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Valutare: evitare il proverbiale rischio di "mettere il carro davanti ai buoi"

Elio Gilberto Bettinelli

L’autore è collaboratore del centro COME di Milano. È stato dirigente scolastico in istituti ad alta concentrazione di alunni stranieri. Ha coordinato le attività di tirocinio presso il Corso di Laurea di Scienze della formazione primaria dell’Università di Milano Bicocca, dove è stato anche docente a contratto per l’insegnamento di psicopedagogia. Collabora tuttora con l’Università in corsi e laboratori. Si occupa di formazione degli operatori dell’educazione sui temi dell’intercultura. È autore di testi didattici di italiano L2 e di numerosi contributi su temi interculturali quali il plurilinguismo nella didattica, l’apprendimento dell’italiano da parte dei bambini della scuola dell’infanzia e i progetti interculturali di scuola.


Abstract

Il tema della valutazione degli alunni stranieri, in particolare dei neo arrivati in Italia (NAI), è vissuto dagli insegnanti, in particolare di scuola secondaria, come un problema al quale non si sanno dare soluzioni certe. I riferimenti normativi primari al riguardo appaiono insufficienti ad affrontare una realtà composita che esce dagli schemi e che, per di più, non è sostenuta da adeguate risorse in termini professionali e organizzativi. Si tratta allora di riflettere sulle diverse funzioni della valutazione e sul suo principale carattere formativo e, insieme, di trovare nelle norme quelle vie che consentano di aiutare gli alunni stranieri nei loro percorsi di apprendimento senza penalizzazioni burocratiche. Non nascondendo o rimuovendo le criticità che su queste questioni permangono.



Valutare gli alunni e valutare gli interventi didattici e organizzativi che producono i risultati di apprendimento dei singoli studenti: ecco due questioni strettamente intrecciate. Naturalmente gli insegnanti, almeno quelli maggiormente sensibili, evidenziano le numerose criticità che la valutazione degli alunni stranieri comporta, in un contesto scolastico in cui la “valutazione” ha acquisito un’enfasi rilevante anche in conseguenza delle normative gelminiane che sembrano avere irrigidito procedure e criteri. Due fra tutte:

  1. Nella scuola secondaria, in particolare in quella di secondo grado, la difficoltà di rilevare in ingresso la preparazione scolastica degli alunni neo arrivati per quanto riguarda le discipline diverse dall’italiano, al fine di inserirli in classi e scuole corrispondenti a capacità e competenze già possedute. In assenza di ciò il fatto di non conoscere l’italiano diviene il criterio prevalente, quando non l’unico, per determinare l’iscrizione alla prima classe del corso o comunque retrocedendo l’alunno rispetto alle classi frequentate nei Paesi di origine.
  2. L’inevitabile gap linguistico iniziale per essere colmato richiede, non sempre ma comunque in molti casi, tempi lunghi che superano le scadenze valutative annuali proprie delle nostre scuole di ogni ordine e grado. In concreto molti alunni stranieri non raggiungono entro la fine di un anno scolastico i livelli ritenuti accettabili – nella scuola secondaria la sufficienza in tutte le discipline – per proseguire il proprio percorso.

Dunque gli insegnanti che pongono il problema della valutazione degli alunni stranieri sono consapevoli dell’esistenza di una discrasia fra i criteri e i tempi della valutazione certificata degli apprendimenti dei singoli da un lato e, dall’altro, la necessità, direi pedagogica, di “dare tempo”, un tempo che andrebbe sovente oltre le scadenze ufficiali, non penalizzando alunni che, per la loro storia di migrazione, si trovano frequentemente già in situazioni di vulnerabilità psicologica e personale. È ben vero tuttavia che non tutti gli insegnanti vivono o percepiscono tale sfasatura, così che le diverse posizioni dei docenti al riguardo nei consigli di classe sono causa di attriti e incomprensioni che vengono accentuati, come si vedrà, dalla mancanza di chiari orientamenti nazionali al riguardo.

