Ricerche empiriche / Empirical research
Lavoro di rete e bisogni formativi nelle professioni dell’accoglienza. Empowerment professionale e relazione d’aiuto nel lavoro interculturale in Abruzzo
Networking and vocational needs in the professions involved in the reception of displaced people/immigrants. Professional empowerment and supportive relationships in intercultural work in Abruzzo
Fabio Centi Pizzutilli
Educatore in diverse realtà del terzo settore del post-terremoto dell’Aquila e del Centro Italia, si è formato come Operatore Legale per l’immigrazione presso l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione. È presidente dell’associazione Abruzzo Centro Internazionale Crocevia. Collabora con la cattedra di Pedagogia Interculturale presso l’Università degli Studi dell’Aquila
Nicoletta Di Genova
Laureata in Scienze della Formazione e del Servizio Sociale, ha conseguito il master professionale in Gestalt Counseling. Professionista nella relazione d’aiuto, nella comunicazione efficace, nella gestione delle dinamiche di gruppo nel benessere e nella salutogenesi. È educatrice presso il progetto
Autore per la corrispondenza
Fabio Centi Pizzutilli
Indirizzo e-mail: fabio.centi.p@gmail.com
Università degli Studi dell’Aquila, Via Camponeschi, 2, 67100 L’Aquila
Sommario
Il fenomeno migratorio richiede una riflessione critica sulle professionalità impiegate nella gestione delle pratiche e procedure di accoglienza. I diversi operatori che lavorano nei contesti interculturali si trovano a fronteggiare una serie di situazioni che moltiplicano le difficoltà del lavoro nel sociale, già di per sé complesso, e nella relazione d’aiuto. Il contributo proposto riporta i risultati di una ricerca qualitativa svolta in Abruzzo attraverso la raccolta di interviste focalizzate a testimoni privilegiati (assistenti sociali, psicologi, educatori, mediatori interculturali, operatori sociali), impiegati in strutture di accoglienza di varia natura (SPRAR, CAS, Case Famiglia per minori, CIE, ecc.). La riflessione che si intende avviare verte sull’esplorazione di tre macro-aree: formativa, emotivo-relazionale, lavoro di rete inter-professionale e/o inter-istituzionale.
Parole chiave
lavoro educativo, accoglienza, lavoro di rete, formazione.
Abstract
The migratory phenomenon requires critical thinking about the professionals employed in the management of immigration policies and procedures. Operators working in intercultural contexts have to face many situations that multiply the difficulties in the complex world of social work and supportive relationships. This paper reports the results of a qualitative research project in Abruzzo, carried out through focused interviews with key informants (social workers, psychologists, educators, intercultural mediators and social operators) employed in welcoming facilities of various kinds (SPRAR, CAS, Childhood care homes, CIE, etc.). We are going to explore three macro-areas: training, the emotive-relational sphere, and inter-professional and/or inter-institutional networking.
Keywords
educational work, reception, networking, training.
Lavoro di rete nelle strutture per l’accoglienza in Abruzzo: una ricerca qualitativa1
Per capire sempre meglio il sistema dell’accoglienza dei rifugiati politici e dei richiedenti asilo in Italia non si può prescindere da un’analisi e un approfondimento del mondo degli operatori in esso impiegati. Le complicazioni linguistiche e comunicative, il riferimento a modelli culturali di appartenenza, l’interfaccia con l’iter burocratico-amministrativo, il portato emotivo e psicologico e la necessità di una reciproca comprensione dei vissuti e dei percorsi di vita, sono tutti fattori che concorrono a rendere impegnativa e specifica sia la formazione degli operatori sia il coordinamento e la realizzazione dei servizi (Cerrocchi e Dozza, 2007; Caldarini, 2008).
Per approfondire l’esplorazione delle tematiche riguardanti le tre macroaree prese in esame (formativa, emotivo-relazionale, lavoro di rete interprofessionale e/o interistituzionale), si è scelto di svolgere una ricerca qualitativa a testimoni privilegiati, intervistando attori impiegati sul campo nelle strutture di accoglienza e rappresentativi delle diverse tipologie di figure professionali operative nel contesto di analisi, da qui in poi definiti operatori dell’accoglienza. La tipologia di intervista utilizzata è quella focalizzata (Corbetta, 1999), che ci permette di mettere a fuoco le particolarità di un’area professionale portatrice di numerosi e diversificati bisogni e istanze.
Sono state raccolte venti interviste da un gruppo composto dalle diverse professionalità che lavorano in prima linea sul fronte dell’accoglienza nel contesto abruzzese, ripartite come evidenziato nella Tabella 1. Gli intervistati operano nelle diverse tipologie di strutture delle province abruzzesi: SPRAR, CAS, Case Famiglia per minori, CIE. Pur non costituendo un campione rappresentativo, riteniamo che la ricerca svolta possa fare emergere bisogni e problemi qualitativamente significativi relativamente alle professioni impiegate nell’accoglienza, nonché spunti per ulteriori approfondimenti.
