Test Book

Esperienze e progetti / Experiences and projects

Theater of resistance. Il teatro come forma di resistenza in bambini e adolescenti in Palestina
Theater as a tool of resistance among children and adolescents in Palestine

Guido Veronese

Fellow Researcher in Clinical Psychology, Family Psychotherapist ad Trauma intervention specialist, Dpt. of Human Sciences «R. Massa»

Federica Cavazzoni

Ph.D student in Education and Communication Sciences, Dpt. of Human Sciences «R.Massa», University of Milano Bicocca, Piazza dell’Ateneo Nuovo 1 - 20126, Milano-Italy


Autore per la corrispondenza

Guido Veronese
Indirizzo e-mail: guido.veronese@gmail.com
Dpt. of Human Sciences «R. Massa», University of Milano-Bicocca Piazza dell’Ateneo Nuovo 1 - 20126, Milano-Italy



Sommario

Partendo da una cornice teorica sistemica e socio-ecologica, gli autori propongono un modello di intervento sul trauma orientato alla comunità, per prevenire e contenere le reazioni traumatiche in contesti di violenza militare e politica. Viene presentato un intervento sviluppato nella Striscia di Gaza, con strumenti quali il teatro, la fiaba e le arti espressive. L’intervento intendeva supportare la resilienza dei bambini che vivono in questi territori, aumentarne il benessere, supportare il processo di resistenza al trauma e aumentare il livello di partecipazione delle comunità attraverso il loro coinvolgimento attivo nelle attività espressivo-esperienziali.

Parole chiave

Violenza politica, intervento, trauma


Abstract

Moving from a socio-ecological and systemic theoretical framework, the authors introduce a community-oriented trauma intervention model, in order to prevent and contain traumatic reactions in children exposed to military and political violence. The intervention was developed in the Gaza Strip, through theatre, narrating fairy tales and the expressive arts. The aim was to support the resilience of children living in these areas, increase their wellbeing, support the process of resistance to trauma and increase the level of community participation through active involvement in expressive-experiential activities.

Keywords

Political violence, intervention, trauma


Introduzione

A partire dalla seconda guerra mondiale sono più di 248 i conflitti armati registrati in oltre 153 località in Africa, Asia e Medio Oriente (Sousa e Marshall, 2015). Più di un miliardo di bambini e adolescenti vivono oggi in Paesi coinvolti in guerre civili (UNDP, 2012). In ambito educativo, psicologico e della salute pubblica, l’attenzione verso gli impatti negativi e deleteri della violenza politica sulla salute mentale e sul benessere psicosociale delle popolazioni vittime di violenza estrema (in particolare nei più giovani) è in progressivo aumento (WHO, 2002; Barber, 2009). Non sappiamo a oggi quante siano le persone a subire situazioni di conflitto e violenza politica, ma i numeri superano il centinaio di milioni (WHO, 2008). Molti conflitti si protraggono nel tempo e tra i più significativi esempi ritroviamo il conflitto israelo-palestinese.

Numerose ricerche hanno documentato le conseguenze negative della violenza politica e militare sullo sviluppo fisico, psicologico, emotivo e cognitivo dei bambini (Espie et al., 2009; APA, 2010). I disturbi psicopatologici più facilmente rintracciabili appartengono alla costellazione traumatica: Disturbo post-traumatico da stressDisturbo Acuto da stressDepressione Traumatica, somatizzazioni e altre patologie trauma correlate (Baker, 1990; APA, 2010). Questi contesti espongono la popolazione a continue esperienze di perdita, pericolo e/o minaccia di vita (Barber, 2009; Thabet, Karim e Vostanis, 2006).

Uno studio condotto in Palestina nel 2004 da Zakrison e colleghi ha messo in luce come il 42% della popolazione infantile si mostrasse sofferente di disagi psicopatologici collegati alle esperienze traumatiche vissute. In letteratura, le diagnosi più comunemente emesse variano dai disordini emotivo-comportamentali ai disturbi trauma correlati, come le sindromi post-traumatiche moderate e severe (Arafat e Boothby, 2004; Miller et al., 1999; Zakrinson et al., 2004). Nel 1993, nel corso della Prima Intifada, 232 bambini furono uccisi negli scontri con le forze armate israeliane (MECA, 2005). Alla fine del 2004 furono 650 i morti registrati tra bambini e adolescenti dall'inizio della Seconda Intifada (Al Aqsa Intifada, 2000)La cifra stimata nel 2006 è cresciuta fino a 819 unità. Infine, dopo i diversi attacchi nella striscia di Gaza, i numeri sono drammaticamente aumentati.

Successivamente all’operazione militare Margine Protettivo (2014) l’Unicef ha individuato almeno 400.000 casi di bambini che necessitavano (e necessitano) di supporto e aiuto psicologico. La violenza politica compromette nello stesso momento l’aspetto individuale, comunitario e sociale, minaccia individuo e ambiente smantellandone il funzionamento collettivo (Sousa, 2013). In questi contesti, le relazioni familiari risultano massimamente compromesse in quanto i membri della famiglia si sentono incapaci di fare fronte alle avversità che devono gestire quotidianamente (Punamäki, Qouta e El Sarraj, 1997). Tuttavia la responsività degli adulti agli eventi critici contribuisce a determinare alcune delle forme di aggiustamento positivo dei bambini agli eventi traumatici e a favorire fenomeni di resilienza nelle condizioni ad alto rischio. Supporto sociale, legami parentali di natura emozionale e fiducia nelle risorse familiari sono considerati fattori essenziali nel regolare la resilienza contro lo stress traumatico (Punämaki, Quota e El-Serraj, 2001).

