Test Book

Esperienze e progetti / Experiences, programmes, projects

Nuovi italiani crescono. La letteratura migrante come strumento didattico nella scuola superiore di secondo grado
New Italians are growing up. Migrant literature as an educational tool in upper secondary school

Zannoni Federico

Dottore di Ricerca in Pedagogia, è docente di scuola primaria

Alessandra Sirotti

Docente di lingue (inglese e tedesco)


Autore per la corrispondenza

Federico Zannoni
Indirizzo e-mail: federico.zannoni3@unibo.it
l’Istituto Comprensivo “A. Manzoni”, Via Francesco Paolo Tosti, 1, 42124 Reggio Emilia RE



Sommario

Presenze ormai consolidate in una popolazione scolastica definitivamente e stabilmente multiculturale, i ragazzi e le ragazze con origini straniere hanno provocato una profonda ridefinizione nelle modalità di organizzare la didattica e gestire le relazioni nel gruppo-classe, ponendo importanti elementi di novità e istanze di integrazione non ancora completamente risolte. Le opere di narrativa scritte da autori di origine migrante, in molti casi contenenti elementi autobiografici, possono essere messe al centro di attività che offrano agli alunni opportunità di rispecchiamento, riflessione e condivisione. Il progetto qui presentato, realizzato in alcune classi di un istituto di istruzione superiore nella provincia di Modena, ha utilizzato la letteratura migrante come strumento al contempo di indagine e didattico, stimolo da cui sono scaturite discussioni che hanno permesso ai ragazzi e alle ragazze di origine straniera di raccontare i propri vissuti, convinzioni e punti di vista in merito alla loro condizione di persone con molteplici appartenenze e riferimenti culturali e identitari.

Parole chiave

adolescenti immigrati di “seconda generazione”, letteratura migrante, educazione e didattica interculturale


Abstract

By now consolidated presences in a multicultural school population, boys and girls with foreign origins have caused a profound redefinition in the ways of organising teaching and managing relationships in the class, generating significant innovation and instances of integration, which have not yet been completely resolved. Narrative works written by authors of migrant origin, in many cases containing autobiographical elements, can be placed at the centre of activities that offer opportunities for reflection and sharing. The project presented here, carried out in several classes of a higher education institution in the province of Modena, has used migrant literature as a tool for teaching and investigation, as a stimulus for discussions that have allowed pupils with foreign origins to recount their experiences, beliefs and points of view regarding their condition as people with multiple belongings and cultural and identity roots.

Keywords

“second generation” immigrant adolescents; migrant literature; intercultural education and teaching.


Adolescenti figli di immigrati: presenze in cerca di ascolto

«Perché sono ancora un bambino, un po’ italiano, un po’ tunisino. Lei è di Puerto Rico. Se succede per Trump è un casino […]. Oh eh oh, quando mi dicono: “A casa”. Oh eh oh, rispondo: “Sono già qua!”. Oh eh oh, io T.V.B. cara Italia. Oh eh oh, sei la mia dolce metà». Il rapper Ghali, all’anagrafe Ghali Amdouni, è nato a Milano da genitori tunisini il 21 maggio 1993; cresciuto nel quartiere di Baggio, in ragione della grande affluenza ai suoi concerti e della frequenza con cui la sua canzone viene trasmessa nelle radio viene considerato il personaggio musicale rivelazione del 2018. Il suo pezzo tormentone si intitola Cara Italia e si presenta come una vera e propria lettera d’amore per la nazione a cui appartiene e di cui ha la cittadinanza, per molti a dispetto delle apparenze. Le oltre 105 milioni di visualizzazioni ottenute dal videoclip su YouTube in soli undici mesi sono chiara testimonianza della numerosità e dell’eterogeneità del suo pubblico di fan, ascoltatori abituali o semplicemente curiosi: certo, si tratta in prevalenza di giovani e giovanissimi, ma non solo, e di certo le radici familiari, culturali e nazionali non rimandano unicamente a Paesi lontani.

Dodici anni prima, nel 2006, l’allora ventottenne rapper romano di padre egiziano Amir, all’anagrafe Amir Issaa, esordisce con l’album Uomo di prestigio, contenente il singolo Straniero nella mia nazione, il cui ritornello lancia (in perfetto romanesco) messaggi non dissimili rispetto a quelli veicolati dal tormentone di Ghali: «S.o.s. bilancio negativo, se me chiamano straniero nel posto dove vivo; s.o.s. pronto all'esecuzione, se me chiamano straniero nella mia nazione». Nello stesso anno, il dentista milanese, figlio di siriani, Zanko “El Arabe Blanco” intona strofe che descrivono se stesso e tutti quelli che, come lui, sono considerati Stranieri in ogni nazione:

 

Siamo la seconda generazione, stranieri in ogni nazione, in ogni azione c'è un’espressione di international interazione. Mi vedi bianco, Zanko ti sembra uno di qua, un italiano nella media, poi mi chiedi a cosa è dovuto un nome così strano e la mia risposta è che il mio dna, è siriano di Hama, ma Milano è la mia città, e da quando il mondo è mondo, non ho mai creduto che doppia nazionalità potesse essere un conflitto di identità.

