Test Book

Esperienze e progetti / Experiences and projects

Costruire comunità attraverso i checkpoint: fare Teatro dell’Oppresso in Palestina
Building community across checkpoints: doing Theatre of the Oppressed in Palestine

Laura Fracalanza


Autore per la corrispondenza

Laura Fracalanza
Indirizzo e-mail: laura.fracalanza@studio.unibo.it
Dottoranda nel corso internazionale in Comparative Studies (PhD-Comp) presso l’Università di Lisbona. Laureata presso l’Università di Bologna nel corso di Laurea Magistrale in Letterature Moderne, Comparate e Postcoloniali con una tesi sulla ricezione del Teatro dell’Oppresso in Palestina, per la cui preparazione ha svolto un periodo di ricerca in Cisgiordania. Durante il percorso accademico ha studiato presso l’Universidade Federal do Rio de Janeiro e frequentato dei corsi presso il Centro do Teatro do Oprimido della stessa città. Centro de Estudos Comparatistas Faculdade de Letras - Universidade de Lisboa Alameda da Universidade 1600-214 Lisboa, Portugal



Sommario

Nell'articolo presento due diversi tipi di lavoro con il Teatro dell'Oppresso in Cisgiordania: quello di «Ashtar Theatre» e del «Modello Polarizzato» di Chen Alon. Con modi e obiettivi diversi entrambi utilizzano questo metodo teatrale per creare uno spazio di incontro e dialogo all'interno del contesto coloniale palestinese. Dopo un'analisi del concetto di oppressione, che caratterizza la dimensione politica del metodo, rifletto sul ruolo che il teatro può assumere all'interno dello spazio coloniale. Presento dunque il lavoro che «Ashtar Theatre», compagnia teatrale palestinese, svolge in Cisgiordania, soffermandomi sui modi in cui il Teatro dell'Oppresso viene qui utilizzato per promuovere l'incontro e il dialogo all'interno della comunità palestinese, divisa tanto dall'occupazione israeliana quanto da altre forme di oppressione socio-culturali. Infine descrivo alcune esperienze con il «Modello Polarizzato» di Teatro dell'Oppresso portate avanti da Chen Alon, attore e attivista israeliano, che utilizza il metodo per creare forme di alleanza tra oppressori e oppressi, qui intesi come israeliani e palestinesi. I lavori offrono due interessanti esempi di come questo teatro possa creare uno spazio in cui costruire nuove forme di resistenza basate sul dialogo.

Parole chiave

Teatro dell’Oppresso, Palestina, colonizzazione


Abstract

In this paper I discuss two different works with the Theatre of the Oppressed in the West Bank: the one of «Ashtar Theatre» and the one of the «Polarized Model» by Chen Alon. In different ways and with different goals both use this methodology to create a space for dialogue within the colonized Palestinian context. After analyzing the concept of oppression that characterizes the political dimension of the method, I discuss the role that theatre can have in the colonial space. Then I present the work of the Palestinian acting company «Ashtar Theatre». I focus on how Theatre of the Oppressed is used to promote dialogue within the Palestinian community, which is divided by both Israeli occupation and other forms of sociocultural oppression. Finally I discuss some projects which used the «Polarized Model» of Theatre of the Oppressed co-codified by Israeli actor and activist Chen Alon. Here the method is used to create alliances between oppressors and oppressed, namely Israelis and Palestinians. These works offer two interesting examples of how theatre can allow a space where it is possible to create new forms of resistance based upon dialogue.

Keywords

Theatre of the Oppressed, Palestine, Colonization


Introduzione

Il Teatro dell'Oppresso è una metodologia teatrale nata in Brasile e oggi diffusa in tutto il mondo. La sua storia è stata fin dagli inizi all'insegna della migrazione, essendo fortemente legata alle vicende autobiografiche di Augusto Boal, attore e regista brasiliano che nei primi anni '70 ha dovuto lasciare il suo Paese a causa della dittatura militare. Spostandosi prima in altri Paesi dell'America Latina, poi in Europa e poi ritornando in Brasile, il metodo ha lentamente preso forma, ramificandosi in diverse tecniche e adattandosi alle realtà locali in cui è stato accolto.1

Durante questo lungo processo di formazione e contaminazione Augusto Boal ha sempre ribadito l'obiettivo politico del Teatro dell'Oppresso: utilizzare la forza espressiva del teatro per discutere e trovare delle reali soluzioni a situazioni di oppressione e discriminazione subite all'interno della società. L'impegno politico è dunque una prerogativa del metodo, che non può essere divisa dalla sua componente artistica.

Tra i Paesi in cui il metodo è approdato negli ultimi anni figura anche la Palestina. La sua pratica ha qui assunto nuovi significati, entrando in contatto con una realtà molto diversa da quella presente in Brasile o in Europa. Nell’articolo verranno descritte le principali esperienze di Teatro dell'Oppresso nella regione. Trattandosi di un contesto oggetto di colonizzazione e occupazione militare straniera, il metodo si è dovuto misurare in questo contesto con nuove sfide e adattarsi a nuove esigenze politiche e culturali. Ciò che voglio mostrare è come esso sia stato in grado di offrire uno spazio di incontro e di dialogo all'interno di una comunità divisa non solo dai confini fisici imposti dall'occupazione israeliana, ma anche dalle disuguaglianze interne alla stessa società palestinese. Per integrare questa riflessione riporterò in appendice alcune parti di un'intervista che ho condotto nel 2016 a Edward Muallem, direttore di «Ashtar Theatre», la compagnia palestinese di cui presenterò il lavoro.

La pratica del metodo non è però rimasta limitata alla Cisgiordania. Il Teatro dell'Oppresso, infatti, è stato utilizzato anche per discutere di problemi propri della società israeliana2 e, in alcuni casi, ha anche fatto da ponte per permettere a palestinesi dei Territori Occupati e israeliani di incontrarsi e affrontare insieme il tema dell'occupazione. Presenterò questa esperienza, ribattezzata «Modello Polarizzato», nell'ultima parte dell'articolo.

Prima di passare a questa analisi, però, ritengo fondamentale dedicare una breve introduzione a un concetto fondamentale su cui si basa il metodo di Boal: quello di oppresso. A partire dalla definizione che Boal stesso e i suoi collaboratori hanno dato a questa categoria sarà infatti più chiaro poter comprendere il ruolo assunto dal Teatro dell'Oppresso in Palestina.

Quale oppresso e quali oppressioni?

Nella discussione teorica del metodo teatrale appaiono alcuni testi in cui si tenta di definire cosa si intenda qui con oppresso. Tale categoria definisce la dimensione politica che questo tipo di teatro vuole assumere: esso è uno strumento dedicato a chi è oppresso per permettergli di discutere con un linguaggio artistico delle oppressioni che vive all'interno della società. La figura non rimanda ad alcun conflitto storico, politico o sociale nello specifico, ma si riferisce in generale a un tipo di relazione che lega due soggetti, in cui uno subisce un'oppressione perpetuata dall'altro. Essa non è quindi associata a nessun gruppo sociale definito e non costituisce nemmeno una categoria omogenea. Come Boal stesso infatti scriveva nel capitolo di Stop C'est Magique! (1980) «A Especialização e o Ofício, a Vocação e a Linguagem», riproposto in appendice nella più recente e postuma edizione brasiliana di Jogos para atores e não atores (2015, p. 371): «Così come il Teatro dell'Oppresso non è un teatro di classe, allo stesso modo non è un teatro di genere (femminista per esempio), o nazionale, o etnico, ecc.» (Traduzione dell'Autore).3

Per cercare di dare una definizione chiara al concetto, Boal lo ha associato spesso a quello di spettatore: in una relazione impostata sul dialogo vi è un momento in cui a turno ciascuno degli interlocutori sarà spettatore dell'altro. Essere spettatore diviene sinonimo di oppresso solamente nel momento in cui tale dialogo si trasforma in monologo, ovvero «quando uno degli interlocutori si specializza nel parlare e l'altro nell'ascoltare, uno si specializza nell'emettere messaggi e l'altro nel riceverli e prestarvi obbedienza – uno si trasforma in soggetto e l'altro in oggetto» (Boal, 1980/2015, p. 372, TdA).4 Oppresso, dunque, come soggetto che viene reso oggetto dalla relazione.