Gli studiosi mostrano anche come buone qualità di parenting (Punamäki, Qouta e El Sarraj, 1997), coesione familiare (Laor et al., 1997) e senso di coerenza (Barber, 2008) contribuiscano a sviluppare resilienza in contesti di violenza militare. D’altra parte l’aumento delle risposte di stress nell’ambiente micro (famiglia) e macro (comunità) sociale del bambino rende l’infanzia particolarmente vulnerabile al trauma (Freud e Burlingham, 1943; Laor et al., 1997; McFarlane, 1987; Punamäki, 1987).

Nonostante moltissimi lavori scientifici abbiano contribuito a chiarire alcuni aspetti del disagio psicologico dei bambini esposti a conflitti armati, il prevalente assetto biomedico, centrato sulla sintomatologia, non è riuscito a chiarire pienamente la questione clinica del come intervenire sul bambino traumatizzato in contesti di guerra. La diagnosi PTSD (disturbo post-traumatico da stress) è perlopiù orientata alla reazione e percezione individuale dell’evento traumatico e risulta di poca utilità all’interno di un intervento indirizzato anche al contesto e alla comunità (Abdeen et al., 2008). Lo sguardo biomedico rischia di ignorare i fattori ecologici e sociopolitici in ambito di studio del benessere psicosociale delle persone (Wessells, Fitzduff e Stout, 2006; Veronese et al., 2012).

La definizione stessa di evento traumatico che, per essere considerato tale, deve «evocare sintomi significativi di stress nella maggior parte delle persone» (Weathers e Keane, 2007; Summerfield, 2002) si mostra problematica. Sembra partire dal presupposto che esista una reazione in qualche modo universale alle avversità, un vivere, esperire e processare in maniera simile tra individui e culture l’evento stressante (Betancourt e Khan, 2008; Veronese e Castiglioni, 2015; Bonanno, 2004). L’esperienza soggettiva dell’individuo e della comunità è invece fondamentale nel definire l’impatto di un evento o esperienza. Ancora di più in situazioni di conflitti politici, dove il contesto è fortemente caratterizzato da costrutti come quello di nazione, cultura o identità etnica. Nel caso del contesto palestinese la stessa definizione di disturbo post-traumatico può apparire a qualche livello fuorviante, nella misura in cui essa sussume uno scenario post-conflittuale, mentre in Palestina la guerra a bassa intensità, che si prolunga dal 2000 a oggi, può essere definita «cronica» e continuativa (Gilligan, 2009).

Da un punto di vista evolutivo, se spostiamo quindi la nostra attenzione su un registro più sistemico, l’impatto degli eventi traumatici sulle modalità dei bambini di fare fronte a ciò che sperimentano non può che essere considerato come un complesso e dinamico correlarsi di molteplici aspetti. Caratteristiche individuali, la qualità del parenting, la capacità di fronteggiare la situazione traumatica da parte figure di accudimento, così come le risposte dei contesti allargati (Pine, Costello e Masten, 2005), sono qualità correlate tra loro, dove il funzionamento individuale (o resilienza) si mostra anche come un riflesso dell’abilità del sistema culturale, sociale, economico e politico di adattarsi al conflitto (Ungar, 2012).

Secondo la lettura del costrutto di resilienza di Higgings (1994), il soggetto ricopre un ruolo attivo nella risoluzione del trauma e nel superare le difficoltà. Nel pregiudizio di vulnerabilità occidentale, gli individui che assistono a un evento traumatico, specialmente i bambini, vengono considerati vittime passive non in grado di risollevarsi e di ricostruire le proprie vite in seguito agli attacchi militari (Veronese et al., 2012; Barber, 2014).

Alcuni recenti studi hanno messo in evidenza l’importanza dell’ideologia politica nell’interpretare, processare e affrontare l’esperienza traumatica e non sviluppare sintomi di trauma in bambini vittime di guerra e trauma (Gilligan, 2006). Infatti il bambino, collocandosi attivamente entro un discorso che promuove resistenza e opposizione alle ingiustizie subite dalla propria comunità, trova quella forza psico-emotiva e motivazionale necessaria per contrastare vissuti di impotenza e perdita di competenza tipici di traumi continuati e cumulati.

Nel contesto palestinese più ricerche hanno dimostrato come essere attivamente coinvolti in una qualche forma di resistenza popolare e civica riduca il rischio di morbilità psichiatrica e di sviluppo di patologie (Veronese et al., 2012; Barber et al., 2014). È partendo da questi presupposti che vanno pertanto implementati interventi di medio termine, focalizzati sul potenziamento di dimensioni del benessere soggettivo dei bambini e in grado di riattivare meccanismi di coping, adattativi e funzionali anche in periodi di guerra. Ne sono un esempio gli interventi che, in contesti di guerra e di violenza politica, si servono di strumenti quali il disegno espressivo, la drammatizzazione, l’arte-terapia e l’utilizzo di racconti metaforici per consentire ai bambini di ridisegnare memorie traumatiche, potendole rivivere all’interno di un ambiente sicuro e protetto (Thabet et al., 2016).

In accordo con quelle ricerche che forniscono un’ampia evidenza empirica dell’efficacia di attività esperienziali e di gioco strutturato nell’intervento sul trauma, riteniamo che alcuni interventi relativamente di basso costo e potenzialmente sostenibili possano avere un forte impatto sulla comunità e un significato politico di notevole rilevanza. Creare una cultura che sia in grado di affrontare le conseguenze di traumi estremi e cumulativi richiede un approfondito esame e una profonda trasformazione delle dinamiche di campo e necessita inequivocabilmente del coinvolgimento di tutti i membri della comunità.

