Test Book

Introduzione / Introduction

Dilemmi, mediazioni e opportunità nel lavoro di accoglienza rivolto a rifugiati e richiedenti asilo: un’introduzione


Bruno Riccio

Professore Associato di Antropologia culturale presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione di Bologna, bruno.riccio@unibo.it

Federica Tarabusi

Ricercatrice confermata in Discipline demoetnoantropologiche presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione, federica.tarabusi2@unibo.it


Autore per la corrispondenza

Bruno Riccio
Indirizzo e-mail: bruno.riccio@unibo.it
Dipartimento di Scienze dell’Educazione, Via Filippo Re 6, 40126 Bologna



Il lavoro nei contesti quotidiani dell’accoglienza1

Gli arrivi consistenti di imbarcazioni «cariche di corpi umani in fuga» (Pinelli, 2011) nelle coste meridionali italiane, che in seguito alla crisi politica dello stato libico hanno assunto una forma sempre più massiccia e per certi versi «spettacolarizzata» (Andersson, 2014; Ciabarri, 2015), hanno sollevato nel nostro Paese interrogativi profondi e definito nuovi terreni di indagine nelle scienze sociali.

L’insoddisfazione verso le letture prevalenti nel discorso pubblico, in parte relative alle caratteristiche emergenziali delle politiche di gestione delle migrazioni e alle sempre più marcate misure di controllo dei confini, sembra infatti avere stimolato nel panorama nazionale la produzione di un ricco corpus di studi e ricerche sulle migrazioni forzate. Mentre alcune riflessioni si sono focalizzate sulla violenza e sulla drammaticità che plasmano le esperienze e le traiettorie di rifugiati e richiedenti asilo (Vacchiano, 2005; Pinelli, 2011; Pinelli e Ciabarri, 2015), altri studi hanno contribuito a portare alla luce le dimensioni opache e contraddittorie delle politiche di accoglienza in specifici contesti locali (Sorgoni, 2011a), sollecitando una riflessione sulle rappresentazioni di coloro che quotidianamente progettano e predispongono opportunità di inserimento sociale nei servizi per rifugiati e titolari di protezione internazionale (Catarci, 2011).

Su questo versante, l’analisi dei processi e delle procedure burocratiche che un arcipelago composito di attori istituzionali e professionali si è trovato improvvisamente a gestire ha rivelato, in particolare, uno scarto marcato fra le richieste astratte di neutralità e le implicazioni personali che gli operatori sperimentano di fronte a storie drammatiche e difficili da decifrare; ha evidenziato le dinamiche di esclusione, spersonalizzazione e controllo che si celano nella traduzione quotidiana dei processi di istituzionalizzazione delle procedure previste dal sistema dell’asilo (Sorgoni, 2011a); ha inoltre rivelato un netto contrasto fra le domande di efficienza nella rigida applicazione delle procedure e le pratiche discrezionali che si sviluppano nelle interazioni concrete fra personale dell’accoglienza e richiedenti protezione internazionale.

Al tempo stesso, è emersa a più riprese da parte di chi si trova a diverso titolo coinvolto nei contesti operativi dell’accoglienza – ricercatori, operatori sociali, educatori, assistenti sociali, psicologi, mediatori, operatori legali, coordinatori di progetti, ecc. – la stringente necessità di innescare una riflessione sulle progettualità e sulle pratiche di lavoro che prendono forma in questo campo controverso e contraddittorio.

Ponendosi in dialogo con il recente dibattito sulle migrazioni forzate, il numero si propone di cogliere questa sfida, portando in primo piano la complessità e varietà delle esperienze sociali e lavorative, per ora solo parzialmente esplorate, di chi si trova coinvolto nei campi operativi dell’accoglienza. A partire da una prospettiva interdisciplinare, il numero cerca in particolare di stimolare una riflessione critica sulla costruzione di nuove professionalità nell’ambito delle migrazioni forzate.

Da un lato, si pone l’obiettivo di mettere a fuoco alcuni dei principali dilemmi e interrogativi che animano questi mondi professionali non solo interpellando le esperienze empiriche di ricercatori, ma anche stimolando la riflessività professionale di coloro che sono operativamente coinvolti.

