Esperienze
L’adozione internazionale: implicazioni pedagogiche
Karin Bagnato
Karin Bagnato è ricercatrice confermata di Pedagogia Generale e Sociale presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, della Formazione e degli Studi Culturali dell’Università degli Studi di Messina.
Abstract
Le sfide che i bambini stranieri adottati sono chiamati ad affrontare sono diverse rispetto a quelle in cui si imbatte un loro coetaneo adottato da una famiglia appartenente alla sua stessa cultura. Devono, infatti, riuscire a conciliare un passato rappresentato da sofferenza e confusione, e un presente costituito dalla nuova famiglia che offre amore e protezione, ma che, all’inizio, è sconosciuta e può generare incertezze. Dinanzi a tale situazione, i genitori adottivi non possono essere lasciati da soli, ma necessitano di essere supportati da interventi di sostegno mirati che devono implementarsi sia durante l’iter pre-adottivo sia durante la fase di consolidamento del nuovo nucleo familiare. Solo in questo modo si potranno creare le condizioni indispensabili perché il patto adottivo vada a buon fine.
Transizioni interculturali e sistema familiare
Lasciare il proprio Paese di origine per andare a vivere in un altro diverso per etnia, cultura, religione e lingua, produce notevoli esiti sulla vita di qualsiasi soggetto, a livello sia sociale che individuale. In questa sede si focalizzerà l’attenzione sulle ripercussioni a livello individuale e, in particolare, sul presupposto che le migrazioni producono profondi mutamenti nella sfera familiare poiché si è costretti ad affrontare nuove e difficili situazioni.
Da qualche tempo, ormai, il prolungarsi del periodo di formazione e un’aspettativa di vita più lunga hanno determinato una ristrutturazione del sistema familiare. A differenza di quanto è avvenuto nel passato, nell’odierna società, la vita familiare pretende un continuo processo di apprendimento perché le esigenze e le difficoltà che si presentano quotidianamente richiedono cambiamenti di ruolo da parte di tutti i membri della famiglia, affinché questa possa mantenere la sua strutturazione. In particolare, ogni qualvolta un individuo deve rispondere alle aspettative della società si trova in una situazione di stress in cui l’equilibrio personale viene messo in discussione. Di solito, però, la cultura offre tutta una serie di strategie per rispondere a tali bisogni e, quindi, riuscire ad affrontare e superare lo stress.
Quando si fa riferimento a famiglie immigrate, i fattori che generalmente possono innescare alti livelli di stress si sommano ad altri (ad esempio scarsa conoscenza della lingua, emarginazione, difficoltà a trovare lavoro e/o casa, ecc.), divenendo dei veri e propri eventi critici nella vita. Nella nuova terra, infatti, l’emigrante subisce uno shock culturale dovuto allo sradicamento dal suo ambiente; di conseguenza, il suo equilibrio personale viene messo in discussione non solo per la perdita delle relazioni sociali per lui più significative, ma anche per l’impossibilità di utilizzare quell’enciclopedia di saperi e di strategie operative, non più valida nel nuovo contesto per risolvere i nuovi problemi (Sirna Terranova, 1997). Ad esempio, l’ingresso dei bambini a scuola presuppone per la famiglia immigrata un notevole aumento dei rapporti con il mondo esterno e ciò implica tutta una serie di difficoltà, poiché i genitori non sono in possesso di quelle esperienze che risultano necessarie per aiutare i figli a partecipare pienamente e attivamente a ciò che si verifica in ambito scolastico. Inoltre, la diversa strutturazione dei processi di insegnamento/apprendimento determina come conseguenza che i ragazzi a scuola imparano cose per lo più sconosciute ai genitori, che rischiano di perdere progressivamente il vantaggio cognitivo in campo scolastico e professionale e, persino, la loro autorevolezza nei confronti della prole (Wallnofer, 2000).
Ancora, i bambini che vivono con i genitori nel Paese che li ospita, di solito, trascorrono gran parte della giornata a scuola e la loro infanzia si divide tra istituzioni e mondi linguistici differenti, tra l’idealizzazione della terra di origine e la realtà del Paese ospitante. A ciò si aggiunge anche il fatto che i continui processi di mutamento sociale non consentono di parlare in termini generici di infanzia o di gioventù, perché da qualche tempo si assiste a una precocità di sviluppo psicofisico, cui si accompagna un ritardo nei percorsi di definizione di una propria autonomia rispetto all’ambiente familiare di origine. Infatti, pur restando in famiglia, i ragazzi cercano i loro modelli di riferimento al di fuori di questa (Wallnofer, 2000).