Arti creative, esperienze di cura: un intervento attraverso la fiaba

L’efficacia delle arti creative a scopo terapeutico è riconosciuta fin dai tempi degli egizi e dei greci quando l’utilizzo del teatro, della musica e della danza era incoraggiato quale modalità di sfogo delle emozioni e tensioni accumulate e represse. Sono moltissimi, a oggi, i trattamenti terapeutici che ricorrono all’espressione artistica come principale strumento per promuovere il benessere e la salute della persona e per favorirne la guarigione. Gli interventi di aiuto e di sostegno non verbale si fondano sul presupposto che il processo creativo messo in atto produca benessere e quindi migliori la qualità della vita. L’arte consente di esprimere e comunicare ciò a cui è impossibile accedere tramite la parola.

Le esperienze traumatiche, spesso difficilmente verbalizzabili e inaccessibili alle aree cerebrali linguistiche, sono codificate nella mente sotto forma di immagini, che attraverso percorsi neuronali alternativi alle aree associativo-linguistiche possono essere riportate alla coscienza senza incorrere nel rischio di ri-traumatizzare o spaventare il bambino vittima di trauma (Malchiodi, 1997). Nel confrontarsi con le memorie traumatiche, perlopiù implicite e inenarrabili, l’immagine o il gesto espressivo diventa una chiave d’accesso al livello traumatico implicito (non cosciente), inaccessibile verbalmente (Laub e Lee, 2003). Emozioni e processi cognitivi trovano espressione attraverso linguaggi «altri», dando forma all’esperienza anche sensoriale e corporea. All’interno di questo processo, la persona interagisce non solo con il facilitatore (terapeuta) ma anche con il processo creativo e il suo prodotto (Malchiodi, 2009).

L’espressione artistica del paziente non è solo un mezzo per una manifestazione di processi inconsci ma anche uno strumento per la loro risoluzione e una risorsa per una crescita e una maturazione personale (Kramer, 1993). Essa consente di spostare il focus dell’attenzione dal mero prodotto artistico considerato come qualcosa da interpretare al completo processo creativo, il quale coinvolge invece il soggetto nella sua interezza in attività sensoriali e cinestetiche. «L’arte-terapia (e i suoi derivati) permette alle vittime di un trauma di comunicare la loro sofferenza interna in maniera non verbale e meno diretta. L’espressione artistica può essere d’aiuto quando il trauma è così grave che mancano le parole per comunicare i sentimenti che invece hanno bisogno di essere espressi» (Malchiodi, 2009, p. 146).

Numerosi studi condotti con un approccio narrativo mostrano che la ricostruzione di senso attraverso il racconto delle esperienze e delle emozioni vissute può prevenire e controllare il disturbo post-traumatico e il dolore; inoltre contribuisce in modo significativo al benessere individuale e collettivo (Veronese et al., 2012; Barber, 2015). «Quanto all’utilità del racconto per elaborare l’esperienza, va aggiunto che raccontare è importante perché la modalità specifica di usare il linguaggio che consiste nel discorso narrativo fornisce una prestazione ulteriore: dà ordine al proprio materiale attribuendogli una trama. Collega cioè fra di loro elementi che altrimenti potrebbero apparire sconnessi, stabilisce nessi causali o d’altro tipo, li dispone sullo sfondo di ciò che si colloca prima, dopo, o altrove. In questo senso, permette al soggetto di orientarsi entro la serie degli accadimenti di cui è protagonista o di cui è testimone, raffigurandone la rappresentazione» (Jedlowski, 2009, p. 20).

Seguendo questa linea, dopo l’ultimo attacco armato sulla striscia di Gaza durato 51 giorni, un’organizzazione non governativa internazionale, Psychologists For Human Rights, e un’organizzazione non governativa palestinese, REC (Remedial Education Center), hanno sviluppato e realizzato un intervento sul trauma, orientato al bambino e alla comunità. L’intervento intendeva potenziare i livelli di resilienza nei bambini che vivono in questi territori, aumentarne il benessere soggettivo, supportare il processo di adattamento al trauma e il livello di partecipazione della comunità di appartenenza attraverso il coinvolgimento attivo del bambino in attività espressivo-esperienziali e teatrali. L’intervento si è articolato in due fasi distinte (Novembre 2014 e Maggio 2015).

Partecipanti

L’intervento ha preso luogo nella striscia di Gaza (Palestina) all’interno della scuola Al-Salam, dell’organizzazione locale REC. Sono state invitate a partecipare 21 insegnanti e educatrici (tutte donne, età media: 30 anni) della scuola e 28 bambini residenti nel campo profughi di Jabalia (9-13 anni). Ad essi venivano affiancati terapeuti, counsellor e psicologi locali in cooperazione con un esperto psicologo facente parte dell’organizzazione internazionale Psychologists for Human Rights.

Contesto

La striscia di Gaza è un’area costiera che si affaccia sul Mar Mediterraneo, confina a sud-ovest con l’Egitto, a Nord e a Est con Israele. Il territorio ha un’estensione totale di circa 41 km per un’area totale di 360 metri quadrati e conta 1.9 milioni di abitanti.1 Gli abitanti della striscia di Gaza sono «rinchiusi» in un fazzoletto di terra e, come affermato dall’agenzia delle Nazioni Unite OCHA, è negato loro il libero accesso al territorio palestinese della Cisgiordania e qualsiasi altro territorio estero. L’isolamento della striscia è aumentato dopo le ulteriori restrizioni imposte dalle autorità egiziane sull’unico passaggio di confine aperto (Rafah).

