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LE DISPERSIONI SCOLASTICHE DI ALUNNI E INSEGNANTI

Giovanna Guerzoni

Ricercatore confermato in Discipline Demoetnoantropologiche, presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli studi di Bologna. È docente di Antropologia Culturale presso il C.d.S in Educatore sociale e culturale e in Educatore nei servizi per l’infanzia della Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione (Università di Bologna). È attualmente Coordinatore del C.d.S in Educatore Sociale e Culturale e responsabile scientifico del Csge (Centro studi sul genere e l’educazione). È anche Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Gramsci Emilia-Romagna.


Abstract

L’articolo analizza il tema della dispersione scolastica attraverso il filtro di una serie di ricerche antropologiche sul campo che hanno mirato ad analizzare il fenomeno nel quadro dei più vasti contesti sociali — scuola, famiglia, città — in cui esso si inserisce. Il disagio, l’insuccesso e l’abbandono scolastico vengono quindi osservati all’interno delle dinamiche sociali e strutturali che dentro e fuori la scuola ne determinano le ragioni oggettive e sono messi a confronto con le esperienze soggettive e i vissuti degli adolescenti. La scuola emerge quindi come uno spazio di forte conflitto fra pratiche e saperi istituzionali e informali che i soggetti — insegnanti e studenti — agiscono dentro i processi di orientamento, di valutazione e di insegnamento-apprendimento.



Il tema dell’insuccesso, della disaffezione e dell’abbandono scolastico dei giovani ha costituito e costituisce tuttora — con nuove enfasi a seguito dell’attuale crisi economica — un argomento di dibattito a livello europeo. Nell’ambito del Consiglio Europeo del 2000 tenutosi a Lisbona, l’Unione Europea ha definito la questione dell’insuccesso scolastico come «il numero di giovani di età compresa fra i 18 e 24 anni che hanno conseguito solo una qualifica di scuola secondaria inferiore e che non sono inseriti in percorsi di educazione o formazione» (Programma di lavoro “Istruzione e formazione 2010”, ET 2010).

È stato stabilito che entro il 2010 la proporzione di giovani che abbandonano la scuola — gli ESL: (Early School Leavers) — non avrebbe dovuto superare il 10% (Programma di lavoro Istruzione e Formazione 2010, ET 2010). Nel 2006 la dispersione scolastica si attestava al di sotto di questo benchmark solo in 6 dei 27 Paesi membri (Austria, Repubblica Slovacca, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia e Croazia). Negli altri 21 Paesi della comunità europea la media dell’abbandono scolastico si attestava intorno al 18% ed è ulteriormente peggiorata con l’aumentare in tutta Europa della percentuale dei cosiddetti NEET — Not in Education, Employment or Training —, ovvero dei giovani di età compresa fra i 15 e i 29 anni non più inseriti in percorsi di educazione/formazione ma nemmeno impegnati in un’attività lavorativa —, che in Italia costituiscono addirittura il 26% della popolazione giovanile, la percentuale più alta fra tutti i Paesi europei [1] dopo la Grecia.

Il bisogno di contabilizzare il fenomeno della dispersione è emerso con insistenza nell’ultimo decennio in seguito al progetto politico di costituzione dell’Unione Europea, la cui appartenenza da parte degli Stati è regolata dal raggiungimento di determinati standard economici e qualitativi in diversi campi, tra cui quello dell’istruzione.

Il paradigma economicistico che caratterizza il progetto politico dell’Unione Europea è evidente anche nella definizione degli standard sull’istruzione su cui ogni Stato si deve allineare per fare dell'Europa «l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggiore coesione sociale» [2] entro il 2010.

Pur non potendo, in questa sede, entrare nel dettaglio delle questioni metodologiche di rilevamento statistico in base alle quali alcuni autori hanno potuto sostenere che, in realtà, la situazione di insuccesso/dispersione scolastica in Italia sarebbe di gran lunga peggiore (Cecchi, 2014), uno dei problemi nel misurare il raggiungimento degli obiettivi politici stabiliti nel campo dell’istruzione a livello europeo è che spesso vengono utilizzati dati statistici senza chiarire quali indicatori siano stati presi in considerazione. Ad esempio, rispetto alla rilevazione Istat della percentuale dei NEET in Italia, il dato si riferisce «alla popolazione in età 15-29 anni né occupata, né inserita in un percorso di istruzione o formazione. Il riferimento è a qualsiasi tipo di istruzione scolastica/universitaria e a qualsiasi tipo di attività formativa (corsi di formazione professionale regionale, altri tipi di corsi di formazione professionale, altre attività formative quali seminari, conferenze, lezioni private, corsi di lingua, informatica, ecc.), con la sola esclusione delle attività formative “informali” quali l’autoapprendimento. Dalla condizione di NEET sono dunque esclusi non solo i giovani impegnati in attività formative regolari (dette anche “formali”), ma anche quelli che svolgono attività formative cosiddette “non formali”. L’aggregato non si compone soltanto di giovani inattivi non interessati a lavorare, tanto che una parte considerevole di esso (peraltro in crescita negli ultimi anni) è costituita da giovani alla ricerca di lavoro o comunque disponibili a lavorare» (Cecchi, 2014). [3]