Dall’altro lato, il numero si propone di mettere a confronto le soluzioni, le negoziazioni e le strategie contestuali che il personale sta elaborando, non senza una certa dose di improvvisazione, nei campi «ordinari» e straordinari dell’accoglienza.

Pur senza pretese di esaustività, i contributi contenuti in questo numero ci sembrano arricchire la fiorente riflessione sul fenomeno delle migrazioni forzate a partire da una prospettiva singolare rispetto a quegli studi che hanno preferito «dare voce» alle soggettività di richiedenti asilo (Vacchiano, 2005; Pinelli, 2011; 2013; Pinelli e Ciabarri, 2015) e all’esperienza del «diventare rifugiati» (Van Aken, 2005) o fornire un’analisi «olistica» delle politiche e dei sistemi istituzionali dell’asilo (Marchetti, 2016).

Due sono le principali ragioni che hanno orientato la nostra scelta di privilegiare il punto di vista di chi si trova, a vario titolo, a interagire nei contesti che gestiscono l’accoglienza dei migranti.

In primo luogo, avvertiamo l’opportunità di esplorare da una prospettiva «emica» i processi e le forme, spesso controverse, con cui si definiscono nuove esperienze e profili professionali e, conseguentemente, nuovi confini identitari, in un campo ancora in costruzione, attraversato da molteplici richieste e pressioni, e all’interno di mondi lavorativi caratterizzati, al tempo stesso, da rigidità istituzionale e cambiamenti organizzativi.

In secondo luogo, crediamo che la possibilità di esplorare la quotidianità dell’accoglienza, ponendo lo sguardo sugli attori e le pratiche che ne caratterizzano la realizzazione, consenta di evidenziare il ruolo attivo giocato non solo dai meccanismi macro-strutturali – connessi al dispiegarsi di dispositivi burocratico-istituzionali e alle strutture normative – ma anche dai fattori contestuali e relazionali nella traduzione quotidiana delle politiche di accoglienza riguardanti l’asilo.

Lavorare nell’intersezione di questi processi, mettendo a fuoco gli effetti che il «farsi» delle politiche (Tarabusi, 2010) produce sulle traiettorie lavorative degli operatori e sulle biografie dei richiedenti asilo, ci aiuta in sostanza a cogliere l’articolazione eterogenea e multiforme di un sistema composito di attori, delle loro relazioni e rappresentazioni, offrendoci gli strumenti critici per decostruire un’immagine reificata, astratta e monolitica del sistema deputato all’accoglienza.

Come evidenziano anche i contributi del numero, abbiamo assistito nel nostro Paese al moltiplicarsi di attori istituzionali e all’incremento vertiginoso di strutture di accoglienza per richiedenti asilo che si sono diversificate nel tempo per dimensioni, progettualità e modelli gestionali – si pensi, ad esempio, alla netta contrapposizione fra i centri SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati), che accompagnano l’inserimento del richiedente asilo sulla base di progetti a vocazione volontaria prevedendo un lavoro di rete e coordinamento fra enti locali e terzo settore, da un lato, e il modello emergenziale su cui si sono articolati i CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), basati su una gestione prefettizia e centralizzata che risponde all’impellente esigenza di «allocare» richiedenti asilo, dall’altro lato (Cammelli e Restuccia in questo numero; cfr. Vianelli, 2017).

Le pratiche di intervento che emergono in questo sistema diversificato e eterogeneo appaiono, però, anche informate da altri elementi contestuali, legati ad esempio alle molteplici «declinazioni locali» dell’accoglienza in un Paese segnato da profonde differenze storiche, politiche, economiche e culturali (Pratt, 2006); alle specificità e ai cambiamenti che investono i contesti istituzionali e organizzativi e in cui prendono forma varie progettualità e pratiche lavorative; alle prospettive situate, esperienze professionali pregresse e ai background formativi degli operatori che si trovano coinvolti nel delicato processo di realizzazione dell’accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo.

È dunque prestando attenzione all’interazione fra una molteplicità di attori e processi che il numero si propone di dare spazio all’esplorazione emica delle pratiche e rappresentazioni di chi «naviga in quel mare in tempesta delle politiche pubbliche e dei processi migratori» (Riccio, 2016, p. 210).

