Approfondimenti
LA CURA E L’ACCOGLIENZA NELLE NARRAZIONI DI EDUCATRICI DI NIDO D’INFANZIA. Dal sapere dell’essenziale alle sfide aperte in direzione di ragione
Stefania Lorenzini
Stefania Lorenzini è ricercatrice in Pedagogia Generale e Sociale; insegna Pedagogia Interculturale presso la Scuola di Psicologia e Scienze della Formazione, Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Università di Bologna.
Abstract
Come interpretano la cura da professioniste dell'educazione che operano con bambine e bambini nei servizi educativi 0-3 anni? L’articolo esamina alcune delle narrazioni prodotte da educatrici di nido d’infanzia, tutte donne, nel corso di approfondite interviste qualitative e di focus group, realizzati entro percorsi di ricerca . Toccando diversi temi, le educatrici hanno potuto esprimersi su ciò che intendono per cura e per accoglienza nel lavoro educativo con la prima infanzia, nel rapporto con bambini/e e famiglie di origine sia italiana sia straniera, al fine di lasciare emergere eventuali aspetti peculiari e differenti così come i possibili tratti comuni.
Come viene intesa la cura da professioniste dell'educazione che operano con bambine e bambini nei servizi educativi 0-3 anni?
Questo contributo porta l’attenzione sulle narrazioni prodotte da educatrici di nido d’infanzia, tutte donne, nel corso di approfondite interviste qualitative e di focus group, realizzati nell’ambito di percorsi di ricerca [1] in cui sono stati toccati diversi temi relativi all’esperienza professionale, anche in materia di cura con bambine e bambini in età 0-3 anni e con le loro famiglie. Le educatrici hanno potuto esprimersi su ciò che intendono per cura e per accoglienza nel lavoro educativo con la prima infanzia, nel rapporto con bambini/e e famiglie di origine sia italiana sia straniera, al fine di lasciare emergere eventuali aspetti peculiari e differenti così come i possibili tratti comuni, evitando un’indagine che riguardasse cioè solo gli “stranieri” o solo gli “autoctoni”, istituendo implicitamente gli uni e gli altri quali soggetti di appartenenze nettamente distinte e separate.
Nell’insieme delle voci raccolte con le interviste non mancano aspetti critici; tuttavia, lo esplicito, porrò qui in luce le narrazioni che risultano più articolate, tali da testimoniare punti di forza e il ricco potenziale insito nella capacità riflessiva sulle prassi educative quotidianamente progettate, attuate, vissute dalle educatrici coinvolte. Il potenziale proprio a una professionalità educativa imperniata su molteplici aspetti di una cura ancora oggi espressa quasi completamente al femminile; la presenza di educatori uomini, nei servizi rivolti alla fascia d’età più precoce, fino ai 3 anni, appare infatti in tempi recenti e in misura ancora decisamente molto ridotta, trovandosi talora a confronto con opinioni stereotipate e non del tutto favorevoli al coinvolgimento di figure maschili in ruoli di cura (Cretella et al., 2013). Una cura la cui fondamentale funzione a favore delle famiglie e dello sviluppo di bambine e bambini spesso non è sostenuta né in termini di riconoscimento e valorizzazione sociale né sul piano del trattamento economico riservato alla professionalità che la agisce. Una peculiare espressione di cura che ancora oggi fatica a trovare un’identità pienamente autonoma rispetto ai perduranti e vincolanti essenzialismi che la connettono a caratteristiche ritenute “naturalmente” proprie del “femminile” e del “materno”, tanto più tenacemente resistenti quanto più precoce è l’età dell’utenza cui si rivolge.
