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Approfondimenti

Prima e dopo la valutazione. Nodi e prospettive

Maria Frigo

È docente di scuola secondaria, formatrice e autrice di testi e materiali didattici. Ha operato come facilitatrice di apprendimento per gli alunni stranieri e nell’organizzazione di progetti di accoglienza e integrazione scolastica. Collabora con il Centro COME di Milano e con vari enti in iniziative di formazione dei docenti, nella produzione di materiale didattico e nel coordinamento di progetti. Svolge attività di formatrice in merito alle tematiche dell’insegnamento dell’italiano L2, della didattica interculturale e della gestione delle relazioni. È autrice di testi e materiali didattici multimediali pubblicati da La Nuova Italia, RCS, Fabbri e Giunti.


Abstract

I docenti di alcune scuole milanesi e bolognesi con alta presenza di alunni stranieri si sono confrontati riguardo alle pratiche adottate nelle loro scuole in tema di valutazione degli alunni di recente immigrazione. Lo scritto sintetizza le conclusioni del confronto, riporta i nodi problematici individuati e le prospettive di lavoro delineate.



Voti e giudizi finali. Ma il progetto, qual è?

Un bel voto, un brutto voto… Nel linguaggio di tutti i giorni la valutazione che si riceve a scuola corrisponde all’espressione di giudizio da parte del docente, cioè al voto in numeri o parole che un docente attribuisce valutando i risultati raggiunti da un alunno in singoli compiti; a fine quadrimestre e, soprattutto, alla fine dell’anno scolastico la valutazione produce effetti diretti, cioè permette – o impedisce – il passaggio a una classe successiva. Chi insegna dovrebbe sapere bene che la valutazione è solo l’ultima parte del lavoro didattico, l’atto finale e conclusivo del percorso che si è costruito giorno per giorno con i singoli alunni e con la classe intera. Non si dovrebbe perciò parlare della valutazione senza parlare del progetto didattico, degli obiettivi che ci si è proposti di raggiungere e delle azioni che si sono intraprese per raggiungerli.

E quando gli alunni vengono da altri Paesi e sistemi scolastici? Che cosa cambia nel progetto e, di conseguenza, che cosa può e deve cambiare nella valutazione?

La normativa di riferimento specifica che per gli alunni provenienti da altri Paesi va operato un “necessario adattamento del curricolo”, e rimanda all’autonomia delle istituzioni scolastiche il compito di rendere operativo tale adattamento. Nella realtà delle scuole, però, i docenti si sentono spesso sollecitati tra spinte che recepiscono come in contrapposizione: da una parte ci può essere la volontà di riconoscere le specifiche caratteristiche e i bisogni dei nuovi alunni stranieri, ad esempio definendo tappe differenti da quelle comuni per un certo periodo di tempo oppure dando valore alle conoscenze che gli alunni hanno acquisito nella precedente scolarizzazione. Dall’altra parte si avverte la necessità di far corrispondere i risultati raggiunti da ogni alunno a un ipotetico e ottimale standard di livello desiderabile per la propria disciplina di insegnamento. A ciò si aggiunge il bisogno di dover gestire nelle classi un delicato problema di disparità valutativa: se a identici risultati raggiunti corrispondono differenti valutazioni da parte del docente, gli alunni possono percepire il fatto come un’ingiustizia esercitata nei loro confronti. Per il docente si tratta di motivare e giustificare come equo il voto espresso, in rapporto non solo agli obiettivi della disciplina, ma anche a se stessi in quanto docenti, e di fronte ad altri, compagni, genitori e colleghi. A tutto ciò si aggiunge un quadro normativo che, pur riconoscendo in linea di principio la necessità di adattare il percorso didattico – e di conseguenza la valutazione – alla specifica situazione dell’alunno, non offre in modo esplicito strumenti e risorse adeguati.

Alcuni docenti di istituti secondari di Milano e Bologna con forte presenza di alunni con background migratorio, nell’ambito di un progetto[1] promosso dalla Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna, si sono confrontati e interrogati proprio a partire da questo campo di osservazione. Ne sono scaturiti un ricco dibattito e uno scambio di pratiche ed esperienze in tema di valutazione degli alunni stranieri. Nel mio contributo intendo mettere in evidenza sia i nodi problematici, cioè gli ostacoli individuati dai colleghi che hanno fatto parte di questo gruppo di discussione, sia le prospettive, cioè le soluzioni o i tentativi di soluzione sperimentati nella pratica scolastica degli Istituti coinvolti nel progetto.