 

Scarti, «storture», creatività

Occorre innanzitutto sottolineare che i contributi del numero si pongono in continuità con le riflessioni di quei ricercatori che hanno di recente fornito punti di vista critici e riflessivi sulle proprie esperienze operative in diversi ambiti progettuali e lavorativi del sistema di accoglienza e dell’asilo (cfr. Vianelli, 2011; 2015; Altin et al., 2017).

In maniera corale sembra emergere, in primo luogo, un profondo senso di impotenza fra funzionari e operatori che si sentono soffocati dentro alle maglie rigide e soffocanti della burocrazia (Urru, 2011; Vianelli, 2015; 2017) e poco supportati nella costruzione di interventi che a volte implicano un certo grado di improvvisazione. Il peso emotivo delle situazioni che si trovano a gestire, senza un reale supporto «dall’alto», sembra così generare non solo un vissuto di frustrazione che rischia di acutizzarsi di fronte ai ripetuti fallimenti sul campo (Iato, Policicchio e Segneri, in questo numero), ma anche un senso di iper-responsabilizzazione del proprio ruolo, su cui vengono a volte proiettate aspettative salvifiche da parte di rifugiati e richiedenti asilo (Bianchi e Policicchio, in questo numero).

La sensazione che «il lavoro sia sistematicamente organizzato per andare incontro al fallimento» (Urru, 2011, p. 82) appare inoltre amplificata da un vissuto di inadeguatezza rispetto ai propri dispositivi diagnostici e di intervento, spesso miopi e etnocentrici, così come alle difficoltà di tradurre la propria formazione teorica e i propri saperi critici in soluzioni concrete e ruoli operativi (Biffi in questo numero).

Sospesi fra «controllo e abbandono» (Biffi, 2017), gli operatori si mostrano dunque infastiditi dalla rigidità delle procedure istituzionali e della burocrazia (Sorgoni, 2011a; Vianelli, 2015), interpretando a volte il proprio compito come un goffo tentativo di navigare entro le «storture» del sistema (Nistri in questo numero).

Non è secondario il fatto che queste criticità si inseriscano dentro a «carriere» e traiettorie professionali incerte, in parte influenzate dalle ambivalenti costruzioni sociali del richiedente asilo che circolano nella società italiana (Ciabarri, 2015).

In alcuni contesti informali2 gli operatori hanno dato voce a questo disagio, evidenziando il ruolo giocato dalle immagini stigmatizzanti prevalenti nel discorso pubblico sullo scarso prestigio attribuito alle professioni che si trovano a operare a favore della tutela e accoglienza di rifugiati e richiedenti asilo (Biffi, 2017). Ciò sembra rilevarsi nelle fragili carriere degli operatori, basate su logiche di contenimento della spesa e nella natura precaria dei contratti di lavoro che rendono difficile ai singoli investire sul piano professionale nel campo dell’immigrazione. A tale proposito, Ferrari e Rosso (2008) hanno evidenziato come queste condizioni, contrassegnate dalla logica della temporaneità, riflettano non solo i modelli emergenziali che forgiano l’inserimento sociale di migranti e richiedenti asilo, ma anche la situazione paradossale per cui «operatori precari lavorano per utenti provvisori».

Su questo sfondo si inseriscono le profonde criticità, riscontrate a più riprese dalle autrici/autori del numero, connesse ai mandati istituzionali diversi, spesso conflittuali, che gli operatori sociali si trovano faticosamente a gestire. In particolare, viene messo a fuoco dai contributi un profondo divario fra le richieste astratte di neutralità, a cui si è tenuti a rispondere sul piano istituzionale, e le concrete implicazioni personali, attraversate da una pluralità di dimensioni emotive, affettive e politiche (Biffi, Nistri e Segneri, in questo numero). L’intensa proceduralizzazione normativa e burocratica che forgia le pratiche dell’accoglienza viene vissuta, in sostanza, come un aspetto particolarmente opprimente del proprio lavoro di fronte al coinvolgimento emotivo che si sperimenta nel quotidiano contatto con esperienze soggettive caratterizzate da intensa violenza e drammaticità.

