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Immigrazione o apocalisse? Riflessioni critiche e pedagogiche a margine del controverso romanzo Il Campo dei Santi di Jean Raspail
Immigration or apocalypse? Critical and pedagogical reflections in relation to the controversial novel. Le Camp des Saints by Jean Raspail

William Grandi

Professore Associato presso l’Università di Bologna – Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”


Autore per la corrispondenza

William Grandi
Indirizzo e-mail: william.grandi@unibo.it
Dipartimento di Scienze dell’Educazione “Giovanni Maria Bertin”, Via Filippo Re 6, 40126, Bologna



Sommario

Il fenomeno migratorio è uno degli eventi più complessi del nostro periodo storico: l’arrivo di donne e uomini da luoghi lontani alla ricerca di rifugio, di lavoro o di protezione sta mettendo le società occidentali davanti a sfide difficili che non coinvolgono soltanto i settori dell’economia o della politica, ma anche quelli dell’immaginazione e della letteratura. Anzi, a volte, proprio la letteratura sembra divenire uno strumento potente capace sia di raccontare empaticamente l’esperienza dei migranti, sia, per converso, di amplificare e deformare le paure e le angosce che l’arrivo di nuova gente provoca in Occidente. Il romanzo Il Campo dei Santi pubblicato nel 1973 dallo scrittore francese Jean Raspail appartiene a questa seconda categoria: esso descrive in termini apocalittici e distopici l’arrivo via mare dall’India di una moltitudine affamata di migranti che sono determinati a invadere la Francia. Si tratta di un romanzo volutamente disturbante che è divenuto una sorta di vademecum per molti esponenti politici dei nostri giorni. Il presente articolo intende esaminare il libro di Raspail da un punto di vista letterario, storico e pedagogico, per mettere in luce i suoi meccanismi narrativi, i suoi riferimenti ideologici e le possibili implicazioni sull’immaginario collettivo.

Parole chiave

fenomeno migratorio, immaginario, letteratura, storia.


Abstract

The migration phenomenon is one of the most complex events in our historical period: the arrival of men and women from distant countries in search of refuge, work or protection forces Western societies to deal with difficult challenges that do not only involve the sectors of the economy and politics, but also the domains of imagination and literature. Indeed, sometimes literature seems to become a powerful tool capable both of empathically telling the experience of migrants, and, conversely, of amplifying and deforming the fears and anguishes that the arrival of new people causes in the West. The novel Le Camp des Saints published in 1973 by the French writer Jean Raspail belongs to this second category: it describes in apocalyptic and dystopian terms the arrival by sea of a hungry multitude of Indian migrants who have decided to invade France. It is deliberately a disturbing novel which has become a sort of handbook for many political figures today. This article intends to examine Raspail's book from a literary, historical and pedagogical point of view, in order to highlight its narrative mechanisms, ideological references and the possible implications on the collective imagination.

Keywords

migration phenomenon, imagination, literature, history.


Un romanzo disturbante

I fenomeni migratori verso l’Europa sono uno degli eventi più significativi dei tempi attuali: è innegabile che l’arrivo di profughi e fuggitivi dal sud del mondo stia creando nel nostro continente tensioni e opposizioni sempre più intense che spingono verso politiche progressivamente più restrittive nei confronti dei migranti. Tuttavia, se da un lato chi giunge da lontano può suscitare razzismo, incomprensione, difficoltà di convivenza e sfruttamento, dall’altro l’arrivo dei migranti apre a atti di solidarietà, volontà di integrazione e impegno umanitario: l’incontro con i cosiddetti “diversi” svela le contraddizioni, le tensioni, ma anche le qualità delle nostre comunità (Castles e Miller 1993/2012, pp. 43-73). Le implicazioni economiche e sociali delle migrazioni sono troppo ampie per poter essere dibattute in questa sede: tuttavia, va qui sottolineato il fatto che chi arriva da lontano come profugo o fuggiasco si fa latore inconsapevole di una serie di rappresentazioni che si depositano nell’immaginario collettivo, finendo, a volte, per generare spiacevoli fantasmi o inquietanti “mostri” che entrano nelle percezioni di ciascuno (Kymlicka 2010, pp. 32-47). E le percezioni – realistiche o fantastiche che siano – possono divenire strumento di azione politica, se diventano patrimonio di massa.

Queste brevi riflessioni intendono introdurre l’analisi del controverso romanzo dello scrittore francese Jean Raspail intitolato Il Campo dei Santi (Raspail, 1973/2016) che dal 1973 – anno della sua prima edizione – continua ad alimentare un sotterraneo ma vivace dibattito tra detrattori e ammiratori: la trama del libro, che sarà esaminata più dettagliatamente nelle prossime righe, si incentra sul viaggio dall’India verso l’Europa di un’enorme flottiglia di navi arrugginite cariche di centinaia di migliaia di poveri che intendono attraccare nel sud della Francia, per appropriarsi della loro fetta di benessere materiale. Questo esodo viene guardato con preoccupazione dai governi europei – soprattutto da quello francese – che non sanno come fermare la folla dei migranti assolutamente determinati a giungere nel nostro continente. La moltitudine in viaggio viene descritta da Raspail con toni forti e senza sfumature: essa è composta da esseri cenciosi, maleodoranti, rapaci, affamati e dai tratti fisici spesso mostruosi e ributtanti.