Il primo nodo, e punto di partenza per la riflessione, è stato proprio questo: per poter parlare della valutazione bisogna necessariamente allargare lo sguardo all’intera proposta didattica rivolta agli alunni di madrelingua diversa dall’italiano. Allargare lo sguardo ha portato a descrivere e analizzare le fasi e gli strumenti operativi che ogni singolo istituto partecipante al progetto ha messo in atto, dall’accoglienza alla valutazione, cioè dal momento dell’ingresso nella scuola a quello della conclusione del percorso scolastico. Ha portato quindi alla necessità di affermare un aspetto che non sempre sembra sia nella piena consapevolezza dei docenti chiamati a valutare: la valutazione non può essere riferita a un ipotetico livello standard da raggiungere, livello peraltro difficilmente definibile in modo univoco, ma va sempre riferita a obiettivi specificati con chiarezza, calibrati sugli alunni e sul percorso didattico immaginato per loro.

Di nuovo, la valutazione è solo l’atto conclusivo del percorso e, per gli alunni provenienti da altri Paesi, deve fare riferimento al “necessario adattamento del curricolo”.

 

Dare tempo al tempo

E proprio l’adattamento del percorso scolastico è risultato il secondo nodo problematico e punto di riflessione sulle pratiche in atto. Per acquisire una nuova lingua occorrono tempi lunghi. In condizioni di lingua seconda, cioè di lingua parlata nella comunità dove si vive, riferendosi alla nota distinzione proposta da Jim Cummins (1984), occorrono da uno a due anni se parliamo di Abilità Comunicative Interpersonali di Base, ma da cinque a sette anni per la Competenze Linguistiche Cognitivo-Accademiche. In altre parole, prima di essere pienamente inserito nel curricolo comune, un alunno che proviene da un’altra lingua ha bisogno di vari anni di frequenza scolastica; inoltre, l’uso dell’italiano come lingua della comunicazione di base non garantisce che l’alunno sia in grado di studiare in autonomia sui testi scritti per studenti di madrelingua italiana.

La scuola chiede però di confrontarsi e ottenere risultati positivi ponendo scadenze e tempi annuali, pena il mancato passaggio alla classe successiva. Per di più, quando l’inserimento dell’alunno avviene nelle classi terminali del ciclo di studi, ci si trova di fronte a tempi obiettivamente troppo stretti per permettere ad alunni di recente immigrazione di affrontare con successo l’esame di Stato.

La stesura di un Progetto Didattico Personalizzato (nel linguaggio adottato dai diversi istituti: PEP o Piano Educativo Personalizzato, PPT o Piano Personale Transitorio) permette, almeno in parte, di organizzare il percorso prevedendone i tempi e le tappe; è possibile così definire, nei singoli casi, come si realizza il “necessario adattamento” del curricolo; definire quindi per quali materie si attua una riduzione del programma comune oppure si pongono obiettivi personalizzati. Dare tempo al tempo significa rispettare le tappe dell’apprendimento e adattare gli obiettivi comuni, pur in modo transitorio, accompagnando l’alunno durante l’acquisizione della nuova lingua. Nell’esperienza di molti colleghi, 2-3 anni sono il tempo minimo necessario perché un alunno possa svolgere le identiche attività previste per i compagni di madrelingua italiana; questo è vero in particolare nelle materie dove è richiesta la maggiore competenza linguistica necessaria per studiare e produrre testi scritti.

Avere come riferimento un progetto personalizzato permette di affrontare con più tranquillità il momento della valutazione formale, di poter esprimere per l’appunto giudizi equi sul processo di apprendimento e sui risultati raggiunti in relazione a obiettivi personalizzati, chiari e condivisi anche con gli apprendenti.

 

Condividere e dare stabilità

La terza considerazione, comune e fortemente sentita da tutti i partecipanti al progetto citato, è relativa alla necessità di dare stabilità alle azioni indirizzate agli alunni stranieri nelle rispettive scuole. Quando non c’è sufficiente condivisione di pratiche e strumenti, ogni anno rischia di essere l’anno zero, e si ha la sensazione di dover ricominciare ogni volta da capo. Perché la memoria non venga dispersa, fondamentale è dunque che, accanto a una figura specifica (docente referente o funzione strumentale), ci siano un gruppo di lavoro (commissione) e una condivisione delle scelte a livello dell’intero collegio dei docenti.

Se c’è condivisione di pratiche e strumenti la scuola riesce a dare stabilità alle sue azioni e a formare al suo interno una cultura dell’accoglienza e dell’inserimento degli studenti stranieri. Gli strumenti e le pratiche vengono man mano ridiscussi e migliorati nel gruppo di lavoro e anche i nuovi arrivati – intesi questa volta come docenti – riescono rapidamente a condividerli. Anche la dirigenza scolastica riveste un ruolo fondamentale nel favorire la condivisione.