Dare voce alle narrazioni più ricche e ampie di educatrici dei servizi per la prima infanzia permette di porre in essere delle dinamiche che si potrebbero definire come un “girare intorno al fenomeno”, un sostare sulla descrizione di prassi e vissuti di chi ne è protagonista adulto “per coglierne il profilo originale”, sino ad evidenziarne aspetti densi e pregnanti anche da un punto di vista teorico, identificando quei modi d'essere che lo configurano in termini di buone pratiche. Interpellare i saperi, che talvolta restano impliciti, e che emergono da prassi, pratiche e relazioni che si sviluppano nei contesti concreti dell'educazione, consente di favorirne la consapevolezza in chi li esprime in gesti, azioni, parole e stili educativi, intuendone e incarnandone l’importanza; permette di rilanciarne il potenziale di estensione a patrimonio condivisibile anche da altri professionisti dell’educazione sia individualmente sia nei gruppi di lavoro. Può fare evolvere la riflessione verso prassi educative orientate alla differenza in senso problematicista; oltre la differenza che discrimina, oltre l’identità che omologa, grazie all'apertura a plurali peculiarità e possibilità.
Benché l’idea di cura espressa da molte intervistate chiami in causa, specie in prima istanza, gli aspetti legati all'accudimento del corpo, alle esigenze fisiologiche, all'alimentazione e all'igiene personale, tali aspetti vengono in diversi casi rapidamente arricchiti dal ricorso ad altri concetti.
Dare voce ai punti di forza emergenti dalle parole di alcune intervistate che descrivono cura adulta verso i più piccoli/e, vissuta e agita entro il proprio ruolo educativo, significa infatti restituire il rilievo da loro stesse attribuito alla dimensione dell'esserci, ai concetti di “accoglienza”, “attenzione”, “osservazione”, “ascolto”, “empatia”, disposizione a “entrare nel mondo del bambino” e in quello delle famiglie, al “creare benessere in ambienti di vita positivi”, e alla prioritaria finalità della “cura delle relazioni” che sostanzierebbe la qualità stessa dell’“esserci”, coinvolgendo non la globalità della persona non solo di bambine e bambini, ma anche dell’adulto in veste educativa.
Anche quando queste intervistate parlano delle pratiche connesse a routine quotidiane nella vita dei nidi d'infanzia, quali il cambio, il pasto e l'addormentamento, precisano che si tratta di momenti in cui si esprime cura, ma non dei soli, né dei più importanti: soprattutto sottolineano come essi siano attraversati da aspetti relazionali nelle cui stesse caratteristiche è individuata la principale forma di cura. Non solo, cioè, si evidenzia la centralità degli aspetti relazionali presenti nelle pratiche di cura legate al corpo, ma si individua anche nell'intenzionalità mirata alla costruzione di relazioni positive, attente e partecipate, disponibili e capaci di ascolto, e per ciò stesso accoglienti da parte dell’adulto, la principale forma di cura che può esprimersi trasversalmente a qualsiasi attività.
L'idea di cura formulata pare sostanziarsi in caratteristiche che prescindono dalla specifica attività compiuta verso e con bambini e bambine, poiché considerate rilevanti in ogni attività sia essa di routine, parte di una progettualità programmata, momento della quotidianità, del gioco libero o di qualsiasi altra circostanza della vita al nido:
Cura può essere intesa, che so, nel momento che lo cambi, stai lì fai due chiacchiere, se è molto piccolo fai le coccole sul fasciatoio, se è più grande chiacchieri, gli fai portare il pannolino. Però secondo me cura è anche se tu fai un’attività di tutt’altro genere, che so il colore, però rispondi alle sue domande, sei partecipe a quello che sta facendo. In qualsiasi attività, secondo me. Cioè, in quel momento tu sei lì, loro stanno facendo delle cose, a loro piace e tu sei lì con loro, gli parli… non intervieni in quello che stanno facendo; poi è chiaro, se loro mi richiedono vado, ma non intervengo dicendo: “questo si fa così!”. Però tu ci sei, loro colgono il tuo sguardo, secondo me questo è importante per loro. (Intervista, Ed. 1 C grandi, 2006)
Secondo me in qualsiasi momento in cui stai con un bambino hai la possibilità di far sentire al bambino che ti stai curando di lui, che lo stai accogliendo. Soprattutto quando lo prendi in braccio, lo tocchi, lo accarezzi, però non è solo una questione di contatto, secondo me è proprio l’ambiente e la tua disponibilità verso il bambino. Basta uno sguardo per far sentire un bambino compreso. (Intervista, Ed. 1 B piccoli, 2006)
