Il rapporto tra teatro e formazione, così come le implicazioni pedagogiche della pratica teatrale e il gioco di specchi che fanno del teatro una metafora del processo formativo e, viceversa, dello spazio-tempo formativo una chiave di lettura per leggere il dispositivo teatrale, sono il nucleo tematico centrale del testo di Cappa.
L’analogia esistente tra teatro e formazione è un leitmotiv che ritorna spesso nella carriera del Ricercatore dell’Università di Milano Bicocca fin da quando, giovane e promettente allievo di Riccardo Massa, raccoglieva, insieme a Francesca Antonacci, le lezioni del pedagogista milanese sullo stesso tema dando così vita al volume Riccardo Massa. Lezioni su «La peste, il teatro, l'educazione» (2001).
Infatti, «Formazione come teatro» si pone in linea di continuità con l’approccio della «clinica della formazione» fondata da Massa e prosegue un percorso di ricostruzione, di archeologia, per dirla con Foucault, rispetto ai nessi di continuità tra teatro-formazione-estetica-pedagogia che sono stati rimossi nel fervore disgiuntivo degli ultimi decenni che ha creato steccati disciplinari rigidi e impermeabili. L’approccio che sceglie Cappa per far riemergere tali connessioni è quello dello sguardo, come ci invita a fare lo stesso Foucault.
Riprendendo una riflessione del filosofo francese, Cappa mette in evidenza come il legame tra filosofia e teatro sia stato interrotto dalla celebre critica di Platone (che condanna condizionatamente l’arte come imitazione ‒ mimesi ‒ della realtà nel II e III libro della Repubblica) fino alla riapertura del rivoluzionario Nascita della tragedia di Nietzsche.
Questa rimozione si basa sulla ricerca della realtà, o della verità delle cose, e della distinzione tra ciò che è vero e ciò che è illusorio che attraversa tutta la storia del pensiero occidentale (si pensi al recente movimento del New Realism fondato dal filosofo torinese Maurizio Ferraris (2014), contrapposto alla temperie postmoderna). Tale distinzione è viceversa del tutto estranea al dispositivo teatrale che si pone invece la questione di come guardiamo e di quali siano i meccanismi che ci fanno giudicare, in un senso o in un altro, l’oggetto del nostro interesse.
Nel teatro, infatti, non ha nessun senso domandarsi se ciò che vediamo sia vero o mendace, ma, anzi, tale distinzione renderebbe del tutto inutile il dispositivo stesso. Come spiega Cappa, il teatro ci pone la questione dello sguardo e della «messa in scena», dell’allestimento, delle nostre interpretazioni della realtà nella quale avviene una sorta di ‘sospensione dell’incredulità’ proprio perché ciò che interessa non è la verità in sé, ma i meccanismi che mettiamo in atto per reinterpretarla e, inoltre, le ragioni per le quali riteniamo una narrazione interessante e autentica.
Tra teatro e formazione si gioca dunque un’analogia che coltiva e invita a sperimentare lo sguardo sugli elementi che strutturano l’esperienza del soggetto nel mondo. Non la verità del mondo, ma l’esperienza che il soggetto ne fa. Il teatro può quindi fungere da lente per leggere la «scena della verità allestita dal sapere pedagogico» (p. 11).
Ripartire dallo sguardo, dunque, per elaborare una nuova alleanza tra teatro e formazione e per delineare una genealogia del pedagogico nel teatro, significa uscire dalla dimensione strettamente didattica in cui spesso questi due ambiti sono accostati. Infatti, il discorso dominante sul collegamento tra teatro e formazione sembra limitato all’uso del teatro nella pratica educativo-formativa, sia essa quella scolastica, della formazione degli adulti, del cosiddetto teatro sociale o partecipativo. In una lettura del teatro come puro strumento di animazione, legata esclusivamente alla finalità performativa, rischia di tralasciare il continuum dialettico e sinergico che lega i due ambiti, ma anche le categorie più intime che giustificano tale analogia in senso non solo storico, ma anche antropologico e strutturale.
Una prima questione costitutiva di questa relazione Cappa la rintraccia nel ruolo del corpo. Il corpo è al centro sia dell’esperienza dell’attore, sia di quella del formatore, ed è proprio nell’incontro tra corpi (attore-spettatore e formatore-formando) che i due contesti trovano una loro prima ragion d’essere e analogia.
Sono Antonin Artaud e Jerzy Grotowski i due autori a cui Cappa si riferisce principalmente per recuperare una sorta di «anti-pedagogia del corpo» capace di ri-connettere esperienza teatrale e formativa. È dunque il lavoro verso la consapevolezza corporea un primo tassello verso una competenza propedeutica sia in senso attoriale, sia del formatore. Si tratta di una competenza non prestazionale, non cioè deviata secondo una logica spettacolarizzata nella quale ciò che conta è bucare la quarta parete, fare breccia nel cuore dell’interlocutore, «arrivare» allo sguardo di chi osserva generando un sentimento di reverenza, ammirazione, emozione vicariante.
Questa deriva, direi narcisistica, cozza con l’idea di provocare processi di consapevolezza e maggiore autonomia anche in chi guarda e non solo in chi agisce. Anzi, è proprio nella danza di interazione, di significazione reciproca, direbbe Bertolini, di costruzione dell’esperienza attraverso lo scambio reciproco tra i due poli (attore-spettatore, formatore-formando) che il teatro (e la formazione) trova nuova linfa e una chiave di lettura interessante che mette in crisi l’idea di teatro come pura rappresentazione (e di formazione come pura trasmissione di saperi).