Si diceva “dare tempo” ma, ovviamente, non un tempo vuoto o solitario, bensì un tempo in cui si mettono in atto dispositivi adeguati di supporto, sostegno e accompagnamento per alunni che devono apprendere la nuova lingua di scolarizzazione al più presto e bene, recuperare le conoscenze e le competenze possedute in L1 facendole transitare nella L2, acquisirne di nuove direttamente in L2. Compiti non semplici che richiedono certamente impegno degli alunni ma, soprattutto, guida consapevole da parte della scuola. In questo senso il tema o il problema, come lo definiscono molti insegnanti, della valutazione di questi alunni “viene dopo”. Sul piano della certificazione il “problema” si presenta assai presto, alla prima scadenza quadrimestrale, e richiede che siano state assunte dai collegi docenti decisioni in precedenza. Ma, dal punto di vista del percorso di apprendimento, la vera questione è relativa al che cosa fare, sul piano didattico, per quello specifico alunno con i suoi specifici bisogni e le sue caratteristiche.

In assenza di adeguati interventi – che la legge sintetizza nella formula “necessario adattamento dei programmi di insegnamento” (DPR 31 agosto 1999 n. 394, art. 45) – ci si potrebbe chiedere se sia accettabile valutare il singolo alunno, come frequentemente avviene, sulla base di criteri standard che non corrispondono alle sue effettive possibilità in quel dato momento. Insomma, se vogliamo affrontare il tema della valutazione degli alunni stranieri neo arrivati, è necessario considerare e  valutare ciò che la scuola mette in atto per accompagnarli in un percorso di apprendimento che ha sue proprie specificità. In assenza di ciò ogni valutazione personale rischia di individuare esclusivamente nel singolo l’origine della responsabilità dei suoi risultati, al momento, insoddisfacenti.

Distinguiamo perciò due dimensioni della valutazione: certificativo/burocratica ed epistemologica (Rezzara, 2000), che hanno loro proprie tempistiche e modalità. E consideriamo la seconda come la premessa per poter cambiare e migliorare i percorsi di supporto agli alunni stranieri. Certamente questi alunni richiedono interventi a diversi livelli, da quello nazionale a quello locale, di istituto scolastico, di classe e del singolo insegnante. Interventi che in molte scuole si sostanziano nell’elaborazione e attuazione di piani variamente definiti: piani educativi personalizzati, piani personali transitori, ecc., di cui trattano alcuni contributi pubblicati su questo numero della rivista.[1]

Non è il caso di trattare in questa occasione quello che a me pare il vero e proprio guazzabuglio creato dal ministero a proposito di questi piani, se non per brevi accenni. La citata norma di legge sull’adattamento dei programmi di insegnamento è stata giustamente intesa in molte scuole come una sollecitazione ad attuare piani personalizzati. Una scelta che pareva recepita dalla direttiva ministeriale del 27/12/2013 sui BES, che dedicava una parte agli alunni stranieri neo arrivati. Invero l’inclusione della categoria degli alunni stranieri nei BES è parsa a molti incongrua non tanto perché essi non fossero portatori di bisogni speciali – meglio, specifici – transitori, quanto per il discorso complessivo che, al di là di alcune condivisibili affermazioni iniziali, pareva proporre, non so in che misura consapevolmente o meno, una rappresentazione medicale e carenziale dei bisogni speciali, confermando il solito infausto “cestino” delle diversità: disabilità, difficoltà di apprendimento, stranieri e nomadi.

