Un Master sui temi interculturali per una formazione alla riflessività

A Bologna il percorso del Master “Organizzazione e gestione delle istituzioni scolastiche in contesti multiculturali” è stato organizzato secondo le linee progettuali delineate dal Fondo Asilo, Migrazione e Integrazione (FAMI) 2014-20 e, a partire da queste, sono stati individuati i contenuti riconducibili alle diverse aree disciplinari, organizzati laboratori e tirocinio. La scelta del comitato scientifico è stata quella di modificare la successione dei moduli disciplinari in modo che alcuni di questi (Pedagogia e Didattica interculturale, Linguistica e Glottologia, Psicologia sociale), che comprendevano i laboratori, potessero offrire, fin dall’avvio della formazione, non solo principi teorici e didattici, ma anche approcci metodologici e strategie da utilizzare per l’attuazione di un progetto didattico durante lo svolgimento del tirocinio.[footnote]Gli insegnanti iscritti al Master di Bologna sono stati in totale 100 (93 docenti e 7 dirigenti scolastici). Gli insegnanti che hanno acquisito il titolo sono in totale 82 (80 docenti e 2 dirigenti scolastici).[/footnote] In questo contributo è analizzato, nello specifico, il percorso di tirocinio che ha acquisito particolare significatività per l’intera formazione, poiché è stato il luogo in cui gli insegnanti hanno potuto conoscere e applicare la metodologia della ricerca empirica e partecipare attivamente a processi di riflessione sulle pratiche adottate a scuola.

La formazione in servizio dell’insegnante è un tema dibattuto diffusamente in ambito nazionale e internazionale. La questione centrale, che accompagna tale dibattito, è collegata alla necessità di far diventare la formazione degli insegnanti un reale agente di cambiamento di atteggiamenti, pratiche e competenze, quindi un momento dedicato non solo alla diffusione e condivisione dei saperi, ma anche alla promozione e allo sviluppo del soggetto e della sua identità professionale (Altelet, et al., 2006; Magnoler, 2008; Ulivieri et al., 2010; Vannini, 2018). Il Master ministeriale “Organizzazione e gestione delle istituzioni scolastiche in contesti multiculturali” ha avuto quindi l’intento non solo di diffondere in modo capillare sul territorio nazionale i temi dell’intercultura da una prospettiva multidisciplinare, ma anche quello di promuovere nell’insegnante l’acquisizione di un approccio di ricerca (come la ricerca azione) che potesse contribuire allo sviluppo di competenze interculturali (Lamberti, 2010; Portera, 2013; Santerini e Reggio, 2013).

La struttura del programma è articolata in modo tale che ogni sua parte (saperi, laboratori e tirocinio) possa sostenere il docente verso la pianificazione e realizzazione di un’esperienza progettuale, da svolgere nel proprio contesto scolastico, il più possibile centrata sulla metodologia della ricerca azione che, per sua vocazione, pone al centro il tema della riflessività dell’insegnante e del gruppo, di cui fa parte, inteso come un nucleo propulsore e occasione di cambiamento di pratiche e atteggiamenti (Pourtois, 1988; Asquini, 2018). 

La pedagogia interculturale vede nel processo riflessivo una componente essenziale per la presa di consapevolezza e l’acquisizione di alcune importanti competenze come l’ascolto, il decentramento, la comprensione di propri stereotipi e pregiudizi e la gestione dei conflitti, che vanno costruiti attraverso un processo dinamico continuo (Vaccarelli, 2009; Fiorucci, 2011; Portera et al., 2015; Bolognesi e Lorenzini, 2017). Grazie all’assunzione di una postura riflessiva verso il proprio agire l’insegnante può diventare capace di partecipare alla costruzione di spazi di incontro e di dialogo a scuola (Cambi, 2006) e alla formazione di un pensiero interculturale in sé e negli alunni, cioè un pensiero capace di decentramento. Per Duccio Demetrio (Demetrio e Favaro, 1992) è l’intelligenza relazionale, tra le forme mentis descritte da Gardner (Gardner, 1987), la matrice sottostante al pensiero interculturale poiché è grazie ad essa che il soggetto assume uno stile cognitivo disponibile all’altro, che si educa e si autoeduca a non irrigidirsi.   

