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La popolazione Tamil è vittima da tempo di un genocidio consumatosi nel più assoluto silenzio della comunità internazionale. A seguito del processo di decolonizzazione, la centralizzazione del potere politico nelle mani del gruppo Sinali ha portato più di un milione di Tamil a lasciare lo Sri Lanka. Tra questi circa diecimila risiedono ormai da anni in Italia. Oltre la nazione è a oggi il testo più importante e completo edito in Italia a trattare il caso della «diaspora» Tamil; questo primato non rimane circoscritto al case study, perché l’indagine «Italo-Tamil» proposta dagli autori di Oltre la nazione rappresenta anche uno degli esempi di pratica interculturale meglio riusciti di cui si abbia testimonianza nella letteratura di settore.

Il termine «pratica interculturale» rende fedelmente quanto espresso da Burgio nella densissima e feconda introduzione al libro. Per il pedagogista non è possibile pensare un modello di interculturalità, perché l’intercultura è qualcosa che si fa continuamente, un percorso di scambio: «il prefisso inter- indica uno spazio relazionale e reciproco che si percorre in entrambe le direzioni» (p. 12). Quest’approccio all’intercultura quale esercizio e non lezione, tutt’altro che sconfessato dalle pagine che seguono, si riflette nei singoli interventi degli autori, dando al lettore l’impressione di essere seduto a una tavola rotonda italo-Tamil. 

L’introduzione affronta alcuni nodi teorici essenziali, il primo dei quali è il cosiddetto nazionalismo metodologico.  Per nazionalismo metodologico si intende la propensione di molte scienze umane a porre lo stato-nazione come riferimento imprescindibile e soggetto unico del divenire storico. L’idea che il progetto nazionale sia la naturale e necessaria vocazione dei popoli che possono dirsi umani costituisce uno dei cardini della narrazione imperialista coloniale. Decolonizzare una disciplina significa innanzitutto fare i conti con la violenza epistemica insita nelle strutture categoriali che utilizza e il compito pare essere stato assunto appieno dagli autori del libro. Nel testo l’operazione di dislocamento rispetto alla tradizione del «sapere sull’Altro» avviene in due modi fondamentali: in primo luogo attraverso un proficuo dialogo tra studiosi italiani e studiosi Tamil e, in secondo luogo, grazie a un approccio inter-disciplinare che ha l’effetto di produrre uno sguardo complesso e orizzontale sul tema. Gli interventi di Sebastiampillai Dunstan Rajakumar, Jude Lal Fernando e Thanushan Kugathasan ripercorrono, analizzandoli, momenti fondamentali della storia Tamil, dalla colonizzazione inglese alla «diaspora» globale. Il saggio di Jude Lal Fernando si concentra sulle origini della contrapposizione tra Sinali e Tamil, mostrando come il conflitto tra i due gruppi sia riconducibile all’operazione coloniale britannica e al successivo processo di decolonizzazione. Com’è accaduto in molti altri contesti, la separazione tra Sinali e Tamil è stata incoraggiata per ragioni innanzitutto economiche. Molti membri della comunità Tamil ― che rappresentavano un terzo della popolazione dello Sri Lanka, ma che sono presenti anche nella regione indiana del Tamil Nadu ― furono deportati dall’India a Ceylon e costretti a lavorare nelle piantagioni di cotone e tè. Per contro, l’élite del gruppo Sinali fu premiata con il possesso della terra dall’amministrazione britannica. L’unificazione di Ceylon ― che in precedenza era divisa in almeno tre regni dai confini labili, in un sistema politico che può essere definito «a galassia» (ibidem, p. 33) ― portò inevitabilmente alla necessità di farvi corrispondere una nazione Sinali, come accadde ovunque fu instaurato un sistema di indirect rule coloniale. I Sinali, appoggiandosi ad alcuni testi della tradizione rivisitati ad hoc e assumendo per intero lo strumentario coloniale inglese, costruirono una narrazione nazionalistica che validava l’idea di una superiorità razziale rispetto alla minoranza Tamil. La popolazione Tamil, resa subalterna, venne quindi sfruttata nelle colture destinate al commercio coloniale e brutalizzata dalla maggioranza Sinali. Quando Ceylon ottenne l’indipendenza (1948), il governo cingalese promulgò leggi finalizzate a perpetuare il dominio sulla minoranza Tamil. L’oppressione di cui erano vittime i Tamil portò uno strato consistente della popolazione a chiedere uno Stato indipendente: il Tamil Eelam. Il governo Sinali, per contro, applicò protocolli anti-terrorismo dal carattere emergenziale, simili a quelli utilizzati dall’Inghilterra in Irlanda, avvalendosi di «strumenti» quali i pogrom al fine di annientare la spinta indipendentista. L’intensificarsi delle violenze ai danni dei cittadini Tamil spinse questi ultimi a organizzarsi militarmente: nacquero così, nella seconda metà degli anni ’70, le Liberation Tigers of Tamil Eelam (LTTE). Le Tigri Tamil entrarono in conflitto aperto con il governo di Colombo nel 1983, finendo per essere sconfitte dall’esercito Sinali nel 2009; nonostante ciò riuscirono per alcuni anni a creare un’infrastruttura statale, nel Nord del Paese, capace di rispondere ai bisogni della popolazione Tamil, materializzando così de facto lo stato del Tamil Eelam. Il mancato riconoscimento di questo stato «di fatto» qualifica le ostilità tra i due gruppi come «guerra civile», legittimando così l’operato del governo cingalese e impedendo che alle atrocità commesse da entrambi gli eserciti corrisponda un equo giudizio. Oggi le LTTE figurano (assieme al PKK) nella lista internazionale dei gruppi terroristici: come accade spesso nei conflitti postcoloniali, il principio di autodeterminazione del popolo Tamil è stato negato.