Il dato sui NEET non conteggia in questa quota anche quei giovani che, essendo semplicemente in attesa di un’occupazione, seguono un qualsiasi corso di formazione-parcheggio per disoccupati, corsi che, soprattutto nel Sud dell’Italia, proliferano e sono divenuti un autentico business poiché risultano indiscriminatamente finanziati da enti locali e organismi europei che tentano di adottare una “cura” palliativa alla piaga della disoccupazione giovanile. [4]

Un’analisi esclusivamente quantitativa del fenomeno della dispersione scolastica, slegata dalle specificità territoriali, dall'analisi delle diverse politiche delle istituzioni regionali — le più attive nel campo del contrasto alla dispersione —, inconsapevole dei processi storici di lunga durata che interessano la scuola italiana nei suoi diversi ordini e gradi, delle condizioni strutturali che determinano le politiche e le pratiche scolastiche, così come disattenta ai mutamenti culturali della società che in esse si riflettono, non può che produrre visioni parziali, spesso deformate, del fenomeno. In questa prospettiva, sia parte del mondo della ricerca che della scuola lamentano l’assenza di linee di analisi in grado di collocare l’esame dei dati statistici all’interno delle scelte politiche più ampie riguardo l’istruzione fino alla specificità degli interventi locali.

L’antropologia dell’educazione a livello internazionale propone nuove piste di analisi teorica e nuove metodologie di ricerca, aiutando a chiarire aspetti che spesso sfuggono alle indagini macro sulla dispersione scolastica, rivolgendosi a un approccio etnografico che fa di ciascun case study un microcosmo in cui sia possibile tenere insieme nell’analisi la trasversalità delle questioni e la specificità delle traiettorie biografiche dei soggetti implicati nel contesto, sperimentando nuovi repertori e modelli interpretativi che possono contribuire all’analisi del fenomeno anche in altri contesti. In particolare, il fatto di non interrogarsi sui paradigmi di pensiero e i punti di osservazione attraverso i quali come scienziati sociali guardiamo il fenomeno produce ricerche tautologiche che sono capaci di descrivere la dispersione scolastica ma non di analizzarne in modo radicalmente critico i processi causali, le traiettorie di vita che producono e le logiche sociali che vi sono sottese e, quindi, di suggerire agli insegnanti strumenti concreti di intervento e piste di lavoro.

 

Antropologia della dispersione scolastica. Una traiettoria di ricerca

 

La nostra ricerca di campo [5] ha avuto il vantaggio di poter essere costruita secondo una prospettiva di “lunga durata” attraverso una serie di ricerche [6] che ci hanno condotto gradualmente dentro i contesti scolastici, ma che non hanno assunto la scuola come terreno privilegiato ed esclusivo per un’etnografia delle giovani generazioni che spesso destano apprensione più che attenzione da parte degli adulti: giovani figli dell'immigrazione, seconde generazioni, ragazzi devianti, adolescenti in rotta di collisione con le loro famiglie e con l'ordinamento sociale osservati dentro la città, i quartieri, gli itinerari migratori, le carceri, le comunità minorili d'accoglienza, i centri educativi e, infine, all’interno della scuola.

Questo approccio ci ha permesso di considerare i protagonisti delle nostre ricerche, ovvero ragazze e ragazzi generalmente collocati nella fase della vita che va dalla preadolescenza all'adolescenza — e in alcuni casi la generazione immediatamente successiva alla loro, quella dei giovani fino ai trent'anni — non solo in relazione ai loro più o meno accidentati percorsi di istruzione e formazione, ma anche dentro le molteplici sfere di relazioni e spazi sociali e fisici che essi attraversano nella loro esperienza quotidiana.

Il nostro interesse per il tema della dispersione scolastica si posiziona dunque dentro un processo costituito da una costellazione di ricerche sugli aspetti e i contesti di vita che possono aiutarci a descrivere l'esperienza contemporanea di alcuni giovani — quelli più a rischio di marginalità sociale —, cogliendo nel fenomeno del disagio scolastico un “luogo privilegiato” di analisi del profilo generale delle nostre società attuali e future.

L'antropologia contemporanea ha affinato nel tempo le proprie metodologie di ricerca, ad esempio nel campo delle migrazioni internazionali, quando alcuni studiosi, a partire da Sayad (2002), hanno compreso la necessità di studiare le migrazioni non come un fatto sociale statico ma come un processo dinamico che convoglia uomini, cose e saperi — quindi intere sfere di vita — dentro un andirivieni concreto, immaginario e simbolico fra luoghi di origine, luoghi di transito e luoghi di approdo. Questa consapevolezza ha portato i ricercatori sul campo a spostarsi seguendo i flussi sempre più densi e mobili delle migrazioni globali e a osservare il qui e ora del campo attraverso la lente dell'altrove nel tempo e nello spazio adottando una metodologia generalmente definita di “etnografia multisituata”. Analogamente alla sfuggevolezza e mutabilità di soggetti sociali come gli adolescenti le metodologie di ricerca devono contrapporre la capacità di esplorare nel confine mobile fra dentro/fuori gli spazi come quelli scolastici il senso della loro esperienza.

