Multiculturalità nel quotidiano
Teatro in carcere - Theatre in Prison
Anna Draghetti
Collabora a riviste del settore educativo. Insegna italiano presso la Casa Circondariale Dozza di Bologna e conduce corsi di italiano come L2 presso il CPIA Metropolitano di Bologna. È componente della commis-sione d’esame Plida per la certificazione linguistica. È inoltre tutor organizzatore presso la facoltà di Scien-ze della Formazione Primaria dell’Università di Bologna e cultore della materia presso la cattedra del Prof. Guerra per i seguenti insegnamenti «Modelli di programmazione didattica» e «Strategie didattiche e di co-municazione degli adulti».
Abstract
The author, teacher of the Dozza prison, describes her experience of theater in the prison of Bologna, through a pedagogical reflection on the meaning of rehabilitation and reintegration of prisoners into society.
Keywords: Theater, prison, rehabilitation, laboratory, experimentation.
Sommario
L’autrice, insegnante all’interno della Casa Circondariale «Dozza», descrive la sua esperienza di teatro nel carcere di Bologna partendo da una riflessione pedagogica relativa al significato di rieducazione e reinserimento dei detenuti nella società.
Parole chiave: Teatro, carcere, ri-educazione, laboratorio, sperimentazione.
Premessa
«Si dice che uno non conosce davvero un Paese finché non è stato nelle sue carceri. Un paese non dovrebbe essere giudicato da come tratta i suoi cittadini più in alto, ma quelli più in basso», afferma Nelson Mandela, simbolo del sud Africa. In Italia sono 65.701 i detenuti reclusi (compresi anche quelli in semilibertà) nei 206 istituti di pena del nostro Paese, a fronte di una capienza regolamentare di 47.040 posti. La questione del sovraffollamento, per la quale l’Italia è stata condannata dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo nel gennaio scorso, non è però l’unico problema, per quanto sia uno dei più gravi. Da anni, infatti, gli operatori penitenziari, i volontari e tutti coloro che visitano le carceri italiane denunciano la diffusa violazione dei diritti e della dignità delle persone detenute. Tra le numerosissime criticità occorre ricordare:
l’elevato numero di decessi e di suicidi (nel solo 2012 sono stati registrati almeno 154 morti nelle carceri italiane, di cui 60 suicidi);
l’anomalia, tutta italiana, di un sistema penitenziario in cui più del 40% dei soggetti in carcere sono detenuti in attesa di giudizio;
la mancanza di opportunità di lavoro e formazione;
l’elevata presenza in carcere di persone con problemi di consumo o abuso di sostanze stupefacenti o per violazione della normativa sulle droghe;
la diffusione di problematiche sanitarie e soprattutto di varie forme di disagio psichico tra la popolazione detenuta: solo limitandosi ai casi presi in carico dal servizio sanitario interno alle carceri, circa un quarto delle persone detenute manifesta gravi forme di disturbo psichico;
la forte discriminazione dei detenuti stranieri che, rispetto agli italiani, faticano molto di più ad accedere alle misure alternative alla detenzione.[1]
Carcere e ri-educazione
Nel 1975 giunge a compimento la riforma dell’ordinamento penitenziario. Riforma di straordinario impatto pratico e di grande importanza teorica che tocca il nucleo pulsante dell’intero sistema penale. Un filosofo come Vittorio Mathieu (Perché punire? Il collasso della giustizia penale, 1978), con la sua verve reazionaria, ne coglierà il deflagrante spirito innovatore prima e meglio di tanti giuristi.
Sembra sia stato Elam Lind, fondatore dell’istituto di pena di SingSing, e già direttore del penitenziario di Auburn durante la prima metà dell’Ottocento, a promettere a coloro i quali avessero mantenuto una «buona condotta», quindi un comportamento di partecipazione all’ordine e alla disciplina, uno sconto di pena, individuando nell’ordine e nella disciplina la capacità del recluso di adattarsi alle esigenze dell’istituto (Cano, 2011). Ciò ha segnato un punto importante nel decorso a venire dell’espiazione, aprendo le porte al sistema di commutazione della pena.
Nel luglio 1975 viene approvata in Italia la legge 354, che orienta le modalità dell’esecuzione della pena in funzione di premi e riconoscimenti nei confronti del detenuto, qualora venga certificato un comportamento di partecipazione all’opera di rieducazione. Ed ecco che il percorso iniziato nel XVIII secolo ― periodo nel quale nascono i primi luminari della dinamica punitiva, quei riformatori che tendono a individuare prima l’uomo e poi il reo, e che chiedono la metamorfosi giuridica da vendetta a castigo ― trova sbocco nell’intervento legislativo.