Molte delle incomprensioni tra genitori e figli, all’interno delle famiglie di migranti, nascono proprio da contrasti che fanno riferimento ai differenti modi di vedere e vivere la vita in genere, cioè a diverse e, a volte, persino opposte concezioni del mondo e della vita. Ciò perché i figli cercano nel gruppo dei coetanei i modelli di comportamento a cui rifarsi, mentre i genitori restano fortemente ancorati ai modelli vissuti nel Paese di provenienza.
Tali contrasti sono una diretta conseguenza del fatto che i genitori non tollerano che il figlio cresca uguale agli altri, hanno paura che possa diventare diverso da loro, dalla loro cultura di origine e dai valori originari che sentono criticati e minacciati nel nuovo Paese. Inoltre, temono che il desiderio di autonomia del proprio figlio sia sinonimo di distacco e tendono, quindi, a intrepretarlo come un rifiuto a percorrere la strada da essi programmata o come espressione di un giudizio negativo sul loro operato (Del Bene, Rossetti e Vaglio, 2005). Ciò determina messaggi ambigui e difficilmente decifrabili dai figli che percepiscono una condizione di instabilità e precarietà e vivono le proprie scelte come impossibili perché tutte pericolose. In questi casi si verificano reali difficoltà di comunicazione intergenerazionale, ulteriormente aggravate dalla frequenza scolastica e dall’inculturazione nella nuova società: cioè, genitori e figli si differenziano progressivamente sia culturalmente sia linguisticamente (Sirna Terranova, 1997).
Nei processi di acculturazione dei migranti, Sélim Abou (1981) distingue tra il processo di reinterpretazione, che interessa gli adulti di prima generazione, e il processo di sintesi, che fa invece riferimento ai figli dei migranti.
Nel processo di reinterpretazione, l’acculturazione produce modifiche nelle forme e nei contenuti della cultura di origine che hanno a che fare con il settore pubblico delle relazioni secondarie; resta sostanzialmente inalterato, invece, il proprio codice culturale nel settore privato delle relazioni primarie. In questa strategia, quindi, i contenuti e i comportamenti vengono reinterpretati in funzione del sistema culturale originario. Al contrario, nel processo di sintesi i soggetti interiorizzano i due codici culturali ed elaborano i conflitti che ne derivano. In questo processo, i figli dei migranti danno origine a modi di pensare nuovi, frutto del contrasto tra le due culture. Ciò presuppone che ai figli venga rilasciata una doppia autorizzazione: da parte della famiglia e da parte dei servizi educativi; solo in questo modo, sarà possibile un inserimento positivo che non comporti la perdita e la negazione delle proprie differenze (Demetrio e Favaro, 2000).
I genitori immigrati dovrebbero tollerare un figlio un po’ diverso rispetto all’immagine che si erano costruiti e dovrebbero permettergli di assomigliare ai suoi compagni. Dovrebbero riconoscere e ammettere che, anche se il progetto di vita della prole ha preso una traiettoria diversa rispetto a quella che avevano sperato, resta comunque parte integrante della biografia della famiglia.
La scuola, poi, dovrebbe assegnare valore e sviluppare i saperi e le appartenenze dei bambini stranieri, prendere in considerazione e riconoscere la loro storia, la loro lingua, i loro differenti riferimenti come degni di essere conosciuti e riconosciuti. Solo così i bambini stranieri saranno meno in bilico tra i due spazi educativi e non si sentiranno in colpa per il venir meno alle aspettative ora dell’uno ora dell’altro. Naturalmente, per fare ciò, è indispensabile che i genitori siano pienamente convinti del fatto che la situazione di biculturalità e di bilinguismo rappresenta una situazione privilegiata che va perseguita, sostenuta e valorizzata (Demetrio e Favaro, 2000).
Ora, se già una famiglia immigrata trova difficoltà ad affrontare tutte queste problematiche così complesse, cosa succede nel caso delle adozioni internazionali, ovvero, quando un bambino viene adottato da una famiglia appartenente a un Paese e a una cultura diversi da quelli d’origine?
L’adozione è una pratica giuridica che regola l’ingresso in una famiglia di un minore che è stato dichiarato adottabile perché privo di assistenza morale e materiale da parte di chi, per legge, sarebbe tenuto a provvedervi. È qualcosa che va oltre il consueto modo di costituirsi di una famiglia (padre e madre che amorevolmente crescono i propri figli) e che implica il superamento di tutta una serie di problematicità insite nel cercare di attribuire il medesimo valore ai legami di sangue e a quelli affettivi.