Cura pare esprimersi nell'attenzione a creare un clima favorevole all'espressione della bambina/del bambino nella sua globalità, in aspetti che colorano una capacità relazionale connotata dalla disponibilità a declinarsi sul bambino riconoscendolo e accogliendolo per ciò che è, per le sue peculiarità e bisogni individuali:
Cura comprende la comprensione dei bisogni e il dare risposta a questi bisogni, l’ascolto e la conoscenza di quel bambino, la conoscenza individuale oltre che del mondo dell’infanzia. Saper ascoltare, saper comprendere; non ascoltare solo con le orecchie, ma utilizzare tutte le forme di conoscenza rispetto a quel bambino, quindi anche la collaborazione con la famiglia è una risorsa importante. Attenzione ai bisogni di tipo psicologico, affettivo, cognitivo, per capire quale tipo di stimolazioni sono necessarie a quel bambino. Queste sono forme di cura, oltre alla cura fisica […] Tutti questi momenti sono importanti per fare passare la cura. (Intervista Ed. nido 2 B grandi, 2006)
L’avere cura dunque non può basarsi su principi generali e astratti, validi universalmente, non solo almeno, perché la cura ha bisogno di un sapere che parte dalla conoscenza dei casi particolari, del bambino reale con il quale si è in relazione.
Cura sembra profilarsi come qualcosa che “passa”, che “passa attraverso” se stessi coinvolti in quanto adulti in veste educativa e, in questo modo, giunge al bambino a sua volta coinvolto, in una dimensione sempre relazionale; essa risulta coinvolgere dunque soggetti nella loro globalità, non solo il bambino verso cui è rivolta cura, ma anche l'adulto educatore, nel suo stesso “esserci”, nel suo modo di “stare nella situazione educativa”:
La mia idea di cura comprende in primo luogo l’attenzione al bambino, l’osservazione di com’è il bambino nella sua totalità, per accoglierlo, ascoltarlo e rapportarmi a lui in base a quello che mi porta. È un’integrazione, diciamo, tra me e lui. È chiaro che quello che mi porta il bambino è la prima cosa, poi entro anch’io come educatrice a livello professionale ma anche umano. Per cui è un insieme di cose che si fondono. (Intervista Ed. nido, 2 A piccoli, 2006)
Ciò che è importante nell’idea di cura di queste educatrici pare risiedere anzitutto nel come essa si esprime attraversando tutti i momenti della vita al nido e della relazione con i bambini:
Io parto dalla convinzione che al nido il primo anello indispensabile è la cura: cioè l’attenzione rivolta al bambino, alla comunicazione, alla relazione che si costruisce con lui. La cura è soprattutto saper vedere, ascoltare, tenere, contenere, accogliere e giocare. Cioè, è come l’adulto sta all'interno del gioco e di qualsiasi altro momento, anche nel gruppo dei bambini. (Intervista Ed. nido 3 A piccoli, 2006)
Se dalle interviste emerge spesso un’idea di cura strettamente connessa o persino corrispondente all'esercizio di una globale capacità di accogliere, specularmente, dai focus group è possibile rilevare il ricorso al concetto di cura per definire ciò in cui si ritiene consista l’“accoglienza” quale funzione cruciale del lavoro educativo con bambini e famiglie:
Ed. 1 – “accoglienza”: prendere cura, prendersi cura del bambino, la mamma dà il bambino a noi, accogliere il bambino, insomma. Accogliere sia i bambini che i genitori. Accoglienza… cioè… io ho sempre detto che prima bisogna accogliere il genitore e poi accogliere il bambino. Mi devo interessare prima del genitore, sia per i bambini molto piccoli, quindi devi interessarti prima al genitore e poi al bambino e, di conseguenza, dopo sarà tutto automatico. Questa è l’accoglienza, diciamo, dalla prima riunione, è in generale. Poi accoglienza del mattino, accoglienza di tutti i giorni, quindi accogliere vuole dire prendersi cura del bambino dal momento in cui il genitore ce lo porta. (Focus group 2, Ed. nido, 2011)
Secondo gran parte delle educatrici, parlando di cura e di accoglienza, riveste un’importanza centrale il rapporto con le famiglie. La cura verso le famiglie è ricondotta al vantaggio che, nell’accoglierle e nel dare vita a rapporti di fiducia con esse, può scaturirne per l’esperienza del bambino, cui viene rivolta cura anche grazie alla costruzione di relazioni positive con i suoi genitori.