La trama del romanzo oscilla sempre tra due spazi narrativi: da un lato, il libro si sofferma sulla descrizione della tragica flottiglia in navigazione, sulle tappe di questo esodo, sui momenti (sempre ripugnanti) della vita a bordo dei barconi rabberciati; dall’altro lato, l’intreccio segue le vicende dei tentennanti politici francesi incapaci di una reazione decisiva davanti a quella che si presenta nei modi come un’invasione pacifica, ma che in realtà porta con sé esiti apocalittici. In mezzo a tutto questo si collocano nelle vicende del romanzo altri personaggi come artisti, giornalisti, preti, educatori, professori e militari che, a seconda del proprio convincimento, si posizionano ora a favore, ora contro l’arrivo dei migranti. La flotta degli indiani è guidata da un guru soprannominato il “Coprofago” (ovvero “colui che mangia sterco”) e da una sorta di mostruoso oracolo dall’aspetto di bambino deforme e paralitico; alla fine i battelli giungono sulla costa meridionale della Francia. Come un’orda di cavallette la massa dei migranti inizia a risalire la nazione, accaparrandosi ogni bene senza trovare resistenza: i derelitti infine impongono un regime forzato di condivisione delle risorse e delle ricchezze, mentre i “bianchi” impoveriti e umiliati sono condannati alla scomparsa grazie a un forzato meticciato che fa progressivamente sparire ogni differenza di pelle e di cultura.

Già da questo brevissimo riassunto, è chiaro che Il Campo dei Santi è un romanzo disturbante, fastidioso, volutamente sgradevole: il romanzo è sorretto da un’esplicita affermazione della superiorità della civiltà dell’Occidente e della “razza” bianca, minacciata dall’ipocrita non-violenza parassitaria e distruttiva dei “neri”. Le culture “altre” – quelle africane e asiatiche, ovvero quelle non cristiane e non “bianche” – sono viste come improduttive, crudeli e incapaci di ordine morale. L’intero libro è attraversato da un sarcasmo forte e a tratti disperato nei confronti dei “bianchi” che si sono fatti sopraffare dal senso di colpa per le colonizzazioni, divenendo così incapaci di reagire davanti all’invasione degli “altri” che, infatti, vincono con la sola forza di una pacifica determinazione di conquista e di un gran numero di figli: determinazione e figli che, nota Raspail, l’Europa non ha più, trovandosi moralmente infiacchita e demograficamente invecchiata.

Non è un caso, dunque, che questo romanzo venga letto, citato e consigliato da politici come Steve Bannon e Marine Le Pen che sembrano condividere appieno il messaggio esplicito di Raspail (Weitzmann, 2017, p. 70; Bassets, 2017).

Trattandosi di un romanzo, l’analisi de Il Campo dei Santi va condotta a partire da alcuni elementi afferenti alla critica letteraria: tuttavia l’esame di un libro come questo non può avvenire attraverso i soli strumenti della letteratura, perché le questioni da approfondire non si esauriscono nel definire la presenza o meno di qualità artistica e narrativa nel racconto. Per affrontare il romanzo di Raspail è necessario anche fare ricorso alle risorse analitiche offerte dallo studio dell’immaginario nei suoi intrecci con l’evolversi delle idee, delle rappresentazioni fantastiche e delle percezioni collettive. Inoltre non si può dimenticare la dimensione pedagogica perché, come vedremo, questo romanzo chiama spesso in causa – addirittura sbeffeggia – i progetti di educazione interculturale e i relativi operatori, giudicandoli ingenui, ipocriti o insensati.

Analisi letteraria, storia dell’immaginario e pedagogia sono dunque le tre linee guida con cui si è tentato un approccio a un libro che non può essere ignorato da chi si occupa di fenomeni migratori.

 

L’autore e la sua vita

Prima di procedere a un’analisi più approfondita del romanzo in questione è necessario soffermarsi sul suo autore, perché non è possibile staccare i libri dai loro creatori: d’altra parte le trame dei primi nascono sempre dalle motivazioni intellettuali e letterarie dei secondi. Su Jean Raspail non esistono molti studi “accademici” e per ricostruire la sua vita e la cronologia delle sue opere bisogna pertanto affidarsi alle numerose interviste e ai tanti articoli che sono apparsi nel corso degli anni sulla stampa internazionale: del resto è un personaggio che, come vedremo, non ha mancato, in talune occasioni, di attirare interesse su di sé. Lo scrittore è nato nel 1925 nel dipartimento francese dell’Indre-et-Loire, non lontano dalla Vandea, una regione geografica e culturale, a cui idealmente noi intuiamo che Raspail è legato in quanto monarchico e critico verso la Francia repubblicana (Maharane, 2015; Raspail, 2004); anche ora, che è un attivo ultranovantenne, rilascia volentieri dichiarazioni e riflessioni sulle sue opere, sulla sua vita, sulle sue opinioni in merito all’immigrazione e alla società francese, mentre la sua produzione letteraria è al centro di un discreto dibattito da parte di studiosi e giornalisti (Cakeljić, 2013; Autissier, 2015; Mahrane, 2015, Bassets, 2017; Weitzmann, 2017). Va detto che in diverse occasioni Raspail ha esplicitamente dichiarato di essere un monarchico, un cattolico tradizionalista e un conservatore: queste prese di posizione hanno fatto di lui – nella Francia laica, repubblicana e plurale dei nostri anni – un personaggio intellettuale insolito e diverso, capace per questo di coagulare su di sé curiosità e idiosincrasie.

Raspail è nato come scrittore di viaggi: dopo una lunga militanza nei boy-scout cattolici, tra il 1949 e il 1954 ha compiuto avventurosi giri nel Canada, negli Stati Uniti e nel sud America; infatti, è andato in canoa dal Québec a New Orleans, poi in auto, partendo dalla Terra del Fuoco, è arrivato in Alaska. In seguito ha compiuto viaggi anche in Medio Oriente e in Estremo Oriente. Queste sue avventurose esperienze di viaggio sono state riportate in libri di successo, che hanno conosciuto, in certi casi, anche adattamenti per ragazzi (Raspail e Raspail, 1975).