 

Il tirocinio e la ricerca azione: struttura progettuale e organizzativa 

Se gli insegnamenti e i laboratori hanno avuto la funzione di proporre teorie, ricerche e metodologie che offrono direzioni possibili all’operare dell’insegnante, il tirocinio, in particolare quello indiretto descritto di seguito, ha creato l’occasione per un confronto sulle prassi attivate dagli insegnanti nei diversi contesti scolastici grazie alla produzione di una riflessività condivisa. Innanzitutto è bene precisare che il tirocinio è ormai diventata una componente obbligatoria di molti percorsi formativi che non va confuso con il “fare pratica” poiché, anche se certamente è generatore di conoscenze e abilità, queste ultime «per diventare conoscenze e competenze critiche (deutero-apprendimenti, abiti mentali astratti, stili cognitivi, direbbe Bateson) hanno bisogno di passare attraverso un processo di formalizzazione reso possibile soltanto da adeguati momenti di riflessione» (Guerra, 2018, p. 315). Quindi il tirocinio acquista la sua valenza formativa vera e propria soltanto se l’esperienza, di cui è costruito, è accompagnata da una riflessione puntuale, attenta a far emergere tutto ciò che c’è di implicito e di “dato per scontato” nelle prassi educative e didattiche quotidiane. A partire da questa iniziale precisazione, è utile specificare che il tirocinio del Master svolto a Bologna è stato articolato in due fasi intrecciate tra loro: una costituita dal tirocinio diretto, inteso come esperienza dell’insegnante nel contesto scolastico, l’altra dal tirocinio indiretto caratterizzato da momenti di incontro tra insegnanti fondati sul confronto e la riflessione sulle pratiche attivate a scuola.

Il tirocinio ha preso avvio con alcune lezioni riguardanti l’approccio teorico della ricerca-azione (descritto da Chiara Bove nel presente numero monografico) che hanno introdotto gli insegnanti agli aspetti più propriamente teorici e metodologici della ricerca empirica e ai suoi strumenti ricognitivi e interpretativi (Demetrio, 1992; Silverman, 2009). Quindi tutto il percorso del tirocinio, diretto e indiretto, è stato improntato sulla base dell’approccio della ricerca-azione che ha la principale caratteristica da un lato di contribuire a cercare di trovare possibili soluzioni a problemi presenti nei contesti educativi e, dall’altro, di basare il proprio intervento sulla collaborazione tra insegnanti e ricercatori che operano insieme con lo scopo di contribuire a modificare situazioni ritenute dagli stessi insegnanti difficili e/o complesse (Nigris, 1998; Trombetta e Rosiello, 2000).

Tutti i partecipanti sono stati suddivisi in tre gruppi, sulla base dell’appartenenza al grado scolastico, che sono stati coordinati da un tutor universitario e da alcuni docenti che hanno continuato a fornire indicazioni sull’approccio della ricerca azione. Ogni gruppo è stato a sua volta suddiviso in piccole unità, composte da un massimo di dieci docenti, che sono state costituite in base alla similarità dei problemi di ricerca individuati dagli insegnanti.

I gruppi di tirocinio indiretto sono diventati così un supporto a tutte le azioni che ogni insegnante intraprendeva a scuola, diventando luogo di condivisione di saperi teorici, di competenze e di esperienze professionali, di riflessione e di negoziazione di significati. «In gruppo» scrive Chiara Bove (2009, pp. 97-98) «si prende il significato, ma nel gruppo lo si trasforma; la discorsività nel gruppo non è statica, ma è mutevole e flessibile e permette che gli individui sperimentino la capacità di vivere anche la differenza, di sperimentare l’incertezza, di tollerare il disaccordo, di cambiare, di collaborare».