La natura di questo rapporto disequilibrato è di carattere storico e sociopolitico e non può essere imputabile né a delle mancanze del soggetto oppresso né a delle scelte morali individuali del soggetto oppressore. Il concetto di oppressione è infatti strettamente legato a quello di privilegio: alla base della relazione vi è uno squilibrio di potere tra i due soggetti che ha radici storiche profonde, per cui un gruppo gode di privilegi, non concessi invece all'altro. È la mera esistenza di questo privilegio che dà luogo all'oppressione. Julian Boal (2012, p. 2) chiarifica tale affermazione nel modo seguente: «Non si può comprendere la relazione tra un lavoratore e un capo senza cercare di capire il capitalismo, e nemmeno la relazione tra un bianco e un nero senza tener conto del razzismo, o la relazione tra un uomo e una donna senza considerare il patriarcato» (TdA).5

Un'oppressione non si manifesta necessariamente con un abuso di tipo fisico. A questo proposito essa viene differenziata dall'aggressione che è invece l'ultimo stadio dell'oppressione; nell'aggressione l'unica soluzione che si presenta all'oppresso per difendersi è quella di rispondere a sua volta con la forza fisica. Ciò tuttavia non vuole essere l'oggetto di lavoro di questo teatro: il metodo si concentra infatti sul momento in cui vi è ancora a disposizione uno spazio, seppur minimo, di resistenza e ricerca di possibili alternative.

Emergono dunque due elementi importanti che caratterizzano questa figura: la prima è che ha la piena consapevolezza di trovarsi in una situazione ingiusta; da ciò nasce il desiderio di reagire per ristabilire la propria libertà e l'equilibrio nella relazione. La seconda è che all'interno di uno stesso gruppo oppresso possono coesistere altre forme di oppressione: ciascuno di noi, appartenendo contemporaneamente a diversi gruppi sociali, può essere allo stesso tempo oppresso in una situazione e oppressore in un'altra. Ciò va a discapito dell'intera comunità perché la porta a essere debole e divisa, favorendo così gli interessi di chi opprime.

Il Teatro dell'Oppresso diviene uno strumento privilegiato per creare dialogo e comunione all'interno del gruppo oppresso, rafforzando il legame tra i suoi membri e cancellando le divisioni interne. In questo senso Boal (1980, p. 374) affermava: «Il padrone opprime il capo reparto, che opprime l'operaio, che opprime la moglie, che opprime i figli […]. Quando l'oppresso-oppressore esercita la sua violenza contro un nuovo oppresso, questi rinforza la stabilità della società oppressiva. Quando, al contrario, dirige la sua violenza contro l'oppressore, egli inizia un movimento di decomposizione di queste strutture sociali oppressive. Questo è il compito del Teatro dell'Oppresso: invertire la catena delle oppressioni» (TdA).6

Parole, immagini e suoni diventano così le armi a disposizione per questa lotta. Utilizzando le diverse tecniche che compongono l'arsenale del metodo, gli oppressi possono tradurre in linguaggi diversi la situazione che li opprime, esaminandola e tentando di trovare soluzioni da poi riproporre nella realtà. Come infatti Boal ricordava in maniera ricorrente nei suoi libri, il teatro è il luogo dove fare le prove generali di una rivoluzione che va poi realmente attuata nella società.

La colonia come palcoscenico

A partire da questa premessa è possibile contestualizzare e comprendere maggiormente il ruolo che il Teatro dell'Oppresso ha potuto ricoprire in un territorio come quello palestinese. In un contesto segnato da un'occupazione coloniale e militare l'obiettivo di «fare le prove» per la rivoluzione con il teatro riceve qui nuovi significati, legati al desiderio di resistere a questa specifica forma di oppressione politica. Lo spazio territoriale della Cisgiordania, oggetto di una forte frammentazione portata avanti dal governo israeliano7, è così lo sfondo su cui le compagnie che lavorano con il Teatro dell'Oppresso mettono in scena e discutono le diverse forme di oppressione che dividono la società palestinese.

Ngugi wa Thiong'o (1997, p. 21) in un saggio dedicato al rapporto tra arte e Stato rifletteva sulla politica dello spazio nello Stato-Nazione. Ricordando le parole di Shakespeare, per il quale tutto il mondo è un palcoscenico, analizzava come ciò si concretizzasse nel caso dello Stato moderno: «Lo stato-nazione considera l'intero territorio come luogo della propria performance; organizza lo spazio come un grande recinto, con punti precisi d'ingresso e d'uscita. Queste uscite ed entrate sono custodite da compagnie di lavoratori che sono chiamati funzionari dell'immigrazione. I confini sono custoditi da guardie armate per tenere lontani gli invasori. Essi tuttavia sono lì anche per confinare la popolazione dentro un certo spazio. Lo stato-nazione mette in scena la sua esistenza senza sosta, attraverso il quotidiano esercizio di potere sulle uscite e sugli ingressi, per mezzo di passaporti, visti e bandiere» (TdA).8

Nel caso della colonia, continua Ngugi wa Thiong'o (p. 26), ciò viene ancora più amplificato: «La conquista coloniale ha portato alla creazione di confini netti che hanno definito lo spazio dominato con punti d'uscita e d'entrata controllati, e alla formazione di uno stato coloniale per gestire il territorio occupato» (TdA).9

In Palestina, è all'interno di questo spazio scenico coloniale che il Teatro dell'Oppresso è andato a inserirsi. La peculiarità del nuovo spazio scenico che quest'ultimo crea è il suo essere dominato da regole che permettono la pratica di molti diritti ostacolati al suo esterno, quali ad esempio la libertà di espressione e di movimento. Così con il Teatro Forum, una delle tecniche più utilizzate in Palestina, gli spettatori possono liberamente entrare nel palco, assumere il ruolo di attori e proporre le proprie soluzioni per la vicenda inscenata. Attraverso la pratica del metodo è dunque possibile superare temporaneamente i confini che marcano il territorio coloniale per tentare di ricostruire la comunità divisa da tale politica di frammentazione e controllo.

Riconnettere la comunità divisa: il Teatro dell'Oppresso di «Ashtar Theatre»

Il Teatro dell'Oppresso è giunto in Cisgiordania alla fine degli anni '90, quando una compagnia teatrale di Gerusalemme e Ramallah, «Ashtar Theatre», ha iniziato a utilizzarlo con i propri studenti di recitazione. Il metodo è stato accolto in una realtà nella quale esistevano già diverse esperienze teatrali. È alla fine degli anni '70, infatti, che François Abu Salem fonda a Gerusalemme «al-Hakawati Theatre», compagnia teatrale palestinese generalmente riconosciuta come la prima a essere nata sotto l'occupazione israeliana.