 

Amir e Zanko sono stati i precursori, si rivolgevano soprattutto a una nicchia di giovani figli di immigrati, cantando in locali di periferia e affidando il successo delle proprie incisioni all’efficacia di un passaparola comunque fuori dai circuiti del mainstream. In una testimonianza contenuta nel volume Fuori dal silenzio (Filippini, Genovese e Zannoni, 2010, p. 211), Zanko rivela di avere concepito la sua canzone mentre si trovava a Parigi, in ambienti frequentati da giovani e arrabbiati rapper di origine straniera:

 

Stranieri in ogni nazione maturò in quel contesto, in una Parigi in cui, quando chiedevi ai ragazzi di seconda generazione di dove erano, ti dicevano Paris, salvo poi insultare la Francia nei loro testi. Una condizione abituale lassù, ma che da noi stava iniziando a prendere piede solo recentemente. Capii quanto fosse importante il rap per quei ragazzi in quanto megafono dei loro stati d’animo. Il rap è senza dubbio il punto d’incontro musicale per eccellenza per i figli dell’immigrazione, è quasi un approdo naturale proprio perché, nato da americani di serie B, ha un fascino innato su quelli che si sentono come gli altri, ma non vengono percepiti come tali e hanno bisogno di dirlo.

 

Chissà se, in quel periodo, riusciva a immaginare che sarebbe stato uno dei precursori dei cantanti attualmente più ascoltati e amati dai giovani e dagli impresari musicali? Considerando il potere che i prodotti culturali, specie se veicolati dai più efficaci e pervasivi mezzi di comunicazione, esercitano sulle categorie di utenza a cui si rivolgono, generando specifiche rappresentazioni, risposte, prassi e comportamenti (Adorno, 1994), verrebbe inoltre da chiedersi: a cosa si deve il clamore di tale successo, e soprattutto come mai testi che raccontano le vicissitudini quotidiane, le aspirazioni e le recriminazioni di giovani di origine straniera sono ora ascoltati in massa, fatti propri e ripetuti come bandiere generazionali da tanti coetanei figli di italiani? Cosa è cambiato, nella nostra società e nell’universo culturale giovanile, in questi dodici anni?

 

L’evidenza della multiculturalità

Parafrasando la celebre definizione di Bovenkerk (1973, in Barbagli, 2002, p. 31) la «bomba sociale a scoppio ritardato» è ormai esplosa anche in Italia, seppur con considerevole ritardo, e con manifestazioni meno eclatanti, rispetto a quanto è accaduto nei paesi di più antica migrazione: percepiti inizialmente come presenze transitorie, figli silenziosi di quei padri e quelle madri che negli anni Ottanta e Novanta giunsero nel nostro Paese con progetti migratori, il più delle volte disattesi, che contemplavano il rientro in patria, quei bambini sono nel frattempo diventati adolescenti impegnati sui banchi delle scuole secondarie, e poi giovani uomini e donne pronti ad affrontare, qui e con ambizioni diverse, il mondo del lavoro, in certi casi già genitori della generazione successiva, la terza. Si tratta di persone che reclamano visibilità, rivendicando il riconoscimento della propria specificità generazionale, identificabile in una diversità sia rispetto all’universo di riferimento genitoriale, sia nei confronti della società in cui sono cresciuti, dal momento che il percorso unidirezionale di progressiva acculturazione ai valori, alle possibilità e agli stili della classe media, predetto con eccessivo ottimismo dai teorici dell’assimilazione in linea retta, non si è verificato (Colombo, 2005, p. 44). I dati relativi all’anno scolastico 2016-17 (MIUR, 2018) indicano che gli studenti e le studentesse di origine migratoria presenti nelle scuole italiane sono circa 826 mila (pari al 9,4% del totale) e si inseriscono nella fase di assestamento della caratterizzazione multiculturale delle nostre classi, cominciata dall’anno scolastico 2012-13 dopo che, nei dodici anni precedenti, l’incremento delle loro presenze è stato pari a quasi 670 mila unità. In modo particolare, nonostante più del 35% non riesca a portare a termine l’ultimo biennio, la scuola secondaria di secondo grado si può considerare il settore relativamente più dinamico per quel che riguarda l’immissione di studenti con cittadinanza non italiana, dal momento che il loro numero è cresciuto, dal 2007-08 al 2016-17, del 61%.

Questi numeri e percentuali ci consentono di esprimere una prima annotazione di decisiva rilevanza pedagogica: in ogni ordine e grado di scuola, e con accresciuta importanza negli istituti secondari superiori di ogni tipologia e indirizzo, la connotazione marcatamente multiculturale delle classi è ormai un dato di fatto assodato e consente agli studenti, sin dai primi anni della scuola dell’infanzia, di crescere fianco a fianco con compagni dalle provenienze più disparate, contaminando alcune espressioni delle diverse culture ed elaborando stili comunicativi, sociali, culturali e valoriali condivisi. Si affacciano all’età adulta le prime generazioni di giovani uomini e donne che hanno compiuto l’intero percorso di crescita, socializzazione e formazione in contesti naturalmente multiculturali: non sono soltanto nativi digitali, ma pure, potremmo dire, nativi multiculturali. Le canzoni di Ghali sono quindi parte di questo universo condiviso tra coetanei italiani e di origine straniera, al punto che la distanza rispetto alle generazioni dei professori si connota non solo come culturale, ma prima ancora come anagrafica e generazionale.