Tabella 1 – Gli operatori dell’accoglienza |
|
Assistente sociale |
n. 2 |
Insegnante italiano L2 |
n. 3 |
Educatore |
n. 3 |
Mediatore linguistico e interculturale |
n. 4 |
Psicologo |
n. 3 |
Avvocato e operatore legale |
n. 2 |
Operatore sociale |
n. 1 |
Coordinatore di servizio |
n. 2 |
Tot. |
n. 20 |
Un primo ostacolo incontrato nella classificazione degli operatori è stato quello di riuscire a definire e circoscrivere con chiarezza la corrispondenza tra l’inquadramento contrattuale degli intervistati e l’effettivo svolgimento dei compiti loro richiesti. In particolare, questa problematica si riscontra nelle professioni di educatore e di mediatore linguistico e interculturale. Queste figure professionali, infatti, in alcuni casi operano con criteri contrattuali che prescindono dal ruolo e dalla funzione per cui sono stati effettivamente assunti.
La griglia utilizzata per le interviste è riportata nella Tabella 2.
Tabella 2 – Griglia aree tematiche esplorate |
1. Breve presentazione di sé e del contesto lavorativo 2. Corrispondenza del percorso formativo 3. Motivazioni e senso dell’agire professionale 4. Aderenza al ruolo e al contesto lavorativo 5. Rapporti con le altre figure professionali 6. Funzionamento dell’integrazione della rete istituzionale e del terzo settore 7. Bisogni legati al sostegno della professionalità 8. Gestione della relazione d’aiuto 9. Vissuto e coinvolgimento emotivo 10. Strategie e strumenti di contenimento emotivo 11. Eventuali altri argomenti |
Quale riferimento geografico è stata scelta la Regione Abruzzo, contesto territoriale non propriamente sotto la lente mediatica per ciò che attiene l’immigrazione e l’accoglienza. L’Abruzzo, stando ai dati del 2017, accoglie il 2% dei rifugiati e dei richiedenti asilo (Gaffuri e D’Ascenzo, 2017), pari a 4.506 persone.
Allargando la visuale a tutti i cittadini non italiani, risulta che la Provincia con la più alta presenza di stranieri è L’Aquila, con 24.504 residenti, pari all’8,1%. Seguono Teramo con 23.850 (7,7%), Chieti con 20.823 (5,4%) e Pescara con 17.379 (5,4%). Stando ai numeri del Ministero dell’Interno, per quanto riguarda l’accoglienza afferente a strutture del sistema SPRAR, la prima Provincia in Abruzzo per disponibilità di posti risulta essere Chieti, con 8 progetti SPRAR attivi sui 16 complessivi, per un numero di potenziali beneficiari di 255 persone. Dei restanti 8 SPRAR attivi in Regione, 3 ricadono sull’Aquila, con 63 posti, 2 su Teramo, con 150 posti e infine 3 su Pescara, con una disponibilità di 216 posti potenziali; il totale dei destinatari per i progetti SPRAR risulta quindi essere di 684 persone (Servizio Centrale SPRAR, 2017).
È allora intuibile come la maggioranza dei migranti giunti nella regione si trovi ospite in strutture straordinarie di accoglienza (3.822 persone). Questo, stando a quanto ci riferiscono gli intervistati, risulta essere, come vedremo, un problema sia a livello strutturale e numerico-gestionale sia per ciò che attiene gli standard di benessere per ospiti ed operatori. Quello dell’accoglienza è infatti un mondo complicato anche dalla variabilità legata alle diverse tipologie di centri e strutture adibite allo scopo.
Ricordiamo molto brevemente che la prima accoglienza si riferisce perlopiù ai CAS e si configura con caratteristiche di straordinarietà, mentre «lo SPRAR ha come obiettivo principale la (ri)conquista dell’autonomia individuale dei richiedenti/titolari di protezione internazionale e umanitaria accolti, intesa come una loro effettiva emancipazione dal bisogno di ricevere assistenza (in questi termini si parla di accoglienza emancipante)» (Servizio Centrale SPRAR, 2015, p. 6). Tuttavia, ai fini della ricerca, non si è ritenuta funzionale una distinzione tra gli operatori impiegati nella prima e nella seconda accoglienza.
Chi sono gli operatori dell’accoglienza: il contesto nazionale e regionale
Il lavoro con i migranti, da sempre portatore di istanze educative e di problematiche profonde, rappresenta un continuo spingersi verso l’Altro per poi tornare nel proprium. Nelle relazioni che intercorrono tra beneficiari e operatori si possono rintracciare dinamiche significative nel processo di accoglienza; processo che spesso viene raccontato e descritto dall’esterno, anche attraverso punti di vista distorti e fuorvianti. Inoltre, da una città all’altra o all’interno della stessa città possono convivere realtà virtuose dell’accoglienza e strutture spersonalizzanti e che richiamano l’idea delle «istituzioni totali» (Goffman, 1961), in quanto a incapacità di presa in carico complessiva della persona; situazioni che si riverberano inevitabilmente sulle condizioni di lavoro degli operatori e che rendono la mappatura dei servizi ancor più complessa.
Le conseguenze di ciò erano già chiare a Fiorucci (2000): «A partire dalla legge Martelli si può dire che viene sancito il principio secondo cui le linee generali di intervento in materia di accoglienza vengono stabilite a livello nazionale, mentre la gestione effettiva della politica sociale per gli immigrati viene demandata agli Enti locali. Per conseguenza le condizioni di vita degli immigrati possono variare, di fatto, da un contesto territoriale all’altro, in funzione della situazione socio-economica locale e in conseguenza del maggiore o minore rilievo attribuito alle problematiche dell’immigrazione da parte di ciascuna Amministrazione locale» (p. 32).