Sebbene nel corso degli anni anche altri gruppi abbiano utilizzato il metodo, ne sono un esempio «al-Harah Theatre» di Beit Jala o «Yes Theatre» di Hebron, è con «Ashtar Theatre» che il Teatro dell'Oppresso viene normalmente associato in Palestina, essendo la compagnia con maggiore formazione ed esperienza in questo tipo di teatro. Sarà dunque sul loro lavoro che mi focalizzerò in questo contributo per mostrare come il metodo teatrale di Boal abbia contribuito a creare dialogo e rafforzare il senso di comunità in Cisgiordania.

«Ashtar for Theatre Production and Training», questo il nome completo, nasce a Gerusalemme come ONG nel 1991 grazie ai coniugi Edward Muallem e Iman Aoun, entrambi attori cresciuti artisticamente in «al-Hakawati Theatre». È la prima scuola di teatro per ragazzi a essere stata fondata nel territorio. A causa della crescente difficoltà per i giovani palestinesi della Cisgiordania di recarsi a Gerusalemme, la sede della compagnia è stata spostata a Ramallah, dove si trova tutt'ora; dal 1994 ha iniziato a stabilire dei programmi anche nella Striscia di Gaza. Il Teatro dell'Oppresso è solo una delle attività portate avanti dalla compagnia, che produce regolarmente anche altri tipi di spettacoli.10

Nel 1997, grazie a una collaborazione con il teatro «Maralam» di Zurigo, «Ashtar» organizza per la prima volta uno spettacolo di Teatro Forum, basato sui problemi quotidiani vissuti dai giovani attori. Visto il successo e la grande partecipazione del pubblico nell'entrare in scena e proporre delle soluzioni per le questioni trattate, la compagnia decide di continuare a utilizzare il metodo e approfondirne la conoscenza. Inizia così un periodo di formazione portato avanti da Bárbara Santos, allieva e principale collaboratrice di Augusto Boal, che aiuta «Ashtar» a organizzare altri spettacoli di Teatro Forum e a perfezionare la conoscenza delle tecniche di Teatro dell'Oppresso. Con gli anni la compagnia è diventata un punto di riferimento per la pratica del metodo non solo in Palestina, ma in tutto il Medio Oriente. Come infatti ricorda Edward Muallem (2016) nell'intervista riportata in appendice, l'esperienza da loro acquisita ha permesso ad altri gruppi nella regione, come ad esempio in Yemen o nel Kurdistan iracheno, di iniziare a utilizzare questo teatro. Dal 2007 «Ashtar» organizza a cadenza biennale un festival di Teatro dell'Oppresso.

Come molte altre attività culturali e artistiche diffuse nel Paese, il lavoro della compagnia cerca di rafforzare il senso di comunità fortemente pregiudicato dall'occupazione israeliana. A causa della frammentazione territoriale della Cisgiordania e della più generale segregazione di questa regione dal resto del territorio circostante, le diverse comunità palestinesi si trovano fisicamente divise le une dalle altre. I vari gruppi artistici attivi nel territorio si oppongono a questa politica promuovendo l'incontro, rafforzando così il senso di una comune identità palestinese.

Rania Jawad (2013, pp. 138-139), in un lavoro dedicato al ruolo del teatro in Palestina, nota come qui le compagnie teatrali che offrono corsi di recitazione perseguano l'obiettivo non solo di formare nuovi attori, ma anche di difendere la propria identità nazionale: «Il loro discorso, come la maggior parte delle iniziative culturali in Palestina, lega lo sviluppo di pedagogie culturali alla ricostruzione della società palestinese, oppressa, isolata e sotto attacco da parte di Israele fin dalla fondazione dello stato. Queste iniziative non si focalizzano solo sulle nuove generazioni di palestinesi cresciuti sotto il dominio coloniale, ma servono anche per stimolare connessioni tra le comunità palestinesi. Oltre ai palestinesi in Israele che partecipano alle nuove scuole drammatiche, artisti teatrali che vivono nei centri urbani stanno lavorando nei campi profughi di tutta la Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nei villaggi di tutta la Palestina, creando così nuove comunità e collaborazioni» (TdA).11

Il lavoro di «Ashtar» mira a rafforzare questo senso di comunità in un modo che è proprio del Teatro dell'Oppresso. Gli spettacoli di Teatro Forum che la compagnia produce annualmente sono basati su problematiche reali presenti nella società palestinese, la cui causa non è solamente riconducibile all'occupazione israeliana. Come ricorda Muallem (2016) nell'intervista in appendice, non esiste mai un unico oppressore: molte delle questioni che dividono la comunità sono infatti imputabili alle disuguaglianze prodotte e mantenute dagli stessi palestinesi. Negli anni le tematiche affrontate sono state diverse. Iman Aoun (2002, p. 326), per esempio, ne cita alcune: «violenza domestica, matrimonio in giovane età, lavoro infantile, carenza d'acqua, commercio di cibo avariato, confisca delle terre, collaborazionisti (palestinesi che lavorano con l'agenzia di intelligence israeliana) e perfino argomenti tabù come l'incesto» (TdA).12 Per la preparazione degli spettacoli la compagnia si affida generalmente alla collaborazione con ONG locali che lavorano con il tema trattato, come associazioni per la difesa dei diritti delle donne o dei minori. La storia si basa quindi su fatti realmente accaduti e gli spettatori sono invitati nella seconda parte del Teatro Forum a intervenire e proporre delle soluzioni a tali problemi. Gli spettacoli vengono rappresentati in contesti molto diversi tra loro, per permettere a un pubblico il più possibile eterogeneo di conoscere questo lavoro e partecipare alla discussione.

Aoun (2002, p. 328) a tal proposito ricordava: «La serie annuale “Abu Shaker’s Affairs” è un elemento chiave nel lavoro di Ashtar perché ci permette di raggiungere gruppi che altrimenti non sono molto accessibili, a causa di barriere sociali, culturali, economiche, politiche e, a volte, psicologiche – per esempio donne, giovani, anziani, disabili, poveri. […] Questi sforzi esprimono la nostra politica di rendere i servizi di Ashtar accessibili a tutti i membri della società palestinese, indipendentemente dallo status economico o sociale, in particolare a coloro che si trovano nel gradino più basso della scala economica. Crediamo che i poveri [...] abbiano il diritto di partecipare alla discussione dei loro problemi sociali» (TdA).13

Nel corso degli anni le oppressioni rappresentate si sono riferite, a volte, a problemi presenti nell'intera società palestinese. Ne è un esempio lo spettacolo Hekayet Mona (The story of Mona), diretto da Bárbara Santos e rappresentato per la prima volta nel 2005; qui è raccontata la vicenda di Mona, una ragazza di 14 anni costretta dalla famiglia a sposarsi e che, all'ennesimo rifiuto, viene uccisa dallo zio. La storia portava alla luce molte questioni, attuali in tutto il territorio: l'età minima per il matrimonio, la violenza domestica, il delitto d'onore, il diritto per le ragazze di avere un'istruzione. Lo spettacolo è stato costruito seguendo la tecnica del Teatro Legislativo: come nel caso del Teatro Forum gli spettatori hanno suggerito le loro soluzioni, ma in aggiunta hanno potuto mettere per iscritto delle reali proposte di legge per difendere la giovane Mona e le ragazze che rappresentava.

Nel 2006 «Ashtar» ha pubblicato uno studio in lingua araba in cui ha riportato i suggerimenti ricevuti così come la proposta di legge ufficiale che ne è derivata, e che è stata incamminata al parlamento palestinese; la maggior parte di esse ha riguardato la pena da infliggere in caso di delitto d'onore. Come è mostrato nello stesso studio, lo spettacolo ha coinvolto un pubblico molto ampio, venendo rappresentato solo nel 2005 almeno 60 volte. Questo lavoro ha dunque promosso la discussione di tali questioni nell'intera comunità palestinese, dai campi profughi ai villaggi e alle città, coinvolgendola nel trovare una soluzione comune a un problema presente in tutte le aree della società.