Le pene ― recita l’articolo 47 della Costituzione italiana (Colombo, 2013, p. 129) ― non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Rieducazione e reinserimento ― oggi si dice ― affinché la pena per un delitto non debba essere scontata per la vita ed eventualmente portare, a causa dell’emarginazione, alla reiterazione del crimine.
Eppure, nonostante tutto, la conversione sperata e sospirata, ossia la trasformazione della reclusione da luogo di punizione a momento di rieducazione, non si verifica: il carcere continua indefesso a incamerare quel senso nauseante di inutilità che si diffonde tra gli addetti ai lavori prima e nella società poi. Nel luogo comune, infatti, sempre riconosciuto e più che mai consolidato, il carcere non rieduca proprio nessuno, forgia anzi il criminale del domani. Chi entra in punizione per circostanze non eccessivamente allarmanti tende a uscire con tutte le carte in regola per delinquere professionalmente e con cognizione di causa.
Gherardo Colombo indaga le basi di un nuovo concetto e di nuove pratiche di giustizia, la cosiddetta giustizia riparativa, che lentamente emergono negli ordinamenti internazionali e nel nostro. Pratiche che non riguardano solamente i tribunali e le carceri, ma che incoraggiano anche un sostanziale rinnovamento nel tessuto profondo della nostra società: riguardano l’essenza stessa della convivenza civile.
«Il rieducare […] dovrebbe realizzarsi mediante un modello di vita che sia esempio concreto di civiltà, non certamente attraverso l’effetto arbitrario e dannoso creato dalla padronanza e dal controllo, giochi di forza nel dominio del quotidiano» (Colombo, 2013, p. 129).
L’organizzazione penitenziaria non può che funzionare su un modello relazionale, di condivisione delle risorse e degli obiettivi da parte dei vari soggetti in campo: le diverse figure professionali, i detenuti, i volontari, gli insegnanti, gli altri frequentatori dell’istituto e della sua vita (dai familiari ai legali dei detenuti).
L’esperimento torinese, di un modello relazionale di gestione organizzativa, è rivolto invece alla produzione di un saldo positivo nella ricerca di soluzioni condivise ai bisogni delle persone detenute. E i casi raccolti sono molti, dalla prevenzione dei rischi suicidari, all’effettività della tutela legale, dall’offerta formativa e di istruzione ai percorsi di inserimento lavorativo (Buffa, 2013).
Esistono sicuramente tanti modi di sentirsi privi di libertà, quando si è soli e non si può contare su nessuno, quando si è traditi e non si hanno più speranze per il proprio futuro, quando si è costretti in un letto a causa di un’infermità. La prigione vera e propria è un intreccio, un insieme di tutte queste sensazioni, ci si sente impotenti, disillusi, sia se si è colpevoli, sia se si è innocenti.
Teatro in carcere alla Dozza
Riccardo, un ex studente che ha frequentato la scuola all’interno della Casa Circondariale Dozza del CPIA (Centro provinciale per l’istruzione degli adulti) di Bologna, nonostante fosse laureato in giurisprudenza, ha scritto: «Il giorno in cui sono entrato in cella ero finito, sia come uomo, sia come padre e marito. Mi sono trovato all’improvviso in un inferno terreno».
Continuava affermando: «Dopo due anni di detenzione ho deciso di iscrivermi a scuola come uditore; grazie al compito che mi era stato affidato dalla mia insegnate, quello di tutor, di aiuto nei confronti degli studenti stranieri che avevano difficoltà con la lingua, la mia permanenza in questo luogo da incubo è cambiata, avevo uno scopo, un obiettivo, un motivo per cui alzarmi alla mattina».
Avere uno scopo diventa la motivazione che attribuisce un senso alla quotidianità in carcere. Creare una circolarità della comunicazione, fare emergere i bisogni individuali e i bisogni del gruppo, promuovere la crescita di un pensiero formativo è stato l’obiettivo del fare teatro in carcere.
Il corso di scuola secondaria di primo grado a cui era iscritto il detenuto, una sezione protetta, era formato da corsisti di diverse nazionalità, molto propositivi, che si sono mostrati interessati a mettersi in gioco in un contesto di reclusione e tra soggetti estremamente eterogenei a livello socioculturale.
Ciò non coincide immediatamente con lo sviluppo di un pensiero formativo. «La qualità e la quantità della meta-comunicazione dipendono dalle motivazioni, dalla disponibilità, dalle capacità dei soggetti coinvolti a smontare e rimontare eventi emotivi e sequenze comunicative, in relazione alle personali rappresentazioni della relazione elaborate da tempo» (Zanchettin, 2000, p. 138).
Inoltre apprendere la relazione dalle esperienze richiede non solo un impegno nel tempo, ma anche una disponibilità a conoscere se stesso e l’altro nell’ottica di ripensare le relazioni della propria vita in un possibile e più soddisfacente «futuro».