Ma si evidenzia anche un’idea di cura privilegiatamente rivolta agli adulti nel ruolo genitoriale. Anche in questo caso è abbracciata una dimensione che tiene conto della globalità dell’altro e di sé nel ruolo educativo, che corrisponde a un particolare modo di essere in relazione:
Noi, come gruppo di lavoro, e io come educatrice, diamo molto spazio alla famiglia all'interno del nido, ascoltiamo molto, curiamo molto la relazione. Sono anni che […] centriamo il nostro lavoro educativo soprattutto in questo: nella cura della relazione fra bambini, fra adulti e bambini e soprattutto con le famiglie. (Intervista, Ed. nido1 B medi, 2006)
Agire secondo un’idea di cura centrata su accoglienza, osservazione, ascolto, empatia, attenzione per la relazione, rispetto delle specificità di ciascun bambino, anche in riferimento al suo contesto familiare, per queste intervistate, favorirebbe anche il riconoscimento e l’accoglienza delle diversità/peculiarità di ogni bambino, anche quando sono di origine straniera.
Si delinea l’assunzione delle diversità come qualcosa che contraddistingue e, quindi, accomuna anche tutti i bambini: cura consisterebbe nel riconoscerle, nell'accoglierle cercando di declinarsi creativamente su di esse, differenziando/personalizzando contenuti e forme della risposta al bisogno/peculiarità di ogni singolo bambino/a:
Ed. 2 – I bambini sono tutti uguali ma tutti diversi. Ogni bambino ha la sua storia, ogni persona è a sé. Cioè, accogliere le diversità è una prerogativa del nido.
[…]
Ed. 3 – Noi abbiamo l’idea che ogni bambino sia diverso dall’altro e rappresenti un patrimonio. (Focus group 1, Ed. nido, 2011)
Come ho detto prima, riguardo ai bambini stranieri, come per quelli italiani, dobbiamo prestare attenzione, ascoltare attraverso il loro linguaggio verbale e non, le loro esigenze: avere un’ampia conoscenza del bambino che si ha davanti. (Intervista, Ed. nido 3 D, 2006)
Gli aspetti relazionali descritti, il particolare modo di avere cura di cui più educatrici si dicono interpreti nel proprio essere e agire educativamente, sembrano profilarsi come la “chiave” che consente di aprire possibilità di comunicazione e relazione efficaci, non solo con i bambini ma anche con le famiglie, sia italiani sia stranieri.
Va rilevato ancora come le intervistate che riferiscono l’assenza di incomprensioni forti o irrisolte nel rapporto con i genitori dei bambini frequentanti il nido connettano strettamente tale affermazione alle caratteristiche dell’idea di cura espressa, cioè alla disponibilità ad accogliere l’altro, fondata su ascolto, riconoscimento e rispetto. In più, coerentemente con la dichiarata propensione per la cura delle relazioni, emerge la descrizione di eventuali difficoltà con le famiglie senza tuttavia farne oggetto di giudizi rigidi e chiusi. In questi casi viene ribadita la disponibilità a mettersi in discussione nel proprio ruolo educativo e a cercare e sperimentare nuove vie per fare fronte alle difficoltà.
Si può evidenziare che, quanto più le intervistate descrivono la propria idea di cura facendo ricorso ai concetti sin qui considerati, tanto più narrano esempi che rimandano a una, presumibile, effettiva capacità di sintonizzarsi sui bisogni e sulle caratteristiche dell’altro, anche quando di origine straniera, e questo è un aspetto rilevante dal punto di vista interculturale, che è la prospettiva pedagogica da cui privilegiatamente parto.