La costituzione di tali unità di lavoro interne ai tre gruppi è stata caratterizzata da due aspetti: da un lato ha avuto il pregio di diventare un valido supporto, riconosciuto dagli stessi insegnanti e tutor, per lo svolgimento di progetti, alcuni dei quali strutturati sulla base dell’approccio della ricerca azione; dall’altro, invece, la presenza di una pluralità di azioni e progetti, anche se raggruppati per similarità nei contenuti, ha creato talvolta difficoltà di approfondimento per mancanza di tempo e di continuità nella riflessione.

 

Il tirocinio indiretto: laboratorio della ricerca azione e luogo di riflessione

Il tirocinio indiretto ha rappresentato per ogni insegnante e per ogni gruppo uno spazio e un tempo dedicati all’elaborazione delle diverse fasi della ricerca attuata nel proprio contesto scolastico, che possono essere così sintetizzate: individuazione del problema della ricerca, definizione degli strumenti ricognitivi (osservazioni, questionari, interviste, focus group) per la raccolta dei dati iniziali e in itinere, analisi e interpretazione dei dati raccolti, definizione delle azioni da intraprendere e/o da rivedere, valutazione del percorso. Ogni gruppo, quindi, ha inteso e praticato l’approccio della ricerca azione come

 

un’indagine riflessiva condotta dall’insegnante ricercatore in prima persona nel proprio contesto, a partire da una situazione problematica, con lo scopo di migliorare la comprensione della situazione in cui opera e la qualità dell’azione attraverso un coinvolgimento di tutti gli attori, mediante un controllo sistematico dei processi. I dati esaminati da una pluralità di punti di vista in un contesto di condivisione ne costituiscono la principale forma di validazione (Losito e Pozzo, 2005, p. 30).

 

La ricorsività, che ha caratterizzato il lavoro di ogni unità di lavoro, è stata contraddistinta da una successione di fasi ‒ pianificare le azioni, agire/osservare le azioni, pianificare le azioni, agire, osservare le azioni, ecc. (Pourtois, 1984) – che si sono ripetute ricorsivamente seguendo un movimento a spirale in cui tali fasi si ripropongono, ma trasformate in una prospettiva evolutiva, come evidenziato nel disegno riportato nella figura 1.

 

bolognesi

 

Figura 1 Fasi nel disegno a spirale.

 

Ogni fase, nel suo ripetersi, è sempre in relazione alle altre: si arricchisce di quella precedente, l’approfondisce e a sua volta influenza quella successiva; talvolta la anticipa e/o la modifica. In altre parole, la ricorsività della riflessione del gruppo ha permesso agli insegnanti di portare alla consapevolezza scelte metodologiche, azioni e riflessioni. Gli incontri del tirocinio indiretto sono stati quattro; ognuno di questi è stato caratterizzato da specifici approfondimenti in relazione alle differenti fasi della ricerca che ogni insegnante stava svolgendo a scuola. Il primo di essi è stato organizzato in due momenti. Una prima fase dedicata a un approfondimento teorico in cui sono stati presentati i riferimenti della ricerca azione unitamente a diversi strumenti ricognitivi (questionari, interviste, focus group, diari, osservazioni, ecc.) utili per la raccolta dei primi dati necessari alla comprensione del contesto e del problema individuato.

Un secondo momento dedicato all’individuazione del “problema di ricerca” in cui ogni insegnante, attraverso un lavoro individuale, ha cercato di identificare alcune situazioni difficili presenti nel proprio contesto scolastico o agire didattico. Questo passaggio è stato avvertito come complesso da diversi docenti poiché è stato difficile riuscire a identificare un particolare fenomeno, separandolo dal flusso degli eventi quotidiani, in modo che potesse essere indagato da una prospettiva interculturale. Successivamente ogni insegnante ha individuato uno o più interrogativi relativi al problema della sua ricerca, in modo che questi gli permettessero di orientarsi nella scelta degli strumenti per la rilevazione dei dati, la pianificazione delle azioni e la valutazione finale del percorso di ricerca. Ecco cosa precisa una tutor rispetto a tali passaggi:

 

