sue formulazioni ufficiali, si dichiara centrata sulle persone e sulle loro caratteristiche e motivazioni, sull’aderenza della didattica ai bisogni e alle potenzialità di ciascuno, sulle competenze come capacità di uso in più contesti delle conoscenze, sul valore dei linguaggi non verbali. Ma fino a che punto la valutazione sa essere fedele a percorsi diversificati fino all’individualizzazione? Fino a che punto, e in che modi, può sottrarsi all’ansia classificatoria e riesce a dare agli studenti tutto il tempo che occorre per dimostrare quello che sono e che possono imparare? Pur in assenza di studi sistematici, è ragionevole ipotizzare che la valutazione scolastica contribuisca, e non poco, alla frequenza di percorsi straordinariamente accidentati.

 

Troppo discrezionali le pratiche valutative della scuola italiana

Il sistema italiano, del resto, presenta specifiche difficoltà di contesto. La più importante, per gli effetti sulle valutazioni in itinere e per l’ammissione alla classe successiva degli alunni stranieri, consiste nella diffusa insofferenza, oltre che di ogni “terzietà”, anche del ricorso a criteri formalizzati e condivisi. Con una forte tendenza a far coincidere il valutatore con l’insegnante e quindi a lasciare un grande spazio a valutazioni influenzate da fattori di tipo soggettivo. Il risultato è noto, dal momento che è risaputo che non solo tra scuole ma perfino all’interno dello stesso istituto scolastico possono coesistere risultati formali molto difformi derivanti da altrettanto difformi criteri di valutazione. Una situazione anomala, bisogna saperlo, rispetto a Francia, Germania e Regno Unito, in cui la “terzietà” negli esami finali è sempre perseguita, sia pure con modalità diverse, e in cui viene sempre curata la formalizzazione dei criteri di riferimento della valutazione. Ora, per tornare al punto, la discrezionalità e la soggettività tipiche delle pratiche valutative della scuola italiana vanno considerate un vantaggio o uno svantaggio per gli studenti stranieri?

 

La valutazione degli studenti stranieri ha come riferimento i piani personalizzati di apprendimento

Nel caso che qui ci interessa di più, cioè la valutazione sommativa di fine d’anno, qual è il sistema valutativo più capace sia di tenere conto dei percorsi personalizzati sia di concentrarsi sulla misurazione dei progressi rispetto alle situazioni di partenza più che sulla distanza da risultati-standard? Incoraggiati dalla normativa esistente, molti insegnanti propendono per le pratiche valutative tradizionali che, risultando prive di modalità e criteri predefiniti, consentono il massimo livello di discrezionalità. E questa posizione la sostengono proprio in forza di un apprendimento di tipo non standardizzato che solo loro insegnanti possono conoscere a fondo e di cui quindi solo loro possono misurare i risultati. Di qui, come noto, la contrarietà alle prove Invalsi che, in quanto “esterne”, non possono che essere cieche rispetto a studenti che apprendono in modi e con risultati difformi rispetto a teorici standard di “processo” e di “prodotto”.

Ma il desolante spettacolo di una montagna di debiti formativi e l’alta frequenza di bocciature, ripetenze e abbandoni anche tra le seconde generazioni fanno dubitare dell’appropriatezza di questa posizione. Gli studenti stranieri hanno sicuramente delle difficoltà particolari in alcune discipline, quelli arrivati da adolescenti nella scuola italiana possono risentire a lungo di sradicamenti traumatici, ma è certo che tutto ciò non autorizza l’idea di potenziali di apprendimento sistematicamente inferiori a quelli dei coetanei italiani. Non solo, gli studenti stranieri hanno spesso alle spalle famiglie che, anche per tradizioni dei Paesi d’origine, a buoni risultati scolastici ci tengono molto, contribuendo così a tenere alta la motivazione. Occorre osservare inoltre che gli studenti stranieri sono solitamente più convinti degli italiani dell’importanza dell’istruzione come condizione di miglioramento della propria condizione sociale e di quella delle famiglie/comunità di appartenenza. Perché allora quei percorsi così accidentati, quel vantaggio ancora così modesto dei nati qui rispetto agli altri, quello svantaggio così vistoso rispetto agli italiani anche delle seconde generazioni? È certo che ciò deriva in primo luogo dai limiti della scuola nell’insegnamento dell’italiano-lingua 2, o nella volontà/capacità di calibrare l’insegnamento delle altre discipline sui diversi livelli di padronanza linguistica, ma qualche responsabilità ce l’hanno anche pratiche valutative troppo poco ancorate alla “storia” scolastica personale degli studenti e troppo poco capaci di riconoscere conoscenze e talenti indipendentemente dal filtro di strumentazioni linguistiche non evolute.