 

Adolescenza, ridefinizione dell’identità e bisogno di riconoscimento

I numerosi elementi di vicinanza che accomunano gli adolescenti italiani ai loro coetanei con almeno un genitore straniero, definiti dai sociologi immigrati “di seconda generazione” (Ambrosini e Molina, 2004), non cancellano le ineludibili differenze e le criticità che ancora possono mettere a rischio le dinamiche relazionali e di integrazione, in modo particolare quando emergono in età adolescenziale. Risulta qui opportuno introdurre il concetto di vulnerabilità, riferendolo ai bambini e agli adolescenti che direttamente o indirettamente sperimentano l’esperienza della migrazione.

Secondo l’etnopsichiatra Marie Rose Moro (2005, p. 48) «il funzionamento psichico del bambino vulnerabile è tale che una minima variazione, interna o esterna, comporta un’importante disfunzione, una sofferenza spesso tragica, un arresto, un’inibizione o uno sviluppo al minimo del suo potenziale. In altri termini, il bambino vulnerabile è quello che possiede la minima resistenza a ogni fattore nocivo e alle aggressioni». I periodi della vita in cui il soggetto esprimerebbe condizioni di vulnerabilità particolarmente marcate sarebbero tre e corrisponderebbero: ai momenti immediatamente successivi alla nascita, durante i quali il neonato risentirebbe delle condizioni di stress vissute dalla madre; alle prime settimane di ingresso nella scuola, in corrispondenza della prima netta cesura con l’universo di riferimento familiare e il contatto con nuovi codici sociali e culturali; infine, appunto, l’adolescenza, età in cui ogni più labile certezza viene rimessa in discussione, in cui le difficoltà e le contraddizioni del vissuto migratorio vengono a intrecciarsi con lo spaesamento e la fragilità che il vorticoso processo di ridefinizione identitaria produce. L’adolescenza è il momento in cui il soggetto assurge alla consapevolezza di non essere più un bambino, e con forza reclama visibilità, vuole uscire dall’oblio dell’infanzia per poter avere strada aperta verso la dimensione adulta, tra scoperte, incidenti, trasgressioni, disillusioni. Nel progressivo, talvolta conflittuale distacco dai propri genitori, il gruppo dei pari assume un’importanza mai avuta prima, diviene terreno di sperimentazione e consolidamento di appartenenze vissute come imprescindibili, anche quando rischiose, labili, irrazionali. Scivolare, addirittura cadere in stati di difficile risalita costituisce per tutti un’eventualità, ma ancora di più lo è per i giovani di origini straniere, con più probabilità e frequenza vittime da un lato dei fenomeni di emarginazione, stigma, ghettizzazione e discriminazione ancora perpetrati nei contesti pubblici e sociali, dall’altro di imposizioni e negazioni volute dai genitori in rispetto della cultura delle radici, talvolta causa di conflitti eclatanti e ribellioni.

Spaesati ed esausti nel lavoro di traduzione e tessitura dei diversi universi culturali che contribuiscono a definirli (Dusi, 2017), oppressi da definizioni che percepiscono come limitanti, i ragazzi figli di immigrati stranieri esprimono amplificandoli, talvolta esasperandoli, alcuni bisogni che sono tipici di tutti gli adolescenti, e verso i quali è dunque compito dell’educatore e dell'insegnante provare a fornire stimoli, sostegno e strumenti che possano favorire l’elaborazione di risposte, seppur provvisorie. Tra questi, prioritari e indispensabili per il perseguimento di una necessaria progettualità esistenziale sono: il bisogno di trovare un senso, di costruire una cornice di riferimento a cui ancorare i propri pensieri e le proprie azioni; il bisogno di riconoscimento, di essere riconosciuto come individuo con una propria singolarità; il bisogno di rammemorazione, di riconciliarsi con il passato per prospettarsi un futuro; il bisogno di inserirsi nella società, di trovare il proprio posto, acquisendo uno status il più possibile definito (Favaro e Napoli, 2002).