Se a livello pubblico l’adozione si configura come una pratica che socialmente esprime il dispiegarsi dell’umanità stessa, a livello individuale potrebbe manifestarsi come una realtà scarsamente compresa nella sua più intima essenza a causa delle perplessità, delle preoccupazioni, delle ansie e dei timori vissuti dalla famiglia che adotta. Tale contrasto tra livello pubblico e privato assume ancora più rilevanza nel momento in cui si abbandona la teoria per immergersi nella pratica, ovvero nella quotidianità in cui si trovano coinvolti i nuovi genitori. Contraddittorio.
Già a un primo sguardo si potrebbe rilevare come le famiglie adottive e le famiglie immigrate condividano tutta una serie di problematiche. Infatti, entrambe le famiglie vivono molteplici paure e preoccupazioni riconducibili a motivazioni differenti. Quelle della famiglia immigrata riguardano per lo più l’eventualità che la prole rinneghi la cultura di origine, al fine di integrarsi pienamente nel Paese ospitante; quelle della famiglia adottiva sono invece riconducibili alla possibilità che la prole abbia un senso di appartenenza così radicato da compromettere il processo di integrazione.
In entrambi i casi il bambino si percepisce incompleto, perché non si sente incoraggiato a differenziarsi come persona autonoma. È importante, invece, sottolineare che l’opinione che i genitori si costruiscono dei propri figli influenza notevolmente il processo di costruzione dell’immagine di sé. Se questa sarà negativa, il figlio si considererà incapace e ciò potrà compromettere il processo di autonomizzazione e di individualizzazione. Un ulteriore aspetto che potrebbe rivestire un ruolo negativo nel superamento dell’iniziale senso di estraneità percepito dalle famiglie è la tendenza a adottare atteggiamenti iperprotettivi nei confronti dei figli.
Sia le famiglie immigrate sia quelle adottive, inoltre, devono combattere con molti pregiudizi (razziali, culturali, consanguinei, addizionali, ecc.) e ciò potrebbe favorire l’innescarsi di numerose problematiche emotive e relazionali all’interno della famiglia stessa. In particolare, la continua lotta contro i pregiudizi e le difficoltà di integrazione potrebbe determinare nei figli la manifestazione di crisi d’identità, difficoltà di apprendimento, manifestazioni fobiche, tendenza all’isolamento, problemi di inserimento scolastico, ecc.
Le analogie riscontrate tra famiglia immigrata e famiglia adottiva mettono in evidenza che solo la consapevolezza che adozione e immigrazione costituiscono delle possibili situazioni di rischio potrà favorire le condizioni necessarie perché il rischio diventi un momento di crescita per l’intero nucleo familiare. La famiglia deve, infatti, affrontare le problematiche derivanti dall’adozione o dall’immigrazione pur mantenendo la sua continuità; deve sostenere e incoraggiare la crescita dei suoi membri, pur adeguandosi a una società in continua evoluzione.
Transizioni interculturali e adozione internazionale nel XXI secolo
Negli ultimi decenni, in Italia, si è verificato un notevole aumento delle domande di adozione e, spesso, il loro numero è stato di gran lunga superiore a quello dei minori dichiarati adottabili. Questi ultimi, infatti, sono sensibilmente diminuiti a causa del calo delle nascite, a sua volta dovuto sia all’aumento dei problemi di sterilità nelle coppie sia alla diffusione di campagne di sensibilizzazione sul controllo delle nascite.
I minori dichiarati adottabili decrescono sempre più anche grazie alla diminuzione degli abbandoni alla nascita, conseguenza di una maggiore accettazione dei figli nati da single o al di fuori del matrimonio. Tutto ciò ha fatto registrare, in particolare negli ultimi decenni, un consistente aumento delle domande di adozione internazionale, che viene considerata la via più semplice e rapida per avere un figlio.[1] È importante, inoltre, sottolineare che le adozioni non riguardano più solo neonati, ma anche bambini distrutti dalle loro stesse famiglie perché costretti a rubare, spacciare, prostituirsi, ecc. (Del Bene, Rosetti e Vaglio, 2005; Cavallo, 2005). Un ulteriore elemento che ha contribuito all’aumento delle richieste di adozione internazionale è stato rappresentato dalla tendenza a interpretare l’adozione come una forma di solidarietà dettata da una maggiore sensibilità verso Paesi in cui i bambini si trovano, spesso, a vivere in condizioni di estrema indigenza (Savio, 2003).