Altre volte le oppressioni rappresentate hanno riguardato solamente specifiche comunità. Fin dai primi anni 2000, infatti, alcuni degli attori di «Ashtar» hanno organizzato degli spettacoli di Teatro Forum con dei gruppi comunitari che ne facevano richiesta, tematizzando le questioni vissute dagli stessi partecipanti. Così nel 2009 e nel 2010 Muallem ha lavorato con dei ragazzi palestinesi del villaggio di Mi'ilya in Galilea, oggi parte dello Stato israeliano. Qui ha organizzato due spettacoli poi rappresentati in alcune città della Cisgiordania. Nel 2009, per esempio, è stato prodotto A hot summer, che si è basato sui racconti dei partecipanti e che ha tematizzato l'utilizzo eccessivo dei cellulari da parte dei ragazzi, la povertà, la disgregazione familiare e la delinquenza giovanile (Ashtar, 2010). Nel 2015, invece, Aoun ha diretto lo spettacolo A court, montato con degli abitanti della valle del Giordano, dove sono stati discussi alcuni problemi che caratterizzano la regione. Come si legge infatti sul report annuale della compagnia del 2015, lo spettacolo ruotava attorno tre questioni, ovvero lo scarso numero di scuole e la mancanza di mezzi per raggiungerle, la mancanza di strutture sanitarie e la scelta di andare a lavorare negli insediamenti israeliani illegali. A court è stato rappresentato anche in altre città palestinesi. La tournée di questi spettacoli ha permesso di far conoscere i problemi che toccano queste realtà a un pubblico più ampio, promuovendo la conoscenza e il dialogo tra le comunità separate dai confini dell'occupazione.

Questi esempi mostrano come «Ashtar Theatre» abbia utilizzato il Teatro dell'Oppresso per mantenere quel senso di comunità così fortemente minato dalla situazione politica. I loro spettacoli tematizzano non solo l'oppressione coloniale, ma anche altre forme di oppressione perpetrate dagli stessi palestinesi nei confronti di determinate categorie sociali. Affrontando questi problemi il loro lavoro auspica ciò che Aoun (2002, p. 324) ha descritto come «parte della marcia per la trasformazione e l'evoluzione della nazione palestinese» (TdA).14

Il «Modello Polarizzato» di Teatro dell'Oppresso: per un'alleanza tra colonizzati e colonizzatori

Passerò ora a presentare un'altra esperienza di Teatro dell'Oppresso, che testimonia un utilizzo molto diverso di questa metodologia all'interno del contesto palestinese. L'oggetto di questa sezione è infatti una variazione del metodo di Boal che è stata chiamata «Modello Polarizzato» dall'attore e attivista che l'ha co-ideata, Chen Alon. L'obiettivo di questa pratica è quello di creare uno spazio privilegiato di incontro per israeliani e palestinesi dei Territori Occupati al fine di costruire delle alleanze valide al di fuori dello spazio scenico e combattere insieme l'occupazione della Cisgiordania.

Collaborazioni di tipo artistico, e non solo, tra palestinesi e israeliani trovano generalmente l'opposizione di entrambe le società. Per quanto riguarda quella palestinese, in particolare, in questo genere di attività vi si ravvede un tentativo di «normalizzare» la colonizzazione e occupazione israeliana, ovvero accettarne l'esistenza e considerarla una condizione normale e permanente.15 Il tipo di lavoro di cui parlerò sfugge parzialmente a questo pericolo, essendo uno dei suoi obiettivi proprio quello di denunciare e resistere a questa forma di oppressione. Ciò nonostante anch'esso si è dovuto scontrare con forti resistenze tanto nella società israeliana quanto in quella palestinese per la comune accusa di «“servire” l'“altra” parte del conflitto» (Alon, 2011, p. 167, TdA).16

Il «Modello Polarizzato» di Teatro dell'Oppresso si rivolge a gruppi in forte contrasto fra loro in cui uno si riconosce oppressore dell'altro; l'obiettivo del lavoro non è quello di rinnegare questa opposizione, ma di costruire un nuovo rapporto basato su un altro modo di vivere la differenza. L'alleanza formatasi nello spazio del teatro verrebbe quindi tradotta in alleanza politica all'interno della società, dove sarebbe utilizzata per combattere il sistema che genera e sostiene la disuguaglianza.

Nel contesto israelo-palestinese il modello è stato adottato in alcuni progetti portati avanti da Alon, che hanno coinvolto sia adulti che ragazzi di entrambe le società. Alon è un attore e attivista israeliano, cofondatore dell'organizzazione di resistenza nonviolenta israelo-palestinese «Combatants for Peace», che unisce ex militari israeliani e ex combattenti palestinesi. All'interno di questo gruppo si è formato nel 2007 un nucleo di lavoro con il Teatro dell'Oppresso, «Tel Aviv/Tul Karem Activist Theatre Group (TA/TK)», coordinato dallo stesso Alon e da un membro palestinese, Nour Al-Din Shehadda. In passato il metodo è stato utilizzato anche con dei ragazzi grazie al progetto «Viewpoints», finanziato dall'organizzazione israeliana «The Peres Center for Peace». Le due esperienze sono state condotte in maniera differente, essendo i due contesti di lavoro molto diversi fra loro.

Nel primo caso i partecipanti, tutti adulti, hanno inizialmente organizzato una serie di incontri tesi a condividere ciò che Alon (2011, p. 166) ha definito «polarized intimacies», ossia ricordi e sentimenti spesso dolorosi e traumatici, vissuti da ciascun membro e che raccontano il conflitto da posizioni opposte. Lavorando con il Teatro Immagine, una delle tecniche di Teatro dell'Oppresso che si concentra sul linguaggio non verbale, è stato possibile riflettere sulle emozioni che questi scambi generavano nei partecipanti. L'obiettivo è stato quello di decostruire l'immagine del «nemico» per andare oltre alla rigida identità assegnatali e riconoscere la sua umanità. Allo stesso tempo questo lavoro ha permesso di ripensare anche la propria immagine, fortemente condizionata dalla retorica nazionale che, in entrambi i gruppi, congela vittimizzando la propria identità. Arsham Kuftinec (2009) ha notato come l'intenzione non fosse quella di cancellare il legame verso l'identità nazionale, israeliana o palestinese, ma di rendere questa parte di sé meno rigida e più aperta all'incontro con l'Altro. La proposta di Alon prevedeva due tipi di incontri per facilitare la riflessione, uno su base bi-nazionale e l'altro uni-nazionale, così da non perdere di vista le esigenze della propria comunità e discutere delle difficoltà specifiche che questo processo portava con sé.

Nello spazio di lavoro è stato possibile sperimentare ciò che Alon ha definito (cit. Arsham Kuftinec, 2009, p. 159) «critical equal participation», ossia è stato creato un ambiente privilegiato dove i membri di entrambi i gruppi, contrariamente alla realtà, godevano degli stessi diritti. Questi incontri hanno favorito la creazione di un nuovo tipo di rapporto tra i partecipanti, che si è tradotto, al di fuori di questo spazio, in un'alleanza politica tesa a denunciare e contrastare il sistema che genera e mantiene l'oppressione. All'interno dello stesso progetto sono stati organizzati anche spettacoli pubblici di Teatro Forum, basati su vicende realmente vissute e che problematizzavano l'occupazione. In questo modo è stato possibile aprire uno spazio di dialogo con altri israeliani e palestinesi, che hanno potuto entrare in scena prendendo parte alle vicende rappresentate.