Quando il teatro entra nello spazio educativo può esprimersi come strumento formativo o didattico, ma anche come modalità espressiva specifica e come linguaggio trasversale, o ancora come oggetto di studio e di approfondimento culturale, come metafora dell'apprendimento.
Affinché un’esperienza di questo tipo abbia successo è, però, necessario creare un clima di fiducia facendo emergere le potenzialità di ognuno e capire come ottenere i migliori risultati da ogni componente del gruppo.
Fare teatro richiede giocatori che rispettino le regole e che sperimentino azioni a cui non hanno mai pensato attraverso tre necessari e imprescindibili momenti: la scelta del testo, la preparazione della messa in scena, lo spettacolo.
Nell’ambito della programmazione di italiano tra i diversi autori del Novecento trattati, la proposta de La Patente di Luigi Pirandello, con tematiche care all’autore, come gli intrecci relazionali tra gli individui, inquinati dai pregiudizi e dai preconcetti e soprattutto dalle proiezioni che vengono applicate sui soggetti bersaglio in base alle apparenze, alle esteriorità, ai giudizi superficiali di convenienza, ha riscosso unanime consenso.
Preparazione alla messa in scena
Imparare a stare in scena, di fronte a un pubblico, presuppone una certa preparazione a cui tutti noi, indistintamente, ci siamo sottoposti attraverso il Metodo Linklater.
Kristin Linklater ha rivoluzionato, negli ultimi quarant'anni, l'arte e la tecnica vocale nel teatro. Il Metodo da lei sviluppato parte dal presupposto che ognuno possieda una voce in grado di esprimere l'infinita varietà di emozioni, complessità di stati d'animo e sfumature di pensiero di cui fa esperienza. Questa è la nostra voce naturale, la voce che è in noi «per nascita».
Attraverso una serie di esercizi tesi a liberare, sviluppare e potenziare la voce naturale, il Metodo Linklater offre una lucida visione del suo funzionamento, sia nel contesto più ampio della comunicazione interpersonale che nell'uso professionale.
Gli esercizi si articolano in una struttura dettagliata e accuratamente progettata, che si sviluppa nei seguenti passaggi: il corpo, il respiro, il tocco del suono, il canale, la scala dei risuonatori e la capacità respiratoria.
Il lavoro sul corpo pone attenzione alla postura e al respiro naturale che viene reso consapevole mediante l’ascolto del ritmo e della respirazione involontaria.
L’esercizio sul «tocco del suono» cerca di liberare il corpo dalle tensioni, espandendo le vibrazioni iniziali della voce. Un training che continua prendendo consapevolezza del canale (mandibola, lingua, palato molle) e della scala dei risuonatori (petto, bocca, denti). Vengono così controllati il suono e la capacita respiratoria, individuando e usando anche le differenti respirazioni (diaframma, intercostali, pavimento pelvico).
Abbiamo concepito tale esperienza laboratoriale soprattutto come un contesto in cui conoscere se stessi, sperimentare l'incontro, lo scambio di pratiche e di racconti, la creazione collettiva da parte di persone provenienti dalle culture e dalle esperienze più diverse.
Il rapporto fecondo tra educazione e teatro ha assunto forme che hanno ampliato le rispettive potenzialità; ogni partecipante ha trovato un proprio ruolo, una propria collocazione all’interno della rappresentazione.
Il clima instaurato all’interno del gruppo ha fatto sì che gli attori, in quanto dilettanti, siano stati capaci di esprimere un’autenticità raramente rilevabile in un professionista, una spontaneità una genuinità che possiede probabilmente qualunque uomo della strada, dal momento in cui si trasforma in attore.
L’uomo della strada e l’uomo privato della libertà che si trasformano in attori non professionisti si differenziano da una condizione, la reclusione.
La differenza diventa la forza e la magia del teatro in carcere e si manifesta nel carico di «energie» che viene riversato sulla scena, un condensato di sofferenza e frustrazione che si libera e si trasforma in piacere e appagamento.
Sul palco si sono sentiti «liberi», liberi di raccontarsi, di narrarsi, di esprimersi, di essere protagonisti per un giorno di qualcosa di positivo, addirittura citati dai giornali non per gli errori commessi, ma per un’esperienza «fantastica», forse unica nella loro vita.
Alla luce di questo viaggio onirico, in cui i detenuti sono stati catapultati, è stato inevitabile ripetere l’esperienza anche l’anno successivo, come diceva il famoso attore Mario Scaccia: «Se il Teatro non ci fosse stato, lo avrei inventato io per sopravvivere!».
Per questo nuovo progetto è stato, allora, contattato il regista Pietro Floridia della compagnia teatrale di Bologna I cantieri meticci, che ha proposto il pezzo di Elia Kazan America America. Alcuni detenuti non erano più presenti per diversi motivi, ma il clima dell’esperienza precedente è rimasto inalterato; alcuni di loro hanno trasmesso tutto il pathos e le motivazioni necessarie a questa nuova avventura.