Per gli adolescenti — provenienti da famiglie di origine che ne determinano la storia, il capitale sociale e i contesti di pratiche e culture, in transito dentro istituzioni come la scuola che cercano di funzionalizzare i loro habitus di cittadini e lavoratori al modello di società dominante, in approdo verso un’esistenza adulta condizionata da una molteplicità di agenzie di socializzazione, produzione e consumo che ne influenzano le traiettorie e le scelte di vita — lo spazio scolastico finisce per costituire un’istantanea di un campo sociale più vasto, un’istantanea in cui si possono leggere i repertori di possibilità e i condizionamenti strutturali in cui i giovani osservati hanno l’opportunità di agire le loro scelte future.

È alla luce di questa permeabilità fra ambiti scolastici e non scolastici — e non in un’esclusiva analisi della morfologia dell'istituzione scolastica o delle interazioni al suo interno — che abbiamo osservato la cultura di strada dei giovani, lo strutturarsi dei ruoli femminili e maschili, l'insuccesso scolastico, i rapporti di potere e le reciproche rappresentazioni fra insegnanti e studenti, le interazioni delle istituzioni scolastiche con le famiglie migranti, le politiche educative e formative delle istituzioni locali e nazionali dentro le scuole, l'influenza di classe, genere, generazione e cultura nella costruzione del capitale sociale dei giovani, ecc.

Posizionare la ricerca sul crinale di un andirivieni fra spazi scolastici e spazi urbani implica l’assunzione di un paradigma di osservazione per nulla neutrale e denso di conseguenze teoriche. In primo luogo, significa optare per un cambiamento radicale di prospettiva rispetto a un non detto implicito che sottende a molte ricerche concernenti la scuola che ricalcano un senso comune molto diffuso anche tra gli insegnanti: quello cioè di pensare la scuola come un “mondo a parte”, al riparo dai rapidi mutamenti della società — o flessibile ad essi solo in senso progressista — e soprattutto al riparo dai conflitti e dalle tensioni che la animano.

Questa narrazione della scuola come “luogo neutrale” è, in fondo, un racconto prodotto dalla stessa istituzione, che così legittima se stessa e afferma il proprio naturale ed esclusivo monopolio dell'istruzione vidimando le competenze culturali di ogni studente e strutturandole in gerarchie ben ordinate. In questa tendenza delle istituzioni scolastiche si riflette la resistenza al riconoscimento dentro i propri percorsi formativi di tutti quegli apprendimenti non formali che esulano dal campo delle materie scolastiche, ma che costituiscono competenze di cittadinanza cruciali per i giovani e in cui saperi teorici (come ad esempio il diritto, la storia, l’economia, ecc.) possono essere sperimentati attraverso l’esperienza dei campi sociali quotidiani in cui li vediamo applicarsi.

La scuola appare invece soprattutto una zona di conflitto permanente, dove quotidianamente si confrontano visioni politiche contrapposte, si consumano conflitti di classe generalmente rimossi dal politicamente corretto del discorso pubblico attuale e dove gli adolescenti introducono a forza visioni, linguaggi e immaginari in larga parte influenzati dal potente mercato dei consumi giovanili. Da questo posizionamento è possibile osservare la scuola come uno spazio agito da soggetti e dinamiche molteplici, a volte non direttamente visibili ma riflesse nelle spazio scolastico, facendo quindi attenzione a ciò che gli attori e i documenti ufficiali dicono, alle esperienze che gli attori “utenti” della scuola — genitori e ragazzi — mormorano, e al brusio di fondo che permea e condiziona entrambi i discorsi. Dentro questa impostazione di ricerca abbiamo considerato la dispersione scolastica non un evento, ma un processo che si inserisce dentro un continuum di dispersioni sociali che non coinvolgono solo i ragazzi ma anche le famiglie che disinvestono nell'istruzione per i figli e gli stessi insegnanti, divisi e smarriti sul senso e i fini della loro azione educativa prima che formativa.

 

"Ceci n'est pas une pipe"

 

La scuola, contrariamente a quello che pensa la società degli adulti, pur essendo il luogo in cui la maggior parte degli adolescenti passa buona parte della propria giornata e in cui concentra e sviluppa larga parte delle proprie reti sociali, non è nella sua funzione di istituzione che dispensa istruzione e titoli che attestano il raggiungimento di qualifiche formative che diviene un luogo significativo per i giovani.

 I: Io vengo a scuola ma non me ne frega niente della scuola. Vengo qui perché incontro gli amici e altrimenti mi annoio a stare tutto il giorno a casa. Vengo qui e faccio quello che mi pare.

R: Ma i professori non sono molto contenti, mi pare...