Detto per inciso, Raspail nutre un forte amore per la Patagonia e per la sua Storia sorprendente e stravagante: un amore che ha animato pure Bruce Chatwin, un altro viaggiatore molto noto (Chatwin, 1977/1982). Un amore, quello per la regione australe, che spinse Raspail nel 1981 a proclamarsi “viceconsole generale di Patagonia” e a occupare nel 1984 simbolicamente un isolotto britannico nella Manica a nome di uno stravagante e romantico personaggio francese vissuto nel XIX secolo, che si era autonominato re di quella lontana terra meridionale. Allo scrittore francese non manca quindi il gusto per la fantasia e la stramberia, unito all’attenzione verso le pieghe più insolite e bizzarre della Storia. Raspail si presenta, dunque, come un uomo eccentrico che sembra ricordare per indole, comportamento e profilo certi personaggi dei fumetti a cui, non a caso, è stato spesso accostato: ad alcuni, infatti, lo scrittore francese ricorda l’avventuroso Tintin delle storie disegnate da Hergé, come pure sembra incarnare certi personaggi bizzarri, guasconi e spericolati presenti negli albi di Hugo Pratt: del resto, diversi suoi romanzi sono stati trasposti in libri a fumetti di qualità che hanno riscosso un buon successo.1

Dal punto di vista degli studi di letteratura per l’infanzia è importante notare come i libri di Raspail, pur essendo rivolti agli adulti, abbiano saputo spesso coinvolgere anche l’immaginario adolescente: i viaggi, le fantasticherie storiche, certi personaggi eroici e avventurosi, come pure le ambientazioni esotiche, selvagge e insolite di alcune sue storie sono state in grado – anche in tempi recenti – di attrarre i giovani lettori.2

Se l’ambito letterario e simbolico di Raspail fosse limitato a quanto illustrato sinora, questo scrittore non sarebbe poi molto diverso dai tanti letterati alla ricerca di nuovi orizzonti che hanno fatto del viaggio e dell’esotico uno dei nodi significativi della loro esistenza: a suo modo, per rimanere in Francia, anche Rimbaud può essere fatto rientrare in questo ambito, quando fuggì sulle coste del Mar Rosso, esplorò il Corno d’Africa e si mise a commerciare in Etiopia. Anche il Rimbaud del periodo abissino potrebbe facilmente entrare in un fumetto di Hugo Pratt.

Ma Raspail si stacca profondamente da questo ambito di esotismo poetico. E lo fa con il suo già più volte citato romanzo Il Campo dei Santi che colloca l’autore francese in una posizione di intensa opposizione al mondo moderno, di deliberato disprezzo dei convincimenti umanitari, di aperta e sfrontata polemica. L’uscita del libro nel 1973 – come pure l’uscita di tutte le sue numerose riedizioni e traduzioni – ha suscitato legittime, intelligenti e forti opposizioni a cui l’autore ha sempre risposto, ribadendo senza sfumature le sue idee: la popolazione “bianca” è minoritaria ed è in pericolo; essa è l’unica detentrice di una cultura davvero civile ed è minacciata dalla massa di popolazioni “scure”, misere e affamate che bramano avidamente le ricchezze di un Occidente sfiancato da ipocriti sensi di colpa, sfibrato da una morale lassista, minato da una bassa natalità. Nella produzione letteraria di Raspail Il Campo dei Santi rappresenta un vero e proprio spartiacque: quel romanzo ha segnato in modo indelebile non solo la sua figura di scrittore, ma soprattutto il suo ruolo nell’attuale dibattito politico e sociale sull’immigrazione. Da un certo punto di vista, egli – volente o nolente – è divenuto nei fatti una sorta di punto di riferimento teorico dei movimenti di una certa “destra” ideologica e identitaria.

È dunque ora il momento di esaminare con più cura la trama de Il Campo dei Santi.

 

L’apocalisse arriva dal mare

Innanzitutto sono necessarie due parole di spiegazione sul titolo: il “Campo dei Santi” evocato dall’intestazione del romanzo si riferisce a un versetto del libro biblico dell’Apocalisse, in cui si ricorda che nei giorni del giudizio da tutto il mondo i popoli del Male marceranno compatti contro il luogo – ovvero contro il campo, l’accampamento – in cui si trovano i giusti e i santi, per distruggerli. Già da questa evocazione si coglie il messaggio centrale del romanzo di Raspail: i fuggiaschi laceri e famelici che si dirigono verso l’Occidente sono come le moltitudini seguaci di Satana pronte a distruggere la stirpe dei buoni alla fine dei Tempi.3 L’uso di un’evocazione biblica, specificamente apocalittica, orienta sin dalle prime pagine lo sguardo del lettore: del resto, la citazione tratta dal testo sacro è riportata proprio in apertura del romanzo stesso.