La scuola, in quanto agenzia intenzionalmente formativa e contesto multiculturale finalizzato all’alfabetizzazione/istruzione e alla socializzazione/educazione in ambienti protetti, con contenuti e scopi condivisi, costituisce uno spazio privilegiato per ripensare e ridefinire i curricoli in prospettiva interculturale (Frabboni, 2002; Pinto Minerva, 2002; Baldacci, 2006) e imbastire strategie e azioni che possano sostenere la vulnerabilità degli adolescenti figli di immigrati, trasformandola da debolezza individuale a occasione di arricchimento per tutti. Molteplici sono le competenze necessarie ai docenti e ai dirigenti scolastici per realizzare progettazioni interdisciplinari e interculturali che sappiano guidare con mano ferma ma rassicurante il passaggio da stati di disagio a condizioni di agio individuale e collettivo, così come molteplici sono anche le strategie e le piste percorribili: tra queste, nel percorso che qui presenteremo, abbiamo scelto di sperimentare pratiche di narrazione autobiografica affiancate a letture e discussioni su alcuni testi di autori italiani “di seconda generazione”, giovani donne e giovani uomini che, nelle loro pagine, raccontano di conflitti e debolezze, di piccole gioie e puntuali sconforti, rimarcando comunque sempre la necessità di lasciare una traccia, di non passare inascoltati, di veicolare i propri messaggi per cercare condivisione, siano questi tra i capitoli di un libro, nelle note di un pezzo rap o nelle parole confidate a compagni e insegnanti sui banchi di scuola.

 

Un progetto in un istituto superiore di secondo grado

L’Istituto di Istruzione Superiore “Cavazzi-Sorbelli” si trova a Pavullo nel Frignano, un paese di 17.400 abitanti dell’Appennino modenese, a 681 metri sul livello del mare, caratterizzato da tassi di immigrazione meno alti che nelle città della regione. Ciononostante, i ragazzi e le ragazze con cittadinanza non italiana sono, a oggi, 137 e rappresentano il 14% degli studenti: tra questi, 40 marocchini, 24 albanesi, 17 moldavi, 11 romeni, 8 indiani costituiscono i gruppi nazionali più numerosi. La scuola ospita 986 studenti ed è suddivisa in 3 indirizzi: liceo (scientifico e delle scienze umane), tecnico (amministrazione, finanza e marketing; relazioni internazionali) e professionale (servizi commerciali e per il turismo). Per quanto riguarda la suddivisione degli alunni con cittadinanza non italiana, nei tre indirizzi dell’istituto, ci sono 35 studenti su 451 al liceo (8%), 51 su 365 al tecnico (14%) e 49 su 169 al professionale (29%).

L’idea del progetto che qui veniamo a presentare è scaturita da alcuni interrogativi emersi con insistenza nei pensieri e nelle discussioni degli insegnanti nei recenti anni scolastici, compreso quello in corso: quali forme di disagio, se presenti, possono colpire gli alunni con origini straniere? Questi alunni si sentono più vicini e rappresentati dalle espressioni culturali recepite in famiglia? O si sentono più vicini a stili e modi di vivere della società italiana? Quali abitudini sentono maggiormente come proprie? Come vivono il fatto di appartenere a due culture diverse e non sempre concordanti?

L’appartenenza culturale è stata quindi messa al centro di un progetto che ha avuto l’ambizione di coniugare obiettivi di indagine scientifica con la sperimentazione di pratiche didattiche fino a quel momento inedite nel contesto di riferimento, anche al fine di delineare le basi di un approccio per conoscere gli alunni e progettare attività didattiche che possa risultare funzionale anche in altre classi e nei prossimi anni scolastici.

 

Gli strumenti utilizzati

Per realizzare la fase esplorativa del progetto, si è fatto ricorso principalmente a pratiche di osservazione diretta, discussioni/interviste di gruppo e questionari a risposta aperta.

 

L’osservazione

L’osservazione è una forma di rilevazione di informazioni finalizzata a conoscere meglio un determinato evento o un comportamento (Cerrocchi e Martini, 2005, p. 252): nel caso qui riportato, è stata utilizzata osservando gli alunni direttamente in classe durante le discussioni che sono seguite alle letture, ma anche nella fase preliminare (aprile-maggio 2018) di contatto con gli alunni ai quali sarebbero stati poi proposti letture e questionari, e in un secondo momento (settembre-ottobre 2018) per integrare l’analisi delle risposte ai questionari con dati scaturenti dalle espressioni del loro linguaggio “non verbale” (comportamenti, gesti, sguardi) e dai loro modi di interagire con i compagni.

 

Le discussioni/interviste di gruppo a partire dalla lettura di alcuni testi

L’intervista viene definita da Cerrocchi e Martini (2005, p. 265) in tre diversi modi:

 

  1. l’atto di porre domande;

  2. lo strumento tecnico;

  3. il resoconto finale verbale o scritto.

 

Nel caso qui presentato, si tratta di un colloquio tra più persone che si è svolto durante le ore curricolari, a classe intera, alla presenza/conduzione di uno o due insegnanti.

Cerrocchi e Martini sottolineano l’importanza di 5 fattori relativi all’utilizzo di questo strumento, in particolare:

 

  1. le domande devono essere formulate in maniera adeguata. Questo è fondamentale se si considera che l’intervista è rivolta a degli adolescenti, quindi si è cercato di non urtare la loro sensibilità;

  2. le domande devono essere esposte seguendo una sequenza corretta. In particolare, si è cercato di seguire l’ordine in cui le informazioni venivano riportate nei testi durante la lettura dei brani;

  3. il linguaggio deve essere chiaro e comprensibile all’intervistato. Siccome, pur coinvolgendo l’intera classe, particolare interesse era rivolto alle risposte dei ragazzi di origine straniera, si è scelto di utilizzare termini semplici e di facile comprensione, chiedendo spesso ai ragazzi di fornire dei sinonimi dei termini usati per controllare la comprensione;

  4. le informazioni ottenute devono essere registrate in maniera corretta. Si è quindi ricorso a registrazioni audio e annotazioni;

  5. l’analisi dei dati deve essere accurata.