Dopo l’ultimo attacco militare contro la striscia di Gaza, conosciuto con il nome di Margine Protettivo, nell’estate del 2014 e durato 51 giorni, 2.251 palestinesi sono stati uccisi, di cui 1.462 civili e 551 bambini e 299 donne (UNRWA, 2015). 11.231 furono le persone ferite durante la guerra, inclusi 3.436 bambini. Nel novembre 2016 l’ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli aiuti umanitari (OCHA) ha rilevato che circa 1.3 milioni di abitanti necessitano di un’assistenza umanitaria: il 47% si trova in condizioni di insufficienza di cibo, il 55% non ha accesso all’elettricità e solo il 5% dell’acqua corrente di Gaza risulta potabile. Il tasso globale di disoccupazione è pari a circa il 42%, il 60% tra la popolazione giovanile e il 65% tra le donne. Il campo profughi di Jabalia è il più grande degli 8 campi della striscia di Gaza. È situato a nord di Gaza City e, a oggi, sono registrati circa 110.000 abitanti nel campo, per un’area di circa 1.4 chilometri quadrati.2 L’isolamento della striscia di Gaza ha reso la vita della popolazione civile sempre più difficile e la maggior parte della popolazione del campo dipende da aiuti umanitari delle Nazioni Unite (UNRWA, 2015).

Intervento

Fase 1

La fase preliminare, durata 9 giorni, svoltasi a novembre 2014, ha coinvolto le educatrici e insegnanti della scuola primaria Al Salam. L’ONG internazionale Psychologists for Human Rights, in collaborazione con un’organizzazione locale (Remedial Education Centre), ha attivato un programma intensivo di counseling sul trauma e sul lutto traumatico. L’obiettivo era quello di intervenire sulle esperienze traumatiche conseguenti ai 51 giorni di attacco armato, valorizzando le competenze delle insegnanti e il loro ruolo cruciale nel supporto ai bambini nel riprocessare gli eventi dolorosi vissuti durante il conflitto. Si intendeva dotare le insegnanti di strumenti pratici per il lavoro con i bambini e dare loro uno spazio in cui migliorare e rafforzare le loro competenze di sopravvivenza. L’intervento prevedeva momenti di counseling di gruppo, incontri individuali e una visita domiciliare.

All’interno delle situazioni di gruppo venivano alternate tecniche narrative con momenti di role play (family constellation) e psicodramma, volti ad aiutare le partecipanti a vivere la comunità degli insegnanti come un supporto emotivo e cognitivo per superare paure e sofferenze conseguenti agli eventi traumatici vissuti. Le storie delle singole insegnanti venivano rilette durante la rappresentazione psicodrammatica come un momento di resistenza e resilienza: storie di coraggio e di dolore, ma anche di crescita e di umanità contribuivano alla costruzione di una narrazione collettiva di resilienza (Denborough, 2008; Veronese, Castiglioni e Said, 2014). A turno ogni insegnante, seguendo i principi del teatro sociale e dell’Oppresso e servendosi delle colleghe come personaggi nella rappresentazione, metteva in scena un ricordo particolarmente vivido di eroismo, di vita quotidiana, di paura o di umorismo che desiderava raccontare.

Alla fine di ogni rappresentazione i personaggi coinvolti e il pubblico dei colleghi venivano invitati a discutere, commentare e completare il racconto dell’insegnante narrante. All’interno della discussione venivano sottolineate le risorse e le competenze invisibili, rese poi esplicite e messe a disposizione dell’intero gruppo come bagaglio collettivo di competenze e «storie di vita», capaci di contrastare le memorie traumatiche, il senso di impotenza e l’isolamento, sentimenti comuni dopo eventi traumatici e di guerra come quelli vissuti. In aggiunta a questi momenti di counseling collettivo, a ogni insegnante veniva poi offerta la possibilità di sperimentare incontri individuali dove poter esprimere pensieri e contenuti non emersi nel lavoro di gruppo.

Attraverso l’utilizzo dello strumento del diario retrospettivo e focalizzato sulle memorie di guerra, all’interno di questi spazi dedicati si consentiva il riemergere dei ricordi legati agli ultimi eventi traumatici e stressanti vissuti. Il counselor, a partire dal diario, facilitava una co-costruzione di strategie e soluzioni per far fronte alla sofferenza emotiva emersa durante la guerra. Una narrazione guidata può consentire infatti all’evento traumatico di riemergere alla coscienza sotto forma di ricordo e di collocarsi, sia spazialmente che temporalmente, in una specifica fase del ciclo vitale della persona. Nel corso della narrazione, counselor e insegnante insieme potevano risignificare l’evento traumatico, altrimenti frammentato e non elaborabile, valorizzando poi le competenze di sopravvivenza, coesione e collaborazione del sistema familiare e della comunità (vicini, famiglia estesa, autorità religiose). Questo processo centrato sulla memoria e sul ricordo consentiva una rilettura del proprio passato più consapevole e serena e una prima possibilità di elaborazione della perdita subita. Infine si proponeva l’home visit.