Nel primo incontro si è cercato di far sì che loro si staccassero dalla loro realtà perché dovevano fare una ricerca azione, cioè non vedessero la realtà con gli occhi di sempre, ma provassero a vederla attraverso gli occhi degli altri, dei colleghi […] e per fare questo abbiamo fatto con loro una esercitazione per abituarli a questa idea; successivamente abbiamo individuato gli strumenti che dovevano utilizzare che abbiamo presentato, ma che loro però hanno avuto il compito di studiarli, di guardarli. (Tutor del tirocinio)

 

Anche la scelta degli strumenti di ricerca è stata caratterizzata da una certa complessità per gli insegnanti, dovuta alla difficoltà di comprendere quale, tra i diversi strumenti presentati, fosse quello più adatto al proprio problema di ricerca e all’interrogativo individuato. Un’altra tutor precisa:

 

Io ho fatto utilizzare parecchio l’osservazione; all’inizio erano un po’ titubanti, poi sono andati addirittura a cercare delle modalità di osservazione; la maggior parte ha utilizzato il diario, la narrazione, altri delle schede, altri sono andati a costruire dei questionari per indagare, per conoscere e avere un livello descrittivo e poi altri strumenti che hanno costruito, che era una modalità di lavorare insieme, studiare insieme, per esempio dei materiali proprio su che cosa è l’intercultura, li abbiamo cercati insieme; poi tantissimi materiali che erano stati dati nel corso e li hanno studiati e rielaborati insieme. (Tutor del tirocinio)

 

Nel secondo incontro ogni gruppo è stato suddiviso in unità di lavoro costituite sulla base della similarità del problema di ricerca individuato. Ogni partecipante ha presentato al gruppo i dati iniziali raccolti con lo strumento, proponendo una loro iniziale interpretazione e le possibili azioni da intraprendere a scuola. Ognuna di queste azioni è stata sottoposta a un confronto intersoggettivo tra i partecipanti che ha preso avvio dalla proposizione di alcune domande da parte dei tutor con l’obiettivo di far emergere i motivi delle scelte operative attuate a scuola sulla base dei dati raccolti. Questa particolare fase non era centrata semplicisticamente sulla ricerca di soluzioni agli interrogativi emersi, quanto piuttosto sullo sviluppo di un’analisi critica, condivisa nel gruppo, che permettesse di ampliare le interpretazioni fornite da ciascun docente in riferimento al proprio contesto scolastico. In altre parole, gli insegnanti hanno potuto, in questo modo, costruirsi da un lato una rappresentazione più articolata del problema di ricerca e, dall’altro, comprendere con più chiarezza quelle che potevano essere le azioni da attivare all’interno del contesto educativo.

 

Le azioni emergevano dopo aver fatto tutta l’analisi della situazione, dopo aver raccolto i dati, […] e poi attraverso l’aiuto avveniva un intervento più cooperativo, più intersoggettivo che soggettivo, che aiutava a individuare azioni che potessero funzionare. (Tutor del tirocinio)

 

Nel terzo e quarto incontro sono state pianificate ulteriori azioni a scuola e definiti gli strumenti per una seconda raccolta dei dati che permettessero di valutare eventuali cambiamenti avvenuti. Il modo di lavorare attraverso la ricerca azione per la maggior parte li ha affascinati pur non avendo loro tutti gli strumenti per farlo, in quanto questa modalità gli ha concesso di tirarsi fuori dal ruolo di docente per calarsi in quello di “ricercatore”:

 

[…] quindi questa modalità ha rappresentato un po’ l’idea che loro vorrebbero avere della scuola […] ha portato a creare un gruppo elettivo di docenti, che si sono rafforzati tra di loro […] perché è stato come un sostegno, una crescita loro insieme agli altri e trovare nel gruppo la possibilità di condividere, di parlare ma soprattutto avere un gruppo di cui ti fidavi perché era un gruppo che stava facendo il tuo stesso percorso. (Tutor del tirocinio)

 

Di seguito sono analizzati gli interrogativi utilizzati per la conduzione della riflessione in gruppo.

 

Formarsi alla riflessività: le domande come costruttori di senso dell’agire dell’insegnante

Come già brevemente descritto, il lavoro dei gruppi, e in particolare delle unità operative interne a ciascuno di essi, è stato caratterizzato dall’attenzione alla costruzione di processi di riflessione.