C’è poi da considerare il peso sulla percezione stessa del potenziale cognitivo degli studenti stranieri di una tradizione che mette al centro il sapere umanistico, non riconosce la densità culturale di quelli scientifici e tecnologici, valorizza in modo preponderante i saperi dichiarativi. Diverse indagini hanno rilevato lo straordinario attaccamento degli insegnanti della scuola secondaria alla didattica “frontale” basata sulla trasmissione verbale a classi intere a scapito di modalità laboratoriali meglio modulabili sulle caratteristiche degli studenti.

Nonostante il formale ingresso nella scuola italiana del concetto di competenza, è noto che nella secondaria gran parte della didattica segue ancora pedissequamente modalità di insegnamento e di apprendimento di tipo tradizionale. Le prove di verifica degli apprendimenti, in un contesto come questo, utilizzano dunque per lo più modalità – l’interrogazione, la composizione scritta – che risultano particolarmente difficili per chi abbia una conoscenza linguistica limitata. E che, soprattutto, non sono in grado di rilevare la conoscenza che si esprime in altri linguaggi o si riferisce ad altri ambiti. Una cultura professionale diversa non si improvvisa, e ci vorrà del tempo perché l’indicazione di una didattica più rispettosa delle diverse intelligenze e dei differenti tempi con cui ciascuno apprende dia luogo a pratiche più appropriate. Bisogna però rendersi conto che tutto ciò può esplodere nella valutazione, determinando attività mirate a rilevare più le lacune che gli avanzamenti, più gli scostamenti rispetto a idealtipiche soglie di apprendimento che i progressi rispetto alle situazioni iniziali. Per evitare che ciò avvenga è indispensabile che i collegi docenti e i consigli di classe si convincano che le pratiche valutative che si affidano al solo giudizio dei singoli insegnanti sono fortemente esposte al rischio di errori e iniquità. E che adottino criteri di valutazione e modalità di prove in grado di tenere sotto controllo anche il non detto e il non dichiarato, che tuttavia sostanzia di una variabilissima soggettività le pratiche valutative.

 

Sperimentazioni e nuove pratiche possono aprire nuove strade

Si tratta di temi complessi e anche controversi. Le questioni sollevate vanno oltre l’ambito specifico dell’integrazione e interpellano l’idea stessa di una formazione culturale non più enciclopedica e di una didattica capace di concentrarsi sullo sviluppo delle competenze chiave. Di tale complessità, e delle difficoltà a indicare direzioni di marcia chiare e inequivocabili, sono buoni testimoni i testi normativi e regolamentari sulla valutazione. Nelle indicazioni offerte agli insegnanti da più attori si legge la ricerca di punti di equilibrio talora prossimi alla quadratura del cerchio. Da un lato, infatti, le raccomandazioni sul “necessario adattamento dei programmi di insegnamento” (DPR 394/1999), dall’altro la non deroga alle forme di valutazione che presumono una popolazione scolastica omogenea e omogenei percorsi di apprendimento riferiti a standard identici di risultato (DPR 122/2009). L’effetto è un curioso “vorrei-ma-non posso”.