Attraverso tecniche di esposizione narrativa e di esposizione in vivo, con la visita domiciliare si volevano elicitare le dinamiche interattive familiari e i meccanismi di resilienza collettivi, attivi nell’affrontare gli eventi traumatici (Walsh, 2014). Gli eventi stressanti agiscono infatti sulla coerenza e l’equilibrio dei sistemi familiari, aumentando i conflitti interni, le incomprensioni o dando vita a spirali contaminanti di sofferenza che possono trasmettersi da membro a membro fino a raggiungere, in certi casi, livelli sintomatici epatologici (ad esempio disturbo post-traumatico da stress e trauma vicario o secondario).

Le osservazioni cliniche hanno mostrato un’evidente efficacia dell’intervento sulla gestione dello stress nelle insegnanti della scuola Salaam. Il feedback delle donne è stato molto positivo: si sono mostrate capaci di parlare in maniera attiva e consapevole degli eventi di guerra. La sensazione generale è stata quella di avere trovato un gruppo di insegnanti e educatrici con forti risorse e capacità, con cui poter quindi iniziare a progettare la seconda fase dell’intervento. A partire da un aumentato senso di efficacia e di benessere, le insegnanti hanno accettato volontariamente di prendere parte alla seconda fase dell’intervento nella scuola, con bambini in età scolare dagli 8 ai 13 anni. Questa seconda fase di progetto è stata denominata Theater of Resistance e ha avuto come obiettivo principale il potenziamento del benessere e della resilienza attraverso lo strumento teatrale e le arti-terapie.

Fase 2

Dopo la prima fase preliminare di intervento, fondamentale per la costruzione di un’alleanza di lavoro e di collaborazione con le insegnanti, a maggio 2015 si è svolta la seconda parte del progetto, della durata di 10 giorni. Durante le prime 5 giornate si è lavorato con il team di insegnanti e educatrici formato a novembre. È stata svolta una formazione sulle tecniche di arte-terapia, teatro e danza quali strumenti espressivi di lavoro da utilizzare successivamente con i bambini. Questo momento formativo, realizzato secondo i principi lewiniani della ricerca-azione (Lewin, 1948; Friedman e Razer, 2004), ha permesso di creare, costruire e discutere insieme il disegno dell’intervento, di testare quindi direttamente su di sé lo strumento progettato, vederne le conseguenze e le necessarie modifiche, attivando un continuo scambio di saperi attraverso processi creativi co-costruiti e promuovendo, infine, un dialogo aperto e trasformativo tra gli operatori stranieri e quelli locali. Ogni passaggio è stato filtrato attraverso una continua rilettura e modifica delle definizioni, delle procedure e delle emozioni elicitate da tali procedure, alla luce dei fattori culturali, dello stile personale degli operatori e del nuovo spazio sociale creatosi nel coordinamento di significato attraverso gli operatori.

Nelle giornate successive ha preso vita il lavoro con i bambini, anche loro coinvolti come attori sociali attivi nella costruzione metaforica delle storie traumatiche da essi vissute e raccontate. Cinque giorni in cui l’obiettivo principale era sperimentare la libertà del gioco, dell’essere se stessi e la libertà dell’esprimere le proprie emozioni. Vivere e subire un trauma può rendere la persona impotente e bisognosa di rassicurazione, sostegno, sicurezza e comprensione. Il bambino, così come l’adulto, necessita di qualcuno che contenga i suoi stati emotivi terrifici e i sentimenti di disorientamento e d’impotenza che derivano dall’esperienza catastrofica vissuta (Walsh, 2008). Le prime attività si sono svolte prevalentemente in gruppo, nell’ottica di ridurre l’isolamento post-traumatico, aumentare le competenze collaborative del gruppo e combattere stati depressivi, attraverso la condivisione di problemi comuni, di ansie e paure.

Nella prima giornata gli esercizi espressivi-corporei, derivati da tecniche teatrali di base, avevano l’obiettivo di favorire la competenza emotiva del bambino, di migliorare la sua regolazione degli stati emotivi e permettere, quindi, una positiva esperienza della propria corporeità. Condotti dagli insegnanti e facilitatori, i bambini incominciavano a conoscere e percepire il proprio corpo e la propria presenza nello spazio, insieme alle piacevoli sensazioni derivanti dall’incontro con l’altro. Gli esercizi di corporeità espressiva facilitavano quindi l’espressione e la comunicazione delle emozioni, di sentimenti e del proprio mondo interiore, partendo da un principio di emozionalità incarnata, dove tutte le reazioni fisiche hanno un correlato cognitivo (riconoscimento dell’emozione) ma anche neurovegetativo e corporeo (il nostro corpo che racconta delle proprie emozioni) (Bertelli, 2016). Gli esercizi cooperativi con il gruppo facilitavano invece la percezione del gruppo come supporto, risorsa e protezione, in preparazione di quelle fasi in cui i bambini sarebbero poi stati messi a contatto, seppur in chiave metaforica, con racconti e ricordi terrifici da cui proteggersi.

La seconda giornata è stata dedicata al disegno figurativo e alle arti-terapie: veniva chiesto ai bambini di disegnare scudi per proteggersi da pensieri intrusivi o da utilizzare per fronteggiare le proprie paure, secondo un principio di esternalizzazione delle competenze e quindi di messa in evidenza delle risorse di sopravvivenza di cui i bambini possono servirsi qualora si sentano minacciati. Il giorno successivo veniva chiesto ai bambini di disegnare e di costruire/rappresentare la loro «casa sicura» dove sentirsi protetti e a proprio agio.