Che cosa intendiamo quando ci riferiamo a riflessione o pensiero riflessivo?

La riflessione, o pensiero riflessivo, è una particolare attività della mente considerata da Dewey (1961) come il miglior modo di pensared è da lui descritta come un tipo di pensiero che si ripiega su stesso, che rivolge verso un particolare “soggetto” un’attenta e continua attenzione: «Comprendendo quali sono i migliori modi di pensare, e perché sono tali, si può, si vuole, cambiare i propri modi personali fino a renderli più efficienti; fino a che, cioè, non riescano a far meglio il lavoro che il pensiero può fare e che altre operazioni mentali non saprebbero fare altrettanto» (Dewey, 1961, p.61). Per il filosofo americano esistono una varietà di forme di pensiero che si possono manifestare attraverso figurazioni mentali, reticenze casuali, speranze gradevoli ma senza alcun fondamento, impressioni rapide appena accennate. Tali forme di pensiero, per Dewey, non possono essere definite come un pensiero riflessivo poiché

 

la riflessione non implica soltanto una mera sequenza, bensì una “conseguenza” di idee, un ordine consecutivo siffatto che ognuna di esse determina la successiva come il suo proprio risultato e, a sua volta, ciascun risultato si appoggia o si riferisce a quelle che lo procedono. Le parti successive di un pensiero riflessivo nascono l’una dall’altra e si sostengono a vicenda; non vanno e vengono in confuse mescolanza. Ogni fase è un gradino da qualcosa a qualcosa, tecnicamente parlando, è un termine del pensiero. […] La corrente, il corso diventa una serie ordinata o una catena. In qualsiasi pensiero riflessivo vi sono unità ben definite collegate in modo da rendere possibile un movimento rivolto a un fine comune (Dewey, 1961, p. 63).

 

Quindi, il pensare riflessivo non è una semplice concatenazione di raffigurazioni mentali, ma una catena di pensieri che si direziona verso uno scopo, che tende a una conclusione decisa al di fuori delle immagini percepite.

Dal punto di vista deweyano, affinché la riflessione possa emergere, è necessario innanzitutto che il soggetto senta uno stato di incertezza, di perplessità e da ciò avverta la necessità di voler comprendere e tentare di risolvere i dubbi emersi. È a partire dalla percezione del dubbio che si esprime, per lo studioso, una forma di “disagio cognitivo” che induce il soggetto ad avviare la ricerca e l’adozione di strumenti che potranno aiutarlo a esaminare o risolvere i propri interrogativi. Dunque, utilizzando le parole di Luigina Mortari (2003, p. 30), la riflessione è «un pensare in profondità, che scava nelle pieghe dell’esperienza, per capire le ragioni che hanno guidato l’azione in quella precisa direzione, le alternative che sono state scartate e i motivi, se c’erano, che hanno orientato quella prima scelta». Negli incontri di tirocinio indiretto questo “disagio cognitivo” è emerso, fin dalla fase iniziale, dalla descrizione degli insegnanti di particolari condizioni di difficoltà e di incertezza che caratterizzavano il senso del loro agire a seguito del confronto culturale presente nei loro contesti scolastici, come per esempio: la farraginosità, talvolta l’inesistenza, di procedure chiare e condivise per l’accoglienza di alunni e famiglie di origine straniera; la mancanza di strumenti per la comprensione e la gestione di relazioni conflittuali e discriminanti tra alunni, talvolta fondate su pregiudizi reciproci; o ancora la difficoltà, a volte l’inefficacia, di insegnare in scuole con un’alta concentrazione di alunni di origine straniera.

Tali domande, utili all’avvio della riflessione in gruppo, erano considerate come un incipit alla discussione, da cui far nascere altrettanti interrogativi che lo stesso gruppo poteva rivolgere a chi presentava il proprio problema di ricerca, all’interpretazione dei dati raccolti o alla descrizione delle azioni intraprese, ancora quesiti che il soggetto rivolgeva verso se stesso per chiarire i motivi delle sue azioni.  