Il libro si apre, per così dire, con l’inizio della fine: un anziano, colto e arzillo professore universitario di Lettere guarda il mare dall’alto della collina dove si trova la sua bella villa sulla costa mediterranea della Francia. La scena sembra idilliaca: è il tramonto e il professore è circondato da bei mobili, molti libri, una veranda curata e una cantina ben fornita. Ma il mare su cui posa lo sguardo il professore è coperto da centinaia di navi arrugginite e barconi macilenti su cui sostano, in attesa di scendere a terra, centinaia di migliaia di neri indiani immersi in una sporcizia incredibile e animati da un’incoercibile brama di preda. Da quella massa informe di stracci, malattie, lamiere contorte e corpi deformi si alza un puzzo insopportabile (Raspail, 1973/2016, p. 15). Mentre il professore contempla tutto questo, egli è raggiunto, quasi di soppiatto, da un giovane contestatore che si proclama contento dell’invasione, perché finalmente essa porrà fine alla società borghese in cui lui è nato e di cui non si è mai sentito parte nonostante sia bianco, francese e battezzato. Il giovane odia tutto quanto quel colto professore e quella casa antica rappresentano e proclama all’anziano che l’indomani, a sbarco avvenuto, avrebbe condotto lì gli invasori, affinché essi potessero fare scempio dei bei libri, delle belle stoviglie e dei begli arredi ivi contenuti, per placare così i loro bisogni materiali e per dare inizio a un nuovo mondo. Il professore riconosce nel contestatore un suo nemico, gli spara con un fucile da caccia e lo uccide: poi con soddisfazione cena, aspettando l’inevitabile sbarco, ma pronto ancora a usare il suo fucile contro gli aggressori provenienti da lontano (pp. 24-30). L’inizio del romanzo ci pone subito in mezzo agli eventi: far partire la narrazione dai pensieri, dalle osservazioni e dalle azioni di un anziano, raffinato, ma determinato professore, ritratto davanti all’invasione imminente, mette subito il lettore davanti a un contrasto insanabile. Un contrasto che è il leit-motiv di tutto il romanzo: da una parte ci sono la civiltà europea e la sua gente che, nel romanzo di Raspail, sono presentati come “il prodotto migliore dell’umanità” (p. 22), mentre dall’altra parte c’è il Terzo Mondo con i suoi orrori, il suo parassitismo, la sua indolenza, la sua essenza di “anti-mondo” (pp. 395-396). Il lettore incontra nuovamente il professore verso la fine del romanzo, quando l’anziano accademico con pochi altri uomini tenta vanamente di resistere, armi alla mano, all’invasione.

Mentre il professore si prepara ad affrontare gli eventi, alla radio si susseguono i notiziari con i vuoti messaggi del governo francese, incapace di gestire la situazione e ipocritamente sorpreso del fatto che i cittadini stiano scappando frettolosamente dalla costa sud della nazione. Contestualmente l’esercito – inviato per fronteggiare l’invasione – è decimato dalle diserzioni: i soldati fuggono per paura, ma soprattutto perché in coscienza sono incapaci di affrontare un nemico la cui unica “arma” è apparentemente la non-violenza (pp. 22, 33-34).

Il seguito del romanzo narra i fatti relativi all’origine di questa migrazione e descrive il periplo tra gli oceani della massa dei barconi dei diseredati, la cosiddetta “flotta del Gange”. Il libro mostra anche le reazioni degli occidentali (politici, ecclesiastici, intellettuali, docenti e gente comune) davanti al precipitare degli eventi. Particolarmente sarcastiche e caustiche sono le parti dedicate da Raspail alle reazioni che la migrazione del popolo del Coprofago genera nelle scuole: mentre la flotta dei diseredati naviga verso l’Europa, nelle scuole francesi i maestri fanno a gara nel proporre agli alunni dei temi – dai toni patetici – sulla vita nelle navi dei migranti e sulla necessità di ospitare i nuovi venuti (p. 113); contestualmente i professori dei licei – tanto quelli di latino quanto quelli di chimica o matematica – iniziano le loro lezioni con un ampio dibattito in classe sul razzismo (p. 114). Infine in una scuola materna viene proclamato uno “sciopero del girotondo” in solidarietà coi bambini sui barconi (p. 248).

L’origine di questo esodo apocalittico è dovuta all’incauta promessa del governo belga di accogliere alcuni bambini indiani; e così migliaia di miseri abitanti del subcontinente assediano l’ambasciata del Belgio a Calcutta nella speranza di far adottare in Occidente i propri figli: l’impossibilità di accogliere tutte le richieste smuove le masse dei diseredati che – guidati da un capo indicato col nome di Coprofago – requisiscono lungo il Gange un centinaio di navi arrugginite e in disarmo, per andare direttamente in Occidente a prendersi quel benessere materiale che ritengono spetti anche a loro (pp. 53-67). Il Coprofago è accompagnato da una sorta di mostro-totem dalle fattezze di bambino deforme e orrendo i cui sguardi, i cui versi sconnessi, i cui occhi terribili offrono messaggi e indicazioni per quel formicaio umano imbarcato sui fragili e malmessi battelli dell’invasione (pp. 54-55). Temendo che “la flotta del Gange” intenda sbarcare nel Sud Africa dell’apartheid o in Australia, i rispettivi governi “bianchi” emanano disposizioni chiare, per impedire che le barche si fermino sulle loro coste (pp. 138-139, 168-169):4 ma le navi del Coprofago non si dirigono verso l’Australia e non si fermano in Sud Africa. “La flotta del Gange” continua la sua navigazione sino a Gibilterra, entra nel Mediterraneo e si arena sulle coste della Riviera francese, dove avverrà lo sbarco. Nel frattempo, spesso con metodi non-violenti, i “neri” degli Stati Uniti (pp. 35-37) e della Gran Bretagna (pp. 260-263) – stimolati dagli eventi accaduti in India – iniziano a ribellarsi con occupazioni, assalti, scioperi e atti simbolici in cui il gran numero dei partecipanti di colore diventa una sorta di silenziosa minaccia che costringe i “bianchi” a cedere. Contemporaneamente milioni di cinesi si accampano pacificamente sul confine della Russia sovietica, per mostrare la loro intenzione di occupare quelle terre: gli ufficiali e il governo di Mosca non hanno il coraggio di attaccare quelle masse non-violente e si ritirano, lasciando campo aperto agli orientali (pp. 78-82, 372). Insomma nel romanzo di Raspail il “mondo bianco”, poiché non usa i muscoli, è destinato a soccombere: la civiltà europea è minata, secondo lo scrittore francese, da un nichilismo suicida fatto di pauperismo, pietà e fellonia (pp. 43-47).

A compromettere ulteriormente il “morale” dei francesi – e degli europei – contribuiscono per Raspail anche intellettuali, educatori, politici e uomini di Chiesa: i pomposi proclami che questi fanno in nome della solidarietà mondiale, dell’uguaglianza dei popoli, della condivisione dei beni e dei sensi di colpa terzomondisti fanno cadere ogni possibile resistenza davanti alle intenzioni della flotta del Coprofago (pp. 95-108).