 

Si è deciso di lavorare attraverso la lettura collettiva e il commento guidato di alcuni brani di letteratura migrante di seconda generazione. In seguito alla proposta di ogni brano sono state poste delle domande allo scopo di effettuare parallelismi e confronti tra le vicende e le riflessioni lette e quelle vissute ed elaborate in prima persona dagli alunni. In modo particolare, i brani scelti come stimolo per le discussioni sono stati tratti da opere di Igiaba Scego (La mia casa è dove sono, 2012), Randa Ghazy (Oggi forse non ammazzo nessuno, 2016), Zadie Smith (Denti Bianchi, 2000), Shi Yang Shi (Cuore di seta, 2017). A seconda del tipo di brano affrontato, sono emersi aspetti di volta in volta diversi. Siamo nel paragrafo successivo a riferire cinque brevi estratti dai brani che sono stati oggetto di discussione in classe e le relative osservazioni emerse.

 

Il questionario

Secondo Cerrocchi e Martini (2005, p. 276) il questionario presenta caratteristiche comuni all’intervista, per quanto riguarda l’uso, la costruzione e l’analisi dei dati. Le principali differenze riguardano i tempi di somministrazione e i costi. Il questionario può essere somministrato a un ampio campione di soggetti in un tempo limitato, mentre l’intervista richiede tempi maggiori per essere effettuata sullo stesso numero di soggetti.

La somministrazione del questionario finale ha permesso di controllare meglio l’attendibilità dei dati precedentemente raccolti e di ottenere informazioni precise e confrontabili.

Sono state seguite le indicazioni di Cerrocchi e Martini nella formulazione del questionario, determinando quindi a priori:

 

  1. gli argomenti e i temi specifici su cui formulare le domande;

  2. il numero e l’ordine di presentazione delle domande;

  3. il tipo di formulazione delle domande, in questo caso aperte.

 

A seguito delle interviste di gruppo, si è deciso di somministrare agli studenti un questionario, in forma anonima, di modo che gli studenti si potessero esprimere “più liberamente”, cioè senza paura di essere giudicati dai loro compagni di classe. Lo scopo era quello di verificare se i ragazzi avrebbero confermato le risposte date durante le interviste di gruppo e quindi avrebbero confermato le loro prese di posizione oppure  avrebbero cambiato idea. Tramite questo questionario, inoltre i ragazzi avrebbero potuto aggiungere elementi ulteriori, rispetto a quelli espressi durante le interviste di gruppo.

 

I temi salienti

 

Appartenenze e identità

 

Igiaba Scego - La mia casa è dove sono

Essere italiani a ben vedere significa fare parte di una frittura mista. Una frittura fatta di mescolanze e contaminazioni. In questa frittura io mi sento un calamaro molto condito. Che significa essere italiano per me... una domanda che batteva come un viandante sconosciuto alla porta di casa: io ho provato a scriverla una risposta. [...] Non avevo una risposta. Ne avevo cento. Sono italiana, ma anche no. Sono somala, ma anche no. Un crocevia, uno svincolo. Un casino. Un mal di testa. Ero un animale in trappola. Un essere condannato all’angoscia perenne (p. 159).

 

Gli studenti hanno avuto modo di riflettere su cosa fosse l’identità per loro e l’hanno definita come “ciò che ci rappresenta”, “ciò che fa sì che io sia me stessa”. I tre principali aspetti che sono emersi nel tentativo di definire l’identità sono stati la famiglia, la lingua (o dialetto) e il cibo.

La famiglia risulta l’aspetto più nominato, e non solo dai ragazzi con cittadinanza non italiana, ma anche dai compagni italiani che si sentono napoletani, sardi e pugliesi proprio perché parte della loro famiglia si trova “giù” e descrivono con molto entusiasmo i mesi estivi che possono trascorrere da nonni e zii. Per quanto riguarda la lingua, i ragazzi stranieri si sono sentiti accomunati nelle esperienze con i ragazzi campani e sardi perché, quando tornano nel Paese d’origine dei genitori, fanno subito fatica a capire la lingua o il dialetto, serve loro del tempo prima di riprendere a parlare in maniera fluente.

Non tutti i ragazzi sanno scrivere nella lingua materna, anzi, coloro che vi riescono rappresentano la minoranza: una ragazza marocchina ha imparato a scrivere in arabo presso una scuola araba domenicale, le ragazze cinesi sanno scrivere utilizzando gli ideogrammi cinesi in quanto, pur essendo nate in Italia e avendo frequentato la scuola dell’infanzia in Italia, sono state “rispedite” dai genitori in Cina per frequentare le scuole elementari e le ragazze kosovare padroneggiano la loro lingua perché, immigrate tra gli 11 e i 13 anni, hanno frequentato le scuole elementari in Kosovo.