Se esiste una dimensione relazionale, è altrettanto presente, e importante, l’elaborazione personale che il corpo, giocato nel dispositivo teatrale, consente. Oltre a rappresentare il mediatore dell’esperienza, il corpo è anche il mezzo attraverso cui i «contenuti vitali» possono essere elaborati nella finzione teatrale senza perdere la loro rilevanza per il soggetto.
Nel teatro è possibile rielaborare tali contenuti in un contesto protetto, perché «finzionale», direbbe Massa, e questa è forse la dimensione più importante che accomuna teatro e formazione. «Si agisce con la cognizione che il teatro non è la vita, ma la consapevolezza dei contenuti vitali in gioco nel teatro crea un doppio registro, e quindi una doppia consapevolezza, nello spazio della quale è permesso interpretare, giocare, per sé e per gli altri, contenuti ed emozioni profonde spesso bandite e inafferrabili nel flusso della vita quotidiana» (p. 11). È proprio il concetto di esperienza (Dewey) e di spazio (Massa), di scena, entro cui questa esperienza si rende possibile su cui si interroga successivamente l’autore.
La metafora teatrale consente di comprendere meglio la vita proprio perché ne viene interrotto il flusso ed è possibile rallentare, cambiare punto di vista, concentrarsi su di un aspetto isolato e riflettere sulle motivazioni che generano le azioni e le parole.
In questo senso il coefficiente pedagogico del teatro risulta ancora più chiaro e profondo, ma esiste ancora una ragione ulteriore che giustifica questo incontro. L’epoca contemporanea è caratterizzata da una teatralizzazione dell’esistenza che richiede a chi ha un ruolo educativo/formativo di attrezzarsi per saperla destrutturare e contribuire a comprenderla, proponendo traiettorie di cambiamento ai propri interlocutori.
Senza dimenticare, poi, la dimensione rituale dei contesti educativi – o formativi che siano - in cui vengono giocati ruoli e cliché tipicamente teatrali. In questo caso il teatro può fungere da «elaboratore materiale« che consente di leggere criticamente le interazioni e porre la questione dell’adesione, o meno, al ruolo per ogni soggetto aprendo, così, alternative e opportunità: modificarlo, distaccarsene, intraprendere la via verso l’autenticità.
Sostiene Cappa, d’accordo, ad esempio, con Augusto Boal il fondatore del Teatro dell’Oppresso, che nel teatro si creano metafore della realtà. Questa funzione consente innanzitutto di rielaborare l’esperienza, prendendo un minimo di distanza dalla vita, e inoltre permette di intervenire, anche in modo trasgressivo, rispetto a quella metafora (che assomiglia alla realtà pur non essendo la vita vera). In questo modo si rende possibile una prefigurazione del cambiamento in quanto il soggetto può agire in modo differente nella metafora della realtà. Si tratta di una prova che, auspicabilmente, porterà a un cambiamento reale o, almeno, dispiegherà per il soggetto possibilità alternative da applicare al caso concreto.
Lo spazio protetto della finzione teatrale rende dunque possibili, proprio perché reversibili, tentativi, approssimazioni, prove ed errori in una sorta di allenamento per la realtà. Agendo sulla metafora si dispiegano traiettorie, almeno ipotetiche, di cambiamento e questo elemento assume chiaramente un alto valore pedagogico.
«Formazione come teatro» rappresenta dunque una proposta ermeneutica in cui riecheggiano gli studi foucaultiani (Cappa, 2009) e deweyani (Dewey, 2014) di Cappa che nel suo percorso di ricerca ha coerentemente fatto dialogare, anche con altri autori – oltre ai già citati, ricordiamo i suoi lavori su Benjamin (2012) e Mezirow (2016) – nel tentativo di sprovincializzare il sapere pedagogico rintracciandone le più profonde ragion d’essere. Si potrebbe quindi delineare una triangolazione tra discorso estetico, teatrale e pedagogico quale asse portante dell’elaborazione dell’autore.
Il «teatro come metafora della formazione» fu un’intuizione di Riccardo Massa (2001) che questo volume contribuisce a illuminare ulteriormente e che, a mio giudizio, può aprire la strada a future e inedite elaborazioni. In una stagione in cui il formativo viene spesso relegato a ciò che è spendibile nel mondo del lavoro, a ciò che è funzionale ad un immediato riscontro in termini di competenze, riaprire ipotesi che spingono più in là gli orizzonti del fare, e saper fare, formazione risulta operazione audace e interessante. Inattuale, direbbe Giovanni Maria Bertin.
Bibliografia
Antonacci F. e Cappa F. (a cura di) (2001), Riccardo Massa. Lezioni su «La peste, il teatro, l'educazione», Milano, FrancoAngeli.
Benjamin W. (2012), Figure dell’infanzia. Educazione, letteratura, immaginario, Milano, Raffaello Cortina.
Bertolini P. (1990), L’esistere pedagogico, Firenze, La Nuova Italia.
Boal A. (1977), Il teatro degli oppressi (trad. it.), Milano, Feltrinelli.
Cappa F. (a cura di) (2009), Foucault come educatore, Milano, FrancoAngeli.
Dewey J. (2014), Esperienza e educazione (trad. it.), Milano, Raffaello Cortina.
Ferraris M. (2014), Manifesto del New Realism, Roma-Bari, Laterza.
Mezirow J. (2016), La teoria dell'apprendimento trasformativo. Imparare a pensare come un adulto (trad. it), Milano, Raffaello Cortina.
Nietzsche F. (1977), Nascita della tragedia (trad. it.), Milano, Adelphi.
Platone (1997), La Repubblica (trad. it.), Roma-Bari, Laterza.