L’incremento delle adozioni straniere dovrebbe produrre come conseguenza la nascita di nuovi ed efficienti servizi pubblici con competenze specifiche: supervisione, monitoraggio, consulenza e supporto ai genitori che hanno intenzione di adottare un minore straniero, anche se la complessità della tematica richiede sempre un maggiore impegno educativo, sociale ed economico al fine di garantire il ben-essere dei soggetti coinvolti. Vi è, infatti, un cospicuo numero di problematiche relative all’inserimento, all’integrazione e all’inclusione dei bambini stranieri adottati: prima di tutto, quando sono in procinto di essere trasferiti da un Paese all'altro; poi, durante i primi periodi di permanenza nella nuova famiglia e, infine, nel periodo dell'adolescenza. Tale situazione ha visto, soprattutto negli anni passati, il predominio degli interessi dell’adulto su quelli del minore, la cui unica tutela era quella di essere allontanato da un Paese povero economicamente e culturalmente per essere inserito in una nuova famiglia più ricca (Brodzinsky e Schechter, 1990; Oneroso e Lionetti, 2003; Del Bene, Rossetti e Vaglio, 2005). Ciò ha contribuito, in alcuni casi, al fallimento dell’adozione, con tutta la drammatica problematicità che ne consegue. Oggi, con la nuova legislatura in fatto di adozioni internazionali si è cercato di porre rimedio a questa situazione.
Adottare un figlio straniero significa accettarlo con tutto il suo bagaglio genetico, etico e culturale, cercando di non cancellare e svalorizzare la sua diversità solo per placare le proprie paure di non essere dei buoni genitori. Alcuni genitori adottivi, a volte inconsciamente, cercano di cancellare il passato del figlio: spesso, cambiano anche il nome del bambino, specie se di etnia diversa, al fine di cancellarne l’identità storica, quasi a indicare che egli esiste dal momento in cui è entrato a far parte della nuova famiglia (Dell’Antonio, 1996; Del Bene, Rossetti e Vaglio, 2005). Quasi sempre il piccolo, che desidera a tutti i costi essere accettato e amato dai nuovi genitori, si adegua ai loro desideri al fine di non deluderli. Così, il passato diventa l’innominabile e i ricordi si attenuano e si confondono con il presente. Sarebbe, invece, di fondamentale importanza che il bambino avesse modo di narrare la propria storia, al fine di non dimenticare l'identità delle proprie origini e di sentirsi pienamente accolto nella nuova famiglia. Come si afferma, infatti, nell’articolo 8 della Carta dei Diritti dell’Infanzia, per un equilibrato sviluppo psicologico ogni bambino deve mantenere il più possibile integri i connotati della sua storia.
Nel momento in cui il minore si inserisce nella nuova famiglia attraversa un periodo a rischio per la sua salute psichica futura; ciò si verifica perché è molto fragile emotivamente a causa sia delle sue drammatiche vicissitudini passate (rifiuti, abbandoni, abusi di qualsiasi genere, ecc.) sia di quelle presenti (abbandono definitivo dei genitori biologici, allontanamento dai luoghi familiari, cambiamento radicale di abitudini quotidiane, ecc.) (Del Bene, Rossetti e Vaglio, 2005; Moneco Farri e Castellani Peila, 2008; Gagnon-Oosterwaal et al., 2012).
Inoltre, i minori stranieri, pur sentendosi accettati dai nuovi genitori, devono fare i conti con il proprio passato: spesso, infatti, vivono un senso di estraneità derivante dal fatto che sono stati sradicati dalla loro cultura e inseriti improvvisamente in un Paese completamente diverso (Lorenzini, 2004; Peouse, 2012).
Alcuni studiosi (Brodzinsky e Schechter, 1990; Rosnati e Iafrate, 1997; Scabini e Iafrate, 2003), per comprendere appieno perché i bambini stranieri presentano maggiori difficoltà d’inserimento familiare e sociale, sottolineano l’importanza di intendere la famiglia come un gruppo idoneo a trattare le differenze di:
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genere (maschio-femmina);
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ruolo (moglie-marito, padre-madre);
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generazione (genitori-figli);
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stirpe (differenze di valori, tradizioni, ceto sociale, cultura, religione, etnia).