A una lettura rivolta al benessere dei beneficiari dei servizi, si vuole affiancare, con la nostra ricerca, lo spaccato riferito alle figure professionali che nell’accoglienza lavorano. A livello nazionale, sul benessere organizzativo e sulla qualità dell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo, troviamo una ricerca condotta dalla «Cooperativa sociale In Migrazione» su 333 operatori impiegati in diversi servizi sparsi equamente su tutto il territorio dello Stato. Da questo studio emerge come la problematicità nel sistema di accoglienza italiano sia ancora forte; in particolare: «l’84% degli operatori intervistati (281 su 333) segnala nei centri in cui lavora una o più criticità connesse a: sovraffollamento e decadenza della struttura; scarsa specializzazione dello staff; personale sottostimato rispetto agli ospiti; isolamento fisico nell’ubicazione del centro e carenza di collegamenti pubblici con i centri abitati; difficoltà di accesso ai servizi del territorio» (In Migrazione S.C.S., 2017, p. 4).2
Lo SPRAR si configura oggi in Italia come il sistema di accoglienza che, almeno in linea teorica, si prefigge adeguati standard qualitativi di benessere soggettivo e oggettivo; nei fatti esiste una variabilità dovuta alle differenze tra i vari progetti e contesti territoriali. Infatti, nonostante la rigida formalizzazione delle procedure e delle prassi alle quali devono attenersi gli enti titolari e gli enti gestori, sussiste una discrezionalità di scelta a quest’ultimi lasciata, che si ripercuote sul lavoro quotidiano e sul soddisfacimento dei bisogni di rifugiati e richiedenti asilo. Quello degli operatori dell’accoglienza si configura come un lavoro multidimensionale, aperto a condizionalità interne alla professionalità svolta, ma anche a quelle organizzative e territoriali.
Elemento trasversale di tutto ciò è rappresentato da quel complesso di competenze relazionali e riflessive (Schön, 1993), che solo in parte sembrano acquisite e acquisibili nei percorsi di studio. «Proprio la capacità degli operatori dei servizi di accoglienza e inclusione sociale di riflettere criticamente sulle pratiche adottate, in vista del miglioramento o della sperimentazione di strumenti, appare rilevante al fine di affrontare le criticità e i problemi derivanti dalla quotidiana esperienza professionale. In questo modo è possibile infatti costruire risposte che, seppur circoscritte a determinati ambiti territoriali come è caratteristico di qualsiasi intervento sociale, possono complessivamente configurare un sistema di stato sociale che promuova efficacemente l’integrazione sociale» (Catarci, 2011, pp. 53-54).
La formazione degli operatori dell’accoglienza tra ambiguità e potenzialità: figure professionali al limite
Lavorare nelle strutture di accoglienza per beneficiari/rifugiati e richiedenti asilo richiede un forte raccordo e una solida integrazione tra le figure professionali in esse impiegate. Le competenze e le informazioni che ognuno raggiunge, ai fini di un buon lavoro di équipe, richiedono di essere condivise con tutto il gruppo di lavoro. Il fatto che, a detta degli intervistati, non ci sia in tutte le strutture una formalizzazione dei ruoli e dei compiti da svolgere nel lavoro di tutti i giorni fa sì che la confusione organizzativa sia ancora maggiore. Per ciò che attiene il percorso di studio e il profilo professionale degli intervistati emergono itinerari differenziati, eterogenei e non sempre corrispondenti al ruolo che si svolge nel lavoro quotidiano. La stessa frequentazione di tematiche interculturali viene realizzata, da alcuni protagonisti della ricerca, in un secondo tempo, solo dopo un percorso di studio e di lavoro orientato su altre tematiche.
La maggior parte degli intervistati, consapevole delle difficoltà insite alla professione scelta, afferma infatti di essere attento alla propria formazione e quindi di cercare di tenersi informata e aggiornata. Per quanto riguarda la corrispondenza tra il percorso formativo e la posizione lavorativa ricoperta, in 9 casi su 20 è corrispondente; in 5 casi su 20 era inizialmente orientato verso un'altra direzione ma comunque attinente al lavoro svolto; infine, in 6 casi su 20 il percorso di studi non sembra in alcun modo attinente al lavoro che si svolge nelle strutture dell’accoglienza. Molti operatori, consapevoli delle proprie carenze professionali, ritengono che la formazione ricevuta nel percorso ordinario di studi, di solito universitario, sia perlopiù teorica e a volte lontana dalle problematiche che si incontrano nel lavoro quotidiano.
«Non mi sento preparata, a livello formativo non mi sento adeguata» (Intervista n. 7, insegnante di italiano presso un Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti).
La necessità di una continua e sempre migliore crescita personale, formativa e pedagogica emerge con forza anche affrontando il tema del sostegno alla professionalità. Sono in molti a riferire infatti come il miglior modo per supportare e sostenere il proprio lavoro sia quello di fornire strumenti operativi, attraverso percorsi educativi e formativi pensati ad hoc, che non siano troppo dispendiosi in termini economici e di impegno temporale, in modo da essere efficacemente affiancati all’attività lavorativa.