Durante la guerra, e in particolare nella storia di espropriazione subita dal popolo palestinese, la casa, luogo dell’intimità familiare per eccellenza, diviene uno spazio violato (o violabile), insicuro e manipolato fisicamente e simbolicamente da forme di potere, che la rendono un luogo pericoloso, di controllo e di perpetrazione dell’umiliazione sui membri delle famiglie. Nel corso dell’attività sulla casa sicura l’obiettivo era quello di un ribaltamento semantico, lavorando sulla costruzione di una casa interiorizzata intoccabile e inviolabile. La casa voleva quindi divenire uno spazio interno, intimo e sicuro in cui narrare le proprie paure: uno spazio libero dalla violenza e dall’occupazione, luogo simbolico e inattaccabile. L’arte-terapia può essere uno strumento unico con bambini che ancora non possiedono una completa padronanza del mezzo linguistico per descrivere ciò che provano: è un mezzo naturale di comunicazione con il quale esternalizzare emozioni e sentimenti.

Nella quarta giornata è stato proposto il lavoro con la fiaba. Il racconto fiabesco viene usato come uno strumento per entrare in contatto, rappresentare e immaginare le paure traumatiche e quindi riuscire a padroneggiarle. Le fiabe rappresentano il luogo del terrore e dell’orrore per eccellenza, che trovano soluzione nell’attivazione archetipica dell’istinto di vita dell’essere umano, nella sua capacità di simbolizzare, di porre l’intelligenza e la creatività individuale e collettiva al servizio dell’istinto di sopravvivenza.

Ai bambini veniva quindi narrata una fiaba molto nota nel contesto palestinese, Il furbo Mohammed e il Ghoul. Il Ghoul è una figura fiabesca sovrapponibile a quella dell’Orco nella cultura nordeuropea. La fiaba narrava le vicende di Mohammed, il più giovane di tre fratelli, che si trova a fronteggiare una Ghoula (orchessa) nella propria famiglia, l’ultimogenita. La madre aveva invocato Allah chiedendo che le desse una figlia (fosse anche essa stata un Ghoul) e Allah fece nascere una bambina che di notte si trasformava nel mostro e uccideva le pecore della povera famiglia. Mohammed è l’unico dei fratelli ad accorgersi della sorella e a denunciarla alla madre (tema della violenza proveniente da membri della stessa famiglia). La madre, però, sdegnata e incredula, allontana Mohammed da casa per sempre (tema della diaspora e della catastrofe – al Nakbah – che vede milioni di palestinesi oggigiorno vivere in esilio). Mohammed trova rifugio (tema del rifugio in terra straniera) presso un villaggio circondato da muri (la striscia di Gaza, così come l’intera West Bank, è circondata da un muro alto fino a dieci metri) e abitato da iene, leoni e Ghoul che Mohammed riesce a sconfiggere attraverso astuti stratagemmi (tema della resistenza, della lotta e della perseveranza palestinese, conosciuta con il termine arabo di Al-Sumud).

I temi della nostalgia e del diritto al ritorno, cruciali nella grande narrativa palestinese, sono rappresentati dal desiderio e poi dall’effettivo ritorno di Mohammed a casa, dove ritrova la famiglia distrutta e divorata dal Ghoul (tema della morte e della distruzione di intere famiglie che tutti i bambini palestinesi hanno direttamente o indirettamente conosciuto nel corso delle ultime tre guerre nella striscia di Gaza). Inseguito dal Ghoul Mohammed trova rifugio su una palma cresciuta dai resti dei propri genitori (tema delle radici e della tradizione familiare come elemento di protezione) e i due leoni che Mohammed aveva risparmiato durante la liberazione del villaggio (tema della pietà per il nemico e della lotta etica, del perdono e della compassione) attaccano il Ghoul annientandolo e Mohammed vive riconosciuto e venerato per il suo coraggio (tema di una libertà conquistata e della fine della violenza).

La narrazione veniva accompagnata, passo dopo passo, da commenti e movimenti volti a promuovere la competenza emotiva e narrativa dei bambini e lo sviluppo di soluzioni di problemi complessi e terrifici. Veniva data loro l’opportunità di cogliere ed esprimere i momenti paurosi all’interno della storia. Questi aspetti venivano riletti alla luce della possibilità di riconoscerli, gestirli e dar loro senso in accordo con il modello salutogenico di Antonowsky (1987) che analizza il cosiddetto senso di coerenza del bambino. Terminata la lettura della fiaba, si stimolava e si sosteneva una discussione partecipata tra bambini, insegnanti e terapeuti. I bambini parlavano delle paure incontrate, ma anche delle nuove strategie scoperte per affrontarle, come il far conto sulla propria intelligenza, il coraggio, la forza dei propri sogni e delle proprie idee.

Attraverso la narrazione, i bambini sperimentavano la possibilità di traslare la metafora nella realtà vissuta nel corso dell’aggressione militare, mettere a paragone vicende e situazioni, strategie incontrate nella fiaba con le proprie storie, confrontarsi in maniera protetta e provare a dare nuovi significati alle vicende traumatiche vissute (Jedlowski, 2009). Il lavoro permetteva inoltre di rinforzare funzionamenti adattivi e spontanei di carattere auto-protettivo, mediatori della resilienza. La resilienza può infatti proteggere dal trauma solo se attivata da concreti e preesistenti «sistemi umani protettivi»: la lettura e la narrazione permettono al bambino di entrare in contatto con pensieri positivi, autostima, senso di protezione familiare e di ristabilire sentimenti di sicurezza in luoghi che nel quotidiano sono vissuti come pericolosi e incerti (Qouta, Punamäki e El Serraj, 2008). Compito del professionista nel lavoro col trauma estremo è quello di mettere in risalto queste dinamiche per far comprendere al soggetto le capacità e la forza che possiede (Walsh, 2008).