I: Sì, ma non mi interessa, per me è come se non ci fossero, io vengo qui per incontrare gente. Scherziamo, fumiamo, ci divertiamo. Tanto io il prossimo anno cambio scuola perché qui non ci sto a fare niente, vado a fare la parrucchiera come ha fatto mia sorella, quest'anno lo so che è perso, quindi perché mi dovrei impegnare? Non ha senso per me questa scuola.

(Irma, 15 anni) [7]

 

Irma è una ragazza che frequenta un istituto professionale a Bologna. Tutti i giorni si alza alle 5.30 del mattino perché abita fuori Bologna, vicino Porretta. Prende prima un treno e poi un autobus per arrivare in autostazione, dove si ritrova la mattina con il numeroso gruppo di ragazzi pendolari che giungono a Bologna dalle provincie e dai paesi limitrofi per frequentare le scuole superiori. L'autostazione è il primo luogo di concentramento dei ragazzi, dove la mattina le “balotte” [8] si organizzano non necessariamente per scuole ma per aree della città in cui certe scuole sono localizzate: i gruppi si strutturano, a volte la decisione di non andare a scuola avviene in autostazione perché circola fra i ragazzi la notizia che c'è qualcosa di meglio da fare in città o perché un membro di una balotta deve evitare una verifica e con un “effetto domino” cerca la complicità di altri membri del gruppo riuscendo a coinvolgerli.

Per Irma la scuola rappresenta soprattutto l'occasione per fare esperienza della città, per ottenere una certa autonomia nei suoi spostamenti quotidiani, per sottrarsi al controllo della famiglia e del piccolo paese. Ma la Bologna di Irma è una città dalla mappa disegnata tramite la soggettività generazionale dei suoi pari, in cui di fatto l'orientamento è dato dalla piazza centrale della città, sede di una biblioteca — Salaborsa — punto di incontro di molti giovani non per la sua funzione di biblioteca ma per la facilità di accesso e di sosta nel suo vasto spazio di ingresso, per il comfort dei suoi locali e per la possibilità di accedere alla rete libera wi-fi, dal McDonald's nel centro della zona commerciale della città, dalle strade dei negozi e dello shopping di moda per adolescenti caratterizzate dalla presenza delle grandi catene dell'abbigliamento usa e getta, dalla localizzazione di alcune scuole — generalmente istituti tecnici o professionali come quello che Irma frequenta e non i licei che sono percepiti come frequentati da ragazzi distanti socialmente e culturalmente — e dai punti di ritrovo delle diverse balotte (Guerzoni e Riccio, 2009).

I ragazzi come Irma vivono gli spazi istituzionali come quello della scuola ingaggiando un conflitto logorante e basato su microtattiche (De Certeau, 2010) quotidiane di resistenza (Willis, 2012) contro il monopolio del significato e delle funzioni che gli adulti e gli insegnanti attribuiscono alla scuola, scatenando conflitti e forti attriti con il corpo docente, appunto “ignorato”, evitato, sabotato attraverso azioni di disturbo e di sfida “laterali”, come mostrare disinteresse, produrre un brusio di fondo costante durante le lezioni, dormire sul banco, indossare un berretto di lana fino agli occhi conoscendo l'avversione degli insegnanti per i copricapi in classe, ridere continuamente senza motivo.

 

Entriamo in classe nel cambio dell’ora per condurre i laboratori. Elton è appollaiato su un banco, muove le braccia ed emette i suoni acuti di un’aquila. Sandro a qualsiasi nostra richiesta di spostare il banco risponde con uno sguardo vacuo e con frasi sconnesse, si muove lentissimamente e volutamente striscia il banco per produrre un rumore assordante. Bruno, la sua spalla in una sorta di coppia comica che formano insieme, fa l’ubriaco ondeggiando con braccia roteanti che fanno cadere tutto dai banchi. Il gruppetto delle “bad girls” a cui appartengono Irma, Hamal, Aisha, insieme ai battitori liberi Abdelkarim e Andrej, fomentano come un pubblico di fan il gruppo di ragazzi intenti nello show.

Le bad girls si distinguono dalle altre ragazze della classe per stile e atteggiamento: sempre in trio indissolubile, capelli stirati, decolorati in un biondo abbacinante, trucco pesante sugli occhi per sembrare più grandi, abbigliamento che mescola stili diversi, un po’ sportivo un po’ militare, con la regola aurea di indossare cotone e tessuti sintetici inopportuni per il freddo invernale. Il resto della classe subisce tutto il gruppo in movimento con aria rassegnata. La situazione si ricompone a fatica dopo circa venti minuti di totale caos, ma le azioni di disturbo continuano per tutte le due ore successive in modo sommesso. Elton alla fine si addormenterà platealmente sul banco, Sandro continuerà a fare battute surreali “smontando” con la sua ironia qualsiasi tentativo di fare una discussione collettiva, Andrej chiederà tre volte di andare in bagno mentre per il resto del tempo sarà intento a mandare messaggi con il suo telefonino senza preoccuparsi di quello che gli accade intorno. Le bad girls faticosamente mescolate da noi con gli altri gruppi di ragazzi inizieranno a diversificare i loro atteggiamenti di sfida tranne Irma, visibilmente passiva, annoiata e ostentatamente muta. (Dai Diari di campo – Bologna 2015)

 

Del gruppo descritto alla fine dell’anno, dopo una serie di sospensioni molto lunghe, Elton, Andrej e Irma lasceranno la scuola per la formazione professionale, gli altri saranno bocciati o rimandati a settembre. Il clima di scontro fra insegnanti, bidelli e ragazzi della classe si acerba nel corso dei mesi, toccando i toni di una vera e propria guerra per la sopravvivenza.