Dunque, domande che cercavano di andare sempre più in profondità, indagando non solo l’agito, ma anche lo stesso pensiero, con lo scopo di concatenare le idee secondo un’intenzionalità rivolta alla comprensione del problema individuato e alla ricerca di senso nell’agire educativo di ciascuno. È in questa direzione che l’esperienza, intesa come rielaborazione di vissuti e pratiche (Dewey), è stata problematizzata, cioè è stata analizzata attraverso la comprensione di tutte le sue possibili contraddizioni, criticità e risorse in essa presenti, un’analisi verso cui il gruppo si è soffermato ponendosi a una giusta distanza da essi. Agli insegnanti era richiesto, inoltre, di riportare su una scheda le varie riflessioni emerse dalla discussione in gruppo in seguito alla proposizione degli interrogativi. La scrittura aveva lo scopo di dare concretezza al procedere della riflessione e di ridurre la dispersione in cui potevano cadere le narrazioni del gruppo. Di seguito le parole di una tutor:

 

Abbiamo creato delle schede che sono state utili per permettere ai vari gruppi di avere un percorso piuttosto parallelo in modo tale che si potessero confrontare, ma anche consentire a ogni gruppo di non perdersi, perché il rischio di questi docenti è stato proprio quello di vivere questi momenti come uno spazio importante di confronto e quindi in effetti di autoformazione […] le schede con le domande specifiche nelle quali loro dovevano sintetizzare ciò che era emerso, costringevano a fare uno sforzo di metacognizione e di generalizzazione per certi versi di quelle che erano le varie situazioni dei singoli e questo era utile sia per il singolo, sia per il gruppo […] si distaccava un po’ dal punto di vista emotivo, per arrivare un po’ di più al punto riflessivo teorico. (Tutor del Tirocinio)

 

Il primo interrogativo (qual è il problema educativo da cui sei partito?) ha permesso a ogni insegnante di riprendere, rivedere e identificare con più attenzione il problema educativo da cui è partita l’indagine di ciascuno. Molteplici e diversificati sono stati i problemi emersi, tutti riconducibili ai tanti aspetti che i contesti scolastici multiculturali vivono quotidianamente, fra questi ne elenchiamo alcuni: il rapporto con le famiglie, l’orientamento, la continuità verticale, le relazioni tra pari in classe, l’accoglienza e le sue prassi, la disabilità e l’appartenenza culturale, il curricolo interculturale, le discipline e l’apprendimento in una seconda lingua. In seguito all’individuazione del problema di ricerca, ogni insegnante ha formulato una serie di interrogativi specifici che sono diventati il nucleo generativo dell’indagine, domande che si sono via via perfezionate durante le prime fasi del tirocinio diretto e che hanno permesso di addentrarsi sempre più nella complessità del problema educativo individuato (Demetrio, 1992).

Le domande successive sono state rivolte all’analisi e all’interpretazione dei dati raccolti con gli strumenti di ricerca (osservazioni, questionari, interviste, focus group) e le possibili azioni da intraprendere: quali sono i dati che posso utilizzare per le mie azioni? Quali interventi posso realizzare? Gli interventi educativi sono fattibili, in termini di tempi e strategie? Tra i dati emersi, sono stati scelti quelli che potevano essere più adatti alla pianificazione delle azioni. C’è stato anche chi, in questa fase, ha modificato o perfezionato il suo oggetto di indagine a seguito del confronto avvenuto.

L’attenzione alle azioni e alla loro descrizione in relazione ai dati raccolti aveva lo scopo di collegare il processo riflessivo con l’esperienza svolta a scuola in modo che ogni insegnante, sostenuto dalla discussione del gruppo, potesse focalizzarsi su quanto fatto, mettendo in atto uno sguardo critico, razionale e intenzionale, volto a cogliere la molteplicità degli aspetti in gioco. L’obiettivo di questa fase è stato quello di produrre delle vere e proprie narrazioni dell’esperienza, elaborata grazie l’apporto di una pluralità di punti di vista. Tale processo ha a sua volta sottolineato il significativo ruolo svolto dal decentramento cognitivo, come competenza necessaria per la riflessione interculturale e per operare in contesti multiculturali (Cambi, 2006; Vaccarelli, 2009).