Pervenendo a una sintesi per punti delle sfaccettature della cura evidenziate da interlocutrici diverse, essa pare delinearsi come qualcosa di intangibile, cui è difficile attribuire contorni precisi, ma che tuttavia è possibile descrivere con le parole e che si “fa sentire” attraverso molti canali:
- accogliere prestando attenzione ai bambini/e, osservandoli, ascoltandoli;
- cogliere i segnali provenienti dai bambini/e per conoscere e rispondere in maniera individualizzata ma anche attenta alla dimensione del gruppo;
- parlare al bambino/a, modulando la voce nel rivolgersi a lui o a lei, comunicando con parole, gesti, sguardi, sorrisi, facendo sentire la propria presenza pure senza intervenire (anche volgere uno sguardo a distanza può fare sentire la propria presenza, attenzione, coinvolgimento);
- rispettare le peculiarità del bambino/a nel rapportarsi alla realtà che vive al nido;
- lasciare spazio all’autonomia, non sostituirsi al bambino/a;
- coccolare e fare sentire importante ciò che un bambino/a comunica, riconoscendolo;
- accogliere le espressioni di disagio, crisi, difficoltà;
- cura è fatta corrispondere al modo di “esserci”, di “stare con”; si delinea nel “come”, nel modo di essere, educativamente, in relazione con i bambini/e, nel far sentire loro la propria presenza, attenta e, proprio perché flessibile e ricettiva, capace di riconoscimento e sostegno alle loro possibilità di esprimersi ed evolvere.
L’idea di cura che emerge dalle parole di alcune intervistate consente, così, di cogliere aspetti rilevanti da un punto di vista teorico, lasciando affiorare “la primarietà della cura e la sua essenza relazionale”, e avvicinandosi significativamente a quelle enunciate da Luigina Mortari ne La pratica dell’aver cura: «l’atteggiamento che sta all'origine della cura pare configurarsi nella forma di una risposta alla necessità da parte dell’altro di essere sostenuto nel proprio divenire» (Mortari, 2006, p. 101). Nelle narrazioni di queste professioniste dell’educazione possiamo individuare, citando ancora Mortari, le parole di «chi occupandosi di cura, interpretando il proprio agire nei termini di un prendersi a cuore ha questo sapere: il sapere dell’essenziale» (ibidem, p. 102).
È proprio dall'emergere di aspetti dell'avere cura positivi e tali da sostenere il fiorire della vita stessa che si profilano sfide aperte o da aprirsi e perseguirsi in direzione di ragione. Anzitutto, affinché tale modo di intendere, pensare, agire e incarnare cura si spinga sino al riconoscimento di un diritto alla differenza che, dilatando l'orizzonte del possibile, non si limiti a riconoscere, accogliere, valorizzare e a rispondere a ciò che il/quel bambino è (o è ritenuto essere), cosa questa che mantiene un’importanza cruciale, ma ne accompagni anche l'evoluzione verso una vita autentica, rendendo possibili opportunità che portino oltre i condizionamenti, talora inconsapevolmente imposti anche dagli adulti con responsabilità educativa, in base al sesso di nascita, alla provenienza socio-culturale, alle caratteristiche somatiche dei soggetti in età evolutiva con cui sono in relazione.
E ponendo così le basi per l'evoluzione di una capacità di progettazione esistenziale che affondi le proprie radici sin dall'età più precoce. Proprio perché, per divenire esseri progettuali, ci dicono Bertin e Contini in Educare alla progettualità esistenziale, «occorre essere educati alla progettualità sin da piccoli» (Bertin e Contini, 2004, p. 15). Quella delle bambine e dei bambini al nido d’infanzia è un’età rispetto alla quale può apparire particolarmente complesso tradurre in esperienze concrete concetti facilmente confinabili a dimensioni astratte — diviene centrale che ciò avvenga mediante una capacità che l'adulto educatore deve sapere esprimere prima di tutto offrendosi quale modello della cura donata e, al tempo stesso, incoraggiando nel soggetto educativo la capacità di assumerla ed esprimerla in prima persona. Sia apprendendo gradualmente l’“avere cura di sé”, sia in una direzione intersoggettiva che non escluda l’altro ma, anzi, lo contempli, ascolti, accolga, a partire dall'esercizio di atteggiamenti di apertura e curiosità per l’altro, coetaneo, per le sue peculiarità, per il suo punto di vista, per il suo peculiare contributo al gioco e allo stare insieme.