Parlando di cibo emerge in maniera preponderante il sentimento della nostalgia. Tutti i ragazzi mangiano volentieri i piatti tipici del paese dei genitori, però i loro piatti preferiti sono italiani, in testa alla classifica lasagne e tortellini. Nessuno è stato in grado di spiegare come si cucinino i piatti tipici del Paese d’origine dei genitori, forse questo è in parte dovuto alla giovane età delle ragazze, che hanno in media 16 anni. In Cina, fino agli anni Ottanta, vi era la consuetudine di bere acqua calda dopo che era stata bollita, soprattutto per un fattore igienico. Le ragazze cinesi hanno riferito che i genitori sono ancora soliti far bollire l’acqua prima di berla, mentre loro bevono dalle bottiglie di acqua minerale o direttamente l’acqua del rubinetto.

Non sono mai emerse confusione e crisi dovute all’appartenenza a due culture né nei ragazzi di origine straniera, né nei ragazzi del sud Italia. Una ragazza cinese ha raccontato che in cinese la parola “crisi” è resa con due diversi ideogrammi, uno che significa “disfatta, annullamento, distruzione” e l’altro che significa “rinascita”, dando perciò a questo termine una connotazione estremamente positiva.

 

Shi Yang Shi - Cuore di seta

Io sono cinese. E sono italiano. Mi sento un albero anfibio in grado di vivere sia nell’acqua che sulla terra, ma con le radici sprofondate nell’eredità culturale e spirituale degli uomini, a partire da quella dei miei antenati (quarta di copertina).

Se in Italia ero un cinese, in Cina non ero più solo e soltanto cinese, ma nemmeno italiano. Ero diventato anche io “laowai”, straniero, o peggio “banana”: giallo fuori e bianco dentro. Già, così dicevano di me, più o meno scherzando, i miei ex compagni delle elementari. Un po’ ci rimanevo male ma sentivo anch’io che avevamo ormai poche cose in comune da dirci. E non fu piacevole sentirmi diverso nella mia terra natale […] (p. 105).

 

Da questo estratto di Shi Yang Shi emerge molto chiaramente il sentimento della doppia assenza e dalla discussione in classe è risultato che si tratta di un sentimento provato almeno una volta da tutti i ragazzi, in modo più frequente quando ritornano nel Paese di origine dei genitori, come ha raccontato un ragazzo albanese che, quando va a trovare i nonni, gli zii e i cugini, viene accolto con epiteti del tipo: “È tornato l’italiano!”.

 

Relazioni e integrazione

Randa Ghazy - Oggi forse non ammazzo nessuno

Yousuf materializza tutte le tue paure e le tue angosce, rappresenta il mondo da cui vuoi scappare, ma dal quale in fondo vieni. Thomas invece simboleggia il mondo diverso dove vorresti avventurarti ma che in realtà non riesce ad accettarti del tutto perché continua a percepirti, paradossalmente, come diversa da sé. [...] Quante volte mi sono sentita fottutamente diversa? Quante volte ho avvertito il disagio nelle persone, o il disagio in me, l’incapacità e l’impossibilità di renderli pienamente partecipi di quello che sono? Quante volte mi sono detta “pensa se un giorno mi svegliassi e mi ritrovassi in una bella famiglia italiana, uguale a tutti quelli che mi stanno intorno. [...] E quante volte mia madre mi ha detto di non vergognarmi di quello che sono? (pp. 182-183).

 

Quando abbiamo letto questo brano ci siamo chiesti se fosse importante la provenienza del fidanzato/a. Sono emersi aspetti molto interessanti, in particolare alcune ragazze italiane hanno riferito di avere genitori estremamente tradizionalisti/conservatori e che quindi sarebbero stati contrari a una relazione della loro figlia con un ragazzo straniero, ma solo se proveniente da alcuni Paesi. Non avrebbero avuto problemi con un ragazzo norvegese o tedesco, ma non vedrebbero di buon occhio se la loro figlia frequentasse un africano, un albanese, un ragazzo dell’est Europa o un ragazzo indiano. Le ragazze marocchine hanno detto che i loro genitori preferirebbero che loro frequentassero ragazzi di origine marocchina o almeno di religione musulmana, però non avrebbero problemi ad accettare la relazione della loro figlia con un ragazzo italiano. Le ragazze turche ammetterebbero una relazione solo con ragazzi turchi, mai italiani, e non per assecondare i genitori, ma solo per loro scelta personale. 

 

Randa Ghazy - Oggi forse non ammazzo nessuno

Sono sempre lì, tesa verso l’integrazione perfetta, l’assimilazione più totale. Senza rendermi conto che forse alla fine è un miraggio lontano. Tu ti sforzi e fai di tutto per avvicinarti, ma più ti avvicini più perdi qualcosa di te, e anche se sembra sempre più vicino, non ci arrivi mai. E l’unica soluzione, alla fine, rimane tornare indietro. Quando ti rendi conto che non raggiungerai mai la meta, ti volti e torni indietro. Ma quando ti giri di nuovo a guardarla, non c’è più, perché in realtà forse non c’è mai stata. Non vorrei mai rischiare di correre indietro a un miraggio. Perderei qualcosa di me (p. 183).