Nelle famiglie biologiche le differenze si giocano all’interno della coppia, dove entrambi i coniugi trasferiscono la storia e le tradizioni della propria famiglia d’origine. Nelle famiglie adottive, invece, tali diversità sono relative anche alle relazioni tra genitori e figli, che nelle loro dinamiche familiari devono riuscire a trovare un punto di equilibrio tra somiglianza e differenza (Del Bene, Rossetti e Vaglio, 2005; Rosnati, 1998; 2010). Di conseguenza, come affermano Scabini e Donati (1996), il tema delle differenze in queste famiglie può essere:
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completamente rifiutato: non si parla mai del passato della prole e, quindi, la diversità viene negata;
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eccessivamente enfatizzato: ogni diversità è ricondotta all’appartenenza del figlio a un’altra cultura;
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trattato attraverso una strategia intermedia: si identificano, riconoscono e accettano le differenze che diventano parte integrante della storia familiare. È il nuovo nucleo familiare ad assumere quelle caratteristiche di interazzialità che permettono a tutti i membri di accettarsi reciprocamente, senza dover perdere nulla dei propri valori e della propria storia (Dell’Antonio, 1986; 1996).
Il legame adottivo (o patto adottivo) deve, dunque, prendere le mosse dal riconoscimento della diversità e dalla sua valorizzazione, poiché solo così sarà possibile costruire la somiglianza e la reciproca appartenenza. In altre parole, mediante il patto adottivo si stabilisce tra genitori e figli una modalità di relazione detta a incastro poiché ogni membro è portatore delle proprie aspettative, dei propri bisogni, della propria storia. Naturalmente, tutto ciò crea le condizioni affinché tale patto non sia immodificabile, ma, al contrario, si snodi nel tempo (Bramanti e Rosnati, 1998).
Sempre in riferimento al patto adottivo, Greco e Rosnati (1998) hanno individuato quattro modalità di esplicitazione.
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Il patto di negazione: genitori e figli trovano un accordo solo negando completamente l’adozione, ma ciò porta il soggetto a non elaborare l’abbandono.
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Il patto imperfetto: i genitori propongono un patto, ma il bambino non è pronto ad accettarlo perché impegnato a elaborare le vicissitudini del suo passato. Oppure tra genitori e figli non viene stipulato alcun accordo perché la discrepanza tra aspettative e realtà è troppo ampia sia per i genitori sia per i figli.
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Il patto di assimilazione reciproca: la storia dell’adozione sembra essere accettata da tutti i membri della famiglia, ma, in realtà, viene neutralizzata dalla considerevole presenza di sentimenti di appartenenza reciproca.
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Il patto di riconoscimento e valorizzazione delle differenze: genitori e figli riconoscono le differenze e attribuiscono loro una valenza positiva. Ciò crea le condizioni affinché si possa tranquillamente e liberamente parlare dell’adozione, facendo emergere i sentimenti ad essa connessi.
Le famiglie riuscite, quindi, sarebbero quelle che conservano la memoria del periodo precedente l’adozione e ciò darebbe loro la possibilità di ritrovare una continuità del tempo, in quanto se non si possiede un passato può risultare difficile avere un futuro (Levy Shiff, Zoran e Shulman, 1991; Savio, 2003; Lorenzini, 2004).
Alcune variabili che sembrano giocare un ruolo importante nella riuscita del patto adottivo sono il vissuto dei genitori adottivi e le modalità di relazione con i propri genitori (Bramanti e Rosnati, 1998; Johnson, 2002; Gagnon-Oosterwaal et al., 2012). Infatti, i genitori adottivi possono riversare in ambito familiare dinamiche irrisolte che, inevitabilmente, influiranno sulla creazione del nuovo nucleo familiare. Cioè, i genitori sono portatori del loro vissuto; di conseguenza, a difficoltà di rapporto tra la prima e la seconda generazione potrebbe corrispondere una non completa accettazione del minore adottato. Perciò, affinché si attui un buon patto adottivo è importante che il bambino adottato si senta accolto sia dalla famiglia nucleare sia da quella allargata (nonni, zii, cugini); tale accoglienza favorirà l’adozione del bambino anche da parte dell'ambiente sociale in cui andrà a inserirsi (scuola, vicinato, parrocchia) (Levy Shiff, Zoran e Shulman, 1997; Rosnati e Iafrate, 1997; Del Bene, Rossetti e Vaglio, 2005).
Come afferma Anna Genni Miliotti (1999), la costruzione di una corretta cultura dell’adozione deve iniziare dal riconoscimento dell’adozione come triade e, quindi, dalla consapevolezza che il futuro dei bambini adottati non può che passare dal presente riconoscimento del loro passato, che implica la necessità di manifestare rispetto nei confronti della loro storia.