L’apertura all'esperienza della pluralità, alla scoperta del nuovo rappresentato dall'altro, nella reciprocità e nella condivisione — così importante anche dal mio punto di vista interculturale —, si lega dunque inestricabilmente all'esercizio di quella vitale possibilità umana che consiste nel piacere di rivolgere attenzione all'altro, e che via via potrà tradursi in un saper avere cura e avere a cuore gli altri: tutti, infatti, hanno necessità di ricevere cura e di avere cura. L'essere umano ha bisogno di essere oggetto di pratiche di cura — piano della passività — perché è il ricevere cura a partire dalla nascita la condizione necessaria affinché si dischiudano le stesse possibilità di vita. E, allo stesso tempo, ha bisogno di essere soggetto di pratiche di cura — piano dell'attività — ovvero di avere cura di sé, degli altri e del mondo per costruire significato nella sua esistenza (Mortari, 2006).
Non ultima, ma ulteriore sfida che, tutto sommato, oggi ci appare solo ai suoi esordi, è infine quella di estendere tale modo di intendere cura all'esercizio della medesima in contesti che testimonino la possibilità di condividere tra donne e uomini corresponsabilità educative con le più piccole e con i più piccoli, di differenti origini e caratteristiche individuali.
Bibliografia
Bertin G.M. e Contini M. (2004), Educazione alla progettualità esistenziale, Roma, Armando.
Bolognesi I., Di Rienzo A., Lorenzini S. e Pileri A. (2006), Di cultura in culture. Esperienze e percorsi interculturali nei nidi d’infanzia, Milano, FrancoAngeli.
Contini M. e Manini M. (a cura di) (2006), La cura in educazione. Tra famiglie e servizi, Roma, Carocci.
Cretella C., Crivellaro F., Gallerani M., Guerzoni G., Lorenzini S., Nardone R., Truffelli E. e Zanetti F. (2013), Generi in relazione. Scuole, servizi educativi 0-6 e famiglie in Emilia-Romagna, Napoli, Loffredo.
Lorenzini S. (2006), Tra cura e intercultura: La centralità delle relazioni nel punto di vista di educatrici di nidi d’infanzia. In M. Contini e M. Manini (a cura di), La cura in educazione. Tra famiglie e servizi, Roma, Carocci.
Mortari L. (2006), La pratica dell’aver cura, Milano, Bruno Mondadori.
Silva C. (2011), Intercultura e cura educativa nel nido e nella scuola dell'infanzia, Bergamo, Junior.
[1] L’intervista qualitativa ha proposto quesiti a risposta aperta ed è stata rivolta, nel 2006, a 21 educatrici di nidi d’infanzia bolognesi. Gli esiti della ricerca sono pubblicati in S. Lorenzini, Tra cura e intercultura: la centralità delle relazioni nel punto di vista di educatrici di nidi d’infanzia, in M. Contini e M. Manini (a cura di), La cura in educazione. Tra famiglie e servizi, Roma, Carocci, 2006. I focus group sono stati realizzati nel 2011 e hanno coinvolto 10 educatrici di nidi d’infanzia del quartiere Reno di Bologna nell’ambito del più ampio progetto “Un ponte per dialogare”, promosso dal Coordinamento pedagogico del Quartiere medesimo, coordinato e svolto dall’autrice del presente contributo anche grazie alla collaborazione di educatrici di nido e insegnanti di scuola dell’infanzia in funzione strumentale. Gli esiti complessivi della ricerca sono a oggi inediti.
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