Niente e nessuno ferma questa brulicante massa di invasori in navigazione: nessuna nave militare li assale, nessuna tempesta li fa naufragare. Uomini e natura non hanno la forza di fermare “l’apocalisse”. E così la flotta partita dal Gange sbarca in Francia nel periodo di Pasqua, dando il via a un’invasione che distrugge la civiltà europea: le ricchezze vengono saccheggiate in nome della fame, le proprietà vengono violate in nome della condivisione, mentre la cultura occidentale lentamente svanisce e le donne bianche sono caldamente consigliate di fare matrimoni “misti” per favorire così la cancellazione della loro colpevole razza. Dunque, Il Campo dei Santi ha una trama da romanzo “a tema” che calca molto su disgustosi pregiudizi, su battute sarcastiche, su effetti irritanti. E se fosse solo così, sarebbe facile controbattere a Raspail, opponendo la complessità dei fatti reali alle semplificazioni delle sue fantasticherie. Il fatto è che, contrariamente alle apparenze, questo è un romanzo articolato che gioca su più piani letterari e immaginativi, mettendo in una relazione di serrata contiguità e causalità i grandi eventi storici con i piccoli fatti quotidiani, gli importanti intellettuali con i semplici cittadini, i decreti dei governi con i temi dei bambini: nel romanzo di Raspail non c’è differenza tra il musulmano che ha conquistato la civiltà di Costantinopoli e l’immigrato vicino di casa che ha usi e costumi avvertiti come diversi e quindi minacciosi. Il risultato di questa operazione è un romanzo che ferisce, perché svela quanto sia facile scoprirsi sospettosi, ipocriti, timorosi e criminalizzanti nei confronti di chi è diverso e viene da lontano.

 

Per un’analisi letteraria

Già da una prima lettura, il romanzo dell’autore francese può essere fatto rientrare abbastanza agevolmente nel genere della narrativa distopica. Per distopia si intende il contrario di utopia: un romanzo utopistico disegna un possibile futuro ottimistico e desiderabile, mentre una narrazione distopica descrive un tempo a venire terribile e carico di minacce opprimenti. Il romanzo distopico per eccellenza è 1984 di George Orwell, edito nel 1949, che racconta un crudele e terribile futuro immaginario dove dittatura, privazioni e controlli soffocano ogni genuino sentimento umano (Orwell, 1949/2006). Anche il libro di Raspail, edito nel 1973, proietta la sua trama nel futuro: infatti, l’autore immagina che gli avvenimenti descritti accadano nella Francia della fine del Novecento. E chiaramente si tratta di avvenimenti terribili e distruttivi che sono preludio per la nascita di un tempo a venire oppressivo e misero.

Da un punto di vista letterario i romanzi utopici o distopici sono sempre dei romanzi filosofici: si tratta, infatti, di storie che sviluppano le loro trame attorno a concetti ideali, a progetti sociali, a tensioni ideologiche. Non è un caso che uno dei primi veri e propri romanzi utopistici sia stato il celeberrimo libro del filosofo inglese Thomas More intitolato, appunto, Utopia, pubblicato agli inizi del Cinquecento: in questa sua opera il pensatore britannico tratteggiò la forma e la vita di uno Stato ideale dove erano abolite diseguaglianze e abusi. Il libro di More è cioè una sorta di saggio politico-filosofico che indica possibili riforme sociali ricorrendo a un’invenzione letteraria.

D’altra parte anche George Orwell con il suo celebre 1984 ha compiuto un’operazione simile, mettendo in guardia i suoi lettori dalle derive perverse che le ideologie dittatoriali (fasciste e staliniste) potevano attuare con l’appoggio di una tecnologia invasiva e oppressiva. Anche nel libro di Orwell è evidente un messaggio ideale, ovvero la necessità di difendere il pensiero umanistico e libero contro gli orrori dei totalitarismi.

Similmente, da un certo punto di vista, anche Raspail ha percorso questa strada: il suo messaggio esplicito è, infatti, quello di mettere in guardia i “bianchi” dai pericoli dell’immigrazione di massa dal sud del mondo. Ma non solo: lo scrittore francese invita sottilmente gli europei a rigettare la dominante ideologia pacifista, inclusiva e pauperista che, a suo avviso, sta minando la volontà e la civiltà degli occidentali. E anche questo è un messaggio che risponde a una precisa “filosofia” dei rapporti sociali: una “filosofia” che trova, a tutti i livelli, sempre più seguaci nei nostri anni.

Detto per inciso, Raspail non è l’unico in Francia ad avere preso la strada del romanzo distopico per mostrare i pericoli della “contaminazione” tra culture: è di pochi anni fa l’uscita, sempre nel paese transalpino, di un romanzo di Michel Houellebecq intitolato Sottomissione (Houellebecq, 2015) che fece molto scalpore per la non troppo velata condanna dell’islam e del suo portato culturale; nel romanzo, uscito sia in originale che nella traduzione italiana nel 2015, si immagina che nel 2022 la Francia verrà trasformata in una sorta di repubblica islamica dotata di una sharia moderata, dove sarà possibile la poligamia, mentre le donne perderanno progressivamente i loro diritti e la conversione alla fede musulmana consentirà agli uomini di fare carriera.

È interessante notare che i romanzi distopici sono senza eccezione rivolti verso un futuro “prossimo”: in effetti si può parlare di romanzi distopici “d’anticipazione”, nel senso che i messaggi ideali o ideologici, che queste narrazioni raccontano, sono sempre proiettati sull’avvenire; in questo modo si intende mostrare i probabili e terribili esiti futuri che certe attuali impostazioni socio-culturali potrebbero produrre, qualora non venissero sradicate celermente.