Questo lavoro si è dovuto scontrare con diverse difficoltà. Innanzitutto in Palestina non è semplice trovare luoghi in cui i due gruppi possono riunirsi pubblicamente. Per questo motivo Alon (2011, p. 170) ha affermato che «sconfinare è una strategia che usiamo spesso nelle nostre azioni pubbliche» (TdA).17 L'attore nello stesso articolo ha raccontato uno dei problemi a cui il gruppo è andato incontro durante una rappresentazione pubblica. Nel 2010 è stato organizzato uno spettacolo di Teatro Forum vicino al villaggio di Shufa, in Cisgiordania, nei pressi di un checkpoint e di una colonia israeliana.18 La storia aveva anch'essa luogo in un checkpoint e mostrava un anziano signore palestinese con il nipote a cui veniva impedito dai soldati di passare dall'altra parte e di tornare a casa. Gli attori, sia israeliani che palestinesi, e il pubblico, anch'esso misto, si sono dovuti confrontare in quell'occasione con un'inaspettata sovrapposizione dello spazio scenico con quello coloniale. Lo spettacolo è infatti stato interrotto da dei veri soldati israeliani per l'ordine ricevuto di arrestare un attore palestinese che indossava in scena la divisa militare israeliana.

Il lavoro intrapreso con il Teatro dell'Oppresso per la realizzazione di una realtà più giusta e equilibrata si è dovuto scontrare, come nell'esempio appena citato, con la situazione politica e la costante perpetrazione dell'oppressione coloniale. Anche all'interno del gruppo di lavoro, nonostante gli sforzi per evitarlo, c'è stata la tendenza di ricreare le dinamiche oppressive presenti nella realtà. Per esempio, per i membri israeliani era molto più semplice viaggiare per recarsi agli incontri, contrariamente ai membri palestinesi che non potevano uscire dalla Cisgiordania. Come Arsham Kuftinec (2009, p. 161) ha notato, Alon stesso «riconosce il dilemma nel cercare di costruire una forma di partnership futura più equa e giusta quando la disparità nelle risorse a disposizione riflette le dinamiche del conflitto, potenzialmente riproducendo anziché smantellando le relazioni di potere esistenti» (TdA).19 Il diverso tipo di esperienza e di livello di formazione degli attori israeliani rispetto a quelli palestinesi e la disuguaglianza delle infrastrutture a disposizione nei due territori hanno mantenuto viva la divisione tra i due gruppi. Ad esempio Arsham Kuftinec (2009, p. 161) ricorda, riproponendo le riflessioni di Alon che «per i facilitatori palestinesi nel progetto di incontro Viewpoints, impreparati nelle tecniche di Teatro dell'Oppresso, il processo era a volte “tutt'altro che emancipatorio”» (TdA). 20

«Viewpoints» è un altro progetto teatrale in cui è stato adoperato il «Modello Polarizzato», questa volta con dei ragazzi. Creato nel 2002 da un gruppo di attori palestinesi e israeliani, il suo obiettivo era quello di utilizzare il teatro per promuovere una diversa conoscenza dell'Altro e, allo stesso tempo, sensibilizzare i giovani israeliani sulla realtà dell'occupazione, che spesso ignoravano. La partecipazione di Alon nel progetto ha introdotto l'utilizzo del Teatro dell'Oppresso; attraverso la rappresentazione di spettacoli di Teatro Forum basati sulla realtà della Cisgiordania i giovani spettatori israeliani sono potuti entrare in scena e assumere momentaneamente i panni dei palestinesi. L'obiettivo era quello di far capire loro le dinamiche oppressive dell'occupazione e, di conseguenza, che non si può essere dei «buoni» occupanti (Arsham Kuftinec, 2009). Tra il 2007 e il 2008 è stato portato avanti anche un altro tipo di lavoro, che ha cercato di promuovere un incontro più diretto tra i ragazzi israeliani e i palestinesi dei Territori Occupati. A cadenza mensile sono stati organizzati laboratori bi-nazionali per permettere ai giovani di lavorare insieme. Tuttavia durante questa esperienza sono emerse più resistenze da parte delle due comunità e il progetto non è più stato ripetuto.

Il lavoro proposto ha corso il rischio, ancora una volta, di riprodurre anziché combattere una forma di squilibrio tra i due gruppi. Esso ha infatti avuto una valenza molto diversa per i giovani dei Territori Occupati rispetto a quelli che risiedono in Israele. Se per i ragazzi israeliani questi incontri hanno fornito la possibilità di scoprire cosa sia davvero l'occupazione, per quelli palestinesi gli scenari rappresentati durante il lavoro, come ad esempio i checkpoint, mostravano semplicemente delle realtà a loro già familiari. Il progetto si è dunque rivelato più adeguato solamente per un gruppo. Come Arsham Kuftinec (2009, pp. 132-133) infatti ricorda, «I giovani ebrei israeliani hanno riflettuto su ciò che era per loro una nuova esperienza affettiva ed empatica, che li ha portati verso una posizione identitaria meno polarizzata. I giovani palestinesi dei Territori Occupati, tuttavia, hanno avuto più difficoltà nel rappresentare ciò che era per loro uno scenario più familiare e nell'empatizzare con gli israeliani» (TdA).21

Nonostante le evidenti difficoltà nel portare avanti questo genere di lavoro è innegabile la capacità che il metodo ha avuto nel creare uno spazio «altro» nel contesto coloniale palestinese. Il nuovo tipo di incontro che la pratica del Teatro dell'Oppresso ha permesso tra il gruppo privilegiato e quello oppresso non ha lasciato da parte la riflessione sulla realtà politica che li mantiene separati; le differenze non sono infatti state dimenticate, ma è stato proprio a partire dall'accettazione del diverso ruolo nel sistema oppressivo che l'incontro è stato reso possibile. La rivoluzione auspicata da Boal, in questo caso, non è stata solo rappresentata, ma è arrivata già a concretizzarsi nello stesso spazio scenico: creare un ambiente dove israeliani e palestinesi dei Territori Occupati godono degli stessi diritti e problematizzano insieme l'occupazione coloniale israeliana è già di per sé una rivoluzione in corso.

Abbiamo visto come il Teatro dell'Oppresso è stato utilizzato nel contesto palestinese, in particolare in Cisgiordania, per creare diversi spazi di incontro. Da un lato «Ashtar Theatre», ha utilizzato il metodo per promuovere l'unione della comunità palestinese, minacciata tanto dall'occupazione israeliana quanto da altre forme di oppressione interne; dall'altro il «Modello Polarizzato» ha permesso un incontro più equo tra il gruppo oppressore e quello oppresso. Seppur in maniera diversa entrambe le esperienze hanno dunque dimostrato come questo metodo teatrale sia stato capace di adattarsi alla realtà coloniale e aprire qui inedite forme di resistenza basate sul dialogo.