Molti Tamil abitano ancora tra il Tamil Nadu e lo Sri Lanka, ma molti altri sono stati costretti alla fuga dalla prolungata violenza del conflitto. Queste persone si trovano ad abitare una «diaspora» che ci viene raccontata da Sebastiampillai Dunstant Rajakumar e Thanusan Kugathasan. Rajakumar, presidente del consiglio degli Eelam Tamil in Italia, fa da voce alla comunità Tamil italiana, mentre Thanushan Kugathasan descrive alcuni tratti della realtà transnazionale e delle pratiche culturali che la caratterizzano. Il saggio di Kugathasan dialoga proficuamente con l’intervento di Burgio sull’identità diasporica. Se Kugathasan tende a valorizzare gli elementi di discontinuità tra la tradizione Tamil «pre-guerra civile» e quella ― tutta in divenire ― della «diaspora», Burgio si concentra sulle strategie «conservative» della Tamilness, ovvero su tutti quei modi in cui la comunità Tamil tutela e riproduce, economicamente e socialmente, la propria integrità culturale. Nonostante i posizionamenti differenti, uno «interno» e l’altro «esterno» al soggetto d’indagine, emerge uno sguardo complementare e coerente. Entrambi descrivono una società vivace ed estremamente mobile, capace di coltivare l’incontro inter-culturale e di conciliare esperienze differenti senza che elementi apparentemente contraddittori determinino un annichilimento delle diverse cifre identitarie. Ne è un esempio il culto sincretico induista/cattolico di Santa Rosalia, protettrice di Palermo, che viene gioiosamente festeggiata dalla comunità Tamil della città ― la più numerosa d’Italia con le sue ottomila anime.