 

I ragazzi sono arrivati alla conclusione che l’assimilazione perfetta non esiste e hanno affermato di essere perfettamente a proprio agio nella loro situazione “a cavallo” tra due culture. L’unica forma di disagio emersa è stata da parte delle ragazze cinesi, soprattutto per le difficoltà linguistiche. Il loro progetto migratorio non è stato lineare, ma circolare, infatti dopo essere nate in Italia e avere frequentato la scuola dell’infanzia, sono state rimandate in Cina per frequentare le elementari. Tutti i ragazzi cinesi hanno frequentato da 3 a 5 anni di scuola elementare in Cina.

 

La cultura delle origini

Per quanto riguarda la perdita e il rischio di obliare usi e consuetudini della cultura dei genitori, molti ragazzi hanno ammesso di avere paura di dimenticare sempre di più la lingua. Una ragazza marocchina ha raccontato che ha dimenticato le consuetudini del saluto tipiche della cultura marocchina e quando va a trovare parenti e amici in Marocco, dopo avere dato tre baci sulle guance al suo anfitrione, non si ricorda la formula che deve dire. I ragazzi hanno espresso le loro preoccupazioni anche riguardo al rischio di dimenticare fiabe e storie del Paese di provenienza dei genitori. Una ragazza cinese ha raccontato una storia cinese in cui una fata si innamora di un contadino, ma non era in grado di raccontare il finale e nemmeno la morale. Le è stato chiesto se per caso la morale fosse che la provenienza e l’estrazione sociale non sono importanti in amore. Non riteneva quella la morale, ma non era in grado di dire quale fosse. 

Una ragazza ha affermato: «Non rinuncerei mai alla cultura marocchina perché fa parte di me e i miei genitori mi hanno cresciuta trasmettendomela», mostrandosi molto patriottica e rispettosa delle tradizioni della cultura dei genitori.

Per quanto riguarda i costumi tipici, da un lato le ragazze marocchine hanno detto di non vedere l’ora che arrivino la fine del Ramadan, la festa della capra e altre feste tipiche perché amano indossare i costumi marocchini, dall’altro lato una ragazza cubana ha raccontato del fastidio provato nell’indossare i costumi tipici cubani per una giornata intera. A Cuba, infatti, quando una ragazza compie 15 anni entra in società e festeggia l’avvenimento per una giornata intera indossando vestiti molto voluminosi e pesanti, con pizzi e merletti da portare sotto i 40° del sole cubano. Oltre a indossare i costumi tipici, una ragazza si reca a visitare amici e parenti e festeggia con loro mangiando, bevendo e ballando.

 

I fenomeni migratori

Zadie Smith - Denti bianchi

Questo è il secolo degli sconosciuti, di pelle scura, gialla e bianca. Questo è stato il secolo della grande sperimentazione immigratoria. È solo ora che entrando in un parco giochi si può trovare Isaac Leung a pesca vicino allo stagno, Danny Rahman sul campetto di calcio, Quang O'Rourke che lancia al canestro, e Irie Jones che canticchia una melodia. Ragazzi con il nome di battesimo e il patronimico in rotta di collisione. Nomi che al loro interno celano esodi di massa, barche e aerei stracolmi, sbarchi gelidi, controlli medici (p. 336).

 

I ragazzi hanno mostrato molta confusione circa le aree di provenienza degli sbarchi dall’Africa: alcuni addirittura pensavano che le carrette del mare partissero dalla Nigeria invece che dalla Libia.

Quando abbiamo letto il brano di Igiaba Scego, scrittrice nata in Italia da genitori somali, i ragazzi non sapevano dove fosse la Somalia e nemmeno dove fosse il Corno d’Africa. Quando è stata introdotta la biografia di Zadie Smith, scrittrice inglese di origine giamaicana, i ragazzi hanno mostrato di non sapere dove fosse la Giamaica. Non è stato d’aiuto nemmeno dire che si tratta di una piccola isola localizzata sotto Cuba, nei Caraibi, perché non sapevano né dove fosse Cuba, né dove fossero i Caraibi.

Introducendo il romanzo Denti bianchi, si è parlato di uno dei protagonisti, Samad che viene dal Bangladesh. Sia Samad che sua moglie Alsana, anche lei bengalese, sono molto preoccupati dell’educazione dei loro figli e vorrebbero che mantenessero alcuni valori della loro cultura di appartenenza. La madre è solo preoccupata che questi valori vadano persi. Spesso ha incubi in cui sogna che il figlio più ribelle e progressista, Millat, si sposi con una ragazza inglese bianca e che nel giro di due generazioni la bengalinità si sia completamente persa. I ragazzi non sapevano nemmeno dove fosse il Bangladesh e non è stato d’aiuto dire che si trova tra India e Cina.