È bene però precisare che con il termine “esperienza” non si fa riferimento al semplice fare, o all’essere dedicati a una qualche attività, ma si intende un agire in cui «il vissuto diventa oggetto di riflessione e il soggetto se ne appropria consapevolmente per comprenderne il senso. […] Perché ci sia esperienza è, quindi, necessario un intervento del pensiero che consenta di mettere in parola il vissuto dando ad esso esistenza simbolica. Il fare esperienza va inteso come il movimento dello stare in contatto di sé, il disporsi in un atteggiamento di ascolto pensoso rispetto al divenire della propria presenza nel mondo» (Mortari, 2003, p. 15).

 

Allora lo scopo è stato quello di creare dei gruppi di lavoro in cui la base fosse quella di creare condivisione e di cercare insieme le risposte, condivisione dei problemi e delle soluzioni, […] la ricerca azione dà la possibilità di creare una comunità educante. (Tutor del tirocinio)

 

Narrare l’esperienza e riferirsi ad essa vuol dire non escludere il collegamento alle teorie che diventano invece dei punti di riferimento, dei veri e propri strumenti, attraverso i quali comprendere in profondità l’esperienza attraverso uno sguardo critico, ma costruttivo. Il collegamento con i saperi o la creazione di questi nell’elaborazione dell’esperienza rende l’insegnante un soggetto in grado di costruire e utilizzare il sapere nel contesto in cui agisce, anche grazie alla condivisione con il gruppo (Mortari, 2009). L’interrogativo successivo è stato rivolto all’esplicitazione delle teorie sottostanti all’agire dell’insegnante: quali sono i riferimenti teorici a cui faccio riferimento?

Ricercare quali teorie stanno alla base delle azioni è un passaggio essenziale per portare alla luce alcune importanti consapevolezze. La prima tra queste è quella di far emergere la consapevolezza che, come afferma Mortari (2009), l’agire dell’insegnante è sempre sostenuto da teorie che hanno la forma di idee e che guidano le decisioni prese. Queste teorie possono essere acquisite dall’insegnante in modo inconsapevole e perciò diventare un ostacolo nel rintracciare le motivazioni che hanno guidato le proprie scelte oppure essere chiare ed evidenti e per questo il docente è in grado di elaborarle su proprie valutazioni critiche, fornendo le ragioni pedagogiche del proprio agire.

Adottando, invece, una postura di indagine critica, grazie alla produzione di un pensiero riflessivo, le insegnanti hanno fatto emergere non solo eventuali teorie dell’apprendimento, ma anche diversi principi teorici della pedagogia interculturale, come per esempio il principio del dialogo, su cui dovrebbero essere costruiti le pratiche e i processi discorsivi a scuola con il fine di avvicinarsi all’altro per costruire «zone di reciproca comprensione» (Favaro, 2011). Quindi pratiche dialogiche volte al raggiungimento di un etnocentrismo critico, al controllo dei propri stereotipi e pregiudizi e alla gestione dei conflitti. Un secondo livello di approfondimento ha riguardato il ruolo svolto dal gruppo nel processo di riflessione messo in atto: quali chiarimenti e riformulazioni sono stati fatti a seguito delle domande del gruppo? Quali riflessioni/dubbi/interpretazioni del gruppo sono stati utilizzati nel proprio lavoro? Quali suggerimenti e risorse ha fornito al gruppo per lo svolgimento delle proprie azioni?

Per poter sviluppare pensiero non solo riflessivo, ma anche critico, cioè capace di problematizzare l’esperienza, intesa come rielaborazione del proprio vissuto, è necessario il confronto con gli altri, poiché è grazie al dialogo con i partecipanti del gruppo che viene facilitata l’apertura al pluralismo delle idee, condizione indispensabile per l’esecuzione di un pensiero critico che, incontrando il pensiero dell’altro, può cogliere un diverso modo di osservare e di interpretare l’esperienza e i suoi vissuti.