In modo fortemente connesso emergono poi le tensioni che rimandano ad altre richieste divergenti nel proprio operare quotidiano, come le discrepanze fra il mandato istituzionale assegnato dall’ente pubblico, centrato sull’espletamento di compiti tecnico-burocratici, e la progettualità socio-educativa a cui è chiamato a rispondere il singolo operatore nelle strutture di accoglienza (Iato in questo numero); lo scarto tra un modello che richiede un'alta professionalità da parte degli operatori e l’inesperienza dei soggetti gestori nel settore delle migrazioni, oltre che dell'accoglienza (Nistri in questo numero); le aspettative degli utenti e l’ambiguità insita nei processi di aiuto che, mentre si mobilitano per promuovere l’autonomia dei soggetti, rischiano di innescare circuiti di dipendenza (Bianchi e Mangone, in questo numero) e assumere un ruolo «disciplinante»he tende a «infantilizzare» il richiedente asilo (Biffi, Cammelli e Restuccia in questo numero).

Schiacciato da diverse pressioni, il lavoro dell’accoglienza si configura pertanto come un tentativo incessante di districarsi fra richieste istituzionali «calate dall’alto», mandati professionali a volte ambigui (Iato in questo numero), relazioni personali emotivamente impegnative con gli utenti. Per questa ragione alcuni autori/autrici riferiscono la complessità di insediarsi in quegli scarti che si evidenziano fra rigidità normativo-burocratica e necessità contestuali (Cutolo, 2017), nonché le criticità che si riscontrano nel mediare richieste differenti e attivare processi di cambiamento significativi per i soggetti «beneficiari» (Mangone in questo numero).

In questa discussione un ruolo rilevante è giocato anche dai dilemmi etici a cui i professionisti sono quotidianamente esposti (cfr. Biscaldi, 2016; Altin et al., 2017) e dai difficili posizionamenti che ricercatori e operatori si trovano a negoziare sul campo. Alcuni contributi si chiedono, a questo proposito, se e fino a che punto sia lecito aderire alle rigide classificazioni istituzionali (Biffi e Segneri, in questo numero) e rivelano il disagio di sentirsi complici di un sistema che incorporae ambigue politiche di gestione e controllo dei rifugiati, orientate a forme di «ospitalità ambivalente» vacillanti tra retoriche umanitarie e logiche di sorveglianza (Fassin, 2011; 2012).

Al tempo stesso, però, una certa consapevolezza dell’opacità del sistema e delle pratiche dell’asilo appare condivisa da parte di diversi operatori e funzionari che – come evidenziato da Nistri in questo numero – «oltre ad avere iniziato a interrogarsi sul proprio ruolo all'interno della macchina, hanno imparato a navigare dentro le storture del sistema, praticando anche una strategia di “riduzione del danno” nei confronti del richiedente».

In altri termini, la consapevolezza maturata da alcuni professionisti, grazie a una riflessività critica sulle contraddizioni e sugli ingranaggi del sistema di asilo, si evidenzia come un fattore rilevante per elaborare «strategie di sopravvivenza» (Sorgoni, 2011a) e sperimentare, quando non azzardare, soluzioni alternative e pratiche condivise all’interno dei campi controversi dell’accoglienza (Policicchio in questo numero).

Lungi dall’essere imprigionati in ruoli predefiniti, funzionari e operatori rivelano l’importanza di non affidarsi a risposte preconfezionate, mettendo in gioco le proprie risorse soggettive, i propri background formativi ed esperienziali per negoziare soluzioni creative e contestuali nella gestione dell’accoglienza (Nistri in questo numero).

Al di là dei confini formali e ufficiali dell’istituzione, si fanno così strada microstrategie quotidiane che vengono elaborate dagli attori sociali non solo per fronteggiare lo stress lavorativo ma anche per reinterpretare il proprio mandato e volgerlo verso ciò che per loro rappresenta il «bene» dell’utente e del servizio (Ferrari e Rosso, 2008). È in questo varco che le pressioni derivanti da meccanismi strutturali pervasivi rimangono sullo sfondo, per portare in primo piano i «margini di manovra» e il potere negoziale degli operatori, caratterizzati da vincoli e fastidi ma anche discrezionalità e inventiva (Sorgoni, 2011a).