 

Religiosità e ospitalità

La religione non è stato uno degli elementi più importanti delle nostre discussioni, ma è emersa solo in un secondo momento. Per le ragazze marocchine e turche la religione rappresenta una forte componente e la vorrebbero trasmettere ai figli e nipoti. I ragazzi albanesi sono tutti cattolici, ma la religione non riveste una parte significativa della loro vita, perché ad esempio non sono stati battezzati, non hanno ricevuto la comunione e nemmeno la cresima. I ragazzi polacchi sono cattolici e si sono detti assidui frequentatori della Chiesa in Polonia, ma meno in Italia. Questo forse perché, mentre in Polonia tutta la famiglia andava a messa assieme, in Italia è venuto meno questo rito collettivo. I ragazzi sia polacchi che albanesi hanno osservato che in Italia la religione è poco praticata e, anche nel caso in cui venga praticata, lo si fa “alla leggera” perché ad esempio i ragazzi italiani che vanno in Chiesa, poi al di fuori bestemmiano o hanno comportamenti non consoni alla morale cristiana. I ragazzi albanesi hanno inoltre fatto notare come l’ospitalità sia molto più sentita in Albania che in Italia, addirittura l’ospitalità in Albania è sacra e questo è confermato anche dalla calorosa accoglienza che ricevono quando vanno a trovare nonni, zii e cugini. Non sentono un’accoglienza altrettanto calorosa al loro rientro in Italia.

 

Per concludere

Concludiamo con un pensiero finale sull’importanza del “viaggio”. Il “viaggio” è una metafora intesa a rappresentare la discussione che abbiamo avuto assieme agli alunni delle nostre classi e questa discussione non solo ci ha aiutati a conoscerli meglio, ma ha anche permesso a loro di conoscersi meglio reciprocamente. Ai ragazzi e alle ragazze è piaciuto discutere assieme su altre culture, altri paesi e altri modi di pensare. Il confronto continuo con persone di altre culture e che non la pensano come noi non dovrebbe mai mancare, soprattutto a scuola. Il compito della scuola è proprio educare al dialogo (interculturale, ma non solo) e al confronto.

Sono diversi gli strumenti didattici che potrebbero essere adottati per un’educazione al dialogo a partire dalla letteratura migrante. Pensiamo soprattutto ai docenti di lettere, che potrebbero leggere brani di letteratura migrante e discuterne in classe per vedere e osservare le diverse opinioni dei ragazzi. Alcuni volumi, come ad esempio l’edizione de La mia casa è dove sono della casa editrice Loescher, si prestano particolarmente per attività nella scuola superiore di primo e di secondo grado, in quanto già corredati da domande di comprensione e letture integrative di articoli. Su questa falsariga, è possibile per l’insegnante realizzare in prima persona, coinvolgendo gli alunni, nuovi materiali anche a partire da testi scevri di espansioni, che possano essere a seconda delle necessità “risultato di” o “spunto per” attività di discussione e dialogo.

I linguaggi e i canali della narrazione sono, oggi più che mai, molteplici: in modo particolare quelli di più recente sviluppo sono padroneggiati e condivisi dai ragazzi e dalle ragazze a prescindere dalla provenienza familiare e dall’intreccio di appartenenze e retaggi culturali che contraddistinguono le loro biografie. Abbiamo scelto di aprire questo articolo con alcune strofe di una canzone che è possibile inquadrare in quel genere indefinito, al confine e all’intreccio tra pop, rap, trap, hip-hop, molto in voga, che con efficacia sa da un lato recepire, dall’altro influenzare le espressioni, le manifestazioni e le idee che caratterizzano i comportamenti giovanili. Con questa scelta, abbiamo voluto suggerire al lettore un primo accostamento, quello tra la necessità di conoscere e capire le nuove generazioni multiculturali e l’importanza di approcciarsi alle espressioni culturali, comunicative e commerciali in cui si sentono rappresentate. Uno spazio privilegiato in cui cercarne altre, pur rischiando di perdersi, è certamente costituito dalla Rete, da quella sua galassia di social network, blog, forum, influencer e video postati, opportunità concesse a ciascuno per raccontare, e quindi condividere, qualcosa di sé attraverso pochi movimenti su mouse e tastiera, in risposta a un irrefrenabile bisogno di narrare e narrarsi, per rendersi così visibili, riconoscibili, e sentirsi parte di comunità dalle dimensioni e dai confini fluidi e fluttuanti, ma percepite come reali, rassicuranti, stimolanti.

All’interno di questo panorama sociale e culturale, in cui i linguaggi si contaminano e si ridefiniscono riflettendo le istanze dei contesti e del tempo, la letteratura migrante costituisce una nicchia di discreta risonanza e riconosciuta qualità, forse più rassicurante per l’insegnante che meglio sa districarsi tra le pagine di un libro; si tratta quindi di un prezioso punto di partenza per progettare e realizzare espansioni ed esplorazioni anche nei territori meno conosciuti e battuti, lambendo i vissuti (reali e virtuali) e i bisogni che i ragazzi e le ragazze con origini straniere o autoctone a volte precludono ai loro insegnanti, pur mantenendo un forte, sommerso desiderio di poter dialogare ed essere ascoltati.

 

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DOI: 10.14605/EI1621910


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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