Un ulteriore elemento di coesione nella «diaspora» è costituito dal mondo dell’associazionismo Tamil e dell’attivismo politico, che vede come protagonisti i giovani. Leggere gli interventi di Clelia Bartoli e Fulvio Vassallo Paleologo alla luce dell’analisi di Kugathasan sull’attivismo nella «diaspora» permette di coglierne appieno l’urgenza. Nei saggi dei due autori emerge la capacità dell’identità diasporica di mettere in crisi e svelare le contraddizioni che soggiacciono alla costruzione del dispositivo nazionale del Paese d’arrivo ― in questo caso dell’Italia. Bartoli, a partire dal processo svoltosi a Napoli (2012), in cui trenta Tamil che raccoglievano fondi da destinare alle LTTE sono stati accusati di finanziamento al terrorismo, non può che interrogarsi sulla dicotomia terrorista/partigiano. L’autrice mostra come il confine tra l’uno e l’altro sia un campo di gioco instabile, un luogo di selezione della memoria e di repressione dell’alterità, denunciando così l’intollerabile violenza propria del meccanismo di inclusione ed esclusione costitutivo della nazione e della «forma stato». Allo stesso tempo Bartoli insiste sulla responsabilità della comunità internazionale nel perpetuarsi delle violenze nello Sri Lanka e di riflesso nella «diaspora», perché negare il genocidio Tamil significa contemporaneamente negare lo statuto di rifugiato a coloro che sono dovuti fuggire dallo Sri Lanka ― come emerge nel saggio di Fulvio Vassallo Paleologo, che si occupa degli episodi di rimpatrio forzato di cui sono state vittime in Italia oltre due centinaia di Tamil, gli ultimi dei quali non più tardi del gennaio 2003.

I Tamil hanno subito diverse forme di violenza genocidaria, fisica, simbolica e culturale, come testimoniano l’incendio della biblioteca di Jaffna e la distruzione del cimitero dei martiri. Nonostante ciò la comunità è stata capace di mobilitarsi e ricostituirsi in modi differenti, modi segnati da quella particolare relazione triadica ― la relazione con la «madrepatria», con il Paese di residenza e all’interno della «diaspora» stessa ― che caratterizza le «diaspore» e che Burgio analizza nel suo secondo intervento. La «diaspora» Tamil è riuscita a fare ciò grazie a elaborate strategie della memoria; emblematica è la ricostruzione virtuale del cimitero dei martiri Tamil che descrive Cristiana Natali nel suo saggio. Tali politiche della memoria, tenute vive dalla fitta rete dell’associazionismo, utilizzano e rafforzano la narrazione nazionalistica e d’indipendenza Tamil.

Guardando alla specificità dell’esperienza di questa comunità, nella diaspora e in patria, risulta evidente come il nazionalismo rappresenti un’istanza emancipatrice sorta in risposta all’oppressione Sinali. Sebbene in tutto il testo sia sempre presente un riconoscimento del principio di autodeterminazione dei popoli che è alla base del nazionalismo Tamil e della rivendicazione del Tamil Eelam, il contributo finale di Ambra Pirri non rinuncia a indagare, e mettere in crisi, le strutture repressive che soggiacciono alla narrazione nazionalistica. Facendo ricorso a un’ormai consolidata letteratura critica, femminista e postcoloniale, la studiosa ci conduce nel cuore sessista e razzista della nazione, laddove la Patria stuprata ha sempre un corpo di donna e le differenze vengono alienate in un’alterità fittizia.

Citando Federici (Caliban and the Witch. Women, the Body and Primitive Accumulation, 2004), Pirri riprende la nozione marxiana di «accumulazione primitiva» ― il violento processo di espropriazione che caratterizza gli albori del capitalismo ―, ricordando come la nazione venga alla luce «grondando sangue»: il sangue dei proletarizzati e dei colonizzati, ma soprattutto il sangue delle donne.  Il saggio finale di Pirri ha un effetto destabilizzante e mette in crisi il lettore che sperava di poter comprendere le origini e lo sviluppo di un conflitto postcoloniale senza scomodare radicalmente le categorie con cui pensa la sfera del «politico». È così che l’ultimo intervento dialoga con il primo e concretizza il progetto che sta alla base di un «esercizio interculturale» come Oltre la Nazione: una «pedagogia del conflitto».

In Oltre la nazione l’interculturalità è pensata come il campo aperto di un conflitto che non abbisogna di essere sanato, ma necessita di essere esperito e affrontato con gli strumenti più raffinati dei quali si è in possesso. Questo campo è uno spazio scomodo, che promette di aprire più contraddizioni di quante sia disposto a scioglierne. Ma è lo spazio che i nostri saperi devono abitare, perché «se non vogliamo che torni la violenza, bisogna rispettare il conflitto che ― sempre ― esiste, cercando di gestirlo in maniera creativa e con giustizia» (ibidem, p. 67).

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