 

Questi ragazzi vanno sospesi perché la scuola non è per tutti. (Insegnante 1)

Dobbiamo riprendere fiato e tenerli lontani per un po’, noi non ce la facciamo più ci sono colleghi che vanno in crisi al solo pensiero di entrare in quella classe. (Insegnante 2)

Bisogna mostrare il pugno duro, perché solo con il pugno duro loro possono rispettarci, bisogna smetterla con il buonismo, noi non siamo assistenti sociali, non ci interessa sapere dei loro problemi. (Insegnante 3)

Sono dei maleducati, hanno genitori che non li seguono, mia figlia non si comporta in questo modo e voi che volete per forza tenerli a scuola danneggiate tutti gli altri che si comportano bene. La scuola è per chi la merita. (Bidella)

 

Orientamenti senza orizzonti

 

Abbiamo conosciuto Irma perché siamo stati chiamati dalla scuola a svolgere alcuni laboratori propedeutici a individuare e riorientare i ragazzi in dispersione scolastica, ma il laboratorio aveva anche progettualmente l’obiettivo di fornire agli insegnanti un supporto concreto nell'individuazione e nella gestione dei conflitti in aula dentro alcune classi del primo biennio segnalate dai docenti nei consigli di classe come particolarmente difficili.

R: Com'è che hai scelto questa scuola e questo indirizzo?

I: Io volevo iscrivermi al Turistico, poi non so perché hanno cancellato questo indirizzo e mi hanno messo in questo Operatore al punto vendita.

R: Ma tu sapevi in cosa consisteva e quali materie si studiano in questo indirizzo?

I: Boh, comunque fa schifo, alla fine per fare la commessa mica devo fare una scuola, no? Qui non si impara niente, non fai nemmeno gli stage. Io gliel'ho data su, quest'anno tanto è perso, il prossimo anno andrò alla formazione professionale, al corso di estetista e parrucchiera che ha fatto anche mia sorella. (Irma, 15 anni)

 

Nella fase di orientamento nell'ultimo anno della scuola secondaria di primo grado Irma non è stata indirizzata in base alle sue inclinazioni o ai suoi desideri, ma le è stato consigliato semplicemente di iscriversi a un Istituto professionale a causa del suo scarso rendimento scolastico. Essendo una ragazza è stata orientata verso un profilo professionale “femminile” e, quindi, verso un professionale con indirizzo nel settore turistico, per ritrovarsi poi inconsapevolmente iscritta a un corso per Operatore al punto vendita.

Fra gli istituti professionali presenti nella provincia di Bologna, inoltre, le è stato consigliato di frequentare quello che, essendo nel sistema regionale di Istruzione e Formazione Professionale (IeFP), le avrebbe consentito di conseguire una qualifica professionale dopo tre anni, in previsione di una sua scarsa tenuta scolastica.

Nel 2008, in seguito alla cosiddetta “Riforma Gelmini”, gli Istituti Professionali (IP) subiscono profondi mutamenti a partire dal 2010-2011, anno di attuazione della legge nella scuola secondaria di secondo grado.

La formazione professionale in Italia è stata sempre storicamente divisa tra un’istruzione professionale di competenza statale e assolta dentro gli Istituti Professionali (IP), che rilasciavano diplomi quinquennali validi in tutto il territorio nazionale, e una formazione professionale di competenza delle Regioni e assolta dai diversi enti di formazione professionale (FP) privati, spesso di natura confessionale e accreditati localmente, che rilasciavano qualifiche valide solo a livello regionale.

Con la riforma e l’istituzione del sistema IeFP la formazione professionale gestita dalle Regioni entra a fare parte del sistema nazionale d’istruzione e ogni territorio comincia a organizzare il sistema secondo regole proprie, ma nel quadro di standard nazionali. In Emilia Romagna, al termine della scuola secondaria di primo grado uno studente può orientarsi verso un Istituto Professionale e svolgere un percorso che lo porterà alla fine del quinquennio al raggiungimento di un diploma di scuola secondaria superiore, oppure può scegliere un percorso IeFP che, dopo tre anni, lo condurrà a una qualifica di formazione professionale riconosciuta a livello nazionale ed europeo. La Regione stabilisce che lo studente che voglia scegliere un percorso di qualifica di tre anni debba frequentare obbligatoriamente il primo anno in un IP che ha attivato i percorsi di qualifica; dal secondo anno potrà invece scegliere se continuare il suo percorso dentro lo stesso IP o passare alla FP. Al conseguimento della qualifica triennale lo studente può scegliere di proseguire il suo percorso fino al diploma, ma nel caso abbia acquisito la qualifica dentro la FP sarà l’Istituto Professionale a valutare se le competenze acquisite sono sufficienti per una sua iscrizione al quarto anno.