Il passaggio successivo (quinto giorno) consisteva nel chiedere ai bambini, divisi in piccoli gruppi, di inventare una loro fiaba, ambientata nella Striscia di Gaza, dove i bambini dovevano trovare strategie per proteggersi da un Ghoul. La fiaba veniva poi messa in forma teatrale e rappresentata dai bambini con l’aiuto delle insegnanti. Drammatizzare significava tradurre in azione e permettere un accesso diretto ai contenuti terrifici e alle soluzioni interni del soggetto attraverso un processo di esternalizzazione. Qui di seguito a titolo esemplificativo riportiamo alcuni passaggi messi in teatro dai bambini della scuola Salaam.

 

«Mahmoud disse: lo ho visto, con una forma spaventosa e terribile!! Decidono allora di scappare via velocemente dalla casa. La chiave della porta però era attaccata al collo del ghoul. Mahmoud decide di salire fino in fondo al letto del ghoul, in maniera silenziosa e leggera, e prendere cautamente la chiave. Mahmoud ci riesce e prende la chiave dal collo del ghoul. Aprono allora la porta e scappano via velocemente. Il ghoul sente la porta aprirsi e si alza rapidamente dal letto. Corre intorno alla casa e vede i bambini correre via. I bambini avevano però messo del liquido pieno di sapone sulle scale, così il ghoul non riesce ad afferrarli e viene distrutto».

 

«L’anziana donne gli disse che, se si fosse avvicinato alla valle dei leoni, gli avrebbe fatto una sorpresa. Yazan allora lo fece e tornò poi a trovare la vecchia signora a casa e lei gli regalò una pecora. Dopo averlo ricompensato, gli disse che lo aveva fatto perché lui era onesto, coraggioso e un eroe. Yazan chiese allora alla signora se poteva tornare dalla sua famiglia, e quando tornò non trovò più nessuno ad eccezione di sua sorella (il ghoul) con un gallo. Chiese a sua sorella di andare a pregare e lui tornò dalla vecchia signora per chiederle: Dove è che il ghoul tiene la sua anima? La signora gli rispose: Nel gallo. Yazan tornò allora a casa e uccise il gallo, uccidendo così anche il ghoul. Tornò dalla vecchia signora e la trovò morta. Fu molto sorpreso perché la signora nel testamento aveva lasciato tutte le sue proprietà a Yazan e anche la pecora. Yazan era sconvolto e pianse molto».

 

La fiaba così costruita, in un processo collaborativo che vede protagonisti i bambini, ha consentito un’esternalizzazione delle paure e delle memorie terrifiche, dando loro la forma di veri e propri personaggi (il ghoul, il gallo, ecc.), con cui potersi confrontare direttamente e in maniera attiva. In tutte le fiabe, i protagonisti sono bambini che vivono in situazioni difficili e pericolose, che mettono a rischio la propria vita ma che non si arrendono e cercano costantemente soluzioni, utilizzando le proprie risorse personali o facendo ricorso all’aiuto di amici e adulti.

«Ciò che nel narratore alberga dapprima come memoria o come fantasia più o meno confusa diventa, grazie a strumenti linguistici e discorsivi, un oggetto, cioè qualcosa che esiste al di fuori dello stesso narratore, in uno spazio in comune con gli altri. In relazione a ciò che il bambino ha percepito o immaginato nel proprio mondo interiore, raccontare significa dunque creare una giusta distanza: il racconto che abbiamo narrato esiste ora al di fuori di noi, lo osserviamo e ci osserva» (Heidegger, 1975, p. 75).

Una delle conseguenze del trauma è infatti l’impossibilità di raccontare e quindi un’indicibilità degli eventi orribili subiti dalla vittima. Tale indicibilità è considerata un fondamentale indicatore della gravità del trauma e di una possibile patologia (Papadopoulos, 2012). Il lavoro con la fiaba ha consentito ai bambini di mettere in parola e ridare coerenza a narrazioni traumatiche tacite e/o indicibili, restituendo un senso a delle memorie disorganizzate che, altrimenti, si ripresentano alla coscienza sotto forma di emozioni negative e incontrollate. In aggiunta, nel corso dell’attività narrativa, si cercava di aiutare i bambini a immaginarsi uno spazio sicuro (sia nel racconto che nella scena della rappresentazione) in cui rifugiarsi e proteggersi qualora si sentissero sopraffatti dalla paura. Veniva quindi restituito al bambino un senso di sicurezza che potesse essere messo al servizio del processo di risoluzione del trauma.

Finiti i racconti, veniva chiesto ai bambini di mettere in scena la propria fiaba, scegliendo liberamente la musica, i costumi e la disposizione della scenografia costituita dai lavori prodotti nei giorni precedenti di attività (scudi, case sicure). In questo modo i bambini potevano mettere in scena le proprie paure, scegliendone grandezza, sembianza, forma e colore e, con questa rappresentazione, avevano la possibilità di confrontarsi con sentimenti di frustrazione e di impotenza attraverso un processo di esternalizzazione nella forma del ghoul.