È ugualmente interessante notare che nel panorama attuale della letteratura per adolescenti i romanzi distopici – spesso con sfumature di vera e propria fantascienza – occupano un posto fondamentale tra le preferenze di lettura delle giovani generazioni: famosi romanzi come Hunger Games di Suzanne Collins (2008; 2009; 2010/2016), Divergent di Veronica Roth (2011/2012), Feed di Matthew T. Anderson (Anderson, 2003/2005) offrono squarci su un futuro inquietante e doloroso, dove però – a differenza di quanto accade nel romanzo di Raspail – proprio la capacità di alleanza tra i “diversi” rappresenta una delle risorse che può dare senso all’esistenza e offrire una dimensione di libertà.

Infine, un’ultima notazione puramente letteraria su Il Campo dei Santi: si è detto più volte che il romanzo è attraversato da una forte ironia e da diverse punte di acido sarcasmo. Si può pure aggiungere, senza timore di smentite, che in molti punti questo è un romanzo crudelmente cinico. A tratti queste tonalità sarcastiche sono quasi compiaciute e volgari, come nei punti in cui l’autore sferza l’umanitarismo giudicato fatuo di certi ecclesiastici e intellettuali, oppure sbeffeggia come patetica l’ingenuità di taluni insegnanti e politici.

Altre volte, invece, l’ironia è amara, triste, quasi disperata: sotto molti punti di vista in questi casi il cinismo di Raspail ricorda quello che emerge in certi passaggi del romanzo I Falsari del celebre scrittore francese André Gide (1925/1988), dove vi sono personaggi che, consapevoli della propria condizione senza vie d’uscita, reagiscono alle ristrettezze di una società convenzionale e vuota con voluti atti di trasgressione, con parole di atroce autoironia o con discorsi di malinconico sarcasmo. Proprio queste considerazioni sull’amara ironia usata da Raspail fanno sorgere un sospetto: di certo egli con il suo romanzo ha voluto vibrare un forte fendente contro una modernità avvertita come decadente eppure, contestualmente, lo scrittore francese sembra avere la consapevolezza che questo “affondo” letterario non può produrre l’effetto desiderato di “risveglio”, non può generare il rinforzo morale sperato. E quindi, come accade nel finale del suo romanzo agli ultimi resistenti che lottano vanamente contro gli invasori, anche a Raspail non resta che sorridere davanti alla cattiva sorte. Ma è un sorriso triste, sardonico, ripiegato.

 

L’immaginario del romanzo

Triste è anche l’immaginario che attraversa tutto il romanzo: un immaginario che appiattisce le figure degli “altri”, dei profughi e dei migranti, riducendoli a una massa indistinta e senza personalità. Per converso, i personaggi “bianchi” hanno sempre dei piccoli caratteri peculiari – magari anche solo ridicoli – che però bastano a identificarli e diversificarli. I “neri”, invece, nel romanzo di Raspail sono un’unica, grande e informe massa da cui emergono solo delle “guide” risolute – come il Coprofago o il bambino-mostro – che danno in modo preciso una direzione e uno scopo al movimento istintuale, disordinato e rapace di queste moltitudini brulicanti. Trasformare un gruppo di persone in una massa indistinta e famelica significa evocare un pericolo non solo informe e minaccioso, ma anche incontenibile. Un pericolo con cui non si può venire a patti e che si abbatte sulle vittime come una tempesta da cui non c’è riparo.

In tutto il romanzo, i politici tentano di prendere contatto con la folla dei profughi, per cercare una mediazione, per tentare di individuare con loro un’onorevole soluzione che salvi l’Occidente e offra opportunità materiali agli indiani: ma il Coprofago e i suoi numerosissimi seguaci rifiutano con sdegno questi abboccamenti, proseguendo con tenacia nella loro navigazione. E così questo ricorso alla descrizione letteraria di un abominio indistinto, enorme e irragionevole genera una rappresentazione di angoscia, una raffigurazione irrazionale di pericolo, di disperazione e di imminente annientamento.

Ricorda Antonio Faeti – profondo conoscitore delle icone della paura – che un clima immaginativo condizionato dall’idea di sconfitta origina uno stato di precarietà, ansia e timore: un tale orientamento porta facilmente l’immaginario collettivo ad accettare miti regressivi (Faeti, 1996, p. 206). L’intero romanzo di Raspail sembra costruito proprio attorno all’intenzione esplicita di ingenerare nel lettore questa condizione di orrore davanti a un pericolo informe e irrefrenabile: la conseguenza è quella di rendere quantomeno ammissibile – a livello immaginativo – il ricorso a rappresentazioni regressive quali quelle che trasformano gli stranieri in invasori, i poveri in invidiosi, i mendicanti in parassiti e così via. Quando “l’altro” è trasformato in un “nemico”, in un “obbrobrio”, in un “degenerato”, allora è più facile cancellarlo senza ripensamenti: parafrasando Goya, si potrebbe dire che non solo il sonno della ragione, ma anche l’eccitazione della paura genera mostri. Se, dunque, l’orrore indistinto di una violenta sconfitta suscita panico, proprio quest’ultimo attrae a sé, come un magnete, raffigurazioni arcaiche e terribili che possono servire per tentare una reazione violenta contro una minaccia temuta: non a caso già si è rilevato che l’intenzione profonda de Il Campo dei Santi sembra essere quella di voler scuotere la morale infiacchita dei “bianchi” attraverso idee, figure e storie con cui reagire, difendersi, contrattaccare. E sotto molti aspetti le caratteristiche sin qui individuate nel romanzo di Raspail paiono alludere a un immaginario narrativo prossimo a posizioni reazionarie. A tale proposito può essere utile riflettere su una pagina tratta da un volume di Ploncard d’Assac, uno scrittore francese vicino all’estrema destra; in un punto del suo libro Apologia della reazione viene tracciato un parallelismo tra un giardino ben curato e una società ben ordinata: in quelle righe viene fatto notare che, per ottenere la bellezza tanto del giardino, quanto della società, le “lumache” – ovvero le presenze che incarnano le forze brute – devono essere distrutte. Come nota ancora Faeti, proprio a margine di questa riflessione in giardino, la categoria delle “lumache” è accuratamente vuota e viene riempita dai reazionari di volta in volta, secondo le convenienze: un momento sono gli operai in sciopero, poi sono i ribelli, i pellerossa, i neri, gli ebrei, gli omosessuali e quindi, come conclude con puntuale sintesi lo studioso bolognese, «Ogni onesta apologia della reazione è, in realtà, un’apologia del lager» (Faeti, 1996, pp. 305-306; Ploncard d’Assac, 1970, p. 219). E non è così difficile vedere, ora, la categoria delle “lumache” riempita con le figure indistinte e minacciose dei migranti. Del resto, definire l’altro in termini completamente diversi da noi ci consente di ritrovare una presunta immagine veritiera di noi stessi: Edward Said ha notato che l’immaginario occidentale ha elaborato nel corso dei secoli passati una sorta di dottrina aggressiva che ha spesso guardato all’Oriente con le categorie del razzismo, dell’imperialismo, dell’etnocentrismo e così facendo lo ha ridotto ad alterità assoluta che, in qualche maniera, sembrava consentire una migliore definizione dell’Occidente stesso (Said 1978/2005, pp. 199-251).