Forse anche per porre rimedio a ciò, una successiva precisazione ministeriale restringeva l’inclusione fra gli alunni BES a pochi gruppi di alunni neo arrivati,[2] per i quali pertanto occorre predisporre piani didattici personalizzati formali, e solo in “via eccezionale”. Ma un piano personale è utile per tutti gli alunni neo arrivati, a prescindere dal fatto che abbia un carattere formale o meno.[3] Si direbbe che vi è qualche confusione al Ministero, qualche approssimazione. È comunque proprio all’interno di piani personali che ha senso ed è necessario attivare la funzione didattica della valutazione rivolta all’alunno, per dargli riscontri dei suoi apprendimenti. La valutazione didattica basata sui feedback è indispensabile nei percorsi di apprendimento, non se ne può sottovalutare l’importanza, anzi proprio con gli alunni stranieri è opportuno un approccio attento e graduale, specifico e finalizzato al miglioramento nei diversi ambiti disciplinari. Insomma, una valutazione formativa accurata piuttosto che una sommativa generica.

Potremmo chiederci se e in che misura la discrasia fra percorsi personali di apprendimento degli alunni stranieri e obiettivi standard individuati nei curricoli trovi posto nelle normative e negli indirizzi del ministero e se vengano formulate specifiche indicazioni in materia. Le più recenti al riguardo sono le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri  del febbraio 2014. Si tratta di un uno “strumento di lavoro”, non di una normativa di carattere primario, che deve necessariamente muoversi nel solco di leggi e altre norme cogenti, magari dandone interpretazioni peraltro non vincolanti. Nel paragrafo sulla valutazione vengono innanzitutto richiamate le norme e i regolamenti “gelminiani” che, con la loro insistenza sulla sufficienza in tutte le discipline, come si sa, sembrano non dare possibilità di valutare gli alunni NAI secondo l’effettivo percorso di apprendimento che stanno svolgendo. Di seguito gli estensori del documento ricordano che «nella sua accezione formativa la valutazione degli alunni stranieri, soprattutto di quelli di recente immigrazione o non italofoni, pone diversi ordini di questioni che possono riguardare non solo le modalità di valutazione e di certificazione ma, in particolare, la necessità di tenere conto del percorso di apprendimento dei singoli studenti». Si invita, in sostanza, a una certa flessibilità nella valutazione, all’attenzione al singolo, alla sua storia scolastica precedente, ecc.

È utile questo richiamo alla valutazione nella sua “accezione formativa”, oltre quella puramente certificativa secondo cui bisogna avere sufficienze in tutte le materie per essere promossi. Purtroppo flessibilità e attenzione ai percorsi dei singoli sembrano essere lasciate a una qualche forma di disponibilità degli insegnanti, invitati a tenere conto della dimensione formativa della valutazione, mentre le norme ampiamente citate vanno in una direzione diversa, se non proprio opposta. A quando una revisione della normativa principale sulla valutazione? A quando la chiara esplicita possibilità che un percorso personale transitorio, in determinati casi e situazioni, superi un’annualità scolastica? Cogliamo comunque questo invito alla deontologia professionale e l’invito a fare prevalere considerazioni di carattere pedagogico e formativo nella valutazione.