Appendice

Intervista a Edward Muallem, direttore generale di «Ashtar Theatre» (Ramallah, 02/11/2016)22

1. Come è arrivato in Palestina il Teatro dell'Oppresso e come avete iniziato a lavorare con questo metodo?

Nel 1997 i primi giovani studenti di teatro di Ashtar hanno completato il loro ciclo di studi e dovevamo decidere che spettacolo finale produrre con loro. L'idea di usare il Teatro dell'Oppresso ce l'ha data un nostro partner in Svizzera, il teatro Maralam. [...] Ci abbiamo pensato un po' perché non sapevamo se questo metodo sarebbe stato accettato qui e se il pubblico avrebbe interagito con noi. […] Alla fine abbiamo prodotto uno spettacolo di Teatro Forum che parlava dei problemi che i ragazzi in Palestina devono affrontare, utilizzando le storie raccontate dai nostri attori. Il direttore è stato Peter Braschler del teatro Maralam e abbiamo iniziato un tour con questo spettacolo. Questa è stata la nostra prima esperienza. […] Il pubblico ha amato lo spettacolo, erano tutti molto partecipi, abbiamo messo in scena più di 60 performance in tutta la Cisgiordania.

Dato il grande successo e la partecipazione attiva del pubblico abbiamo deciso di continuare a utilizzare il metodo. Abbiamo approfondito la nostra formazione e l'anno seguente abbiamo prodotto un altro spettacolo di Teatro Forum. […] Prima di scrivere la storia abbiamo condotto delle ricerche sul tema che volevamo affrontare e il nome che abbiamo dato allo spettacolo è stato Abu Shaker's Affairs – Abu Shaker è il nome dell'uomo che era l'oppressore. Abbiamo quindi iniziato a produrre ogni anno uno spettacolo che diventava un episodio della serie Abu Shaker's Affairs. È stato un grande successo, alla gente è piaciuto molto. I temi che abbiamo affrontato sono stati diversi, come per esempio la mancanza di acqua o il commercio di cibo avariato. Facevamo le nostre ricerche, raccoglievamo le storie delle persone e poi scrivevamo lo spettacolo.

Abbiamo capito che era molto importante continuare a lavorare con questo metodo perché era qualcosa di cui la Palestina aveva bisogno. Alla gente piaceva perché parlava dei loro problemi e delle loro vite. Il palco era l'unica piattaforma dove potevano parlare liberamente dei temi che trattavamo con gli spettacoli. Alcune ONG, che avevano sentito parlare del nostro lavoro, ci hanno chiesto di organizzare degli spettacoli, perché pensavano che ciò che stavamo facendo fosse importante e originale. Il fatto che le persone potessero interagire era qualcosa di completamente nuovo in Palestina. Tutto ciò ci ha incoraggiato a continuare.

Abbiamo dunque iniziato a entrare in contatto con Augusto Boal. […] Abbiamo iniziato ad avere dei buoni contatti con lui e gli ho chiesto se potessimo ricevere il suo aiuto nella nostra formazione, così da diventare un vero e proprio centro di Teatro dell'Oppresso in Palestina e nel Medio Oriente. Lui ha accettato volentieri e perciò per tre anni di seguito Bárbara Santos è venuta in Palestina, insegnandoci a usare il Teatro Forum, il Teatro Immagine, il Teatro Invisibile e il Teatro Legislativo. Ogni anno dirigeva con noi un nuovo spettacolo.

[…] Nel 2007 abbiamo deciso di organizzare un Festival di Teatro dell'Oppresso, che è stato il primo festival internazionale di questo teatro in Palestina e nel Medio Oriente. Abbiamo invitato diversi gruppi come per esempio il CTO di Rio de Janeiro e altri dalla Spagna, Francia, Germania. Il nostro teatro ha prodotto quattro nuovi spettacoli per il festival, che è durato tre settimane e ha permesso a ogni gruppo di esibirsi cinque volte in zone diverse della Cisgiordania. Abbiamo anche organizzato dei workshop con le persone. Dato il grande successo abbiamo deciso di ripeterlo ogni due anni. Questa è stata decisamente la pietra miliare della presenza del Teatro dell'Oppresso in Palestina.

Abbiamo quindi iniziato a lavorare fuori dalla Palestina. Abbiamo organizzato dei corsi in Giordania e in Egitto, a Alessandria e all'Università Americana del Cairo. Mia moglie [Iman Aoun], che è anche esperta di Teatro dell'Oppresso, è stata invitata per condurre un programma di due anni a Hodeidah, in Yemen. Lì ha organizzato sei spettacoli e ha fondato un gruppo che lavora con il Teatro dell'Oppresso ancora oggi. Io invece sono stato invitato a Erbil, in Iraq, per introdurre questo tipo di teatro ad attori e amatori. Sono rimasto lì due anni e ho lavorato con due gruppi. Con loro ho diretto nove spettacoli e abbiamo creato due gruppi specializzati in Teatro Forum. Questi gruppi hanno continuato a lavorare anche dopo la mia partenza ma a causa della guerra molti degli attori sono emigrati all'estero. […]

Da cinque anni abbiamo anche un programma in una scuola a Trondheim in Norvegia. Ogni anno vado lì con alcuni studenti di Ashtar di 16-17 anni e organizziamo insieme uno spettacolo con gli studenti che studiano teatro nella scuola. Questo spettacolo viene esibito prima in Norvegia e poi alcuni degli studenti norvegesi vengono con noi in Palestina dove facciamo un piccolo tour di una settimana. Il programma è ancora attivo. La nostra prossima visita in Norvegia sarà il prossimo gennaio, quando andrò con altri due studenti di Ashtar.

Ogni anno produciamo un nuovo spettacolo di Teatro Forum qui in Cisgiordania e da quattro anni lo facciamo anche a Gaza. Stiamo anche continuando a organizzare il Festival, che però il prossimo anno [2017] non si terrà per mancanza di fondi. Cercheremo di organizzarlo l'anno dopo. […] Il prossimo gennaio il nostro gruppo a Gaza farà un nuovo spettacolo di Teatro Forum sui problemi legati alla salute, mentre qui in Cisgiordania continueremo a esibirci con lo spettacolo prodotto quest'anno [Machine and Hammer] sui problemi degli operai in Palestina. Questa è una breve storia del nostro Teatro dell'Oppresso.

2. Avete mai dovuto adattare gli spettacoli di Teatro Forum a seconda del luogo dove vi esibivate?

Il Teatro Forum ti dà la possibilità di esibirti ovunque. Possiamo esibirci in veri e propri teatri o nel cortile di una scuola. […] Possiamo adattarci a qualsiasi luogo. Questa è una delle ragioni principali per cui abbiamo deciso di continuare a lavorare con il Teatro Forum, dato che in Palestina non ci sono teatri dappertutto. La nostra idea è che possiamo andare in tournée ovunque, in campi profughi, nella valle del Giordano, nei villaggi di Hebron, nella provincia di Jenin. Siamo sempre riusciti a adattare le nostre performance in qualsiasi luogo ci siamo esibiti.

3. E dal punto di vista culturale? Avete mai dovuto adattare degli elementi che potevano non essere appropriati per il luogo dove andavate a esibirvi?

No, le performance sono sempre le stesse. Prima di produrre qualsiasi spettacolo conduciamo delle ricerche sull'argomento, per essere sicuri di conoscerlo a sufficienza. Sappiamo che discutere del tema scelto può essere importante per tutti: parlare di matrimonio in età giovane può essere utile sia per Ramallah, che Jenin o la valle del Giordano. Quando parliamo di lavoro minorile è utile per tutti in Palestina. […] Non abbiamo mai adattato uno spettacolo per una zona specifica. Gli spettacoli che noi Ashtar produciamo sono per tutta la Palestina.