“Pur nell’inderogabilità dell’effettuazione di tutte le prove scritte per l’esame di Stato e del colloquio pluridisciplinare, le Commissioni vorranno considerare la particolare situazione di tali alunni stranieri e procedere a una valutazione dei livelli che tenga conto anche delle potenzialità formative e della complessiva maturazione raggiunta” (DPR 122/2009). Sono dunque gli insegnanti membri di commissione che dovrebbero trovare un equilibrio tra esigenze diverse ed elaborare le formule – indubbiamente di complessa verbalizzazione – per la giustificazione delle valutazioni finali. Un invito che ancora una volta si appella a sensibilità e lungimiranze non meglio identificate, smentendo così ogni tentativo di basare la valutazione di tutti, anche degli studenti stranieri, su criteri e regole trasparenti e controllabili.

Più aderenti alla ricerca di soluzioni capaci di contemperare equità e fattibilità sono invece alcuni documenti di indirizzo elaborati da attori locali, nonché alcuni progetti sperimentali avviati in reti di scuole, tra cui devono essere segnalate, per organicità e puntualità, le Linee guida 2012 per le istituzioni scolastiche e formative su Inserimento e integrazione degli studenti stranieri della Provincia di Trento. I punti di forza sono ravvisabili in un approccio che pretende di trovare le soluzioni non in una gestione particolarmente illuminata delle prove, ma in un insieme di proposte sia sulla progettazione dei piani personalizzati che su una valutazione specchio della progettazione. L’ipotesi di lavoro è la possibilità per gli studenti di dimostrare le loro competenze in modo meno dipendente da una conoscenza linguistica evoluta. A cui corrisponde la costruzione di strumentazioni didattiche e valutative anch’esse meno dipendenti da un italiano complesso. Contribuiscono alla ricchezza delle indicazioni – alcune utilizzabili anche per gli esami di conclusione del primo ciclo – le tecniche che si usano nell’insegnamento dell’italiano come lingua 2 così come le esperienze, nel campo dell’essenzializzazione dei contenuti, dei sistemi educativi di Paesi più esperti del nostro nelle didattiche “speciali” e nei percorsi educativi di seconda opportunità. C’è da augurarsi che i risultati delle scuole impegnate in questa direzione facciano evolvere rapidamente la “via italiana” dell’integrazione.

 

Riferimenti bibliografici

Direttiva Ministeriale 27/12/2012

DPR 122/2009

DPR 394/1999

Favaro G. (a cura di) (1999), Imparare l’italiano, imparare in italiano, Milano, Guerini.

ISMU-MIUR (2012-13), Alunni con cittadinanza non italiana. L’eterogeneità dei percorsi scolastici. Rapporto nazionale.

MIUR (febbraio 2014), Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri.

 

[1] Un’occasione persa, a questo proposito, è stato il piano “Garanzia Giovani”, nonostante il consistente numero di giovani adulti stranieri privi di qualifiche o diplomi tra i suoi primi destinatari (i NEET fuori dal lavoro e dai circuiti formativi).

[2] MIUR (febbraio 2014), Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, par. 4: “Occorre tenere conto del fatto che da molti anni è emersa una riflessione sull’opportunità di prevedere una valutazione per gli alunni stranieri modulata in modo specifico e attenta alla complessa esperienza umana di apprendere in un contesto linguistico e culturale nuovo, senza abbassare in alcun modo gli obiettivi richiesti ma adattando gli strumenti e le modalità con cui attivare la valutazione stessa”.

[3] Direttiva Ministeriale 27/12/2012, Strumenti di intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica: “L’area dello svantaggio scolastico è molto più ampia di quella riferibile esplicitamente alla presenza di deficit. In ogni classe ci sono alunni che presentano una richiesta di speciale attenzione per una varietà di ragioni: svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse”.

[4] Secondo i dati statistici forniti dal MIUR, l’80% degli studenti stranieri presenti nel secondo ciclo di istruzione sono iscritti negli istituti professionali e negli istituti tecnici. Nei percorsi triennali di istruzione e formazione per il conseguimento delle qualifiche professionali, emerge da diverse indagini nazionali e locali – tra cui i Rapporti di monitoraggio annuali curati dall’ISFOL – una netta sovra-rappresentazione (16,5%) degli allievi stranieri.


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