I ragazzi come Irma vivono il primo anno di iscrizione obbligatorio presso un IP come una perdita di tempo, una sorta di limbo in cui sostare senza obiettivi prima di passare alla FP, caratterizzata da una didattica laboratoriale e da lunghi periodi di stage nelle aziende e per questo più attrattiva per i ragazzi in rotta con la scuola. La FP si contraddistingue inoltre per classi meno numerose, per una didattica sperimentale e più innovativa perché slegata dall’attuazione di programmi obbligatori e per la presenza di figure come i tutor che seguono da vicino i ragazzi quotidianamente.

Il passaggio alla FP al secondo anno non è condizionato alla promozione ma è sufficiente essere scrutinati, avere frequentato quindi almeno tre quarti delle ore di scuola previste dal proprio istituto.

Gli IP fanno difficoltà a competere con l’offerta triennale della FP perché molto più costretti da vincoli burocratici — ad esempio sulle uscite da scuola, sugli orari, sulle regole di utilizzo degli spazi —, da un’impreparazione del corpo docente ad aggiornare le proprie metodologie didattiche, ancora spesso legate a forme trasmissive del sapere e non aggiornate alle realtà e alle tecnologie che pervadono il mondo giovanile; nell’ultimo decennio la scuola ha inoltre subito i tagli di risorse (finanziarie e umane) che la riforma Gelmini ha imposto, compresi i tagli alle ore di didattica laboratoriale negli IP, snaturando di fatto la loro natura di scuola orientata all’acquisizione di saperi pratici specifici e orientati al mondo delle professioni.

Anche se l’istituzione del sistema IeFP dovrebbe fare cooperare mondi e sistemi formativi storicamente e anche istituzionalmente distanti, in diverse occasioni nella nostra ricerca abbiamo rilevato forme di resistenza da parte soprattutto del corpo docente degli IP, preoccupato di dovere finire per accettare un’omologazione del proprio lavoro a quello degli enti di formazione professionale, dove lavorano insegnanti che non sono inseriti nel sistema di reclutamento del corpo docente nella pubblica istruzione. Il timore è soprattutto quello di un lento assorbimento della IP sotto la responsabilità delle Regioni e, quindi, di una perdita di status dovuta all’appartenenza al pubblico impiego statale, di una precarizzazione della propria condizione di lavoro e di una dequalificazione del proprio ruolo di insegnanti.

La presenza del sistema IeFP garantisce agli studenti che la scuola non riesce a trattenere la possibilità di proseguire il proprio percorso di studi e di arrivare a una qualifica, lasciando aperta la possibilità di un loro ritorno nel percorso scolastico in una fase di vita più matura e al decantare delle turbolenze dell’adolescenza. Molti insegnanti, pur consapevoli che le ripetute bocciature sono il prodromo della dispersione scolastica, preferiscono non interrogarsi sul destino dei “persi per strada”, quasi fossero un inevitabile scarto dentro un processo di selezione scolastica che per legittimarsi ha bisogno di vincitori e perdenti e dentro una concezione agonistica della scuola e della società nel suo complesso.

In questo contesto la classe di Irma concentra una serie di caratteristiche sfavorevoli che ne hanno determinato la sua “esplosione” e ingovernabilità da parte degli insegnanti già dopo i primi mesi di scuola: alto numero di studenti dentro uno spazio angusto e sviluppato in lunghezza, con poche possibilità quindi di organizzare spazi di lavoro per gruppi; concentrazione nella classe di una serie di ragazzi a rischio di dispersione scolastica e con situazioni familiari complesse che rendono alcuni studenti altamente problematici e conflittuali verso gli adulti; incapacità degli insegnanti di fare gruppo e di cooperare facendo tesoro delle esperienze di alcuni insegnanti che, nel corso dei mesi, erano riusciti a stabilire con l’intera classe rapporti di fiducia positivi e disponibili a adattare i contenuti della propria didattica a uno stile educativo basato sul dialogo.

 

Ricercatori: Perché con l’insegnante B. riuscite a svolgere le lezioni e avete un buon rapporto?

Studenti: Perché da B. ci sentiamo rispettati e ascoltati. All’inizio dell’anno ci ha fatto fare un lavoro su noi stessi, ci ha chiesto di presentarci, di dire chi eravamo, non ci ha trattato come se fossimo senza identità. Le sue lezioni non sono noiose, riesce a coinvolgerci sempre con cose nuove.