Come reagire a tutto questo? Come rispondere a un apparato immaginativo tanto energico, quanto insidioso che proprio il romanzo di Raspail pare evocare? L’unica strada per uscire da questa trappola è ridare un volto alla massa indistinta dei profughi, è riconoscere ad essi – a ciascuno di essi – una storia e un’identità peculiari: la forza di suggestione de Il Campo dei Santi consiste proprio nella riduzione dei profughi a metaforica massa indistinta di brulicanti “lumache”; per uscire da tali strettoie immaginative è necessario far emergere le persone dalla massa, mostrando le loro caratteristiche peculiari e le loro vicende anche difficili, cosicché non sia più possibile usare tipologie generiche, non sia più possibile sospingere “l’altro” nella categoria delle “lumache”. Ma questa capacità di riconoscere all’altro una sua individualità merita un approfondimento e, forse, una specifica formazione: per dare un volto a un essere umano, infatti, occorre stare accanto a quella persona, distinguerne i bisogni, le richieste e le potenzialità. Inoltre – cosa anch’essa importante per il riconoscimento di un’individualità – è necessario saper ascoltare la sua storia. Tuttavia, ascoltare le storie di cui l’altro si fa portatore non è semplice, perché è possibile che un interlocutore venuto da lontano nemmeno trovi la forza e il desiderio di parlare di sé o addirittura delle esperienze dolorose e magari vergognose che hanno contrassegnato la sua vita, la sua fuga, il suo viaggio. E da qui discende la necessità di un’indagine pedagogica sui fenomeni narrativi che aiuti a individuare le risorse e le strategie per ascoltare, ricostruire e accogliere le storie degli “altri”. È anche attraverso le storie che si ricreano i singoli volti.

 

Frammenti pedagogici

Le tracce narrative che Raspail lancia nel suo romanzo attorno a tematiche di interesse pedagogico sono molteplici e meritano qualche appunto. Innanzitutto la presenza dei bambini nel corso della trama è costante. Ricorderete, per esempio, che la tragica navigazione guidata dal Coprofago prende le mosse proprio da un fatto legato all’infanzia: il governo del Belgio non intende più accogliere bambini indiani, suscitando così una sommossa davanti alla sua ambasciata a Calcutta. Inoltre, lungo tutto il periplo delle imbarcazioni arrugginite lo sguardo sarcastico di Raspail si posa sulla folla brulicante dei fuggitivi, soffermandosi con salace disgusto sui ragazzini che a bordo sgambettano tra la folla lacera, raccogliendo con furbizia e prontezza feci umane, per alimentare i fuochi dei forni con cui si prepara il riso necessario a nutrire i naviganti (Raspail, 1973/2016, pp. 145-146). Più volte poi si sottolinea il fatto che queste popolazioni scure sono molto feconde, pronte a riempire il mondo occidentale con i loro numerosissimi figli. E per converso si sottolinea che in Europa i bambini sono pochi, per di più sottoposti a processi educativi che li anestetizzano davanti ai presunti pericoli incombenti; pesante è, infatti, il sarcasmo di Raspail nel descrivere una classe elementare in cui viene premiato il testo di un bambino che ha tratteggiato con parole addolorate e accorate la vita dei suoi coetanei a bordo della “flotta del Gange”: nel tema lo scolaro aggiunge anche il proposito di voler accogliere la famiglia di uno di questi piccoli profughi a casa sua; il testo suddetto (cosparso, dice Raspail con la sua acida ironia, di “un pathos infantile da far piangere le portinaie”) non solo ottiene un bel voto, ma viene pure letto in classe, suscitando l’invidia degli altri scolari che non hanno usato nel loro tema con altrettanto vigore quei toni patetici; infine, a casa, il padre dell’alunno premiato si congratula col figlio, serbando però ipocritamente in cuor suo il pensiero che mai e poi mai desidererebbe accogliere nel suo appartamento una numerosa famiglia di indiani laceri (pp. 113-114).