«[…] più formazioni pratiche e più corte perché per esempio io non mi posso permettere di smettere di lavorare per un anno o due per farmi un corso e eventualmente anche prezzi agevolati, cioè prezzi un po' più alla portata di tutti, perché sono lavori nei quali tu guadagni pochissimo e io, se non mi posso pagare l'affitto, non mi posso neanche pagare la formazione quindi questo, più formazioni» (Intervista n. 17, mediatore interculturale presso diverse tipologie di strutture).
I diversi operatori riferiscono di aver cercato da soli la strada per l’avanzamento professionale e per il raggiungimento di un livello formativo più adeguato:
«Il percorso per arrivare a fare quello che faccio è stato lungo e tortuoso; me lo sono scelto da me» (Intervista n. 9, coordinatore di servizio presso un CAS).
Oppure:
«Quel corso l’ho voluto io, l’ho cercato e me lo sono anche pagato, loro mi hanno dato solo le ore di permesso per la formazione» (Intervista n. 6, operatore legale presso un CAS).
Si denuncia, di fatto, l’assenza di una formazione messa a sistema, a livello territoriale, che sia erogata o finanziata da enti pubblici. Mentre per le figure professionali specialistiche c’è maggiore corrispondenza tra percorso di studio e ruolo ricoperto, per quelle in via di definizione o di minore qualificazione la situazione è molto più complessa. Non sempre una formazione adeguata sembra essere un requisito necessario, soprattutto nei CAS in cui la straordinarietà dell’accoglienza lascia margini più ampi rispetto alla formazione in entrata degli operatori; in particolare, questo è ancor più vero per alcune figure professionali facenti parte dell’équipe multidisciplinare. Riguardo la figura del mediatore interculturale, ad esempio, pur essendo studiata, approfondita e sistematizzata (Fiorucci, 2000; 2011; 2017), emergono delle carenze in quanto ancora non implementata adeguatamente e talvolta ridotta a una mera funzione di traduzione linguistica, con una formazione che non a caso avviene in maniera diversificata e dai compiti e requisiti formativi necessari non ancora ben definiti.
«Diciamo che nel contesto in cui lavoro la cosa più importante sono appunto le lingue, quindi già avendo preso questa laurea triennale mi è servita molto, ecco… perché io più che altro traduco, faccio da interprete anche in piccoli convegni e cose varie. In più faccio anche delle lezioni di italiano per questi ospiti che abbiamo qui nel centro di accoglienza. Ancora non ho fatto corsi specifici però sto provvedendo, diciamo» (Intervista n. 5, mediatore interculturale presso un CAS).
O anche:
«Allora il mio lavoro, la traduzione, l’ho sempre fatto con grande professionalità. Perché il mio lavoro finisce lì, tradurre e mettere in comunicazione la persona che arriva con l’operatore che ci lavora» (Intervista n. 2, mediatore interculturale presso diverse tipologie di strutture).
La richiesta di formazione in servizio che sembra pervenire dagli operatori dell’accoglienza ascoltati si scontra spesso con le resistenze di coordinatori e gestori dei progetti. Essa risulta essere strettamente legata alla tipologia di struttura in cui si lavora o che si coordina. Lo SPRAR o strutture che ad esso si ispirano, e che quindi fanno propria l’ottica di sistema, sembrano essere le sole che, oltre a richiedere precise qualifiche in ingresso, offrono anche maggiori occasioni di formazione in servizio. Questo si tradurrebbe di conseguenza, a detta degli intervistati, in una maggiore efficacia, in migliori servizi per i richiedenti e i beneficiari e in un più elevato benessere per gli operatori. Le testimonianze raccolte ci parlano di una difficoltà organizzativa all’interno delle strutture d’accoglienza molto diffusa. La reale e contrattata copertura di un ruolo chiaro e costante da parte degli operatori emerge quale criticità spesso presente e condizionante le realtà lavorative.
Un intervistato afferma: «Non credere che sia una pratica così diffusa all’interno di ogni SPRAR, o di altri centri, quella che ognuno si occupi del proprio ruolo» (Intervista n. 1, insegnante di italiano L2 presso uno SPRAR).
Questo aspetto può essere generatore di confusione organizzativa, di frustrazione professionale e di pratiche e procedure poco efficaci, risulta essere un fattore particolarmente negativo ai fini dell’espletamento del proprio lavoro da parte dell’équipe. In altri casi, invece, sono gli stessi intervistati che ritengono la mancata specializzazione su uno o più compiti, con la conseguente copertura di ruoli plurimi da parte degli operatori coinvolti nei progetti, indicativa di una maggiore efficienza e qualità del servizio. Nella ricerca abbiamo quindi trovato figure qualificate che in alcuni casi esclusivamente, in altri solo in parte, svolgono quotidianamente altri tipi di compiti; operatori inquadrati come socio-assistenziali che sono una sorta di tuttofare delle strutture; ex beneficiari che, dopo avere fatto un loro percorso in struttura, sono diventati mediatori interculturali e via dicendo.