 

Un corpo docente liquefatto

 

Con una provocazione potremmo descrivere il corpo docente della scuola in cui abbiamo fatto ricerca in uno stato di liquidità, riprendendo l’abusata definizione utilizzata dal sociologo Bauman (2002) per descrivere l’indebolimento dei legami sociali e la mancanza di coesione che caratterizza i tempi attuali. Ma forse un corpo docente con una chiara idea delle proprie funzioni, del compito costituzionale di formazione alla cittadinanza e del diritto all’istruzione per tutti non c’è mai stato; nella scuola contano le minoranze attive [9] (in passato non a caso definite “militanti”) di insegnanti che si interrogano sulla propria pratica quotidiana, sul senso della loro professione, sul ruolo della scuola come istituzione pubblica e democratica.

 

Il nostro compito è insegnare la nostra materia, noi ci sentiamo sviliti a fare gli educatori o gli assistenti sociali. Se dobbiamo aggiornarci dobbiamo essere pagati per farlo. Gli insegnanti italiani sono i meno pagati in Europa! (Insegnante 4)

 

Spesso nelle scuole manca un ethos condiviso dentro il quale tutti gli insegnanti in quanto gruppo elaborino le proprie norme, i propri valori e regole di comporamento. L’identità di una scuola diventa allora un terreno di battaglia fra le contrapposte visioni politiche degli insegnanti e il nodo del contendere è spesso una dicotomia sotterranea che agisce a livello ideologico fra un’idea di “scuola inclusiva” — quindi che “attira” un’utenza difficile — e una di “scuola selettiva” in alcuni casi “differenzialista” — che invece aumenta il valore sociale e l’immagine di un istituto, selezionando i propri “utenti”.

Queste visioni, nella nostra esperienza di ricerca, agiscono al di là delle differenze di indirizzo fra le scuole e attraverso alcune strategie di selezione — gestione delle iscrizioni, formazione delle classi e costruzione di sezioni dove vengono inseriti gli studenti con i profitti più alti — canalizzano in modo capillare gli studenti in base a precise gerarchie sociali dentro le classi.

 

Dentro la nostra scuola noi insegnanti che lavoriamo sull’accoglienza e l’integrazione siamo visti molto male dagli altri colleghi perché loro pensano che i nostri progetti non fanno altro che attirare in questa scuola ragazzi difficili, che vengono mandati qui anche dai servizi educativi perché gli educatori sanno che noi cerchiamo soluzioni per i ragazzi che già dalle medie arrivano con forti difficoltà. (Insegnante 5)

 

Diciamoci la verità, a scuola ci stanno ragazzi che non dovrebbero starci. Per questi ragazzi sarebbe meglio creare degli spazi appositi separati con specialisti che possono affrontare i loro problemi e farli lavorare in modo differente ma fuori dalla scuola. Non ti devi porre il problema ideologico se il ragazzino vive la situazione come punitiva, perché ci sono situazioni così insostenibili che questo è l’ultimo dei problemi! (Insegnante 6)

 

Ad ascoltare le voci della nostra ricerca, l’ultimo dei problemi della scuola di oggi sembra essere proprio il diritto allo studio come diritto umano fondamentale attraverso una visione della scuola —e una pratica scolastica — che, rincorrendo indicatori di qualità, alimenta chi si rifiuta di ri-pensare al proprio fare docente in funzione della diversità degli studenti, ma applicando quegli stessi standard degli studenti a fini selettivi già in entrata; i dati di insuccesso scolastico e di dispersione scolastica in ogni passaggio di grado scolastico, ma in particolare al primo anno della secondaria superiore, sono in questo senso allarmanti; una scuola che produce dispersione scolastica nel momento stesso in cui delinea la figura dell’“alunno difficile”, descritto dagli insegnanti come inadatto alla scuola e quindi da subappaltare a esperti passepartout capaci di “curare” un ragazzo non “adatto” al contesto scolastico portatore di un disagio sociale a cui gli adulti non sanno rispondere.

 

 

 

 Bibliografia

 

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Guerzoni G. (2007), Percorsi scolastici e territori urbani. Urbanicità e pratiche educative nei contesti scolastici. In M. Callari Galli (a cura di), Mappe Urbane. Per un’etnografia della città, Rimini, Guaraldi.

Guerzoni G. e Riccio B. (2009), Giovani in cerca di cittadinanza. I figli dell'immigrazione tra scuola e associazionismo: Sguardi antropologici, Rimini, Guaraldi.

Melandri L. (1998), Il desiderio dissidente. Antologia della rivista L’erba voglio 1971-1977, Milano, Baldini e Castoldi.

Pettini A. (1980), Origini e sviluppo della cooperazione educativa in Italia: Dalla CTS al MCE, 1951-1958, Milano, Emme.

Sayad A. (2002), La doppia assenza. Dalle illusioni dell'emigrato alle sofferenze dell'immigrato, Milano, Raffaello Cortina.

Tubaro P. (1999), Critica della ragion Nonprofit, Roma, DeriveApprodi.

Willis P. (2012), Scegliere la fabbrica. Scuola, resistenza e riproduzione sociale, Roma, Cisu.