D'altro canto gli spettacoli che organizziamo con le comunità si riferiscono a quella specifica comunità e ai suoi problemi. Ad esempio, quando abbiamo fatto uno spettacolo sulla valle del Giordano due anni fa, gli attori venivano da quella regione e hanno parlato dei loro problemi, come ad esempio la salute, l'educazione e il fatto di lavorare nelle colonie israeliane. È stato uno spettacolo sui loro problemi nello specifico. Hanno voluto mostrare agli altri palestinesi che loro, nella valle del Giordano, affrontano quelle particolari questioni e chiedevano di condividere con loro considerazioni su quei problemi. [...]

4. Come reagisce il pubblico ai vostri spettacoli di Teatro Forum? C'è sempre molta partecipazione nella seconda parte?

Sì, molta, vogliono sempre salire sul palco. Questo è ciò che c'è di buono nel Teatro Forum qui in Palestina. È diverso rispetto all'Europa. Per esempio quando vado in Norvegia per organizzare uno spettacolo con gli studenti c'è sempre bisogno di molto tempo per convincere qualcuno ad alzarsi ed entrare in scena. Qui le persone sono molto calorose, vogliono davvero entrare in scena per interagire e condividere i loro pensieri sullo spettacolo.

5. Ci sono state delle difficoltà che avete dovuto affrontare?

Sì, certo. Quando gli argomenti sono molto sensibili, come per esempio il matrimonio in età giovane o lo stupro all'interno della famiglia è molto difficile affrontarli. Per questo motivo a volte ci sono state delle persone che ci hanno attaccato. Il pubblico, d'altro canto, è sempre stato dalla nostra parte. Solo singoli individui ci hanno attaccato: a volte hanno scritto dei volantini contro di noi, altre hanno parlato di noi nella moschea. Dicevano: «Chi sono queste persone che parlano di stupro nella famiglia! Dio ci ha dato una mente che ci permette di risolvere da soli i nostri problemi, non abbiamo bisogno di un teatro per farlo».

Una volta abbiamo presentato uno spettacolo sulla questione del matrimonio in età giovane a un gruppo esclusivamente maschile a Gerusalemme. Dopo l'esibizione il Jolly ha chiesto se fossero d'accordo o meno con ciò che avevano visto. Tutti erano d'accordo. Abbiamo provato a discutere per indurli a cambiare idea, ma non vedevano alcun problema nel fatto che una ragazza si sposi a 15 anni. Lo spettacolo gli era piaciuto […] ma ritenevano che andava tutto bene e non c'era niente che dovesse essere cambiato. Abbiamo terminato lo spettacolo e ce ne siamo andati. Credo che, se in quell'occasione ci fossero state anche donne nel pubblico, sarebbe stato diverso. Questo è il motivo per cui ora insistiamo affinché nei nostri spettacoli ci sia un pubblico misto. Non solo due o tre donne ma completamente misto: crediamo che ciò aiuti nella discussione.

6. Avete mai avuto problemi con l'Autorità Palestinese per il vostro lavoro?

Mai. Anche se li attacchiamo ci danno sempre il loro sostegno. Nei nostri spettacoli parliamo sempre del ruolo dell'Autorità Palestinese nelle questioni che mostriamo, come l'agricoltura o i problemi dei lavoratori […]. Quattro anni fa, per esempio, abbiamo fatto uno spettacolo sulle ONG europee e sul loro lavoro in Palestina. Lo spettacolo metteva in discussione ciò che fanno: stanno lavorando per lo sviluppo del Paese o stanno portando avanti un'altra occupazione? Nello spettacolo li attaccavamo, così come attaccavamo il ruolo dell'Autorità Palestinese in questo. Alcuni membri dell'AP sono anche venuti a vedere i nostri spettacoli ma non hanno mai avuto niente da ridire. Non ci hanno mai attaccati perché credono che ciò che facciamo sia molto importante.

7. Avete mai avuto l'occasione di lavorare con i palestinesi del '48 ?23

Noi come «Ashtar» no. Io ho organizzato due spettacoli nel mio villaggio di origine in Galilea. […] Tre anni fa ho lavorato con dei ragazzi e abbiamo realizzato due spettacoli di Teatro Forum che parlavano dei problemi del villaggio. Sono anche venuti a esibirsi in Cisgiordania. Abbiamo provato a lavorare con altri teatri, ad esempio a Haifa, ma non ha funzionato.

8. Quali reazioni ricevete di solito per le critiche che muovete nei vostri spettacoli verso, ad esempio, alcuni aspetti culturali o verso il governo?

Riceviamo sempre reazioni positive perché parliamo sempre di fatti, non inventiamo mai niente. Prima di produrre i nostri spettacoli lavoriamo duro per raccogliere storie, incontrare persone e leggere degli studi, in modo da scrivere il testo perfetto per lo spettacolo. Di solito dedichiamo almeno un mese e mezzo per questo lavoro. Per questo motivo, se qualcuno ha qualcosa da ridire nella discussione, noi mostriamo semplicemente la nostra documentazione.

Invitiamo sempre chi ha opinioni diverse a convincere sia noi che il pubblico che ciò che pensano sia vero. […] Cerchiamo sempre di aprire una discussione con tutti, perfino tra le autorità e le persone o tra oppressori e oppressi. […] Crediamo che il nostro ruolo sia promuove il dialogo in tutte quelle situazioni dove esistono solo monologhi, con la speranza che qualcosa cambierà.

9. Avete mai utilizzato dei riferimenti religiosi per rendere il pubblico più partecipe in ciò che discutevate?

No. [...] Usiamo sempre storie reali. Ad esempio, quando abbiamo deciso di parlare del tema del matrimonio in giovane età, ci siamo rivolti a delle organizzazioni per donne, che ci hanno dato dei file con le storie di donne reali. Per lo spettacolo abbiamo quindi fatto un collage di tutte queste storie. Ciò che abbiamo ottenuto è stato una storia di tutte le donne in Palestina, non solo di una. A volte aggiungiamo qualcosa perché ciò che vogliamo è provocare il pubblico. Per poterlo fare a volte dobbiamo esagerare un po' perché le persone sono troppo abituate a ciò che vedono e pensano che sia normale. [...]

10. Su quali oppressioni e oppressori nella società palestinese vi concentrate?

Ogni anno trattiamo una questione diversa e in ciascuna di esse gli oppressori possono essere vari. Per esempio nello spettacolo sugli operai in Palestina chi è l'oppressore? A volte è il governo, altre il capo al lavoro, che può essere sia un uomo che una donna. Quando abbiamo fatto lo spettacolo sui problemi dell'agricoltura in Palestina l'oppressore era il governo israeliano, il ministro [palestinese] dell'agricoltura, il sindaco del villaggio e gli stessi contadini che opprimevano gli altri abitanti. Gli oppressori sono sempre vari. Se facciamo uno spettacolo sulla scuola l'oppressore può essere l'insegnante, ma a volte lo è anche lo studente che opprime i compagni. Non ce n'è mai solo uno.