Notevoli criticità sono state riscontrate infine per quel che riguarda la figura professionale dell’educatore, la sua formazione e il reale svolgimento del lavoro educativo. In particolare nella ricerca è emerso che solamente uno dei tre che ricopriva il ruolo di educatore aveva una formazione specifica in merito e la qualifica per farlo (oltre a uno psicologo e un diplomato). Approfondendo poi, è emerso che gli educatori non vengono assunti come tali, soprattutto nei CAS, e che all’interno dei progetti spettano loro tutta una serie di compiti che non molto hanno a che fare con l’educativo. A livello contrattuale, infine, a tutti e tre è stato fatto un contratto da operatore socio-assistenziale che abbiamo riscontrato essere la tipologia di contratto che va per la maggiore tra alcune figure professionali impiegate nelle strutture dell’accoglienza abruzzesi.
L’integrazione e la rete: responsabilità condivise per un obiettivo comune
Partendo dalla consapevolezza che nessuna singola professionalità sia sufficientemente risolutiva di tutti i problemi che vanno a investire la complessità della persona, del fenomeno migratorio nella sua totalità e delle azioni di accoglienza, il termine integrazione, quale concetto multidimensionale e orientato all’interdisciplinarità, risulta essere centrale nei vocabolari della relazione interculturale (Fiorucci, Pinto Minerva e Portera, 2017). Nell’ambito di tale complessità è necessario pensare a azioni e paradigmi teorici integrati su più livelli: sul piano istituzionale e legislativo, sul piano territoriale e della welfare community e sul piano strettamente legato alle singole équipe multidisciplinari.
Come afferma Catarci (2011): «È infatti cruciale riconoscere che la questione dell’integrazione di migranti e rifugiati impone di stabilire collegamenti e connessioni tra servizi differenti per due motivi essenziali: il primo concerne il fatto che tale tema delinea una responsabilità condivisa tra molteplici agenzie nella società; il secondo riguarda il fatto che un lavoro di rete tra i diversi servizi consente di offrire un approccio più globale ai diversi bisogni della persona» (p. 27).
Si dimostra quindi opportuno, nell’ottica del benessere dei destinatari delle azioni, aprire gli spazi dei singoli ruoli alla possibilità dell’incontro e della cooperazione estesa all’effettività globale del lavoro di rete inteso come collaborazione e proficua interdipendenza, al fine di rispondere efficacemente alla varietà dei bisogni e alla vasta gamma di situazioni possibili. Sulla base di tale premessa, la ricerca svolta ha posto particolare attenzione alla questione del lavoro di rete strettamente e largamente inteso, esplorando il punto di vista degli operatori riguardo la qualità delle relazioni che vivono con i colleghi, con gli Enti e con le altre realtà territoriali dell’accoglienza e del terzo settore in generale.
Da una prima analisi delle interviste emerge sicuramente una grande eterogeneità nelle risposte relative alle modalità di cooperazione tra gli operatori e le istituzioni; non tutte le figure intervistate hanno rapporti diretti con le istituzioni, per via del ruolo che ricoprono. La parola utilizzata più frequentemente, da parte del personale che intrattiene questi rapporti, per descriverli è «quotidianità» e nella maggior parte dei casi ci si riferisce alla collaborazione con Questura e Prefettura che appare essere continua, in molti casi buona, anche se per quanto riguarda l’espletamento delle procedure ricorrono diverse lamentele.
Un intervistato utilizza la parola «affanno» per descrivere la lentezza della burocrazia e il sovraffollamento che rallentano ulteriormente le pratiche e questa problematica è condivisa da altri sei professionisti ascoltati. Emerge un caso particolarmente virtuoso in cui il reciproco sostegno tra associazioni, enti e istituzioni formalizzato all’interno di un protocollo d’intesa porterebbe i suoi frutti in termini di efficienza del servizio. L’intervistata descrive i rapporti della sua organizzazione con le forze dell’ordine come «essenziali»:
«Essenziali e mi viene da dire anche continui nel senso che noi abbiamo fatto anche negli anni protocolli in collaborazione con le forze dell’ordine territoriali che hanno dato poi grandi esiti […] a livello nazionale è stata un po’ la prima esperienza di collaborazione formalizzata attraverso protocolli d’intesa con le forze dell’ordine, questo ha dato grandi possibilità di applicare le leggi legate poi alle azioni della nostra organizzazione in modo completo e preciso. […] In Italia i percorsi sociali sono stati molto molto difficili da attivare, per noi invece è stata sempre una prassi perché avevamo lavorato appunto con le forze dell’ordine, con le questure con pubblici ministeri, con i tribunali, ecc.» (Intervista n. 14, psicologa in uno SPRAR e responsabile di tirocinanti e servizio civile in un’organizzazione che si occupa di accoglienza).
In tale prospettiva di collaborazione sembra ricoprire un ruolo di particolare rilievo la formazione dello stesso personale amministrativo interno alle istituzioni; a questo proposito sembra significativa questa testimonianza:
«Negli anni ho assistito a una sorta di contrattazione anche nei rilasci dei permessi di soggiorno quando tutto era, diciamo, molto più discrezionale, ecco… adesso invece è molto più normato ma anche più regolarizzato; anche gli operatori delle questure sono più formati, rispetto agli anni precedenti e sono formati anche su tanti altri aspetti che sono quelli più umani» (Intervista n. 10, avvocato per un’associazione che si occupa di accoglienza).