 

 

 

 

 

 

[1] Fonte: Istat, Rapporto Noi Italia 2015,

http://noi-italia.istat.it/index.php?id=7&user_100ind_pi1%5Bid_pagina%5D=39

[2] Il programma decennale inaugurato con la Strategia di Lisbona nel 2000 ha ispirato anche il successivo programma “Istruzione e formazione 2020” (ET 2020) attualmente in atto.

[3] D. Checchi, Qual è la misura corretta dell’abbandono scolastico in Italia?. In Id. (a cura di), Lost. Dispersione scolastica: Il costo per la collettività e il ruolo di scuole e Terzo settore, 2014, ricerca realizzata da We World-Intervita, dall’Associazione Bruno Trentin di CGIL e dalla Fondazione Giovanni Agnelli, con la collaborazione con CSVnet, http://www.intervita.it/public/CMS/Files/616/rapporto_def.pdf.

Cfr anche http://www.istat.it/archivio/52118

[4] Per un’interessante analisi sul tema cfr. P. Tubaro, Critica della ragion Nonprofit, Roma, DeriveApprodi, 1999.

[5] La ricerca sulla dispersione scolastica è stata resa possibile dalla partecipazione della cattedra di Antropologia Culturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna al progetto europeo Comenius SAS - Success At School through volunteering (http://www.successatschool.eu/), project 526187-LLP-1-2012-FR-Comenius CMP. Il progetto (2012-2014) nasce dalla collaborazione di sette équipe di sei diverse nazioni europee: Gran Bretagna (University of Northampton), Francia (Associazione Assfam e centro di ricerca Iriv), Italia (Università di Bologna), Portogallo (Centro di ricerca Cies-Uil), Slovenia (Istituto Ergo), Bulgaria (New Bulgarian University). Il gruppo di ricerca di Antropologia Culturale è così composto: coordinamento scientifico, Giovanna Guerzoni; componenti dell’équipe di ricerca, Fulvia Antonelli (che ha svolto in particolare la ricerca sul campo e ha collaborato alla realizzazione delle altre attività previste all’interno del progetto), Francesca Crivellaro e Federica Tarabusi (che hanno seguito la fase di documentazione e il confronto con i partner europei). Tale ricerca si inserisce in un impegno di lungo periodo della cattedra di Antropologia Culturale del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna volta a considerare nuove piste di analisi della marginalità scolastica e urbana attraverso un approccio basato sull’analisi delle connessioni tra scuola, territorio e contesti urbani.

[6] G. Guerzoni, Percorsi scolastici e territori urbani. Urbanicità e pratiche educative nei contesti scolastici. In M. Callari Galli (a cura di), Mappe Urbane. Per un’etnografia della città, Rimini, Guaraldi, 2007; G. Guerzoni e B. Riccio, Giovani in cerca di cittadinanza. I figli dell'immigrazione tra scuola e associazionismo: sguardi antropologici, Rimini, Guaraldi, 2009; F. Antonelli e G. Scandurra, Tranvieri. Etnografia di una palestra di pugilato, Roma, Aracne, 2010; F. Antonelli, Ethnographie de la “malavita” mobile. In M. Peraldi (a cura di), Les mineurs migrants non accompagnés: Un défi pour les pays européens, Paris, Karthala, 2014.

[7] I nomi dei protagonisti della ricerca — studenti e insegnanti — sono ovviamente di fantasia.

[8] La balotta è come viene definito a Bologna, nello slang dei ragazzi, il gruppo di amici di riferimento e può essere intesa come la versione bolognese del termine crew nello slang del rap. Le balotte sono divise fra di loro per stili del vestire e dei consumi musicali dei giovani. Fare balotta significa fare gruppo, riunirsi ma anche divertirsi; spesso viene utilizzato anche per indicare il fumare marijuana insieme. Il vocabolo è stato molto diffuso dalla cultura musicale dei rappers locali, che hanno composto veri e propri inni alle balotte bolognesi. Nella cultura giovanile la localizzazione delle balotte nelle varie zone disegna una vera e propria controgeografia rispetto alla partizione ufficiale della città per quartieri, conferendo centralità a gruppi di caseggiati, zone dentro i quartieri storicamente percepite come separate e distinte dal resto dello spazio urbano, coagulate spesso intorno a spazi apparentemente anonimi o abbandonati, ma che sono di fatto istituiti a zone di ritrovo dei ragazzi in virtù della loro scarsa visibilità pubblica o dall'essere zone appartate rispetto ai flussi urbani della città legittima.

[9] Cfr. E. Fachinelli, L. Muraro e G. Sartori (a cura di), L’erba voglio: pratica non autoritaria nella scuola, Torino, Einaudi, 1975; L. Melandri, Il desiderio dissidente. Antologia della rivista L’erba voglio 1971-1977, Milano, Baldini e Castoldi, 1998; E. Catarsi, Freinet e la pedagogia popolare in Italia, Firenze, La Nuova Italia, 1999; A. Pettini, Origini e sviluppo della cooperazione educativa in Italia: Dalla CTS al MCE, 1951-1958, Milano, Emme, 1980; F. Cambi, La "scuola di Firenze": Da Codignola a Laporta (1950-1975), Napoli, Liguori, 1982.



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