Ulteriori variabili che sembrano rivestire notevole importanza nella riuscita del patto adottivo sono le condizioni di pre-adozione: ovvero, tutte quelle situazioni che si sono verificate prima dell’adozione e che possono incrementare i rischi di cattivo attaccamento e determinare l’insorgenza di problemi futuri. Alcune ricerche (ad esempio Howe, 1997; Rosnati, 1998; Miller 2005; Gagnon-Oosterwaal et al., 2012) supportano l’ipotesi che i rischi di cattivo attaccamento aumentino se i bambini sono stati in orfanotrofio o in casa famiglia per molto tempo; altre (ad esempio Brodzinsky, Lang e Smith, 1995; Verhulst et al., 1990; 1995; Johnson, 2002; Rosnati, 2010) sottolineano l’importanza della funzionalità familiare quale fattore esplicativo che spiegherebbe perché alcuni bambini hanno maggiori problemi di comportamento e/o di autostima. Infatti, la quantità e la qualità delle relazioni familiari ed extrafamiliari sembrerebbe giocare un ruolo importante per il benessere psico-sociale dell’individuo. Ciò è ancora più vero se si prende in considerazione il trauma dello sradicamento; l’essere accettati dalla nuova famiglia e dagli altri e il percepirsi conformi alla maggioranza culturale si rivelano utili sia per l’integrazione nella rete sociale sia per la formazione di un’adeguata personalità di base.
Ulteriori studi (ad esempio Kotsopoulos et al., 1988; Verhulst et al., 1990; Rosnati, 1998; Smith et al., 2000; Lorenzini, 2004; Juffer e van Ijzendoorn, 2005) hanno cercato di identificare e definire, nel miglior modo possibile, alcune problematiche a cui i soggetti adottati potrebbero andare incontro, come viene evidenziato di seguito.
Problemi di attaccamento. La letteratura sull’argomento utilizza essenzialmente due modelli per spiegare come i minori adottati instaurano relazioni di attaccamento con le nuove figure familiari. Entrambi questi modelli derivano dai classici lavori di Ainsworth (1969) e Bowlby (1960).
Il primo modello sostiene che il mancato attaccamento alle persone più significative è vissuto dai bambini come un lutto che, però, non interferisce con i nuovi pattern di attaccamento (Kubler-Ross, 1969; Jewett, 1982; Fahlberg, 1991). Il secondo modello, invece, focalizza la propria attenzione sull’influenza, a lungo termine, che una relazione di attaccamento inadeguato può produrre sugli individui. Nello specifico, i sostenitori di tale modello affermano che i soggetti sviluppano rappresentazioni interne di se stessi e delle figure per loro più significative basandosi sulle loro prime interazioni con il caregiver (Egeland, Sroufe e Erickson, 1983; Cicchetti, 1989; Delaney, 1991).
Problemi d’identità. Gli studi in quest’ambito di ricerca hanno sempre guardato alla formazione dell’identità come a qualcosa di complesso e questo risulterebbe ancora più vero nel caso delle adozioni internazionali. A tale proposito, alcuni autori affermano che i minori adottati potrebbero andare incontro a: difficoltà a superare i vissuti di abbandono (van Gulden e Bartels-Rabb, 1994); confusione genealogica (Sants, 1964); risentimento, passività e senso di inadeguatezza derivanti dalla sensazione di svantaggio percepita nei confronti dei coetanei non adottati (Schecter e Bertocci, 1990); ansia e ambivalenza derivanti da caratteristiche somatiche differenti rispetto ai tratti occidentali (Rosenberg e Horner, 1991).
È importante, comunque, precisare che in ambito internazionale non tutti gli studiosi sono d’accordo su questa questione. Infatti, vi è un filone di ricerca che porta avanti l’idea secondo la quale i minori adottati non andrebbero incontri a maggiori problemi di costruzione dell’identità rispetto ai loro coetanei non adottati (Stein e Hoopes, 1985; Benson, Sharma e Roehlkepartain, 1994; Juffer e van Ijzendoorn, 2007).
Depressione. Il DSM-IV-TR (APA, 2000) afferma che la depressione si manifesta in modo diverso al variare dell’età. Inoltre, l’identificazione della depressione infantile è particolarmente difficile da effettuare in quanto parzialmente correlata alla manifestazione di specifiche performance e all’appropriata comunicazione delle emozioni.