Attraverso la rappresentazione teatrale i bambini non erano più oggetto passivo del processo di cura, ma protagonisti attivi dotati di capacità d’azione (agency) e competenza nel processo di ricostruzione delle memorie traumatiche. L’esperienza teatrale aumenta infatti le possibilità di scelta e di espressività del bambino, ne arricchisce il racconto traumatico, restituendo senso e armonia attraverso un’esperienza estetica, produttiva (poetica) e politica (il bambino come testimone di gravi violazioni dei diritti umani e protagonista attivo nel reclamare giustizia). La drammatizzazione e il gioco di ruolo (sperimentato nella prima giornata di gioco cooperativo), insieme alla rappresentazione delle nuove fiabe, hanno consentito loro di parlare in chiave metaforica e di mettere in scena eventi traumatici o episodi realmente vissuti, paure o preoccupazioni, e di affrontare la sofferenza in una maniera nuova, promuovendo coraggio e risolutezza (Sumud). Lo spazio della rappresentazione e della drammatizzazione teatrale ha permesso ai bambini di reagire attivamente alle paure e alla violenza esperita nella vita quotidiana.

Alla rappresentazione dell’ultimo giorno erano invitati non solo i genitori dei bambini, ma anche membri anziani della comunità (sheik), autorità religiose e rappresentanti istituzionali del ministero dell’educazione dell’amministrazione di Gaza. Ne è risultata una cosiddetta cerimonia definitoria (definitional cerimony) o di riconoscimento (Denborough, 2008). Dopo avere assistito alla breve discussione dei bambini intorno alle loro rappresentazioni, ponte tra metafora e fantasia, ispirandosi al metodo del playback theater (Rivers, 2015), notabili, anziani, genitori e autorità venivano invitati a commentare, lasciare un loro pensiero, una loro storia di resistenza o semplicemente ringraziare i propri figli per il loro coraggio e per il lavoro di testimonianza. L’evento si concludeva, come nella più chiara traduzione palestinese, con una festa in cui i bambini ballavano la danza tradizionale collettiva (dabkah) e le donne distribuivano cibi della cucina palestinese da loro prodotti come hummus (purè di ceci), falafel (polpette vegetali fritte) e maklube (riso rivoltato con una particolare tecnica culinaria).

Conclusioni

In condizioni di occupazione militare e di violenza politica cronicizzata, come quella presente nel territorio palestinese, l’utilizzo di strumenti esperienziali ed espressivi con i bambini ha mostrato una notevole efficacia. In primis, lo strumento teatrale può offrire ai bambini palestinesi una modalità espressiva e creativa per affrontare una realtà traumatica costante e continuativa dove non esiste un post (ad esempio post trauma) e per migliorare le strategie nell’affrontare (coping) esperienze stressanti e traumatiche vissute durante la guerra.

Nell’intervento descritto, le tecniche non verbali ed espressive non vogliono fornire un’interpretazione dei vissuti subcoscienti del bambino. L’operatore e il facilitatore non si occupano di rileggere il disegno o la rappresentazione del bambino per ricostruirne il mondo inconscio e neppure di correggere, secondo la tradizione cognitivo-comportamentale, comportamenti irrazionali ed emozioni catastrofiche. Essi si propongono invece di facilitare la produzione del racconto, la sua espressione coerente e integrata. Attraverso la costruzione di nuove fiabe e la loro drammatizzazione, bambino e operatore assumono una postura collaborativa come co-autori di nuove storie, accompagnandosi reciprocamente in un lento processo trasformativo. Le emozioni negative e memorie terrifiche vengono qui esternalizzate, rese visibili e concrete anche grazie all’uso della metafora, per poi essere affrontate anche in condizioni di forte deprivazione ambientale e di violenza politica constante.

Il processo di esternalizzazione consente al bambino di coinvolgersi in pratiche narrative che contribuiscono a invertire le tendenze patologiche (e patologizzanti) verso progressivi aggiustamenti cognitivi ed emotivi al trauma, restituendogli competenza e un senso di controllo. Nell’atto di dare vita e corpo a una nuova fiaba palestinese, il bambino si percepisce attivo, competente e impegnato in prima persona nella ricerca di soluzioni creative, nonché attore socialmente e politicamente situato in una comunità che testimonia la violazione del proprio diritto all’esistenza e alla resistenza contro un genocidio culturale progressivo e continuato. Il processo di ri-narrazione verbale e corporea a cui i bambini hanno partecipato assume le caratteristiche di una «grande narrativa» (master narrative) in cui tutta la comunità possa riconoscersi e assumere un ruolo autorevole nella ricerca di soluzioni.

Il coinvolgimento della comunità fin dalle prime fasi (dalla comunità delle insegnanti fino alla comunità del campo profughi di Jabalya) ha avuto come principale obiettivo quello di decostruire l’immagine di una collettività passiva e spettatrice della violenza militare e politica cui è sottoposta e di creare un nuovo e ricco spazio sociale capace di dare senso e significato alle sofferenze sperimentate negli ultimi settant’anni di storia. Riattivare funzioni di attribuzione di senso e strategie di resistenza all’oppressione e alla violenza coloniale contribuisce a fare della comunità un fattore di protezione allo sviluppo delle sofferenze individuali (Denborough, 2006). Un contesto in grado di attribuire senso a ciò che accade quotidianamente può aiutare a contrastare sintomi traumatici e post-traumatici alla cui origine c'è un sentimento di estrema incertezza e costante umiliazione (Barber, 2009). La partecipazione alla vita della comunità protegge i bambini dalle conseguenze della violenza politica e consente di guardare con speranza a un futuro incerto e impredicibile.

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Note

1 OCHA: https://www.ochaopt.org/location/gaza-strip (ultimo accesso: 3/07/17).
2 Ibidem.

DOI: 10.14605/EI1521703


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ISSN 2421-2946. Educazione interculturale.
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