Sugli esami di Stato alla fine del primo ciclo le Linee guida affermano che “è possibile” sia la presenza di docenti e mediatori linguistici in caso di difficoltà comunicative dell’alunno, sia l’accertamento delle competenze maturate avvalendosi delle lingue di origine, qualora sia stato possibile assicurare allo studente la loro utilizzazione per alcune discipline scolastiche. Per l’esame finale della scuola secondaria di secondo grado, invece, l’unica possibilità consiste nei crediti formativi attribuiti a “eventuali percorsi di mantenimento e sviluppo della lingua d’origine”. Non può sfuggire un certo velleitarismo delle proposte e, soprattutto, l’inquadramento delle stesse nel regno della possibilità che, nella realtà, è sovente  impossibilità: ad esempio non si garantisce a ogni alunno, che ne abbia necessità, di avere un mediatore culturale per mostrare la sua competenza; è solo possibile ma non obbligatorio. Siamo per l’ennesima volta fuori dall’ambito dei diritti: può succedere a Milano e non a Lodi! Ma cogliamo anche qui l’aspetto positivo e l’inferenza che se ne può trarre, e cioè che, almeno all’esame conclusivo del primo ciclo, la non completa padronanza dell’italiano non è elemento per non consentire di affrontare e superare l’esame stesso. Una singolare dimenticanza delle Linee guida è invece il mancato richiamo alla norma di legge, questa volta favorevole agli alunni neo arrivati, che consente di sostituire l’insegnamento della seconda lingua straniera nella secondaria di primo grado con altrettante ore di italiano e quindi permette di non sottoporre tali alunni alle prove di esame. Si direbbe una misura dispensativa accompagnata da una compensativa, utile in certi casi, che costituisce elemento importante di un piano didattico personale. Certo sarebbe bene che contemporaneamente si trovasse il modo di riconoscere davvero, e non solo con dichiarazioni, il repertorio linguistico che molti alunni hanno acquisito nel Paese di origine o nell’ambito comunitario e familiare, spesso mantenuto e sostenuto anche mediante la frequenza di corsi extrascolastici. Si tratta allora di muovere passi concreti in questa direzione. Il primo potrebbe appunto consistere nell’attribuire formali crediti linguistici per la competenza nelle lingue di origine che sostituiscano la seconda lingua comunitaria insegnata nella scuola. E anche raggruppare, per alcune ore pomeridiane e in precisi periodi, ragazzi di diverse scuole in centri dove si sviluppino percorsi di lingue comunitarie per cui si ha già la disponibilità di insegnanti abilitati, in primo luogo per lo spagnolo e il portoghese, ma anche il rumeno e altre lingue. Certamente la prescrizione normativa delle lingue comunitarie esclude le lingue di origine che comunitarie non sono. Anche qui, tuttavia, è giunto il momento di una riconsiderazione, come hanno auspicato gli estensori di un documento pubblicato dalla Commissione europea (Maalouf et al., 2008).

In conclusione i temi del sostegno ai percorsi di apprendimento e della valutazione degli alunni stranieri sono strettamente interconnessi e richiederebbero da parte del ministero qualcosa in più dell’invito a una sorta di bricolage volontaristico, senz’altro non disprezzabile ma insufficiente.

 

Riferimenti bibliografici

DPR 31 agosto 1999 n. 394, art. 45, Iscrizione scolastica.

Maalouf A. et al. (2008), Una sfida salutare. Come la molteplicità delle lingue potrebbe rafforzare l’unità dell’Europa, Commissione Europea, Bruxelles.

Ministero dell’Istruzione, dell’Università, della Ricerca, Linee guida per l’integrazione degli alunni stranieri, febbraio 2014.

Rezzara A. (2000), Pensare la valutazione, Milano, Mursia.

[1] E di cambiamenti a livello nazionale ci sarebbe senz’altro bisogno in riferimento ai percorsi scolastici degli alunni stranieri, turbati tuttora da una percentuale di ripetenze maggiore di quella degli alunni italiani, da un enorme ritardo scolastico che, già presente nella scuola primaria, si accentua e dilaga nella secondaria, da un orientamento verso scuole secondarie di secondo grado ritenute meno impegnative, da un’alta evasione scolastica.

[2] Si tratta di “ultratredicenni provenienti da Paesi di lingua non latina”.

[3] Nelle Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri si giunge a distinguere fra “alunni con cittadinanza non italiana che necessitano anzitutto di interventi didattici di natura transitoria relativi all’apprendimento della lingua italiana”, da un lato, e “formalizzazione di un vero e proprio piano didattico personalizzato” per i casi eccezionali sopra citati: come se un ragazzino di dodici anni proveniente dall’Ucraina avesse solo bisogno di apprendere l’italiano e non di essere accompagnato anche nello studio disciplinare i cui item necessitano, transitoriamente, di essere scanditi e ritmati diversamente.

 


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