Gli aspetti umani, richiamati dall’avvocato, possono essere ricondotti a tutto quell’ambito della formazione interculturale che, alla luce di quanto sottolineato in precedenza, diviene propedeutica al lavoro di tutti gli attori dell’accoglienza. Ci si riferisce alla totalità delle sfumature che compongono la cosiddetta «cultura della convivenza» (cfr. Fiorucci, 2017), che si delinea come unica strada da percorrere per raggiungere il superamento della visione etnocentrica che attualmente caratterizza alcuni aspetti dell’accoglienza (Fiorucci, 2017).
Il discorso relativo alla costruzione di buone prassi collaborative con altre realtà del terzo settore e dell’accoglienza si configura come portatore di maggiori difficoltà. Anche in questo caso è opportuno distinguere tra CAS e SPRAR. Quest’ultimo ha tra i suoi obiettivi/compiti la costruzione della rete, utile a garantire la realizzazione di un progetto personalizzato di integrazione per i beneficiari/richiedenti. Nei CAS le azioni volte a coordinare gli interventi integrati appaiono sporadiche e in alcuni casi conflittuali. Lo stralcio di intervista riportato è il più emblematico ed enfatico:
«Ogni tanto abbiamo a che fare con altre associazioni, ma sono breve e concisa, già ne siamo troppi noi, quindi io personalmente non provo piacere ad avere a che fare con determinate persone però a volte mi sento costretta. […] le figure siamo sempre noi, quindi io a questa domanda non ti so rispondere» (Intervista n. 16, operatrice presso un CAS).
Un’esaustiva spiegazione di questa situazione è fornita dall’avvocato intervistato che afferma:
«Come in tutte le realtà dove ci sono dei bandi e bisogna partecipare ai bandi, è ovvio che c’è quella sorta di competizione e poca cooperazione. Allora in Italia facciamo molta fatica a considerare la possibilità di lavorare in ATS (Associazione Temporanee di Scopo), cioè io ho una cooperativa e faccio mediazione culturale, collaboro con te che fai accoglienza, ok? e collaboro con uno studio legale che mi fa la formazione legale. Questo non c’è. Spesso le cooperative che gestiscono progetti di accoglienza tendono ad assumere l’operatore, ad assumere l’assistente sociale, ad assumere l’educatore e fanno fatica invece a fare relazioni con altre autorità che potrebbero fare questo. Ed è un problema grosso perché ovviamente io faccio accoglienza e controllo tutto, gestisco tutto. Nel momento in cui io controllo la persona che io assumo è ovvio che si muove secondo l’Organizzazione, ecco è più difficile lavorare in collaborazione però secondo me dovrebbe essere auspicabile» (Intervista n. 10, avvocato per una associazione che si occupa di accoglienza).
A livello di équipe multidisciplinare, tutti gli intervistati dichiarano di avere buoni rapporti con i colleghi, nello stesso tempo mostrano difficoltà nel far emergere azioni concrete per raggiungere gli obiettivi psico-socio-educativi. I contenuti delle interviste riguardo questo aspetto rimandano spesso a collaborazioni di tipo tecnico e burocratico. Resta comunque indispensabile, per poter operare globalmente sul singolo caso, sul gruppo e per permettere delle azioni congiunte con un obiettivo comune, che l’équipe possa usufruire di momenti strutturati di condivisione anche su tematiche più ampie che possono riguardare le relazioni tra professionisti, per agevolare un ambiente di lavoro sereno, nonché le modalità dell’équipe di agire su situazioni e problemi.
«Quello che c’è da migliorare è forse maggiore integrazione perché spesso si tende ad andare ognuno per i fatti suoi perdendo di vista l’obiettivo che poi è il ragazzo, quindi il fatto di fare un percorso che possa avere come obiettivo il benessere dei ragazzi che sono all’interno della comunità» (Intervista n. 11, psicologa in una casa-famiglia per minori stranieri non accompagnati).
Significative in tal senso sono le esperienze di alcuni operatori che lamentano una scarsa conoscenza delle mansioni e dei ruoli propri delle altre professioni attive sul campo. Questa problematica si riverbera su più ambiti e assume forme diverse a seconda dell’area professionale in esame. Le conseguenze dirette di questa situazione sono una generalizzata demotivazione nello svolgere compiti non attinenti alla propria configurazione lavorativa e l’esclusione dalle supervisioni e dalle riunioni di équipe di alcune figure ugualmente coinvolte, anche emotivamente, nel complesso lavoro di accoglienza, come ad esempio il mediatore linguistico e interculturale.
La relazione nei contesti interculturali: bisogni, strategie e strumenti
Per quanto attiene alla sfera relazionale, il presupposto teorico di partenza riguarda il nesso sempre presente e generatore di cambiamento che si trova sotteso in ogni forma di incontro umano. Anche le professioni che a un primo sguardo appaiono strumentali, tecniche e poco coinvolte da un punto di vista della relazione, a una osservazione più attenta, si palesano come protagoniste di quel processo di scambio e di interazione che avviene ogni qual volta si attivi una comunicazione tra persone (Cerrocchi e Dozza, 2007).