Le esperienze riportate in questo numero forniscono prova delle opportunità che si evidenziano negli spazi sociali tesi a contrastare la rigidità normativa e istituzionale, ideando forme creative e trasformative dei processi lavorativi implicati nel sistema di accoglienza (Cammelli e Restuccia in questo numero); attraversano i processi relazionali e gli ambiti discrezionali che cercano di sfidare le leggi e la burocrazia, aggirando procedure e regolamenti in favore della propria utenza (Biffi in questo volume); gettano luce sulla possibilità di costruire modalità innovative che mettano in dialogo saperi, mondi professionali e simbolici a lungo considerati non comunicanti (Policicchio in questo numero); sottolineano l’urgenza di elaborare strategie capaci di ripensare strumenti pre-codificati in favore di una postura rivolta all’ascolto (Segneri e Iato in questo numero) e di una prospettiva di lavoro sociale che, rifiutando le logiche paternalistiche e assistenzialiste, sia in grado di facilitare un lavoro di rete nella costruzione degli interventi socio-educativi (Mangone in questo numero).

 

Architettura del numero

Su questo terreno si confrontano gli otto contributi che compongono il numero, adottando prospettive disciplinari molteplici (antropologica, pedagogica, psicologica e sociologica) e rivolgendosi a contesti operativi dell’accoglienza che si diversificano per struttura, progettualità e «utenza».

Il numero, come tradizionalmente propone la rivista, è suddiviso in tre sezioni che, nel tentativo di rispondere ad analoghi interrogativi, si differenziano per il contributo che intendono fornire sul piano delle riflessioni critiche (prima sezione), della ricerca empirica (seconda sezione) e delle esperienze sociali e lavorative che prendono forma nell'ambito dell'accoglienza e dell'asilo (terza sezione).

La sezione Riflessioni e teorie si apre con il contributo di Emiliana Mangone che discute il ruolo degli operatori e del lavoro sociale a partire da uno studio di caso fondato sui documenti relativi al monitoraggio di otto Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) della provincia di Benevento. Se l’analisi di tale documentazione consente a Mangone di aprire una riflessione sulla natura del lavoro sociale e sugli effetti che gli interventi degli operatori producono su coloro che ricevono aiuto, il contributo di Carlo Iato si concentra sulle pratiche educative rivolte all’accoglienza di minori non accompagnati. Evidenziando un processo che si innesta in un terreno caratterizzato da ambiguità e incertezza, l’autore mette in luce come gli operatori sociali siano chiamati a sviluppare strategie di intervento capaci non solo di mediare le richieste formali del committente pubblico e i bisogni concreti del minore, ma anche di rinnovare le categorie e gli strumenti implicati nel lavoro educativo.

L’accoglienza e tutela dei minori è anche oggetto del primo contributo che compone la sezione dedicata alle Ricerche empiriche e alla relazione ricorsiva tra pratica professionale e attività empiriche.

A partire dalla metodologia della Grounded Theory, Lavinia Bianchi si concentra sulla difficoltà di progettare percorsi di intervento che tengano insieme le aspirazioni dei giovani migranti e le dimensioni ambivalenti che caratterizzano l’intervento educativo. Le interviste rivolte a 34 professionisti, con diversi ruoli e background formativi, restituiscono infatti le tensioni di chi si trova ad agire all’interno di «un doppio vincolo», caratterizzato non solo da «passione e impegno etico» ma anche «immobilismo e spaesamento».

Nel secondo contributo della sezione, Davide Biffi – ricercatore ma anche educatore all’interno di un CAS, operatore legale, coordinatore in un servizio di preparazione alla Commissione Territoriale e di un centro diurno per rifugiati e richiedenti asilo – assume i suoi molteplici posizionamenti come lente di osservazione privilegiata per cogliere i nodi critici che si evidenziano nel sistema di accoglienza. La capacità di analisi critica acquisita grazie alla formazione teorica e all’esperienza empirica consente, infatti, all’autore di gettare luce sui processi lavorativi in cui è coinvolto, a partire dai dilemmi riscontrati di fronte all’apparato normativo che regola la vita nei centri di accoglienza e al processo di co-costruzione delle storie con richiedenti asilo in vista della preparazione all’audizione presso la Commissione Territoriale.