D’altra parte, come già menzionato, tanti sono i punti del romanzo in cui si deride con vigore ogni tentativo di educazione all’accoglienza: basti ricordare la pagina in cui viene sottilmente bollata come patetica la presenza di insegnanti, sociologi ed etnologi in trasmissioni radiofoniche contro il razzismo (p. 129); oppure il passo in cui si allude sarcasticamente alla psichiatria a proposito di un concorso – riservato, appunto, ai bambini – per premiare i migliori disegni infantili sul tema dell’accoglienza dei fuggitivi (pp. 178-179). E vanno qui di nuovo ricordate le sferzanti ironie contro le lezioni antirazziste nei licei e gli scioperi dei girotondi negli asili. Questi sono tutti esempi di come Raspail liquidi come velleitari e incongrui i tentativi di definire una seria riflessione, anche educativa, sulle tematiche relative all’incontro e al rapporto con le culture non-europee. È chiaro che per lo scrittore francese solo la forza rappresenta lo strumento con cui l’Occidente può confrontarsi con le altre comunità umane. Tutti coloro che escono da questo schema semplicistico, che cercano modalità pacifiche di convivenza sono per Raspail dei deboli, degli ingenui o – secondo la lezione del libro dell’Apocalisse – dei servi della “Bestia”: più volte lo scrittore francese fa ricorso a questo termine biblico per indicare l’insieme di ideologie e di intellettuali che, a suo dire, rappresentano la fonte della sconfitta morale e culturale dell’Occidente (pp. 139-141, 175-176). Può essere una facile tentazione quella di liquidare l’impostazione polemica di Raspail contro ogni pedagogia o riflessione di natura interculturale come semplicistica, banale e falsa: del resto, sotto molti aspetti, questo romanzo è un concentrato di stereotipi, di pregiudizi e di sarcasmi tranchant che oggi troviamo, più o meno velatamente, anche in tanta stampa quotidiana o periodica, in certi programmi televisivi e in numerosi siti internet schierati contro i migranti, contro l’accoglienza, contro i professionisti e i volontari attivi su questi fronti. Ma derubricare Il Campo dei Santi a espressione marginale di un razzismo animoso significa non aver compreso la sua struttura raffinata che mira non tanto ad attaccare un’eventuale “pedagogia dell’accoglienza”, quanto piuttosto a mostrare – in virtù di una sofisticata tensione e di una forte suspense narrativa – la presunta irragionevolezza di ogni processo educativo davvero aperto alle culture “altre”. Detto in altri termini, Raspail sembra voler togliere ogni base morale – e forse anche epistemologica – a qualsiasi ambito pedagogico e didattico che si interroghi sull’accoglienza di chi viene da lontano. E questo fatto rappresenta una sfida tanto per i professionisti, quanto per gli studiosi che operano nell’ambito della pedagogia interculturale: paradossalmente, il disturbante romanzo di Raspail dovrebbe essere letto proprio da coloro che si interessano di accoglienza, per capire la meccanica e la natura di certi stereotipi e di certe posizioni ideologiche.

Uno scritto polemico e tagliente come Il Campo dei Santi può indurci a cercare, una volta di più, con ragionevolezza e profondità il senso di una pedagogia che doverosamente e umanamente si interessa agli “altri”: smontare pregiudizi e stereotipi – soprattutto quando questi sono espressi con una sofisticata arte letteraria – è un ottimo esercizio per trovare, o ritrovare, il senso di un percorso professionale e intellettuale sui temi relativi all’incontro con le culture diverse.

In sintesi, questo romanzo contribuisce a far emergere le tensioni e le contraddizioni delle nostre società multiculturali, perché non è difficile riconoscere nelle sue pagine i caratteri più esasperati, cinici e crudeli di un certo tipo di dibattito pubblico che spesso divampa sui temi della migrazione: come già ricordato, il romanzo sembra infatti il catalogo di certe taglienti rappresentazioni che quotidianamente ritroviamo sui media, per strada o sui social, quando si vuole definire in modo sbrigativo e definitivo i migranti e chi sta loro vicino. Parafrasando Flaubert, potremmo dire che il libro di Raspail è una sorta di dizionario di amare idées reçues su diversità e migrazione: è un breviario di stereotipi che dopo cinquant’anni dalla sua prima edizione sembra non aver ancora perso la sua tragica attualità. E proprio per questo deve essere conosciuto da chi ha un’altra visione del mondo.

E, infine, tutto questo mostra ancora una volta come le riflessioni e le pratiche nel campo pedagogico abbiano tutto da guadagnare – in termini di stimolo intellettuale e di prospettiva euristica – da uno stretto contatto col mondo delle narrazioni e delle storie.

 

Bibliografia

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Note

1 Vedi a questo proposito l’intervista rilasciata nel 2008 dal noto disegnatore francese Jacques Tarpant – insieme allo stesso Jean Raspail – al web-magazine belga di fumetti “Actua-BD” e visibile sul sito http://www.actuabd.com/Jacques-Terpant-Je-me-retrouve-dans-l-univers-de-Jean-Raspail (sito visitato il 29 agosto 2018). Jacques Tarpant ha trasposto in diversi albi a fumetti alcuni libri di Raspail: tra questi va ricordato il romanzo fantastico-storico Sept Cavaliers che, uscito nel 1993, è stato reso a fumetti dal disegnatore francese in tre albi editi tra il 2008 e il 2010.
2 Va ricordato a questo proposito anche che, tra il 2011 e il 2014, Terpant disegnò e curò la trasposizione a fumetti pure di un altro romanzo storico-fantastico (originariamente per adulti) di Raspail intitolato Le royame de Borée, edito per Albin Michel, Paris, e pubblicato nel 2003.
3 Apocalisse 20, 7-9. Confronta il testo biblico nella versione della Conferenza Episcopale Italiana del 1974.
4 Da notare che, nonostante gli atti di governo australiani e sudafricani siano volti a impedire gli sbarchi, entrambe le nazioni nel romanzo di Raspail verranno occupate: l’Australia cade in un pernicioso isolamento e viene poi invasa da numerosi indigeni provenienti dalle isole vicine, mentre il Sud Africa crolla davanti all’invasione dei popoli di colore del continente (Cfr. Raspail, 1973/2016, pp. 260-263, pp. 273-274).

DOI: 10.14605/EI1621912


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ISSN 2420-8175. Educazione interculturale.
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