Nei soggetti adottati, i fattori precursori della depressione potrebbero essere: inadeguato attaccamento ai genitori o alle persone più significative, storie di maltrattamenti, storie familiari di disordini psichici, bassa autostima, problemi di apprendimento, scarsa popolarità e ripetute esperienze di rifiuto (Kaufmann, 1991; Petersen et al., 1993; Rosnati, 1998; Miller, 2005; Gagnon-Oosterwaal et al., 2012; Perouse, 2012). In realtà, solo pochi casi di depressione infantile sono stati effettivamente diagnosticati nei minori adottati e le bambine sembrano essere maggiormente soggette al fenomeno della depressione rispetto alle loro coetanee non adottate.
Disturbo post-traumatico da stress. Il disturbo post-traumatico da stress è l’insieme delle forti sofferenze psicologiche che conseguono a un evento traumatico, catastrofico o violento. I sintomi classici dello stress post-traumatico sono: incubi, flashback, fobie, attacchi di panico, inappetenza, difficoltà a dormire, ecc. La diagnosi di disturbo post-traumatico da stress necessita che i sintomi siano sempre conseguenza di un evento critico, ma il fatto di avere vissuto un’esperienza critica non genera automaticamente un disturbo post-traumatico.
L’adozione internazionale può essere vissuta dal bambino come un evento altamente stressante, traumatico e catastrofico che determina sia il sistematico rifiuto di fronteggiare l’evento sia l’attivazione di strategie di coping orientate alla fuga cognitiva, favorendo così l'insorgere di sofferenze psicologiche, sintomi fisici e specifici problemi di personalità (Smith e Brodzinsky, 1994, 2002; Rosnati, 2010; Reinoso e Forns, 2010).
Secondo alcuni studiosi esistono, però, dei fattori protettivi che possono mediare l’impatto del trauma sui minori, tra i quali occorre ricordare: l’età e il ritmo di sviluppo del bambino; la presenza e l’efficacia di un supporto dopo il trauma, in particolare da parte della famiglia; la frequenza, la severità e la durata del trauma (Terr, 1991; Rosnati e Marta, 1997; Juffer e van Ijzendoorn, 2007; Reinoso e Forns, 2010; Storsbergen et al., 2010).
Considerazioni pedagogiche
I minori stranieri dichiarati adottabili sono largamente aumentati rispetto al passato e spesso hanno alle loro spalle esperienze fortemente traumatiche. Le sfide che sono chiamati ad affrontare sono diverse rispetto a quelle in cui si imbatte un bambino adottato da una famiglia appartenente alla sua stessa cultura ed etnia. Devono, infatti, riuscire a conciliare nel proprio percorso di vita un passato connotato da sofferenza e confusione con un presente costituito dalla nuova famiglia, che offre amore e protezione, ma che, all’inizio, è sconosciuta e può generare incertezze.
Questa situazione, se pur significativa, non deve portare però a patologizzare il fenomeno dell’adozione e, quindi, a considerarlo soltanto come un fattore di rischio. Infatti, nonostante le vicende connesse all’adozione possano comportare un carico di sofferenza per il soggetto che vi è coinvolto, la letteratura sull’argomento porta, comunque, alla strutturazione di un’immagine positiva di questo fenomeno. Inoltre, l’esperienza adottiva si configura come una soluzione riparatoria quanto più sono state drammatiche le condizioni a cui il soggetto è stato esposto prima dell’ingresso nel nuovo nucleo familiare.
Emerge, dunque, chiaramente un quadro familiare in cui i genitori necessitano, da un lato, di azioni di supporto psicopedagogico e, dall’altro, di una specifica formazione in ambito interculturale. Sicuramente, di vitale importanza è l’istituzione di servizi sociali costituiti da un’équipe specializzata in grado di supportare psicologicamente e pedagogicamente genitori e figli adottivi. Nello specifico, secondo Del Bene, Rossetti e Vaglio (2005) tali servizi dovrebbero offrire competenze tecniche specifiche, quali:
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valutazione e selezione degli aspiranti genitori adottanti;
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aggiornamento costante degli operatori mediante corsi di formazione professionale specifica;
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sensibilizzazione dei genitori alle reali problematiche inerenti l’adozione;
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supporto alle famiglie anche dopo l’anno di affidamento preadottivo;
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creazione di gruppi di mutuo-aiuto tra le famiglie adottive al fine di promuovere la solidarietà, lo scambio e il confronto tra persone con gli stessi problemi.