In questo processo ricoprono un ruolo cardine tutti gli aspetti educativi impliciti in ogni forma di relazione di aiuto. Prendendo le mosse da queste premesse, e riferendoci in questo caso all’educatore, le cui intenzionalità educative si esplicitano all’interno del suo percorso professionale, occorre avere presente quali sono i paradigmi entro cui si muove il proprio stile relazionale. «[…] La caratteristica della competenza relazionale è l’intenzionalità pedagogica poiché qualunque azione, comportamento, o abilità messa in atto priva di un’intenzionalità pedagogica – non legata cioè a una progettualità educativa – diviene mera esecuzione tecnica e/o applicazione operativa di una conoscenza acquisita eludendo così la triplice articolazione, teorica-poietica-pratica, alla base della ricerca pedagogica» (Lombardi, 2017, p. 414).
Resta fermo che anche le altre professionalità si trovano coinvolte in questo processo, all’interno del quale l’intreccio delle dinamiche tra operatori e tra operatori e beneficiari è decisamente complesso e non sempre lineare.
Nell’ambito della dimensione relazionale, molteplici e variegate sono le sfaccettature evidenziate dalla ricerca che coinvolgono diversi aspetti dell’interazione. Il primo aspetto riguarda l’eterogeneità della tipologia di approccio ai beneficiari manifestata dagli intervistati. Tale eterogeneità è riconducibile sicuramente alle diverse professionalità che hanno costituito il target dell’intervista e che, per natura, si approcciano in maniera differente all’intenzionalità degli stili relazionali: gli psicologi hanno manifestato, a livello generale, maggiore consapevolezza rispetto alle modalità di gestione della relazione. Le altre professioni, pur ricoprendo ruoli significativi da un punto di vista educativo, sembra non abbiano teorie e buone prassi comuni nello svolgimento delle proprie competenze relazionali. L’approccio assistenzialistico caratterizza alcune delle situazioni esplorate, sebbene molti degli operatori che mostrano di avere questa tipologia di contatto con i beneficiari appaiano consapevoli dei limiti e delle conseguenze di tale modalità:
«In questi due anni circa di attesa, loro sono in una prigione dorata, perché loro non sono in realtà liberi. Perché loro comunque devono aspettare una risposta, vivono in un centro di accoglienza, ove noi comunque facciamo tutto. Cioè loro non sono autonomi, e poi hanno la risposta ma magari si sono anche abituati a vivere così, quindi poi una volta che devono andare a vivere da soli con i figli è un problema. E non si chiude il cerchio, nel senso che chi invece ha una risposta negativa, ci viene detto mandateli via, ma non sappiamo dove vanno» (Intervista n. 4, coordinatrice di un CAS per famiglie e donne).
Ricordiamo che alcune ricerche in ambito antropologico ci consentono di problematizzare il concetto di reciprocità, soprattutto laddove è presente una relazione che si carica di un’idea di aiuto che altro non fa che confermare un rapporto asimmetrico tra le parti. Come evidenzia Barbara Harrell-Bond (2005, p. 15), «è possibile che i modi e i contesti dell’“aiuto” siano causa di un malessere debilitante su persone che si trovano in una posizione tale per cui l’unica alternativa possibile è quella di ricevere? Marcel Mauss aveva ragione quando, nel 1925, sosteneva che il dono svilisce colui che lo riceve, soprattutto quando non c’è alcuna intenzione (o possibilità) di ricambiare? Mauss riteneva che la disparità di potere fosse alla base della relazione tra chi dà e chi riceve, a meno che il dono non sia reciproco».
Secondo Tramma (2003) «il lavoro educativo produce (deve produrre) il cambiamento, il lavoro assistenziale produce la riproduzione delle condizioni esistenti: il mantenimento dello status quo vitale, “solo” il soddisfacimento dei […] bisogni primari» (p. 128). È proprio per questa ragione che ogni professione che agisce in ambito educativo, e di conseguenza prevede la produzione di cambiamento, non può trascurare la linea di indirizzo, l’intenzionalità del proprio agire orientata verso l’empowerment dei soggetti. Stella polare in questo senso è il concetto di empatia che si fa motore di una relazione d’aiuto interdipendente.
Secondo Rogers (1983) «[…] un alto grado di empatia in una relazione è probabilmente il fattore più potente nell’apportare trasformazioni e apprendimento» (p. 120). In alcuni dei casi presi in esame trapelano la funzionalità e l’applicazione fruttuosa di una sana relazione empatica e sembra significativo il fatto che l’operatore rimandi alla formazione in questo senso come base necessaria per riuscire in tale impresa:
«Per quanto riguarda le emozioni, tu devi adattarti diciamo alla persona; se la persona sta bene tu devi dimostrarti carico e fiducioso, se la persona è triste tu devi assumere un pochino quello stato d’animo. Devi giocare un ruolo con lui in modo da farlo uscire da quella situazione. Il mediatore quindi non deve tradurre solo le parole ma anche le emozioni dei nuovi arrivati, e viverle con le persone. È difficile, però grazie alla mia formazione ci sono riuscito» (Intervista n. 2, mediatore interculturale presso diverse tipologie di strutture).