Il nodo della condivisione non riguarda solo il versante organizzativo, ma anche quello relativo alla formazione dei docenti. Soprattutto nella scuola secondaria, dove le discipline sono ben distinte e insegnate da docenti con formazioni personali molto diverse, non è semplice trovare un linguaggio comune e pratiche che vadano bene per tutti. Proprio per questo è interessante la prospettiva offerta dal confronto nei dipartimenti disciplinari. I docenti della stessa area, di fatto gruppo di specialisti nella didattica della loro materia, attraverso il confronto possono individuare gli obiettivi disciplinari irrinunciabili e anche possibili strade alternative per raggiungerli. Le riunioni dei dipartimenti possono così diventare preziose occasioni di auto-formazione e aggiornamento tra colleghi.

 

Per una didattica realmente inclusiva

Il quarto e ultimo nodo riguarda la didattica. La sensazione diffusa tra i docenti partecipanti al progetto è che nelle nostre scuole – nella secondaria di secondo grado – l’attività didattica passi ancora prevalentemente attraverso la lingua e i testi scritti. Chi, come gli alunni di altra provenienza, sta ancora imparando l’italiano si trova a dover affrontare un impegno notevole sul piano cognitivo. Come già detto, la relativa scioltezza nella comunicazione quotidiana non garantisce la capacità di affrontare la lingua dello studio, quella lingua sulla quale di fatto si costruisce la possibilità di successo scolastico.

A proposito della lingua dello studio, spesso si dimentica che le competenze linguistiche più elevate non arrivano, anche per un madrelingua italiano, come una sorta di dono di natura, ma sono invece il risultato di anni di scuola, di libri, di esercizio e di rapporto con gli insegnanti. Ad esempio, e per riprendere la descrizione delle competenze linguistiche proposta dal QCERL,[2] è stato certamente un alunno chi «è in grado di comprendere le idee fondamentali di testi complessi su argomenti sia concreti sia astratti; sa produrre testi chiari e articolati su un’ampia gamma di argomenti ed esprimere un’opinione su un argomento d’attualità, esponendo i pro e i contro delle diverse opzioni».[3]

Insomma, la scuola è fondamentale per sviluppare la capacità linguistica anche per i nativi, ma chi proviene da un’altra madrelingua deve faticare il doppio e, se percepisce la richiesta nei suoi confronti come impossibile da sostenere, rischia di demotivarsi e fallire.

D’altra parte il tipo di difficoltà (comprendere e produrre testi, appropriarsi del lessico specifico delle discipline, esporre un contenuto, ecc.) è comune anche ai ragazzi di madrelingua italiana. Ecco allora che gli strumenti e i modi di fare didattica sperimentati con gli alunni stranieri spesso possono rivelarsi efficaci per tutti, madrelingua e non. Lavorare con gli alunni di altra madrelingua ha portato i docenti a raffinare le loro competenze professionali e a provare nuove strade per il loro lavoro. Ciò è vero per la maggiore attenzione alla forma linguistica dei manuali di studio, risultato della pratica dei testi semplificati, ma può essere altrettanto vero osservando la didattica in classe; ad esempio, e come viene raccontato nei contributi di questa rivista, sperimentando forme di lavoro in classe più inclusive, con l’uso delle tecnologie, lo spazio per i linguaggi non verbali, l’attenzione alla costruzione di esperienze e situazioni operative.

La prospettiva dunque riguarda la capacità da parte dei docenti di rispondere alla realtà delle classi multilingue e multiculturali con un rinnovato bagaglio di competenze professionali. Il livello progettuale dei decisori politici e dell’amministrazione centrale dovrebbe sostenerli in questa sfida.

 

Riferimenti bibliografici

Cummings J. (1984), Bilingualism and special education: Issues in assessment and pedagogy, Avon, Multilingual Matters.

[1] Progetto Seipiù, Fondazione del Monte di Bologna e Ravenna. Gemellaggio tra Istituti di Milano e Bologna e gruppo di lavoro coordinato da Maria Frigo, Laura Tieghi e Miriam Traversi.

[2] Il QCERL, Quadro Comune Europeo di Riferimento per le Lingue, è uno strumento di descrizione delle competenze linguistiche condiviso a livello europeo.

[3] Livello B2 del QCERL, scala globale, cioè il quarto dei sei livelli previsti.

 


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