Una posizione particolare nel numero è assunta invece dalla ricerca etnografica di Giulia Nistri, che si concentra sul sistema di accoglienza di Rio de Janeiro destinato a rifugiati e richiedenti asilo, prevalentemente provenienti dalla Repubblica Democratica del Congo.

L’articolo rappresenta infatti l’unica apertura internazionale del numero, concentrato quasi interamente sul caso italiano. Pur nella peculiarità che contraddistingue la configurazione istituzionale del sistema di asilo nel contesto carioca (dove si evidenzia un ruolo preponderante della società civile), l’autrice esplora situazioni e fenomeni che assumono una funzione-specchio nel gettare luce anche sulla professionalizzazione di chi opera nella gestione dell’accoglienza «all’italiana», evidenziando tanto le contraddizioni quanto gli ampi margini di discrezionalità che dominano le pratiche di intervento.

Si chiude così la sezione dedicata alle ricerche, per dare spazio alla riflessività di professionisti che esaminano, da diversi vertici di osservazione, i dilemmi e le potenzialità nel lavoro dell’accoglienza.

Nel primo contributo della sezione Esperienze e Progetti, Maria Concetta Segneri indaga le implicazioni e i «dissidi interiori» che emergono nell’ambito della certificazione sanitaria per richiedenti asilo a partire dalle consulenze antropologiche realizzate all’interno di un poliambulatorio romano. Il percorso critico che delinea finisce per sollevare importanti interrogativi sul piano dell’etica professionale e cerca di riposizionare il ruolo di un professionista che rischia di farsi complice di un sistema che, attraverso dispositivi interpretativi apparentemente innocui, riproduce forme di esclusione dei rifugiati e richiedenti asilo.

Segue il contributo di Nicola Policicchio, psicologo, che esplora la potenzialità del gruppo di supervisione di operatori dei servizi di accoglienza nell’offrire modelli adeguati per la comprensione e l’interazione tra i discorsi pubblici sul tema delle migrazioni forzate. Ponendo l’attenzione sulle relazioni fra gli operatori, l’autore intravede nella supervisione – intesa come «tutela di un senso del tempo non invaso dalle urgenze operative e la messa tra parentesi delle pressioni verso l’emergenza» – l’opportunità di costruire una metodologia di intervento condivisa che consideri la ricomposizione delle componenti emotive e inconsce, a volte conflittuali, come valida strategia per l’analisi delle rappresentazioni sociali del fenomeno migratorio.

Chiudono il numero «due Dj e un’antropologa», che illustrano un percorso di co-creazione di una festa all’interno di un Centro di Accoglienza Straordinario. Raccontando l’evoluzione di questo progetto, Maddalena Gretel Cammelli e Michele Restuccia colgono le potenzialità trasformative degli spazi di co-progettazione culturale, che sfidano i vincoli strutturali normativi e le rigidità istituzionali delle strutture di accoglienza, e ne mostrano le ricadute non solo sulle pratiche degli operatori e sulle esperienzeei richiedenti asilo ma anche sulle percezioni dei cittadini e degli abitanti del quartiere.

 

Riferimenti bibliografici

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Note

1 Fermo restando che il contributo è frutto di un’elaborazione condivisa dagli autori, il paragrafo «Il lavoro nei contesti quotidiani dell’accoglienza» è stato scritto da Bruno Riccio, mentre i paragrafi «Scarti, “storture”, creatività» e «Architettura del numero» sono stati scritti da Federica Tarabusi.
2 Questo aspetto è emerso, per esempio, in un incontro dedicato a discutere il ruolo dell'operatore all’interno del Laboratorio aperto MODI-Naufragi «Antropologia e scienze sociali, migrazioni e mondi dell'accoglienza», coordinato da Maddalena Gretel Cammelli e Bruno Riccio nell’autunno del 2017 presso il Dipartimento di Scienze dell’Educazione G.M. Bertin dell’Università di Bologna. Proponendosi come uno spazio di dialogo fra analisi scientifiche ed esperienze operative, il Laboratorio ha visto il coinvolgimento non solo di ricercatori, docenti e studenti, ma anche di operatori dei servizi e del terzo settore, che hanno spesso interpellato le proprie pratiche ed esperienze lavorative nell’ambito dell’accoglienza.

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