Il nuovo lavoro teatrale di Kazan era incentrato sugli intrecci relazionali tra le minoranze greche e armene oppresse e represse dal popolo turco. In particolare i due personaggi principali, Stavros il greco e Vartan l'armeno, si convincono a lasciare quella terra che soffre e non trova pace, quella terra infelice strangolata da un’impossibile coesistenza con la nuova etnia egemone. Loro sognano di andarsene al di là del mare, sognano di andarsene in America.
L'America diventa l'incarnazione d'un futuro idilliaco, il rifugio primordiale, il luogo dove potere costruire una nuova vita di coesistenza e di pace, la terra del sogno, della libertà, delle possibilità. E proprio questo sogno rigenerante di pace, speranza e libertà ha probabilmente ispirato i corsisti, che hanno aderito con grande entusiasmo al progetto: ogni corsista si è sentito un po’ Stavros, che in America si farà chiamare John per provare a costruire una nuova vita.
Grazie alla collaborazione del regista Floridia e degli attori che, gratuitamente, hanno profuso un impegno ammirevole, questa seconda rappresentazione si è rivelata un’esperienza entusiasmante.
Quello che hanno fatto Eugenio Barba, regista di spicco del teatro contemporaneo, e Grotowsky, regista polacco dell’avanguardia teatrale del Novecento, è stato andare all’origine dell’esperienza teatrale: hanno individuato che il corpo si mette di fronte agli altri, a un altro corpo, ponendosi dinnanzi a una situazione dialettica di rappresentazione-presentazione.
Lavorare su un’esperienza di Teatro sociale-educativo ha significato utilizzare una molteplicità di tecniche; da quelle teatrali della tradizione occidentale e orientale (danza, mimo, dizione, canto, musical) a quelle terapeutiche come il gioco e la narrazione.
Tra i pionieri del teatro della narrazione con forti connotazioni etico-politiche troviamo anche Dario Fò, che negli anni Novanta si rivolge a comunità più ristrette non con il proposito di mutamento della società, ma per trasformare il disimpegno etico, politico delle comunità, lavorando in senso civico sui valori dell’essere più che dell’avere.
I vincoli
Inevitabilmente le difficoltà organizzative non sono mancate, siamo in un carcere dove le direttive sono necessariamente rigide, dove la burocrazia accompagna ogni iniziativa, anche minima; tra l’altro questi detenuti appartenevano a una sezione protetta, dove i reati sono per la maggior parte a sfondo sessuale o dove sono presenti i delatori, chi «ha parlato» e qui le regole sono ancora più restrittive.
Tutto ciò ha sicuramente appesantito il lavoro di chi, come la scrivente, ha dovuto organizzare l’accesso delle strumentazioni, della scenografia, degli attori, ma sicuramente ne è valsa la pena.
Il teatro in carcere è un forte strumento di cambiamento per gli attori-detenuti, ma rappresenta anche un eccellente strumento a sostegno della legislazione più avanzata che persegue l'obiettivo del reinserimento in società di chi vive l'esperienza del carcere.
Il carcere non dev’essere solo punizione, ma anche recupero della persona che ha sbagliato e che sta pagando per il proprio errore; il teatro in carcere è ricerca personale, confronto, evoluzione. Gli attori detenuti hanno sicuramente qualcosa da insegnare in questo senso, pur nella difficoltà, la difficoltà di chi deve uscire dal ruolo che essi stessi si sono costruiti come criminali e come detenuti, soggetti all’autorità della polizia penitenziaria, ma forse ancora di più, soggetti alle regole e allo sguardo degli altri detenuti.
Autore per corrispondenza
Anna Draghetti
Scuola di Psicologia e Scienze delle Formazione
Alma Mater Studiorum, Università di Bologna
Via Filippo Re, 6
40126 Bologna
E-mail: anna.draghetti2@unibo.it
Bibliografia
Buffa P. (2013), Prigioni. Amministrare la sofferenza, Torino, Gruppo Abele.
Cano Y. (2011), Carcere e (mancata) rieducazione. La «buona condotta» come strumento di disciplina e controllo, «Paginauno» n. 23 giugno-settembre 2011, http://www.rivistapaginauno.it/carcere-rieducazione.php (ultimo accesso: 25/08/16).
Colombo G. (2013), Il Perdono responsabile. Perché il carcere non serve a nulla, Firenze, Ponte alle grazie.
Zanchettin A. (2000), Apprendere la relazione: Proposte dal Teatro dell’Oppresso, in M. Contini (a cura di), Il Gruppo educativo, Roma, Carocci.
[1]https://carceredirittiedignita.wordpress.com/le-carceri-italiane.
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