Bibliografia

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Note

1 Per evidenziare la sua capacità di diffondersi e adattarsi in contesti molto diversi tra loro, Leal Ferreira e Devine (2012) hanno suggerito un parallelo tra il Teatro dell'Oppresso e la metafora del rizoma, così come impiegata da Deleuze e Guattari.
2 Si vedano ad esempio i progetti di Teatro dell'Oppresso organizzati con i richiedenti asilo provenienti da diversi Paesi dell'Africa Orientale. Nel 2016 è uscito un documentario dal titolo Between Fences (titolo originale Bein gderot) di Avi Mograbi che racconta questa esperienza.
3 A. Boal, Jogos para atores e não atores: «Da mesma forma que o Teatro do Oprimido não é um teatro de classe, igualmente não é um teatro de sexo (feminista por exemplo), ou nacional, ou de raça etc.» (2015, p. 371).
4 A. Boal, Jogos para atores e não atores,: «Quando um dos interlocutores se especializa em falar e o outro em ouvir, um se especializa em emitir mensagens e o outro, em recebê-las e em obedecer a elas – um se transforma em sujeito e o outro, em objeto» (2015, p. 372).
5 J. Boal, Notas para uma definição de opressão: «Não se pode compreender a relação entre um trabalhador e um patrão sem tentar entender o capitalismo, nem a relação entre um branco e um negro sem levar em conta o racismo, ou a relação entre um homem e uma mulher sem considerar o patriarcado» (2012, p. 2).
6 A. Boal, Jogos para atores e não atores: «O patrão oprime o capataz, que oprime o operário, que oprime a esposa, que oprime os filhos […]. Quando o oprimido-opressor exerce sua violência contra um novo oprimido, ele reforça a estabilidade da sociedade opressora. Quando, ao contrário, dirige sua violência contra o opressor, ele inicia um movimento de decomposição dessas estruturas sociais opressoras. Essa é a tarefa do Teatro do Oprimido: inverter a cadeia de opressões» (2015, p. 374).
7 A titolo esemplificativo per approfondire la questione della frammentazione territoriale della Cisgiordania portata avanti dal governo israeliano rimando a: A. Hass, La politica israeliana delle chiusure. In Domani andrà peggio. Lettere da Palestina e Israele, 2001-2005, Roma, Fusi Orari, 2005, pp. 177-200.
8 Ngugi Wa Thiong'o, Enactments of Power: The Politics of Performance Space, «The nation-state sees the entire territory as its performance area; it organizes the space as a huge enclosure, with definite places of entrance and exit. These exits and entrances are manned by companies of workers they call immigration officials. The borders are manned by armed guards to keep away invaders. But they are also there to confine the population within a certain territory. The nation-state performs its own being relentlessly, through its daily exercise of power over the exits and entrances, by means of passports, visas, and flags» (1997, p. 21).
9 Ngugi Wa Thiong'o, Enactments of Power: The Politics of Performance Space: «Colonial conquests resulted in the creation of clear-cut boundaries that defined the dominated space with controlled points of exits and entrances, and in the formation of a colonial state to run the occupied territory» (1997, p. 26).
10 Uno fra tutti che vorrei ricordare è The Gaza Mono-Logues. Prodotto per la prima volta nel 2010 è basato sui testi scritti da 33 giovani studenti di teatro della Striscia di Gaza in cui raccontano delle loro vite durante i bombardamenti israeliani del 2008-2009 e il lungo assedio del territorio.
11 R. Jawad, Theatre Encounters: A Politics of Performance in Palestine: «Their discourse, like the majority of cultural initiatives in Palestine, ties the development of cultural pedagogy to rebuilding Palestinian society, oppressed, isolated, and under attack by Israel since the state’s founding. Not only do such local initiatives focus on the newer generations of Palestinian youth growing up under colonial rule, but also serve to stimulate connections across Palestinian communities. In addition to Palestinians inside Israel participating in the new acting schools, theatre artists based in urban centers are working in refugee camps across the West Bank, in the Gaza Strip, and in villages across Palestine, thus building new communities and collaborations» (2013, pp. 138-139).
12 I. Aoun, Different Art Forms, Mutual Concerns: «Family violence, early marriage, child labor, water shortages, trading with rotten food, land confiscation, collaborators (Palestinians who work with the Israeli intelligence agency) and even taboos such as incest» (2002, p. 326).
13 I. Aoun, Different Art Forms, Mutual Concerns: «The annual “Abu Shaker’s Affairs” series is key to Ashtar’s work, because it enables us to reach groups that are not otherwise very accessible due to social, cultural, economic, political and, at times, psychological barriers ‒ for instance, women, youth, the elderly, the disabled and the poor. [...] These efforts express our policy of making Ashtar’s services accessible to all members of Palestinian society regardless of economic or social status, particularly those who are on the lowest rung of the economic ladder. We believe that the poor [...] are entitled to a place to discuss their own social problem» (2002, p. 328).
14 I. Aoun, Different Art Forms, Mutual Concerns: «Part of the march for transformation and evolution of the Palestinian nation» (2002, p. 324).
15 Il PACBI nell'articolo What is normalization? (27/12/2011) definisce in questo modo il concetto di normalizzazione: «It is helpful to think of normalization as a “colonization of the mind”, whereby the oppressed subject comes to believe that the oppressor's reality is the only “normal” reality that must be subscribed to, and that the oppression is a fact of life that must be coped with. Those who engage in normalization either ignore this oppression, or accept it as the status quo that can be lived with». Gli autori identificano inoltre tre categorie di normalizzazione del contesto israelo-palestinese, a seconda dei soggetti coinvolti. Quella riferita ai palestinesi dei Territori Occupati è descritta come «the participation in any project, initiative or activity, in Palestine or internationally, that aims (implicitly or explicitly) to bring together Palestinians (and/or Arabs) and Israelis (people or institutions) without placing as its goal resistance to and exposure of the Israeli occupation and all forms of discrimination and oppression against the Palestinian people».
16 C. Alon, Non-Violent Struggle as Reconciliation. Combatants for Peace: Palestinian and Israeli Polarized Theatre of the Oppressed, «“Serving” the “other” side of the conflict» (2011, p. 167).
17 C. Alon, Non-Violent Struggle as Reconciliation. Combatants for Peace: Palestinian and Israeli Polarized Theatre of the Oppressed: «Trespassing is a strategy we often use in our public actions» (2011, p. 170).
18 Lo spettacolo è stato registrato ed è disponibile nel sito internet di Combatants for Peace: http://cfpeace.org/theatre-of-the-oppressed/
19 S. Arsham Kuftinec, Theatre, Facilitation and Nation Formation in the Balkans and Middle East: «Acknowledges the dilemma of trying to develop a more just future vision of equitable partnership when unequal training resources mirror the conflict dynamics, thus potentially reproducing rather than dismantling existing power relations» (2009, p. 161).
20 S. Arsham Kuftinec, Theatre, Facilitation and Nation Formation in the Balkans and Middle East: «For the Palestinian facilitators in the Viewpoints encounter project, untrained in TO techniques, the process was sometimes “the opposite of empowering”» (2009, p. 161).
21 Arsham Kuftinec S. (2009), Theatre, Facilitation and Nation Formation in the Balkans and Middle East: «The Jewish Israeli youth reflected on what was a new and affective sympathetic experience for them, leading to a less polarized identity position. Palestinian youth in the Occupied Territories, however, had a harder time rehearsing what was, for them, a more familiar scenario, and with sympathizing with the Israelis» (pp.132-133).
22 Intervista realizzata dall'autore il 02/11/2016 con Edward Muallem, direttore generale di «Ashtar Theatre», presso il teatro della compagnia a Ramallah, durante un periodo di ricerca in Palestina per la preparazione della tesi di Laurea Magistrale. Ho selezionato e riportato alcune parti di questa intervista, traducendola dall'inglese all'italiano. Il testo che propongo è inoltre stato parzialmente riveduto rispetto l'intervista originale, omettendo alcuni passaggi e aggiungendo delle precisazioni segnalate tra parentesi.
23 «Palestinesi del '48» («'48 Palestinians») è il modo in cui sono chiamati i palestinesi che vivono all'interno dei confini segnati nel 1948, ovvero nello Stato di Israele, e che hanno perciò cittadinanza israeliana.

DOI: 10.14605/EI1521704


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ISSN 2421-2946. Educazione interculturale.
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