Inoltre, Crisma, Volpato e Pomicino (2006) individuano nell’atteggiamento dei genitori un altro elemento fondamentale per la riuscita del legame adottivo. A tale proposito, affermano che i genitori devono porsi l’obiettivo di sviluppare, in se stessi e nei figli, la consapevolezza della differenza etnica, la multiculturalità e la capacità di contrastare il razzismo. Nello specifico, le autrici sostengono che, per migliorare la consapevolezza della differenza etnica, i genitori dovrebbero:
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essere in grado di riconoscere i propri pregiudizi razziali e gli stereotipi che si potrebbero avere nei confronti di altri gruppi etnici, in particolare di quello a cui appartiene il minore;
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sforzarsi continuamente di modificare i propri pregiudizi e stereotipi;
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continuare a sviluppare la conoscenza e il rispetto verso la cultura e la storia del Paese del minore;
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comprendere i bisogni specifici del bambino relativamente alla sua provenienza etnica;
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esaminare i propri sentimenti rispetto alle coppie e ai matrimoni misti, e rendersi conto che gli altri considerano diversa la propria famiglia;
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essere consapevoli che il bambino potrà essere trattato ingiustamente a causa del razzismo e prepararsi, quindi, a fronteggiare tali situazioni per proteggerlo efficacemente.
Per favorire la multiculturalità, i genitori dovrebbero:
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sviluppare amicizie con persone e famiglie di altra etnia, meglio ancora se della stessa del minore;
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comprare libri, giocattoli e bambole con tratti simili a quelli del bambino;
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fare in modo che gli insegnanti siano consapevoli della differenza etnica;
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includere tra gli eventi festeggiati dalla famiglia le tradizioni della cultura di provenienza del minore;
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offrire al bambino l’opportunità di apprendere la sua lingua di origine, di ascoltare la musica del suo Paese, di apprezzarne la cucina, la tradizione artistica, l’artigianato, la religione, ecc.;
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visitare il Paese o la comunità di provenienza del minore;
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cercare servizi e contatti personali che sostengano nella comunità l’identità etnica del bambino.
Per evitare forme di stereotipizzazione sarebbe altresì auspicabile che alle strategie multiculturali si affiancassero e si integrassero quelle dell’intercultura (ad esempio ascolto attivo, dialogo, incontro, confronto, interazione, ecc.), al fine sia di favorire il processo di costruzione dell’identità personale e sociale sia di promuovere maggiormente i processo di integrazione.
Infine, riprendendo il pensiero di Crisma, Volpato e Pomicino (2006), per contrastare il razzismo i genitori dovrebbero:
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aiutare il bambino a riconoscere e affrontare il razzismo, parlandone apertamente in casa e in sua presenza;
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essere consapevoli degli atteggiamenti degli amici e dei familiari rispetto alla differenza etnica del minore;
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sviluppare nel bambino l’orgoglio per la propria provenienza;
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non tollerare alcun commento distorto su qualsiasi gruppo di persone;
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cercare il sostegno di persone che vivono la stessa esperienza al fine di affrontare più proficuamente la frustrazione derivante dagli atti di razzismo espliciti e latenti rivolti al minore;
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aiutare il bambino a capire che il fatto di essere discriminati non ha nulla a che fare con la presenza di limiti personali;
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riconoscere e accettare le emozioni del bambino, anche quando si tratta di rabbia o dolore provocati da atteggiamenti e comportamenti discriminanti.
L’individuazione di tali obiettivi mette in evidenza, ancora una volta, che ai genitori è richiesto molto affinché il patto adottivo vada a buon fine. Ciò implica che i genitori non possono essere lasciati da soli, ma dovranno essere sempre supportati da interventi di sostegno mirati che dovranno implementarsi sia durante l’iter pre-adottivo sia durante la fase di consolidamento del nuovo nucleo familiare.
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[1] La Commissione per le Adozioni Internazionali, con la collaborazione dell’Istituto degli Innocenti di Firenze, ha realizzato un report al fine di fornire un’analisi del fenomeno delle adozioni internazionali. Dalla lettura del report si evince che, nei 13 anni trascorsi tra il 16 novembre 2000 e il 31 dicembre 2013, i bambini stranieri autorizzati all’ingresso in Italia a fini adottivi sono stati 42.048. In particolare emerge che, nel quinquennio 2000-2005, si sono avute mediamente poco meno di 220 autorizzazioni al mese; nel quinquennio 2006-2010, sono stati autorizzati all’ingresso mediamente circa 311 minori al mese; nel triennio 2011-2013, si sono avuti 9.953 ingressi, pari a una media mensile di poco superiore alle 275 autorizzazioni all'ingresso.