Quindi la formazione dell’insegnante non può prescindere dalla dimensione del lavoro di gruppo poiché dialogare con gli altri permette non solo di far nascere nuovi modi di comprendere il proprio agire, ma può costituire anche la base di un vero e proprio apprendimento, cioè una «co-costruzione del ragionamento» contraddistinto dalla disponibilità e dalla permeabilità al pensiero dell’altro attraverso cui avvengono importanti processi di apprendimento e di condivisione di significati tra tutti gli interlocutori (Pontecorvo, Ajello e Zucchermaglio, 1999).

In sintesi un esito della pratica riflessiva è rappresentato dall’emersione di un duplice processo di consapevolezza da parte dell’insegnante: da un lato riuscire a mettere in discussione pratiche “cristallizzate” costituite da un sapere già dato, per certi versi precostituito, da sottoporre a una continua ridefinizione (Mortari, 2018); dall’altro far nascere un’attenzione continua all’introspezione per fare emergere non solo le proprie competenze, ma anche i propri pregiudizi e stereotipi, con l’obiettivo di sviluppare una sensibilità al cambiamento per «dare avvio a una pratica di impegno che consiste nella tensione continua a riconoscere e superare i condizionamenti biologici, psicologici e socioculturali, avendo come obiettivo la differenza» (Contini, Fabbri e Minuzzi, 2006, p. 54).

Nel percorso di tirocinio, ciò ha significato per l’insegnante poter ritornare su quanto aveva pianificato, rivedere le proprie idee, aspettative e valutazioni, interrogando pratiche sedimentate nel corso del tempo e, grazie al confronto con il gruppo, acquisire maggiore consapevolezza in sé stessi e nella propria professionalità.

 

Un’insegnante ha detto: “dare senso a quello che stavano facendo” per tantissimi era quello di riuscire a fare cose che hanno sempre fatto, ma con la consapevolezza diversa, quindi riuscire a dare senso è una cosa che è venuta fuori proprio lampante”. (Tutor del tirocinio)

 

Pensare in modo critico per agire in prospettiva interculturale

La formazione attuata dal Master a Bologna, ma anche di quelli a livello nazionale, ha avuto il merito di far assumere all’insegnante una disposizione scientifica verso il proprio agire, che è consistita, in sintesi, nei seguenti passaggi: riuscire ad assumere un punto di osservazione esplicito e rigoroso a seguito di una comprensione maggiore dei processi educativi (capacità di cogliere il nesso tra gli eventi); rendere meno confuso e abitudinario l’intervento educativo; produrre riflessività, analisi e cambiamento intorno alle pratiche. Grazie a tale modalità riflessive sono stati attuati progetti e percorsi di ricerca azione che hanno avuto ricadute dirette e indirette su più contesti, relazioni e persone che, a loro volta, hanno modificato il modo di pensare e di procedere di coloro che li realizzavano (gli insegnanti).

Ovviamente in questo processo hanno avuto un ruolo determinante le pratiche discorsive avviate nelle discussioni durante le lezioni teoriche, nell’operatività dei laboratori e nel confronto durante il tirocinio indiretto. La parola in ogni pratica discorsiva è decisiva non solo perché è espressione dell’agire educativo e didattico dell’insegnante, ma perché rende visibile un pensiero, veicolo di idee e di vissuti che, come abbiamo visto, necessitano di seguire un’argomentazione logica e razionale per diventare riflessione.

Il pensiero riflessivo può pertanto diventare un pensiero critico, capace di problematizzare le scelte intraprese e l’esperienza svolta adottando nel proprio procedere la pluralità dei punti di vista e la sospensione del giudizio. Come suggerisce Fiorucci (2011, p. 41), «un pensiero critico, autonomo, non omologato è in altri termini già di per sé interculturale perché rifiuta il pregiudizio e la conoscenza pre-confezionata mettendo l’individuo in condizioni di agire e pensare liberamente e non essere facilmente influenzabile».

Pertanto, è necessario continuare a investire nella formazione interculturale degli insegnanti affinché la scuola diventi, sempre più, un luogo di dialogo, di valorizzazione delle differenze e delle somiglianze di ciascuno con il fine di perseguire la riuscita scolastica di tutti gli alunni e le alunne, nessuno escluso.

 

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