Quando si entra in contatto con storie di vita inevitabilmente difficili, mettere in atto le competenze empatiche richiede un alto grado di resilienza da parte degli operatori che si trovano a dover fronteggiare tutte le difficoltà di cui si è ampiamente discusso e a dover svolgere il ruolo di contenitore della sfera emotiva dei beneficiari. Le parole di Vaccarelli (2016) esprimono appieno la descrizione delle tante storie raccolte nell’ascolto dei testimoni della ricerca e l’importanza delle competenze resilienti in campo interculturale: «Sono storie che ci raccontano di guerre, di carestie, di famiglie divise, di persecuzioni, di eccidi di massa, ma anche di viaggi condotti in condizioni impensabili, contrassegnati dalla precarietà, dalla paura della morte, dalla violenza e che interrogano con urgenza il mondo dell’educazione scolastica ed extrascolastica. La resilienza anche in questi casi, sia che si tratti di promuovere forme positive di inserimento e successo scolastico, sia che si tratti di casi più complessi, in cui si presentano ai nostri occhi soggetti pluritraumatizzati, diventa un fattore perno fondamentale da sostenere all’interno della relazione educativa» (p. 49),
Sostenere e potenziare la resilienza degli operatori significa prevenire il burnout, ma anche implementare l’efficienza del servizio e non lasciare al caso o all’iniziativa dei singoli le strategie di contenimento emotivo e di sostegno dei professionisti. Molti degli intervistati dichiarano di seguire un percorso psicologico a proprie spese per fare fronte alla gestione delle emozioni legate al lavoro. Questo, se da un lato denota grandi capacità di autosostegno, dall’altro sottolinea un’esigenza la cui risoluzione dovrebbe essere in capo alle Istituzioni o alle organizzazioni. A loro spetterebbe il compito di prendersi cura dei lavoratori e di promuovere momenti di supervisione esterna utili anche alla condivisione nell’équipe e al superamento di una visione individualistica della sfera emotiva, sfruttando la consapevolezza delle emozioni come risorsa e motivazione intrinseca dell’azione congiunta (Contini, 1992).
Conclusioni
Il ruolo dell’operatore dell’accoglienza, relativamente recente nel panorama nazionale, è strettamente legato a un’idea di educazione «problematizzante e intimamente dialogica» di freiriana memoria (Freire, 1971). L’apertura al dialogo interculturale diventa infatti, nelle figure professionali sentite, sostrato necessario, focus e fondamento di tutta la costruzione teorica e pratica della propria professione (Vaccarelli, 2009; Cambi, 2006). Una testimonianza che in questo senso emerge dalla ricerca è la forte spinta motivazionale, la passione, l’intenzionalità verso l’altro da sé che gli operatori mettono in campo nel lavoro di tutti i giorni. L’esperienza professionale acquisita, caratteristica fondamentale in ogni profilo impegnato nell’educativo (Demetrio, 1990), risulta essere particolarmente centrale nel lavoro degli operatori dell’accoglienza. Aspetto problematico a ciò connesso è lo scadimento, nei casi in cui non si è sufficientemente supportati da un sapere teorico qualificato, in un fare asfittico, troppo legato a letture ristrette e parziali della realtà e delle dinamiche interculturali ad essa legate. «Si avverte un certo scollamento tra le parole “alte” e l’agire quotidiano che sembra procedere in nome di un “fare per il fare”; affinché tali parole definiscano orizzonti di significato entro i quali collocare pratiche e azioni, vanno oggi accolti ed elaborati proprio i vissuti all’interno dei servizi territoriali» (Favaro e Luatti, 2008, pp. 35-36).
Quello dell’operatore dell’accoglienza è un ruolo non sempre facile, che deve fare i conti con le caratteristiche proprie di ogni territorio e che si scontra, spesso, con chiusure e resistenze da parte di amministrazioni e di Enti locali. La mancanza di prospettiva e la caratterizzazione territoriale dei servizi per i migranti non hanno permesso infatti che si sviluppassero nel tempo procedure nazionalmente riconosciute e implementate, che permettessero di arrivare a una condivisa via italiana all’integrazione di rifugiati e richiedenti asilo, a differenza di quanto fatto ad esempio nelle nostre scuole (MIUR, 2007).
Allo scopo di creare punti cardinali e quadri concettuali comuni tra i soggetti operanti sul territorio e più in generale tra le figure di riferimento, e poter eseguire le successive scelte in modo coerente, emerge il bisogno di prevedere momenti di incontro e di interscambio strutturati e possibilmente gestiti da personale specializzato nella conduzione e nella gestione delle dinamiche di gruppo. In questo caso la figura del pedagogista si fa centrale: data la circolarità e la complessità del lavoro pedagogico e il bisogno della pedagogia di interfacciarsi costantemente con altre scienze, le azioni pedagogiche di coordinamento consentono di cogliere tutti gli aspetti di un tale contesto e di favorire un effettivo lavoro di rete, agendo contestualmente sugli aspetti educativi, relazionali e sociali, ponendo la giusta attenzione alle singole professionalità (Orefice, Carullo e Calaprice, 2011).
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Note
1 Per quanto il lavoro sia frutto di una stretta condivisione, i paragrafi 1, 2 e 3 sono di Fabio Centi Pizzutilli, i paragrafi 4, 5 e 6 sono di Nicoletta Di Genova.
2 http://www.meltingpot.org/IMG/pdf/187_dossier_accoglienza.pdf (ultimo accesso: 2/05/18).
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